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Autore Discussione: FRANZO GRANDE STEVENS Robin Hood e la costituzione  (Letto 3049 volte)
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« inserito:: Gennaio 08, 2009, 03:59:02 pm »

8/1/2009
 
Robin Hood e la costituzione
 
FRANZO GRANDE STEVENS
 

Dopo il messaggio di fine anno del Capo dello Stato tutti hanno sottolineato il suo auspicio di cogliere l’occasione della grave crisi mondiale per rendere il nostro Paese «più giusto», memori del principio fondamentale dettato dalla Costituzione di adempiere ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» e di ridurre le «disparità» fra i consociati. La nostra lungimirante Costituzione ha adottato il sistema del libero mercato. Non si presuppone più un’economia prevalentemente fondata sulla ricchezza prodotta dalla rendita agraria o urbana, ma su quella dell’attività degli operatori economici assicurando libertà d’intrapresa con la garanzia di parità di condizioni nelle loro attività concorrenziali e così collegando i risultati ai loro meriti. Questo sistema è stato scelto nell’interesse della comunità per assicurare la disponibilità di beni e servizi di migliore qualità e al minor prezzo.

Tuttavia il sistema, necessariamente meritocratico, dev’essere accompagnato da un altro parallelo: quello che s’è richiamato della solidarietà. Un eminente studioso nordamericano ha sottolineato giustamente che se si è più intelligenti, in buona salute, di aspetto gradevole non si hanno meriti, ma si sono ricevuti doni da Dio o dalla natura a seconda delle credenze. Chi ha il potere di decidere dovrebbe conseguentemente ridurre i vantaggi dei più fortunati in favore di quelli che lo sono meno. L’evento sociologico dirompente degli ultimi tempi è la globalizzazione; sono cadute le barriere in un mondo che si espande e restringe al tempo stesso: nel campo della finanza e della comunicazione si può operare in ogni parte del globo in tempi infinitesimali. I provvedimenti di riduzione delle disparità dovrebbero quindi essere «globali» almeno per tutte le aree con sistemi costituzionali omogenei; bisognerebbe cioè che un’autorità con potere sopranazionale emanasse regole valide in una vasta area del globo, e che un’altra autorità sopranazionale avesse il potere di farle rispettare e d’irrogare sanzioni perché altrimenti regole imbelli (come spesso i «codici etici») si convertono in monumenti d’ipocrisia.

Ma questa appare una mera utopia perché l’esperienza ci ha insegnato - anche con questa crisi mondiale - che v’è un conflitto d’interessi oltre che fra operatori economici (banche d’affari, analisti, agenzie di rating, finanziarie in genere) fra gli stessi Stati o aggregazioni di Stati. Conflitti che nella bufera della crisi mondiale che s’attraversa si manifesteranno con provvedimenti adottati nei diversi Stati a protezione interna magari cercando di esportare all’esterno conseguenze negative e sacrifici. Com’è accaduto con la «finanziarizzazione» dell’economia che ha condotto all’attuale crisi sistemica mondiale, prevedibile e prevista anche da giuristi. Perciò, pur essendo indispensabile la collaborazione internazionale specie nell’Unione Europea, si può pensare all’adozione di provvedimenti nel nostro Paese che, pur presi per un adempimento al dovere costituzionale di solidarietà, non ne riducano la reputazione di stabilità ma, semmai, l’accrescano (prima che sia tardi).

L’enorme debito pubblico italiano (il cui aumento rilevante influirebbe sull’affidabilità del debitore) e i limiti del deficit posti a Maastricht sia pure flessibili, probabilmente non consentirebbero un ricorso alle casse dello Stato per gli importi necessari. La strada potrebbe essere allora quella indicata, in altre occasioni, dal nostro ministro dell’Economia con la brillante e chiara espressione di un prelievo alla Robin Hood: togliere qualcosa a chi ha di più per darla a chi ha di meno (disoccupati, disabili, cassaintegrati, precari, indigenti ecc.). Naturalmente con le equilibrate cautele del caso: escludendo le imprese per non aggravare la crisi, rispettando le esigenze sociali come la prima casa, stabilendo una soglia del patrimonio e/o del reddito esclusi dal prelievo, distribuendo il prelievo in più annualità ecc. L’invito del Presidente della Repubblica di adempiere al «dovere inderogabile di solidarietà» indicato fra i principi fondamentali della Costituzione con la conseguenza di «ridurre le disparità» va accolto e il modo di accoglierlo va rimesso a chi, con le competenze tecniche necessarie, s’è visto affidare il potere e le conseguenti responsabilità.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 15, 2009, 10:20:08 am »

15/7/2009
 
L'utopia di una regola mondiale
 
 
FRANZO GRANDE STEVENS
 

Caro Direttore,
da qualche anno nell’attività economica si è verificato un evento dirompente che viene solitamente indicato con il termine «globalizzazione». Si vuole dire che la scala dell’economia è ormai mondiale e che sono cadute le barriere fra i principali mercati. Ad esempio nel campo della comunicazione e della finanza le operazioni si concludono da e in qualunque punto del pianeta in tempi infinitesimali ed altrettanto rapidamente si propagano gli effetti nel mondo intero.

Ne è conseguito che i modelli economici (ordinati poi in modelli giuridici) si sono diffusi in aree sempre più vaste del globo. Si è detto spesso che i modelli venivano così adottati per semplificazione o per maggiore efficienza. Basta tuttavia scorrere i nomi dei principali modelli di operazioni finanziarie (leasing, factoring, stripping, franchising, merchandising, project financing, swaps etc) per capire come essi abbiano la loro origine nel mondo anglosassone e, principalmente, nel paese economicamente, politicamente e militarmente più forte: gli Usa. Qui è nata e s’è ingigantita quella che per brevità si indica come la «finanziarizzazione» dell’economia: le operazioni non accompagnavano più lo sviluppo delle imprese ma rappresentavano in sostanza delle scommesse; per lo più si scommetteva sulla solvibilità dei debitori (per mutui od altro) ed i crediti corrispondenti venivano rappresentati da titoli di carta (quasi biglietti di lotterie) liberando così chi li emetteva e collocava da ogni rischio e responsabilità.

Il focolaio della crisi
Le dimensioni del fenomeno ed il predominio del Paese d’origine del focolaio (Usa) hanno provocato la crisi finanziaria e quella bufera economica che s’è propagata e che stiamo attraversando. I vari Paesi colpiti, e le Istituzioni non soltanto nazionali, sono dovuti correre ai ripari per evitare od arginare altri gravi immediati e peggiori danni (crollo dei consumi e dei salari) derogando ai principi fondamentali del sistema del «libero mercato». Questa drammatica esperienza ha indotto considerazioni, riflessioni e proposte anche molto autorevoli circa i provvedimenti da adottare in un futuro prossimo che valgano ad evitare i disastri così verificatisi e si è esplicitamente parlato di «regole legali globali». Parallelamente, si è richiamata l’etica, la morale e l’opportunità o necessità anche di codici etici.
Ogni giurista sa che una regola globale per essere efficace presuppone un’Autorità con giurisdizione globale che abbia la possibilità di accertare eventuali infrazioni, decidere e irrogare sanzioni ed ottenerne l’esecuzione di imperio. E’ ragionevole pensare che si possa ottenere un risultato del genere? Questo non è un risultato che pur con grande sforzo e concordia, dopo un’esperienza disastrosa come quella attuale, può raggiungersi.
Non è ragionevole pensare che la maggior parte dei Paesi accetti una deroga siffatta alla propria sovranità e si sottoponga alla giurisdizione di un’Autorità sovranazionale con i poteri d’imperio che si sono descritti. E, quanto ai precetti etici o morali, su questi è facile ottenere il consenso di tutti perché essi non sono cogenti e l’esperienza insegna che il loro richiamo o addirittura la redazione di codici etici - così come un diritto imbelle - possono costituire un monumento di ipocrisia.

Se decide un’Autorità
Abbiamo constatato che i singoli Paesi hanno interessi diversi, tra loro confliggenti e che pur in presenza di regole valide fra alcuni di loro (si pensi a quelle dell’Unione europea) non hanno esitato a derogarvi giustificandosi con situazioni di emergenza. Ed anche in assenza di queste ultime, s’è consentito per ragioni di diplomazia internazionale, a Paesi non aderenti, di entrare nei mercati dell’Unione in condizioni di gravi disparità (ad esempio nel campo fiscale, previdenziale, di altre agevolazioni) ed addirittura quando gli ammortamenti e gli interessi dell’imprenditore extraeuropeo erano a carico dello Stato di appartenenza.
Ragionevole è allora proporre regole che valgano soltanto per determinati rapporti, per determinati soggetti e far leva sempre sulla forza economica di ogni mercato nazionale e dei suoi soggetti coinvolti.
Nei rapporti d’affari internazionali fra operatori economici si scelgono sempre strade che assicurino la buona esecuzione degli accordi conclusi. Ad esempio le regole da applicare si dettano negli stessi contratti internazionali e si prevede che, in caso di controversia, la decisione spetti ad un’Autorità arbitrale - meglio se istituzionale - e sempre che le sue decisioni siano eseguibili d’imperio in ciascuno dei Paesi contraenti i quali abbiano aderito a specifiche Convezioni internazionali.
Vero è che un francese ha detto che «il progresso è la realizzazione delle utopie»: ma v’è utopia ed utopia. Meglio usare prudenza e, in qualche modo preveggente, essere un po’ diffidenti.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 03, 2011, 06:47:10 pm »

3/2/2011

La forza delle parole del "canto degli italiani"


FRANZO GRANDE STEVENS

Caro direttore, recentemente è stato affacciato di nuovo il dubbio che le parole de «Il Canto degli Italiani» (così fu chiamato l’Inno) non fossero state scritte da Goffredo Mameli, giovane e piuttosto ignorantello. Giovane sì, ma che aveva dato molte prove di talento poetico: basti leggere le sue tante poesie, di diverso genere, riprodotte nel recente volumetto di Guido Davico Bonino «Il Canto degli Italiani Poesie d’amore e di guerra - Goffredo Mameli». O ricordare che nel commemorarlo (morì giovanissimo all’età di 22 anni per aver combattuto con Garibaldi al Gianicolo) Giosuè Carducci riportò alcuni suoi versi scrivendo: «Con questo canto il diciottenne Mameli si annunziava nel 1846 nuovo poeta della patria». I versi che già arieggiano quelli dell’Inno erano:
«Nelle feste che fa il popolo Egli accende monti e piani Come bocche di vulcani, Egli accende le città.
Poi vi dico in verità, Che, se il popolo si desta, Dio si mette alla sua testa, la sua folgore gli dà».

E Giuseppe Mazzini, dal suo luogo d’esilio in Svizzera, scrisse che la mestizia per la morte di Goffredo Mameli si convertiva in desiderio, fra altro, del «... profumo di poesia che ondeggiava intorno alla sua persona; dei canti che erravano ad ora ad ora sulle sue labbra, facili, ispirati, spontanei come il canto dell’allodola in sul mattino...».

Vittorio Bersezio deputato del Parlamento Subalpino, giornalista e scrittore fecondo, nel suo libro «I nostri tempi» racconta che «Fu... in quell’autunno del 1847 che s’intese per la prima volta dell’Inno del Mameli, musicato dal Novaro, che doveva diventare il canto nazionale italiano». S’incontrarono alcuni patrioti, «nel caffè Calosso, nel primo tratto a sinistra della via Garibaldi (allora via Dora Grossa) per chi viene da piazza Castello» e poi andarono ad ascoltarlo nella dimora del Novaro. E successivamente, a Torino, l’inno portato da Genova dal patriota Borzino fu ascoltato e definito in casa Valerio (alla via XX Settembre 68/4 (allora via della Rosa Rossa n. 10) dove è apposta la lapide commemorativa

«IN QUESTA CASA CHE FU DI LORENZO VALERIO, UNA SERA SUL 10 NOVEMBRE 1847 IL MAESTRO MICHELE NOVARO DIVINAVA LE NOTE AL FATIDICO INNO DI MAMELI»

E la prima esecuzione pubblica dell’Inno - a Torino - si dovette alla locale Accademia Filodrammatica in via Rossini n. 8 (l’attuale Teatro Gobetti) dov’è appunto una lapide dal testo: «Qui risuonò - per la prima volta l’inno profetico di Goffredo Mameli qui lo risvegliarono - in letizia di spirito e di cuore - arditamente - i soldati d’Italia - 15 giugno 1930 - VIII - P. Boselli dettò».

Chi era Lorenzo Valerio? Un deputato (di sinistra) del Parlamento Subalpino, che aveva intensi rapporti anche epistolari con i protagonisti del Risorgimento: da Garibaldi a Mazzini, da Napoleone III a Cavour, da Daniele Manin a Pasquale Stanislao Mancini, da Francesco Crispi a Viesseux, da Depretis a Siccardi, da Enrico Cosenz a Massimo d’Azeglio ecc. ecc.

Il carteggio 1850-1855 di Lorenzo Valerio, raccolto in parte da Luigi Firpo, Guido Quazza e Franco Venturi è stato di recente pubblicato, ordinato e presentato con una lunga introduzione del prof. Adriano Viarengo. In alcune lettere Valerio parla di Mameli, dell’Inno, di Borzino ed altri.

Lo spartito originale del «Canto degli Italiani» con i versi è custodito a Torino dal Museo Nazionale del Risorgimento Italiano. Una copia fu data al Presidente il 4 marzo 1998, in occasione del 150° anniversario dello Statuto Albertino (che fu poi la Costituzione del Regno d’Italia) e della presentazione a Carlo Azeglio Ciampi nell’aula del Parlamento Subalpino dei progetti per il Museo, da me che ne ero presidente con al fianco il Senatore Giovanni Agnelli.

Forse, oggi, val la pena di ricordare le parole di Lorenzo Valerio che sembrano scritte proprio per il tempo attuale, con le quali s’apre il suo giornale risorgimentale «La Concordia» nel primo numero della terza annata nel 1850: «Parrà utopia: e i nostri avversari ce ne accuseranno, come ci accusano di amar troppo ostinatamente la libertà e l'Italia. Parrà utopia invocar concordia ora che le sventure sembrano aver invelenite tutte le ire secolari fra provincia e provincia, ora che il sospetto, persuasore di provocazioni, si è intromesso di nuovo fra le diverse classi della società, ora che un furore confuso di accuse e di maledizioni soffoca le parole della ragione e i gemiti della pietà; ora che tutti i partiti, calunniandosi a vicenda d'ipocrisia e di slealtà, di niun’altra cosa sono più gelosi che della fedeltà negli odii. Parrà utopia: ma è necessità. E la necessità è la più forte delle forze».

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