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Autore Discussione: DANIELE MARINI Una lente diversa per la crescita italiana  (Letto 2260 volte)
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« inserito:: Maggio 13, 2011, 10:29:04 pm »

5/5/2011

Una lente diversa per la crescita italiana


DANIELE MARINI*

Un punto di vista distaccato aiuta a leggere più correttamente i fenomeni. In questo senso, è assolutamente utile (oltre che sferzante) l’analisi proposta da Bill Emmott su questo giornale sui miti che descrivono la nostra economia. Ha toccato nervi scoperti, soprattutto per chi - come nel nostro Paese - è poco abituato a ragionare pacatamente, a confronti anche serrati, ma con l’obiettivo di trovare punti di soluzione positivi. I dati e le classifiche sfornate da diversi istituti di ricerca nazionali e internazionali testimoniano da tempo una progressiva perdita di posizioni dell’Italia, una sua maggiore lentezza rispetto agli altri nel recuperare dopo avere toccato il punto più basso della crisi. Quindi, in prospettiva futura, uno sviluppo con tempi più lunghi, ma avendo a fianco competitori agguerriti e in grado di realizzare performance largamente positive. Il rischio di una «crescita declinante» non è così peregrino, dunque. E le preoccupazioni degli industriali, espresse a più riprese dalla loro presidente Emma Marcegaglia, è facile prevedere che non mancheranno di farsi sentire da domani a Bergamo. Quindi, l’idea di una crescita declinante va presa sul serio, se si vuole offrire una svolta. I dati e l’analisi di Emmott presentano effettivamente un quadro problematico molto condivisibile. All’interno di quel quadro, però, è necessario aggiungere altri elementi che articolino l’analisi, in modo tale da approssimarsi maggiormente alla realtà. Perché non sempre i dati istituzionali consegnano una fotografia corretta dei fenomeni, soprattutto in realtà fortemente differenziate com’è il nostro sistema produttivo. Un esempio su tutti può essere illuminante al proposito. Un’impresa che produce scarpe sportive (come la Lotto a Montebelluna, Treviso) è censita nel manifatturiero, alla voce «sistema moda». Ha oltre 200 dipendenti, di questi solo il 10% ha una mansione manuale. Tutti gli altri svolgono un lavoro terziario: amministrativi, marketing, progettazione, logistica, ricerca. Ha incorporato funzioni terziarie, trasformandosi: è una «fabbrica terziarizzata». Ma il dato istituzionale la colloca nel manifatturiero. Quante siano precisamente le imprese segnate da questi cambiamenti non è dato saperlo in modo preciso. Tuttavia, un insieme di ricerche qualitative sembrerebbe sostenere che si tratti di processi più diffusi di quanto non si ritenga. Abbiamo, dunque, un problema di lenti, di categorie di analisi che rischiano di non farci comprendere le effettive metamorfosi realizzate dal nostro sistema produttivo.

Un secondo spunto in questa direzione è relativo al problema della piccola dimensione delle imprese che costituisce un handicap per la competizione internazionale, per la capacità di proiettarsi sui mercati esteri. Non a caso, le rilevazioni congiunturali sottolineano come le performance positive siano realizzate dalle imprese con più di 50 addetti. La crisi, però, sta mutando questo profilo, le imprese stanno «crescendo»?

Analizzando i dati di Movimpresa sulla demografia delle imprese, osserviamo come nel 2010 in Italia il numero delle ditte individuali costituisca ancora la maggioranza: ammontano a 2.546.356, il 57,5% di tutte le imprese, ma rappresentavano il 60,9% nel 2006 (erano 2.563.967). Viceversa, le società di capitali nello stesso anno giungono a quota 918.690 (20,7%, erano il 16,7% nel 2006: 702.552). Dunque, da questo primo elemento si potrebbe inferire una tendenza del sistema produttivo a una maggiore strutturazione, complice la crisi che ha colpito soprattutto le piccolissime imprese in particolare del manifatturiero e delle costruzioni.

Un’ulteriore considerazione prende le mosse dal fatto che la selezione sul mercato e la competizione internazionale obbliga le imprese a riorganizzare le proprie relazioni produttive. Su questo, le testimonianze degli imprenditori tracciano un percorso definito. La filiera produttiva deve essere sempre più corta e organizzata in modo formale, nell’ottica di una migliore efficienza e maggiore produttività. Secondo il rapporto L’Italia delle Imprese (Fondazione Nord-Est - UniCredit), il 78,9% dei titolari evidenzia come i rapporti all’interno dei distretti siano sempre più formalizzati e l’82,2% vede le imprese leader accrescere il loro peso decisionale nella filiera. Si tratta di un processo inevitabile se rammentiamo che, ad esempio, nel Nord Italia ogni media impresa (50-249 dipendenti) ha generalmente rapporti commerciali e produttivi con 250 piccole imprese, che realizzano circa l’80% di quanto prodotto dalla stessa media impresa.

All’interno del sistema produttivo, allora, si alimentano processi di «addensamento» fra imprese, con le più grandi nel ruolo di guida. Crescono poco verticalmente, ma ricercano una maggiore efficienza della filiera produttiva e distributiva. Accorciano i tempi, le risposte e le comunicazioni al loro interno. Fidelizzano i partner produttivi formalizzando accordi di produzione. Realizzano le innovazioni dei prodotti assieme ai propri fornitori. In definitiva, la crescita non avviene secondo i canoni tradizionali, ma tailor made, per vie orizzontali. Ma, per quanto possibile, rimanendo ancora ciascuno indipendente nella proprietà.

Prendere sul serio l’idea del declino, allora, deve obbligare ad articolare l’analisi anche con elementi qualitativi che aiutino ad avvicinare la comprensione dei fenomeni. Non per un malcelato intento consolatorio, ma per osservare chi anticipa i cambiamenti. Cui le politiche industriali dovrebbero guardare con attenzione. Perché sarà grazie a loro che si potrà evitare il declino.

*direttore Fondazione Nord Est

daniele.marini@unipd.it

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« Risposta #1 inserito:: Luglio 17, 2011, 09:42:34 am »

11/7/2011
 
Cambia rotta la locomotiva del Nord-Est
 
 
DANIELE MARINI
 
Non ha più la corsa slanciata d’un tempo, la locomotiva d’Italia. Ha rallentato. Da diversi anni ne sono arrivate altre in grado di procedere più velocemente e sugli stessi binari. Ha corso velocemente, la locomotiva, ma non ha saputo nello stesso tempo adeguare il motore e le carrozze alle nuove esigenze della competizione internazionale.

La locomotiva non è diventata un treno ad alta velocità (anzi, è proprio l’infrastruttura di cui più sente la mancanza). E, in questa lunga crisi economica, è costretta a fare una doppia capriola: trasformare se stessa, mentre cambia il mondo. Parliamo del Nord-Est dell’Italia che ha progressivamente allineato le sue performance al resto del Paese. O, in qualche misura, ha nordestizzato l’Italia. Ciò non di meno, le sue performance continuano a essere migliori del resto d’Italia.

Come rilevato dall’Istat, insiste a centrare obiettivi importanti: il suo Pil è cresciuto del 2,1% nel 2010 (Nord-Ovest: 1,7%; Centro: 1,2%; 0,2%: Mezzogiorno). Una crescita trainata dalla presenza di medie imprese divenute leader a livello internazionale: le cosiddette multinazionali tascabili. Soprattutto, dalla grande propensione del sistema produttivo locale di proiettarsi sui mercati esteri e, quindi, di agganciare il vento della ripresa che soffia oltre i nostri confini. Ma non c’è solo economia. Il Nord-Est ha una società dove la coesione sociale presenta ancora caratteri importanti, a dispetto degli stereotipi che gli stessi nordestini non di rado alimentano. La presenza e l’arrivo dei migranti è ben sopra la media nazionale (nel 2010 oltre il 9%, mentre in Italia è il 7%).

Eppure, come testimoniano le ricerche Caritas-Cnel e Ismu, le province del Nord-Est primeggiano nella capacità di offrire un’integrazione lavorativa e abitativa agli immigrati. Complice una presenza capillarmente diffusa di mondi associativi e volontari che molto si sono spesi per accogliere questi nuovi cittadini. O degli stessi industriali – come nel caso di Treviso – che nella vicenda dei profughi hanno messo a disposizione le loro foresterie. Dunque, il Nord-Est nonostante le difficoltà continua a offrire risultati migliori della media italiana. In questo senso, questa parte orientale d’Italia continua a costituire un territorio che si caratterizza come un vero e proprio laboratorio. Un luogo, distante dal centro (Roma) e dai centri (Milano, Torino), ma non per questo periferico, dove avvengono processi innovativi. E poiché è nelle periferie che si genera il nuovo, è utile prestare attenzione a quanto si muove al suo interno. Lo è stato nel passato.

Pochi rammentano che l’industria italiana ha avuto proprio a Valdagno (Marzotto) e a Schio (Rossi), in provincia di Vicenza, le prime grandi esperienze dell’800. Studiosi (I. Diamanti, La Lega, Donzelli) e giornalisti (F. Jori, Dalla Liga alla Lega, Marsilio) ci ricordano come la Lega, oggi dominata ai vertici dai lombardi, abbia in realtà le sue radici in Veneto, nella marca trevigiana. I temi del federalismo e dell’autonomia, adesso così accettati, devono proprio alla Lega la loro affermazione nel dibattito pubblico. Per non dire della bilateralità nelle relazioni industriali che trovano nel Nord-Est le esperienze più avanzate: ancora negli Anni 70 nel campo dell’artigianato, prima, e industriale, poi, si strutturano in enti bilaterali. Non c’è stata assemblea degli industriali recente dove il presidente di turno non abbia pubblicamente ringraziato le organizzazioni sindacali (tutte) per l’atteggiamento responsabile tenuto nelle crisi aziendali. Con relativo scroscio di applausi da parte degli industriali partecipanti.

Non siamo alla cogestione in salsa teutonica, ma non siamo molto distanti. E anche oggi possiamo rintracciare fenomeni che sembrano anticipare quanto potrà avvenire in un prossimo futuro. Prendiamo solo due esempi in campo economico. Il primo riguarda una delle conseguenze della attuale crisi. Le imprese per continuare a essere competitive devono essere più solide, più grandi. Però tradizionalmente le aziende sono di natura familiare, tendenzialmente refrattarie a fondersi o ad aprirsi a nuovi soci. E qui scatta la ricerca di un percorso nuovo. Si può essere più grandi senza essere più grossi: alleandosi con altre imprese colleghe della filiera produttiva; innovando i propri prodotti assieme ai fornitori; imprese più grandi che comprano i macchinari più innovativi e li affidano ai propri terzisti; entrando reciprocamente nei consigli di amministrazione, rafforzando le alleanze; formando consorzi fra imprese. In questo modo, ognuno rimane della stessa dimensione d’impresa, padrone a casa propria, ma cresce per linee orizzontali, dando vita a un reticolo stretto di relazioni produttive e commerciali. Sarà una possibile nuova via per la crescita delle imprese italiane? Il secondo esempio riguarda una domanda nuova alle istituzioni e alla politica.

Recentemente, la marcia silenziosa degli industriali di Treviso, passando per i dibattiti a Padova e Venezia, fino a quello di Vicenza dove non sono stati invitati sul palco esponenti politici, nelle assemblee degli industriali è emersa con forza la disillusione nei confronti dell’attuale stagione politica. Sbaglierebbe chi pensasse a una riedizione degli Anni 90 dove gli imprenditori, dopo l’esperienza di Tangentopoli, ritenevano che l’economia e la società avrebbero potuto fare a meno della politica. Che la loro discesa in campo avrebbe dato una sferzata e una guida al Paese. Non è così oggi. Non sta avanzando nuovamente un contrasto alla politica. Tutt’altro: è netto, invece, il bisogno di politica. Nel senso di una politica in grado di interpretare il futuro, di prefigurarne i percorsi, di regolare lo sviluppo assieme agli attori sociali ed economici.

È la domanda di una politica dove la coesione sociale, il merito e il senso di responsabilità verso le nuove generazioni devono fare premio. Non è la richiesta di avere professionisti della politica, ma politici che sappiano fare bene la propria professione. Se il Nord-Est continua a essere un laboratorio per l’intero Paese, i segnali sono positivi.

*Università di Padova
 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8967&ID_sezione=&sezione=
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