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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 133701 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Dicembre 05, 2010, 08:59:15 am »

Rustaveli, chi era costui?

di Umberto Eco

Arriveremo a una educazione adatta al mondo globalizzato quando il 99 per cento degli europei colti ignora quello che per i georgiani è uno dei poemi più grandi della storia?

(26 novembre 2010)

Il canone occidentale" di Harold Bloom definiva il Canone come "la scelta di libri nelle nostre istituzioni didattiche" e stabiliva che la vera domanda che esso poneva era: "Che cosa dovrà tentare di leggere, in questo tardo momento storico, l'individuo che ancora desideri leggere?". E osservava che i tredici anni di un curriculum scolastico completo permettevano al massimo di leggere una piccola scelta dei grandi scrittori occidentali, trascurando quelli di altre tradizioni.

Ma anche attenendoci alla sola tradizione occidentale, quali sono i libri che hanno formato la cultura sia di un francese che di un finlandese, e che ciascuno dovrebbe leggere? Certamente la cultura di ciascun occidentale è stata influenzata dalla Divina Commedia, da Shakespeare e, andando indietro, da Omero, Virgilio o Sofocle. Ma ne siamo stati influenzati perché li abbiamo letti?
Viene in mente il libro di Bayard già recensito in questa bustina ("Come parlare di un libro senza averlo mai letto"), ed è chiaro come il sole che la Bibbia ha segnato profondamente sia la cultura ebraica che quella cristiana, e persino la cultura dei miscredenti occidentali, ma questo non significa che tutti coloro che ne sono stati influenzati l'abbiano letta tutta, dalla prima pagina all'ultima.

E lo stesso si può dire per esempio di Shakespeare per non dire di Joyce. E è necessario, per essere una persona colta, e persino un buon cristiano, aver letto (della Bibbia) anche "i Re" o "I numeri"? Bisogna aver letto "L'Ecclesiaste" o basta, come accade ai più, sapere che condanna la "vanitas vanitatum"?

Quindi la questione del canone non è omologa a quella del Syllabus che, specie nelle scuole americane, rappresenta l'insieme delle cose che uno studente deve aver letto entro la fine del suo corso di studi.
Il problema peraltro oggi si complica e la settimana scorsa si è discusso a Monaco, durante un raduno internazionale di scrittori, su cosa si debba intendere per canone nell'era della globalizzazione. Se gli abiti griffati europei vengono prodotti in Cina, se usiamo automobili e computer giapponesi, se anche ad Afragola si mangiano hamburger invece della pizza, se il mondo ha insomma raggiunto dimensioni provinciali ed abbiano all'angolo della nostra strada una moschea, e nelle nostre scuole bambini colorati chiedono che vengano insegnate anche le cose della loro religione, quale sarà il nuovo canone?
In certe università americane si era risposto tempo fa con un gesto che, più che "politically correct" era "politically stupid": siccome abbiamo tanti studenti neri, si diceva, non dobbiamo più insegnare Shakespeare ma la letteratura africana. Bello scherzo giocato a quei ragazzi che poi avrebbero dovuto vivere negli Stati Uniti, ignorando cosa volesse dire "essere o non essere", e quindi rimanendo sempre ai margini della cultura dominante. Caso mai, come si suggerisce oggi per le ore di religione, i ragazzi dovrebbero venire a sapere qualcosa, oltre che del Vangelo, anche del Corano, o della tradizione buddista. E così non sarebbe male che alla media superiore, oltre che sentire parlare della civiltà greca, lo studente apprendesse qualcosa della grande civiltà letteraria araba, indiana o giapponese.

Recentemente ho partecipato a Parigi a un incontro tra intellettuali europei e intellettuali cinesi, ed era umiliante vedere come i nostri interlocutori sapessero tutto di Kant e di Proust, e suggerissero paralleli (giusti o sbagliati che fossero) tra Lao Tze e Nietzsche, mentre noi in genere non andavamo al di là di Confucio, e spesso solo per sentito dire.

Ma ecco che anche questo ideale ecumenico si scontra con alcune difficoltà. Puoi raccontare a un giovane italiano "L'Iliade" perché di Ettore o di Agamennone ha sentito parlare in giro e fan parte della sua cultura spicciola persino espressioni come il giudizio di Paride e il tallone di Achille (ma recentemente a un esame universitario un nostro aspirante alla laurea breve credeva che il tallone di Achille fosse qualcosa come il ginocchio della lavandaia o il gomito del tennista). Ma come potrai interessarlo al "Mahabharata" o a Omar Khayyám, e in modo che queste nozioni lascino una minima traccia nella sua memoria? Arriveremo davvero a una educazione adatta al mondo della globalizzazione quando il 99 per cento degli europei colti ignora che per i georgiani uno dei poemi più grandi di tutta la storia letteraria è stato quello di Rustaveli, "L'uomo dalla pelle di pantera", e non ci siamo neppure messi d'accordo (controllate su Internet) se in quella lingua dall'alfabeto illeggibile si parlava di una pelle di pantera o non piuttosto di tigre o di leopardo? O continueremo a domandarci "Rustaveli, chi era costui?".

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« Risposta #91 inserito:: Dicembre 10, 2010, 10:20:15 am »

Sapere quel che si sa

di Umberto Eco

Le "rivelazioni" di WikiLeaks dimostrano l'inutilità dei rapporti della diplomazia e dei servizi segreti che trasmettono e archiviano soltanto quello che già era noto

(10 dicembre 2010)

Julian Assange Julian AssangeSull'affare WikiLeaks si è detto molto ma pare ci sia sempre qualcosa di più da dire. Per esempio, come primo approccio, che sul piano dei contenuti WikiLeaks si rivela uno scandalo apparente, mentre su quello delle forme è qualcosa di più
Uno scandalo è apparente quando porta a livello di pubblico discorso quello che tutti sapevano e dicevano in forme più private, e rimaneva per così dire sussurrato solo per ragioni di ipocrisia (per esempio che in certe facoltà vanno in cattedra i figli del barone). Qualsiasi persona, non dico addentro alle cose della diplomazia, ma che abbia visto alcuni film di intrigo internazionale, sapeva benissimo che, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, e cioè da quando i capi di Stato possono telefonarsi o prendere un aereo per incontrarsi a cena, le ambasciate hanno perso la loro funzione diplomatica (è stato inviato un ambasciatore in feluca a dichiarare guerra a Saddam?) e, tranne piccoli esercizi di rappresentanza, si sono trasformate, nei casi più evidenti, in centri di documentazione sul paese ospite (con l'ambasciatore che quando è bravo fa il lavoro del sociologo e del politologo), e nei casi più riservati, in vere e proprie centrali di spionaggio.

Tuttavia il dichiararlo ad alta voce costringe oggi la diplomazia americana ad ammettere che ciò è vero, e pertanto a subire una perdita di immagine sul piano delle forme. Con la curiosa conseguenza che questa perdita, fuga, stillicidio di notizie riservate più che nuocere alle presunte vittime (Berlusconi, Sarkozy, Gheddafi o Merkel) nuoce al presunto carnefice, e cioè la povera signora Clinton, che probabilmente si limitava a ricevere i messaggi che gli addetti d'ambasciata le inviavano per dovere professionale visto che erano pagati solo per far questo. Il che è poi quello che Assange, secondo ogni evidenza, voleva, visto che il dente avvelenato lo ha contro il governo americano e non contro il governo Berlusconi.
Perché le vittime non vengono toccate, se non superficialmente? Perché, come tutti si sono accorti, i famosi messaggi segreti erano puro "Eco della Stampa", e si limitavano a riferire quello che tutti in Europa sapevano e dicevano, e che persino in America era apparso già su "Newsweek". Pertanto i rapporti segreti erano come i dossier che gli uffici stampa di un'azienda inviano all'amministratore delegato, il quale con tutto il daffare che ha non può leggere anche i giornali.
È evidente che i rapporti inviati alla Clinton, non riguardando segrete cose, non erano "pizzini" spionistici. Ma se pure si fosse anche trattato di notizie apparentemente più riservate, come il fatto che Berlusconi ha cointeressenze private negli affari del gas russo, anche lì (vera o falsa che la cosa sia) i pizzini non farebbero altro che ripetere ciò di cui parlano coloro che ai tempi del fascismo erano bollati come strateghi da caffè, e cioè quelli che parlano di politica al bar.

E questo non fa altro che confermare un'altra cosa che si sa benissimo. E cioè che ogni dossier costruito per un servizio segreto (di qualsiasi nazione) è fatto esclusivamente di materiale già di dominio pubblico. Le "straordinarie" rivelazioni americane sulle notti brave di Berlusconi riportano ciò che da mesi si poteva leggere su qualsiasi giornale italiano (meno due), e le manie satrapiche di Gheddafi erano da tempo materia - peraltro anche vecchiotta - per i caricaturisti.
La regola per cui i dossier segreti devono essere fatti soltanto di notizie già note è essenziale per la dinamica dei servizi segreti, e non solo in questo secolo. È la stessa per cui, se andate in una libreria dedicata a pubblicazioni esoteriche, vedrete che ogni nuovo libro ripete (sul Graal, sul mistero di Rennes-le-Chateau, sui Templari o sui Rosa-Croce) esattamente quello che era scritto nei libri precedenti. Questo non solo e non tanto perché l'autore di testi occultistici non ama fare ricerche inedite (né sa dove potrebbe ricercare notizie sull'inesistente) ma perché i devoti dell'occultismo credono solo a quello che sanno già, e che riconferma quello che avevano già appreso. Che è poi il meccanismo del successo di Dan Brown.
Lo stesso accade per i dossier segreti. Pigro l'informatore e pigro, o di mente ristretta, il dirigente dei servizi segreti (altrimenti farebbe, che so, il redattore de "L'espresso") che ritiene vero solo ciò che riconosce.

Visto pertanto che i servizi segreti, di ogni paese, non servono a prevedere casi come l'attacco alle Twin Towers (e in certi casi, essendo regolarmente deviati, addirittura li producono) e archiviano soltanto quello che già si conosceva, tanto varrebbe eliminarli. Ma, coi tempi che corrono, tagliare altri posti di lavoro sarebbe davvero insensato.

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« Risposta #92 inserito:: Gennaio 08, 2011, 04:27:48 pm »



di Umberto Eco

Una volta chi si sentiva abbandonato dal resto dell'umanità trovava consolazione nel fatto che l'Onnipotente, almeno lui, era ogni giorno testimone dei suoi affanni.

Oggi quella funzione divina è decisamente sostitituita dall'apparire in televisione

(23 dicembre 2010)

L'altra mattina a Madrid ero a colazione col mio re. Non vorrei essere frainteso: pur essendo di fieri sentimenti repubblicani, due anni fa sono stato nominato duca del Regno di Redonda (col titolo di Duque de l'Isla del Dia de Antes) e questa dignità ducale condivido con Pedro Almodóvar, Susan Byatt, Francis Ford Coppola, Arturo Perez-Reverte, Fernando Savater, Pietro Citati, Claudio Magris, Ray Bradbury e alcuni altri, tutti in qualche modo uniti dalla comune qualità di essere simpatici al re.

Dunque, l'isola di Redonda sta nelle Indie Occidentali, misura trenta chilometri quadrati (un fazzoletto) è del tutto disabitata e ritengo che nessuno dei suoi monarchi vi abbia mai messo piede. L'aveva acquistata nel 1865 un banchiere, Matthew Dowdy Shiell, che aveva chiesto alla regina Vittoria di costituirla in regno autonomo, ciò che la graziosa maestà aveva fatto senza problemi perché non vi vedeva alcuna minaccia per l'impero coloniale britannico. Nel corso dei decenni l'isola era passata sotto vari monarchi, alcuni dei quali avevano venduto il titolo più volte, provocando risse di pretendenti (e se volete sapere tutta la storia pluridinastica cercate Redonda su Wikipedia), e nel 1997 l'ultimo re aveva abdicato a favore di un famoso scrittore spagnolo, Javier Marias (ampiamente tradotto anche in Italia) il quale ha cominciato a nominare duchi a destra e a manca.

Ecco tutta la storia, che naturalmente sa un poco di follia patafisica, ma insomma, diventare duca non è cosa da tutti i giorni. Il punto tuttavia non è questo: è che nel corso della nostra conversazione Marias ha detto una cosa sulla quale vale la pena di riflettere. Si discuteva sul fatto evidente che oggi la gente è disposta a fare carte false pur di apparire su un teleschermo, anche solo come l'imbecille che fa ciao ciao dietro all'intervistato.

Recentemente in Italia il fratello di una ragazza barbaramente assassinata, avendo dolorosamente sfiorato gli onori della cronaca, è andato da Lele Mora a chiedere un ingaggio televisivo per poter fare fruttare quella sua tragica notorietà, e sappiamo di chi, pur di apparire alla ribalta della cronaca, è disposto a dichiararsi cornuto, impotente o truffatore, né è ignoto agli psicologi criminali che ciò che muove il serial killer è il desiderio di essere scoperto e diventare celebre.

Perché questa follia, ci si domandava? Marias ha avanzato l'ipotesi che quanto accade oggi dipenda dal fatto che gli uomini non credano più in Dio. Un tempo gli uomini erano persuasi che ogni loro azione avesse almeno uno Spettatore, che conosceva tutti i loro gesti (e i loro pensieri), poteva comprenderli o all'occorrenza condannarli. Si poteva essere un reietto, un buono a nulla, uno "sfigato" ignorato dai propri simili, che un minuto dopo la sua scomparsa sarebbe stato dimenticato da tutti, ma si nutriva la persuasione che almeno Uno sapesse tutto di noi.

"Dio sa che cosa ho sofferto", si diceva la nonna inferma e abbandonata ai nipoti, "Dio sa che sono innocente", si consolava chi era stato condannato ingiustamente, "Dio sa quanto ho fatto per te", diceva la madre al figlio sconoscente, "Dio sa quanto ti amo", gridava l'amante abbandonato, "Solo Dio sa quante ne ho passate", lamentava lo sciagurato delle cui sventure non importava niente a nessuno. Dio era sempre invocato come l'occhio a cui nulla sfuggiva e il cui sguardo dava senso anche alla vita più grigia e insensata.

Scomparso, rimosso questo Testimone onniveggente, che cosa rimane? L'occhio della società, l'occhio degli altri, a cui bisogna mostrarsi per non sprofondare nel buco nero dell'anonimato, nel vortice della dimenticanza, anche a costo di scegliere il ruolo dello scemo del paese che si mette in mutande e balla sul tavolo dell'osteria. L'apparizione sullo schermo è l'unico succedaneo della trascendenza, e ne è un succedaneo tutto sommato gratificante: ci si vede (e ci vedono) in un aldilà, ma in compenso in quell'aldilà tutti ci vedono qua, e mentre qua ci siamo anche noi - pensate che vantaggio, godere di tutti i vantaggi dell'immortalità (sia pure assai rapida e transeunte) e avere nel contempo la possibilità di essere festeggiati a casa nostra (in terra) per la nostra assunzione nell'Empireo.

Il guaio è che in questi casi si equivoca sul doppio significato del "riconoscimento". Tutti aspiriamo vengano "riconosciuti" i nostri meriti, o i nostri sacrifici, o qualsiasi altra nostra bella qualità; ma quando, dopo essere apparsi sullo schermo, qualcuno ci vede al bar e ci dice "l'ho vista ieri in televisione" semplicemente "riconosce te", ovvero la tua faccia - il che è cosa assai diversa.

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« Risposta #93 inserito:: Gennaio 11, 2011, 04:04:37 pm »

Che idea: uccidere i giovani

di Umberto Eco

I vecchi sono sempre più numerosi e invadenti, al timone di molte istituzioni.

E per  evitare di cedere il potere alle generazioni successive, finiranno per scatenare guerre sanguinose

(10 gennaio 2011)


Sullo scorso "Espresso" mi divertivo ad immaginare alcune conseguenze, specie in campo diplomatico, del nuovo corso della trasparenza inaugurato da WikiLeaks. Erano fantasie vagamente fantascientifiche, ma partivano dal presupposto innegabile che, se gli archivi più riservati e segreti sono ormai penetrabili, qualcosa dovrà pur cambiare, se non altro nei metodi di archiviazione.

Allora perché, sempre all'alba dell'anno nuovo, non tentare qualche altra estrapolazione da dati di fatto innegabili, sia pure esagerando in visioni apocalittiche? In fondo san Giovanni così facendo ci ha guadagnato fama immortale e ancor oggi, ad ogni disgrazia che ci accade, siamo tentati di dire che avviene proprio quello che lui aveva predetto. Mi candido dunque a secondo veggente dell'isola di Patmos. In principio era la carta carbone.

Almeno nel nostro Paese (e limitiamoci a questo) i vecchi stanno diventando sempre più numerosi dei giovani. Una volta morivano a sessant'anni, oggi a novanta, e consumano dunque trent'anni di pensione in più. Come è noto questa pensione dovrà essere pagata dai giovani. Ma coi vecchi così invadenti e presenti, al timone di molte istituzioni pubbliche e private sino almeno all'inizio del marasma senile (e, in molti casi, oltre) i giovani di lavoro non ne trovano e quindi non possono produrre per pagare la pensione agli anziani.

In questa situazione, anche se il Paese metterà sul mercato obbligazioni a tassi invitanti, gli investitori esteri non si fideranno più, e mancheranno quindi denari per le pensioni. Eppure bisogna calcolare che, se i giovani non trovano lavoro, debbono pur vivere finanziati dai padri o dagli avi pensionati. Tragedia.
Prima soluzione, e la più ovvia. I giovani dovranno iniziare a stilare liste di eliminazione per gli anziani senza discendenti. Ma non basterà e, siccome l'istinto di conservazione è quello che è, i giovani dovranno rassegnarsi a eliminare anche i vecchi con discendenza, vale a dire i loro parenti. Sarà duro, ma basterà abituarsi. Hai sessant'anni? Non siamo eterni, babbo, verremo tutti ad accompagnarti alla stazione per il tuo ultimo viaggio verso i campi di eliminazione, coi nipotini che dicono "ciao nonno". Che se poi gli anziani si ribellassero, si scatenerebbe la caccia al vecchio, con l'aiuto di delatori. Se è successo con gli ebrei, perché no coi pensionati?

Ma gli anziani non ancora pensionati, sempre al potere, accetteranno a cuor leggero questa sorte? Anzitutto avranno evitato per tempo di far figli per non dover mettere al mondo dei potenziali eliminatori, per cui il numero dei giovani sarà ulteriormente diminuito. E infine questi vecchi capitani (e cavalieri) d'industria, adusi a mille battaglie, si decideranno, sia pure con la morte nel cuore, a liquidare figli e nipoti. Non certo mandandoli in campi di sterminio come i discendenti avrebbero fatto con loro, perché si tratterà pur sempre di una generazione ancora legata ai valori tradizionali della famiglia e della Patria, ma scatenando delle guerre che, come è noto, scremano le leve più giovani e sono, come dicevano gli ispiratori di chi ora ci governa, la sola igiene del mondo.

Avremo così un Paese senza quasi più giovani e moltissimi anziani, floridi e vegeti, intenti a erigere monumenti ai caduti e a celebrare chi ha dato generosamente la vita per la Patria. Ma chi lavorerà per pagar loro le pensioni? Gli immigrati, desiderosissimi di acquistare la cittadinanza italiana, ansiosi di faticare a basso costo e in nero e portati, per antiche tare, a morire entro i cinquant'anni, facendo così largo ad altra forza lavoro più fresca.

Così nel giro di due generazioni decine di milioni di italiani "abbronzati"garantiranno il benessere a una élite di novantenni bianchi dal naso rubizzo e i grandi favoriti (le signore con pizzi e veletta), che sorseggeranno whisky and soda nelle verande dei loro possedimenti coloniali, sui laghi o lungo le marine, lontani dai miasmi delle città, abitate ormai solo da zombies di colore che si alcolizzeranno con la candeggina pubblicizzata in tv.

A proposito della mia convinzione che si procede a passo di gambero e il progresso coincide ormai col regresso, si noterà che ci troveremo in situazione non dissimile da quella dell'impero coloniale in India, nell'arcipelago malese o nel centro Africa; e chi avrà raggiunto felicemente, grazie allo sviluppo della medicina, i centodieci anni, si sentirà come il Rajah bianco di Sarawak, Sir James Brooke, di cui fantasticava leggendo fanciullo i romanzi di Salgari.

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« Risposta #94 inserito:: Gennaio 21, 2011, 05:33:21 pm »

I bambini amano Schoenberg?

di Umberto Eco

Il mondo della ricezione è estremamente variegato.

Io non credo che coloro che adorano Moccia o Tamaro vadano pazzi per "Finnegans Wake".

Né credo che chi ama Joyce ami Dan Brown

(21 gennaio 2011)

Il dibattito si è aperto quasi due settimane fa su "Repubblica" ma, siccome il venerdì scorso non era il mio turno per la Bustina, posso intervenire solo ora. Tanto meglio, repetita iuvant.
La discussione è stata aperta da Alex Ross, critico musicale del "New Yorker" (di cui Bompiani ha tradotto "Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo") e continuata da Alessandro Baricco. Ross si chiede come ormai la gente accetti Joyce, che era considerato incomprensibile sino alla prima metà del secolo scorso, apprezzi la pittura di Pollock (che Krushev definiva come dipinta con la coda di un asino, e anche gli anticomunisti si mostravano d'accordo, ma oggi comunisti e anticomunisti l'acquistano a prezzi proibitivi), mentre chi va ai concerti non può sopportare la musica atonale, ed esce dalla sala se in un programma, dopo Bach o Beethoven, è iscritto Stockhausen. Le ipotesi di Ross sono molte ma mi convince di più quella di Alessandro Baricco che dice, in breve: ma vi è mai accaduto di visitare una mostra in cui accanto a Raffaello ci sia Pollock - e accanto a Gérome, aggiungo io, il "pompier" che sta attirando le folle al Museo d'Orsay a Parigi si mostri Basquiat?

La riflessione di Baricco è piena di buon senso e ci ricorda che il mondo della ricezione (di coloro cioè che gioiscono di varie proposte creative ) è estremamente variegato. Io non credo che coloro che adorano Moccia o Tamaro vadano pazzi per "Finnegans Wake". Né credo che chi ama Joyce ami Dan Brown, a meno che sappia amministrare con saggezza la propria schizofrenia, come faceva Proust (autore di un indimenticabile elogio della cattiva musica).

I discepoli di Proust ascoltano i dischi di John Cage ma, se vogliono rievocare il tempo perduto, cantano di notte tra amici "Non dimenticar le mie parole". Invece sia le persone insopportabilmente colte che quelle insopportabilmente ottuse o fanno l'una o l'altra cosa, e si vergognerebbero di tenere i piedi in due staffe (come invece deve fare ogni buon cavallerizzo). È naturale che se in un concerto, dopo Chopin e Schumann, fanno ascoltare Berio, gli amanti della musica romantica si sentano disorientati. Ma anche i proustiani, se dopo Berio eseguissero "Pippo non lo sa", inarcherebbero le sopracciglia.
È curioso che sia ammessa come normale una schizofrenia culinaria (talora ci piacerebbe una cena con caviale a lume di candela, meglio se con una sosia di Marilyn Monroe, ma più spesso si adora una pizza portata a casa nel contenitore di cartone e mangiata con figli o nipoti) mentre una schizofrenia artistica viene giudicata radical chic. Chi va a visitare a Parigi la mostra di Gérome, tutta odalische desiderabilissime, completamente "à poil", di solito non va a vedere una mostra di arte astratta, e chi ama Leoncavallo non può sopportare Schoenberg - e costoro considerano teste d'uovo (un poco comunisti e un poco omosessuali) gli intellettuali che vanno alla Scala ma non disdegnano "No, no, Nanette".

Un ragazzino occidentale, che è stato esposto sin dall'infanzia alle arti figurative, se una brava maestra gli mostra a sette anni un Pollock, è capace di apprezzarlo e addirittura imitarlo (ho le prove). Perché? Perché non è vero che siamo per natura figurativi, abbiamo visto e goduto modelli di arte astratta nei quadrettini delle tovaglie, o nelle vesti o foulards materni, e quindi siamo pronti sin dall'infanzia ad apprezzare Mondrian. E Pollock? Ma faceva quello che un bambino ama fare, e un bambino ama fare quel che amava fare lui. E allora perché lo stesso bambino non dovrebbe amare Schoenberg?

Una risposta è che il nostro cervello riconoscerebbe come naturale solo la musica tonale. Ma in tal caso la maggioranza dei ragazzi extraeuropei, e persino scozzesi, sarebbero dei decerebrati. Mi piacerebbe sapere come un ragazzo di altre etnie, educato a musiche pentatonali o esatonali, possa capire la musica atonale. Non sono al corrente delle ricerche neurologiche in proposito. Ma temo che ormai, con la globalizzazione, sia come chiedersi se un piccolo indiano ami o no un hamburger; ormai è stato corrotto sin dall'infanzia. Caso mai si dovrebbe dire che certamente sin dalla più tenera età ogni ragazzo occidentale è stato educato alla musica tonale. Ma provate a dare a dei bambini tamburelli e fischietti. E dategli un ritmo. Scoprirete che per loro la tonalità conta molto poco.
I melomani che (almeno secondo Ross) escono dal concerto quando, dopo Brahms, gli si propone Boulez, hanno mai portato in sala anche i loro piccoli? Chissà mai che a loro Boulez non dispiaccia, o in ogni caso non dia noia.

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« Risposta #95 inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:35:22 pm »

Battisti, i giudici e il Cav.

di Umberto Eco

Il governo italiano fa bene a chiedere l'estradizione del terrorista rifugiato in Brasile.

E a difendere l'onore della magistratura.

Ma allora perché il premier si sottrae alla stessa magistratura?

(04 febbraio 2011)

Non si può essere che solidali col nostro governo quando esso richiede formalmente al Brasile l'estradizione di Cesare Battisti. E questo credo dovrebbe pensare anche chi, per avventura, ritenesse che Battisti è stato vittima di un errore giudiziario: perché, anche se di errore giudiziario si fosse trattato, non sarebbe il governo brasiliano che potrebbe deciderlo, a meno che non dichiarasse, pubblicamente e formalmente, che lo Stato italiano era all'epoca della condanna ed è tuttora un apparato dittatoriale che calpesta i diritti politici e civili e conculca la libertà dei suoi cittadini.
La richiesta di estradizione è dovuta, invece, perché si assume che i tre gradi di giudizio cui Battisti è stato sottoposto, rappresentavano l'esercizio della giustizia da parte di un paese democratico e di una magistratura indipendente da ogni diktat politico (visto tra l'altro, detto per chi avesse motivi di diffidenza verso il governo Berlusconi, che quell'azione della magistratura si è esercitata quando in Italia Berlusconi era ancora privato cittadino).


Pertanto chiedere l'estradizione di Battisti significa difendere la dignità della nostra magistratura, e ogni cittadino democratico deve essere in questo caso solidale con l'azione del governo (e della presidenza della Repubblica).
E bravo l'onorevole Berlusconi, saremmo tentati di dire, il suo comportamento è impeccabile. Ma allora perché lo stesso onorevole Berlusconi, quando la magistratura inizia un'azione penale nei suoi confronti (e neppure lo condanna ingiustamente all'ergastolo ma semplicemente lo convoca a difendersi da un'accusa magari infondata, protetto da tutte le guarentigie del caso) non solo si rifiuta di presentarsi di fronte ai giudici ma ne contesta il diritto a occuparsi del suo caso? Vuole forse dichiararsi solidale col Battisti nella comune impresa di delegittimazione della magistratura italiana? Vuole forse accingersi a emigrare in Brasile per chiedere a quel governo la stessa protezione che offre al Battisti, contro la presunta illegittimità del comportamento dei nostri magistrati? Oppure, se ritiene che i magistrati che hanno condannato Battisti fossero persone d'onore, la cui dignità va difesa per preservare l'onore dello stesso Stato italiano, ritiene che al contrario Ilda Boccassini non sia donna d'onore, e usa per giudicare la nostra magistratura due pesi e due misure - ritenendola onorevole e onorabile quando condanna Battisti ma disonorevole e disonorabile quando indaga su Ruby?


Diranno i difensori dell'onorevole Berlusconi che Battisti fa male a sottrarsi alla giustizia italiana, perché in cuor suo sa di essere colpevole, mentre a buon diritto Berlusconi fa lo stesso perché in cuor suo ritiene di essere innocente. Ma quanto tiene questo argomento?
Chi lo usa sembra non aver meditato un testo che chi ha fatto il liceo (come è accaduto all'onorevole Berlusconi) dovrebbe aver conosciuto, ed è il "Critone" di Platone. A chi se ne fosse scordato, ricorderò le premesse: Socrate è stato condannato a morte (ingiustamente, noi lo sappiamo, e lo sapeva lui) ed è in carcere ad attendere la coppa della cicuta. Viene visitato dal suo discepolo Critone che gli dice che tutto è preparato per la sua fuga, e usa tutti gli argomenti possibili per convincerlo che egli ha il diritto e il dovere di sottrarsi a una morte ingiusta.
Ma Socrate risponde ricordando a Critone quale deve essere la posizione di un uomo per bene di fronte alla maestà delle Leggi della Città. Accettando di vivere in Atene e di godere di tutti in diritti di un cittadino, Socrate ha riconosciuto la bontà di quelle Leggi, e se osasse negarle solo perché a un certo momento esse agiscono contro di lui, disconoscendole contribuirebbe a delegittimarle e pertanto a distruggerle. E non si può approfittare della legge sino a che lavora a nostro profitto, e rifiutarla quando decide qualcosa che a noi non piace, perché con le Leggi si è stretto un patto e questo patto non può essere infranto a nostro piacere.


Si noti che Socrate non era uomo di governo, perché allora avrebbe dovuto dire anche di più, e cioè che - se si riteneva in diritto di disattendere le leggi che non gli piacevano - come uomo di governo non avrebbe più potuto pretendere che gli altri obbedissero a quelle che non piacevano loro, e non attraversassero col semaforo rosso, non pagassero le tasse, non svaligiassero le banche, o (si fa per dire) non abusassero di minorenni.
Queste cose Socrate non le ha dette ma il senso del suo messaggio rimane quello che è, alto, sublime, duro come un macigno.

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da espresso.repubblica.it
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« Risposta #96 inserito:: Febbraio 18, 2011, 04:52:23 pm »

La Norma e i Puritani

di Umberto Eco

È ovvio che all'estero ci si sbellichi dalle risate perché è da pochade inizio Novecento che un uomo, che ha la responsabilità di un paese, prenda per oro colato quello che gli dice una cubista

(18 febbraio 2011)

Le critiche ai comportamenti del nostro presidente del consiglio hanno suscitato una serie di obiezioni che si vogliono salaci. La prima mirava non tanto a scagionare il presidente quanto a deridere i suoi critici: "Voi sessantottini di un tempo, si è detto, che predicavate il libero amore e le droghe psichedeliche, oggi siete diventati bacchettoni puritani che censurano le pratiche sessuali del presidente, se pure di pratiche sessuali si tratta e non di cene a base di Coca-Cola Light" (ma che cene malinconiche, osservo, senza neppure un goccio di Gavi o di Greco di Tufo!). Sul libero amore sessantottino sono poco informato perché io all'epoca avevo ormai trentasei anni (allora un'età considerata assai matura), due figli, e facevo il professore. Pertanto non sono mai andato nudo e coi capelli lunghi ai concerti rock fumando marijuana. Però mi pare che allora per libertà sessuale si intendesse che due persone potessero praticare il sesso insieme per libera elezione e (soprattutto) gratis. Cosa assai diversa da un sesso pre-sessantottino, quello per intenderci dei casini di nostalgica memoria, dove si era liberi di far sesso, ma pagando.


Tuttavia ha ragione chi dice che è da puritani criticare il presidente perché frequenta fanciulle dalla moralità assai flessibile. Chiunque ha diritto alla forma di sesso che lo soddisfa (omo o eterosessuale, alla pecorina, more ferino, sadomaso, con fellazione, cunnilingus e spagnoletta, onanismo, dispersione del seme in vaso indebito, delectatio morosa, sino alla coprofilia, alla clismafilia, all'esibizionismo, al feticismo, al travestimento, al frotteurismo, all'urofilia, al voyeurismo - e via copulando), purché lo faccia con persone consenzienti, senza danneggiare chi non desidera partecipare o non è in grado di dare un consenso informato (ed ecco perché si condannano pedofilia, zoofilia, stupro e scatologia telefonica) e il tutto avvenga in locali chiusi in modo da non offendere la sensibilità dei puritani - così come non si deve bestemmiare in pubblico per non offendere la sensibilità dei credenti.
Devo ammettere che spesso gli oppositori del presidente hanno premuto troppo il pedale sugli aspetti sessuali del caso Ruby. È naturale che sia accaduto così, perché se agli italiani racconti del conflitto di interessi, della corruzione di magistrati, dell'occultazione di capitali o delle leggi ad personam, quelli saltano l'articolo, mentre se gli sbatti subito Ruby in prima pagina, smanettano per tutto il giornale sino alle previsioni del tempo. Ma l'opposizione al premier non è l'opposizione ai suoi gusti sessuali. È l'opposizione al fatto che, per compensare chi partecipava alle sue cene, egli dava posti negli organismi regionali, provinciali, nazionali o europei, e a spese nostre. Se lo stipendio di consigliere regionale alla signora Minetti lo pago io (percentualmente) e (sia pure per una quota minima) chi vive con mille euro al mese, non c'entrano i Puritani, c'entra la Norma (di legge).


Il problema morale non è che non si deve fare all'amore (visto che è sempre meglio che fare la guerra, come dicevano nel Sessantotto) ma che non si deve farlo facendo pagare chi non c'entra. Marrazzo non è criticabile per aver frequentato transessuali ma per esserci andato con l'auto dei carabinieri.
Ma facciamo pure l'ipotesi che il presidente non abbia compensato le sue convitate con pubblici appannaggi. Una volta detto che è lecito fare a casa propria quel che si desidera, questo è vero per un bancario, un medico, un operaio iscritto alla Fiom, ma se si viene a sapere che certe pratiche si svolgono a casa di un uomo politico è difficile che non ne nasca un pubblico scandalo. A John Profumo e a Gary Hart è bastato il connubio con una e una sola donna (una ciascuno) per rovinar loro la carriera. Quando le donne sono tante, e portate alla festa in pulmino, non si può impedire che le barzellette sul Ruby-gate appaiano persino sui giornali coreani o alla televisione tunisina (controllare su Internet).

   
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« Risposta #97 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:51:35 pm »

"Intellettualmente parlando"

di Umberto Eco

Solo in stato di ubriachezza potrei paragonare Berlusconi a Hitler.

Di sicuro, però, non userei mai espressioni come "paradosso intellettuale".

Che la stampa mi ha attribuito e che non ha alcun senso

(04 marzo 2011)

Una sera della settimana scorsa, a Gerusalemme, un giornalista italiano mi ha comunicato che era arrivata in Italia una nota di agenzia dove si diceva che nella conferenza stampa del mattino avrei detto che Berlusconi era come Hitler, e già alcuni autorevoli rappresentanti della maggioranza avevano rilasciato dichiarazioni su questa mia "delirante" dichiarazione, che a parer loro offendeva l'intera comunità ebraica (sic). La quale era evidentemente in tutt'altre faccende affaccendata, perché il mattino dopo vari quotidiani israeliani riportavano ampie cronache di quella conferenza stampa (il "Jerusalem Post", bontà sua, vi dedicava addirittura un'apertura in prima pagina e quasi l'intera terza pagina) ma di Hitler non si faceva cenno, bensì ci si diffondeva sulle vere questioni su cui si era discusso.

Nessuna persona sensata, per quanto critica nei confronti di Berlusconi, penserebbe di paragonarlo a Hitler, visto che Berlusconi non ha scatenato un conflitto mondiale da 50 milioni di morti, non ha massacrato 6 milioni di ebrei, non ha chiuso il parlamento della Repubblica di Weimar, non ha costituito reparti di camice brune e SS, e via dicendo. Cos'era allora accaduto quella mattina?

Molti italiani non si rendono ancora conto di quanto il nostro presidente del consiglio sia screditato all'estero, così che quando ci si trova a rispondere alle domande degli stranieri certe volte si è addirittura indotti a difenderlo, per amor di bandiera. Un importuno pretendeva che io dicessi che, siccome Berlusconi, Mubarak e Gheddafi erano o erano stati restii a dimettersi, Berlusconi era il Gheddafi italiano. Dovevo ovviamente rispondere che Gheddafi era un tiranno sanguinario che stava sparando sui suoi compatrioti ed era salito al potere con un colpo di stato, mentre Berlusconi era stato regolarmente eletto da una parte consistente degli italiani (e ho aggiunto "purtroppo"). Per cui, a voler stabilire analogie a tutti i costi, allora si poteva anche paragonare Berlusconi a Hitler solo perché entrambi erano stati regolarmente eletti. Ridotta "ad absurdum" l'incauta ipotesi, si era tornati a parlare di cose serie.

Quando il collega italiano mi aveva detto del comunicato d'agenzia aveva commentato con un certo fatalismo: "Sai, il giornalista deve tirare fuori la notizia anche se è nascosta". Non sono d'accordo, il giornalista deve dare la notizia quando c'è davvero, non crearla. Ma questo è anche segno della situazione provinciale in cui si trova il nostro paese, per cui non interessa se, poniamo, a Calcutta si discute sui destini del pianeta, ma solo se a Calcutta qualcuno ha detto qualcosa pro o contro Berlusconi.

Un aspetto curioso della faccenda, come ho poi visto tornando a casa, è che in ogni giornale in cui se ne è parlato, le mie presunte dichiarazioni, virgolettate, venivano tutte dall'originario comunicato d'agenzia, dove appariva che io avrei definito il mio rapido accenno a Hitler come "un paradosso intellettuale" o che avrei accennato al parallelo "intellettualmente parlando". Ora potrei forse, in stato di ubriachezza, paragonare Berlusconi a Hitler, ma neppure al massimo livello di alcolemia userei mai espressioni insensate come "paradosso intellettuale" o "intellettualmente parlando". A cosa si oppone il paradosso intellettuale? A quello manuale, a quello sensoriale, a quello rurale? Non si pretende che tutti conoscano a menadito la terminologia della retorica o della logica, ma certamente "paradosso intellettuale" è dizione da analfabeta e chi pretende che altri dicano cose "intellettualmente parlando" è evidentemente uso dirle parlando pedestremente. Questo significa che il virgolettato del comunicato era effetto di una rozza manipolazione altrui.

Su un materiale così evidentemente scadente si è impostata una virtuosa campagna di indignazione, come al solito per diffamare chi non ama il nostro premier e porta calzini turchesi. Senza che nessuno osservasse, almeno, che non è possibile paragonare Berlusconi a Hitler perché Hitler è stato notoriamente monogamo.

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« Risposta #98 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:16:21 pm »

Una generazione di alieni

di Umberto Eco

I giovani non conoscono la natura e la sofferenza, vivono in un mondo virtuale.

Noi filosofi non abbiamo colto la trasformazione perché eravamo troppo impegnati nella politica di tutti i giorni

(18 marzo 2011)

Penso che Michel Serres sia la mente filosofica più fine che esista oggi in Francia, e come ogni buon filosofo sa piegarsi anche a riflettere sull'attualità. Spudoratamente uso (tranne qualche commento personale) un suo bellissimo articolo uscito su "Le Monde" del 6-7 marzo ultimo scorso, dove ci ricorda cose che, per i più giovani dei miei lettori, riguardano i loro figli, e per noi più anziani i nostri nipoti.

Tanto per cominciare, questi figli o nipoti non hanno mai visto un maiale, una vacca, una gallina (ricordo che peraltro già trent'anni fa un'inchiesta americana aveva stabilito che i bambini di New York credevano in maggioranza che il latte, che vedevano in confezioni da supermarket, fosse un prodotto artificiale come la Coca-Cola). I nuovi esseri umani non sono più abituati a vivere nella natura e conoscono solo la città (ricorderò che quando vanno in vacanza vivono per lo più in quelli che Augé ha definito "non luoghi", per cui il villaggio vacanze è del tutto simile all'aeroporto di Singapore, e in ogni caso presenta loro una natura arcadica e pettinata, del tutto artificiale). Si tratta di una delle più grandi rivoluzioni antropologiche dopo il neolitico. Questi ragazzi abitano un mondo superpopolato, la loro speranza di vita è ormai vicina agli ottant'anni e, a causa della longevità di padri e nonni, se hanno speranza di ereditare qualcosa non sarà più a trent'anni, ma alle soglie della loro vecchiaia.

I ragazzi europei da sessant'anni non hanno conosciuto guerre, beneficiando di una medicina avanzata non hanno sofferto quanto i loro antenati, hanno genitori più vecchi dei nostri (e gran parte di loro sono divorziati), studiano in scuole dove vivono fianco a fianco con ragazzi di altro colore, religione, costumi (e, si chiede Serres, per quanto tempo potranno cantare ancora la Marsigliese che si riferisce al "sangue impuro" degli stranieri?). Quali opere letterarie potranno ancora gustare visto che non hanno conosciuto la vita rustica, le vendemmie, le invasioni, i monumenti ai caduti, le bandiere lacerate dalle palle nemiche, l'urgenza vitale di una morale?

Sono stati formati dai media concepiti da adulti che hanno ridotto a sette secondi la permanenza di una immagine, e a quindici secondi i tempi di risposta alle domande, e dove tuttavia vedono cose che nella vita quotidiana non vedono più, cadaveri insanguinati, crolli, devastazioni: "All'età di dodici anni gli adulti li hanno già forzati a vedere ventimila assassini". Sono educati dalla pubblicità che esagera in abbreviazioni e parole straniere che fanno perdere il senso della lingua natale, non hanno più coscienza del sistema metrico decimale dato che gli si promettono premi secondo le miglia, la scuola non è più il luogo dell'apprendimento e, ormai abituati al computer, questi ragazzi vivono buona parte della loro vita nel virtuale. Lo scrivere col solo dito indice anziché con la mano intera "non eccita più gli stessi neuroni o le stesse zone corticali" (e infine sono totalmente "multitasking"). Noi vivevamo in uno spazio metrico percepibile ed essi vivono in uno spazio irreale dove vicinanze e lontananze non fanno più alcuna differenza.

Non m'intrattengo sulle riflessioni che Serres fa circa la possibilità di gestire le nuove esigenze dell'educazione. La sua panoramica ci parla in ogni caso di un periodo pari, per sovvertimento totale, a quello dell'invenzione della scrittura, e secoli dopo, della stampa. Solo che queste nuove tecniche odierne mutano a gran velocità e "nello stesso tempo il corpo si metamorfizza, cambiano la nascita e la morte, la sofferenza e la guarigione, i mestieri, lo spazio, l'habitat, l'essere-al-mondo". Perché non eravamo preparati a questa trasformazione? Serres conclude che forse la colpa è anche dei filosofi, i quali per mestiere dovrebbero prevedere i mutamenti dei saperi e delle pratiche, e non l'hanno fatto abbastanza, perché "impegnati nella politica di tutti i giorni, non hanno sentito venire la contemporaneità". Non so se Serres abbia ragione del tutto, ma qualche ragione ce l'ha.

 
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« Risposta #99 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:16:48 pm »

Il garibaldino Nino Biperio

di Umberto Eco

Uno studente universitario l'ha scritto in questo modo: convinto che la x di Bixio fosse da leggere nel linguaggio degli sms. Ma per fortuna la scuola italiana non è tutta così. Anzi, ha punti di eccellenza: come ho verificato di persona in un paio di belle esperienze al liceo

(04 aprile 2011)

Mi raccontano colleghi sconsolati che a un esame universitario del triennio uno studente, davanti al nome di Nino Bixio, ha pronunciato "Nino Biperio" perché la frequentazione ormai convulsa degli SMS lo aveva persuaso che la X si pronunciasse solo così. Da qui melanconiche riflessioni: "Che cosa gli insegnano alle medie superiori? Che davvero si debba abolire la scuola pubblica lasciando fare alle scuole private?". A parte che, se ci sono scuole private eccellenti, ve ne sono di specializzate nella promozione di cretini di famiglia abbiente, la nostra scuola pubblica va davvero allo sbaraglio?

A metà marzo sono dovuto andare ad Albenga, per il premio "C'era una svolta". Il premio era stato istituito come concorso locale dal Liceo Statale "Giordano Bruno", ma nel giro di 14 anni è divenuto premio nazionale (e quest'anno hanno concorso circa 1.200 ragazzi di 38 scuole superiori appartenenti a 29 diverse province). Si chiede ogni anno a uno scrittore di stendere l'inizio di un racconto e i concorrenti debbono proseguirlo (nel corso di una prova rigorosissima in aula), poi gli elaborati anonimi vengono vagliati prima da una giuria interna e poi da una giuria esterna e, dopo varie scremature, cinque finalisti pervengono all'autore invitato che deve scegliere il migliore.

Quest'anno l'autore ero io, e mi ero divertito a proporre come stimolo il racconto della riunione di un circolo di letterati folli che si erano proposti di dare un inizio e una fine a quello che è stato definito il racconto più breve del mondo, quello di Augusto Monterroso che recita: "Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì".

Ora può darsi che tra i 1.200 racconti presentati alcuni fossero di dubbio valore (anche se i membri delle due giurie mi raccontavano come si fossero trovati imbarazzati a scegliere) ma è certo che i cinque che ho dovuto giudicare mi hanno lasciato perplesso, con la tentazione di tirare a sorte, perché tutti erano esempi di ottima letteratura. Voglio dire che erano estremamente maturi e molti scrittori professionisti non avrebbero esitato a firmarli col loro nome. Chi è interessato a verificare troverà i cinque racconti finalisti sul prossimo numero di "Alfabeta". A me pare che si sia volato alto. E non sto parlando di una sola scuola, ma di una trentina, da Gorizia alle isole.

Seconda sorpresa, ricevo dal Liceo "Melchiorre Gioia" di Piacenza il risultato di un anno di lavoro di una quinta del classico e una quinta dello scientifico. � la copia (di 44 bellissime pagine a colori) di un quotidiano che assomiglia per l'impaginazione a "Repubblica" ma è intitolato "Il Tricolore", costa 5 centesimi a Milano e 7 fuori Milano ed è datato lunedì 18 marzo 1861.

Dà ovviamente notizia dell'avvenuta unificazione, si apre con articoli di Cavour, Cattaneo, Mazzini, il discorso di Vittorio Emanuele II al Parlamento, porta un intervento di Giosuè Carducci, un ricordo di Mameli, la notizia di una visita di Andersen a Milano, riflessioni sulla legge Casati e i propositi di De Sanctis nuovo ministro dell'istruzione, tiene conto del fatto che da poco Lincoln era stato eletto presidente degli Stati Uniti e Guglielmo I era salito al trono di Prussia, dedica pagine culturali a Cristina di Belgioioso e ad Hayez, nonché alla recente polemica sui "Fiori del male" di Baudelaire, ricorda la scomparsa di Nievo e recensisce "I carbonari della montagna" di Verga, senza trascurare ovviamente Verdi, la moda dell'epoca e l'apparizione della terza edizione della "Origine delle specie" di Darwin, terminando con un servizio da Liverpool intitolato "Il football, un gioco senza avvenire". Deliziosi gli inserti pubblicitari.

Non so se un giornale vero all'epoca avrebbe potuto impaginare un numero altrettanto ricco in cui si confrontano senza mezzi termini le contraddizioni dell'Italia appena unificata. E anche questa prova viene da una scuola pubblica. Attendo proposte altrettanto eccitanti da qualche scuola privata.

 
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« Risposta #100 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:25:29 pm »

La filosofia non è Star Trek

di Umberto Eco

Un libro sulle domande essenziali che l'uomo si pone da sempre. Dove si sostiene che oggi, per spiegare tutto, basta la fisica.

Coautore: il grande Stephen Hawking. Che però, questa volta, scrive sciocchezze


(15 aprile 2011)

Sulla "Repubblica" del 6 aprile scorso era apparsa un'anticipazione del libro di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, "il grande disegno" (Mondadori, euro 20) introdotto da un sottotitolo che peraltro riprendeva un passaggio del testo, "la filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo". La morte della filosofia è stata annunciata varie volte, e quindi non c'era da impressionarsi, ma mi pareva che un genio come Hawking avesse detto una sciocchezza. Per essere sicuro che "Repubblica" non aveva riassunto male sono andato a comprare il libro, e la sua lettura mi ha confermato nei miei sospetti.

Il libro appare come scritto a due mani, salvo che nel caso di Hawking l'espressione è dolorosamente metaforica perché sappiamo che i suoi arti non rispondono ai comandi del suo eccezionale cervello. Dunque il libro è fondamentalmente opera del secondo autore, che il risvolto di copertina qualifica come eccellente divulgatore e sceneggiatore di alcuni episodi di "Star Trek" (e lo si vede anche dalle bellissime illustrazioni che sembrano concepite per una enciclopedia dei ragazzi d'altri tempi, perché sono colorate e affascinanti, ma non spiegano proprio niente dei complessi teoremi fisico-matematico-cosmologici che dovrebbero illustrare). Forse non era prudente affidare il destino della filosofia a personaggi con le orecchie da leprotto.

L'opera si apre proprio con l'affermazione perentoria che la filosofia ormai non ha più nulla da dire e solo la fisica può spiegarci (1) come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo, (2) quale sia la natura della realtà, (3) se l'universo abbia bisogno di un creatore, (4) perché c'è qualcosa invece che nulla, (5) perché esistiamo e (6) perché esiste questo particolare insieme di leggi e non qualche altro. Come si vede sono tipiche domande filosofiche, ma occorre dire che il libro mostra come la fisica possa in qualche modo rispondere proprio alle ultime quattro, che sembrano le più filosofiche di tutte.

Solo che per tentare le ultime quattro risposte occorre avere risposto alle prime due domande e cioè, grosso modo, che cosa vuol dire che qualche cosa è reale e se noi conosciamo il mondo proprio così come è. Ve lo ricorderete dalla filosofia studiata a scuola: noi conosciamo per adeguazione della mente alla cosa? c'è qualcosa fuori di noi (Woody Allen aggiungeva: "E se sì, perché fanno tutto quel chiasso?") oppure siamo esseri berkeleiani o, come diceva Putnam, cervelli in una vasca?

Ebbene, le risposte fondamentali che questo libro propone sono squisitamente filosofiche e se non ci fossero queste risposte filosofiche neppure il fisico potrebbe dire perché conosce e che cosa conosce. Infatti gli autori parlano di "un realismo dipendente dai modelli", ovvero assumono che "non esiste alcun concetto di realtà indipendente dalle descrizioni e dalle teorie". Pertanto "differenti teorie possono descrivere in modo soddisfacente lo stesso fenomeno mediante strutture concettuali disparate" e tutto quello che possiamo percepire, conoscere e dire della realtà dipende dalla interazione tra i nostri modelli e quel qualcosa che sta al di fuori ma che conosciamo solo grazie alla forma dei nostri organi percettivi e del nostro cervello.

I più sospettosi tra i lettori avranno persino riconosciuto un fantasma kantiano, ma certamente i due autori stanno proponendo quello che in filosofia si chiama "olismo" e per alcuni "realismo interno".
Come si vede non si tratta di scoperte fisiche bensì di assunzioni filosofiche, che stanno a sostenere e a legittimare la ricerca del fisico - il quale, quando è un bravo fisico, non può che porsi il problema dei fondamenti filosofici dei propri metodi. Cosa che sapevamo già, così come conoscevamo già qualcosa delle straordinarie rivelazioni (evidentemente dovute a Mlodinow e alla ciurma di Star Trek), per cui "nell'antichità era istintivo attribuire le azioni violente della natura a un Olimpo di divinità dispettose o malevole". Perdinci e poi perbacco.

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« Risposta #101 inserito:: Maggio 03, 2011, 11:05:53 am »

Opinioni

Viviamo nel secolo delle bufale?

di Umberto Eco

In Rete, sui giornali e perfino nei libri circola ormai una quantità incredibile di falsi. Orientarsi è difficile, ma ci si deve difendere. Magari con la diffidenza. Perché non è vero che non ci sia più confine tra verità e menzogna
(02 maggio 2011)

Ho appreso da "Il fatto Quotidiano" del 13 aprile che lo "International Herald Tribune" aveva pubblicato una mia lettera molto polemica sulla guerra in Libia. Però si trattava dell'ennesima trovata di un signor X (non lo nomino perché immagino che faccia tutto quel che fa per farsi pubblicità) il quale si è specializzato in falsi, aveva in passato inviato ai giornali italiani pretese interviste con Gore Vidal, John LeCarré, Philip Roth e via dicendo, aveva messo on line un mio dialogo (ovviamente fasullo) con Abraham Yehoshua, e aveva creato un mio falso profilo Facebook - che aveva subito raccolto numerose offerte di amicizia, come pare accada tra i dissennati praticanti di questo sport quasi onanistico. Dagli amici ci guardi Iddio.

Pare anche che il signor X abbia inviato la falsa lettera allo "Herald Tribune" usando un mio presunto indirizzo di email aperto da lui stesso con grande facilità, ma nel contempo avesse accluso il suo (vero) numero di cellulare, che evidentemente nessuno aveva controllato. Solo nei giorni seguenti il giornale americano (colto da un sospetto) mi ha chiesto se la lettera fosse uno "hoax" (o bufala), ho risposto che lo era, e il giornale ha spontaneamente pubblicato una contrita smentita.

Su Internet trovo un lancio Adnkronos del 18 aprile che annuncia la scomparsa di Carlo Capponi, il bidello dell'Isola dei Famosi (?), e precisa: "Della sua esperienza all'Università di Bologna raccontava con fierezza: "Ho lavorato anche per Umberto Eco, gli giravo le pagine mentre firmava autografi"". Non ricordo di aver mai conosciuto il signor Capponi ma, se pure fosse avvenuto, difficilmente avrebbe potuto girarmi le pagine mentre firmavo autografi perché non sono mai stato così cafone da firmare autografi all'università, salvo che sui libretti di esame. Sempre in data 18 aprile, una rivista on line dal titolo allettante, "La perfetta letizia, Rivista giornalistica cattolica d'informazione e attualità", recensisce "Quisquilie e pinzillacchere" di Vincenzo Reda, "giunto alla sua seconda pubblicazione, introdotta dalla prefazione di Umberto Eco". Come è facile intuire non ho mai prefato questo libro (né conosco il Reda) ma la cosa non mi stupisce perché una volta un signore ha pubblicato come prefazione alla sua opera una mia lettera, neppure esageratamente cordiale, in cui declinavo la richiesta di una prefazione.

Sempre l'Adnkronos in data 15 aprile riferisce che, dopo il terremoto che ha investito l'Abruzzo, riapre al pubblico la torre di Rocca Calascio, "usata anche come set di "Il nome della Rosa"". Vedo anche la foto di questa bellissima fortificazione, che tuttavia non è stata usata per l'abbazia del film, ricostruita interamente a Fiano Romano. Ma viaggiando per Internet ho trovato molti monasteri che sono stati riconosciuti dai turisti come luogo della mia abbazia, e quindi le abbazie de "Il nome della Rosa" sono ormai come i chiodi della Croce.

Immagino che molti miei colleghi scrittori possano citare episodi analoghi. Ormai Internet è divenuto territorio anarchico dove si può dire di tutto senza poter essere smentiti. Però, se è difficile stabilire se una notizia su Internet sia vera, è più prudente supporre che sia falsa. A proposito di falso e autentico, il signor X dice che distribuisce i suoi falsi per dimostrare che non c'è più confine tra verità e menzogna. Ma si è visto che le sue bufale vengono subito scoperte. In un mio recente romanzo ho raccontato la storia di un falsario e di numerosi documenti mendaci prodotti dai servizi segreti di mezza Europa, e qualche recensore ha osservato (forse ossessionato dalla battaglia in atto contro il cosiddetto relativismo) che dove tutto è falso si perde ogni criterio di verità. Non ho mai letto un'affermazione così filosoficamente stupida. Per sostenere che qualcosa è falso bisogna ritenere (anche in termini di senso e linguaggio comune) che esista da qualche parte qualcosa di autentico. Sospettare che qualcosa sia falso significa avere una qualche nozione di verità. Ma forse questa è una posizione troppo sottile per i nemici del relativismo.

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« Risposta #102 inserito:: Maggio 13, 2011, 11:21:13 am »

L'opinione
I talebani del Web

di Umberto Eco

(13 maggio 2011)

Circa vent'anni fa, quando stavo iniziando a usare il computer e lo introducevo all'università facendo organizzare corsi di addestramento ai linguaggi di programmazione, ero in contatto con uno dei primi studiosi di problemi informatici e pianificavamo insieme alcune iniziative a livello accademico. Un giorno in un dibattito mi sono trovato a fare quello che, da studioso serio, farei nei confronti dei "Promessi sposi", della coltivazione intensiva delle patate o del metodo Montessori: ho mostrato alcuni punti critici del nostro comune oggetto d'interesse - così come, utente dell'automobile qual sono, e persino talora appassionato lettore di "Quattroruote", sono sempre pronto a indicare tutti i casi in cui l'automobile costituisce un rischio (emissioni venefiche, eccessiva velocità, ingorghi, impigrimento). Non l'avessi mai fatto: quella persona, che credevo studioso equilibrato, mi si è scagliata contro accusandomi di cieca insensibilità al progresso e odio degli strumenti elettronici.

Ogni innovazione crea i propri equilibrati fedeli (io sono un equilibrato utente del computer - ne ho otto, in luoghi diversi - e di Internet, che consulto giornalmente) ma crea anche i propri "talebani", che avvicinano il nuovo ritrovato come cosa sacra e intoccabile, pena il ritorno alla penna d'oca.
La scorsa Bustina ho raccontato di come nel giro di tre giorni fossero apparse su Internet quattro notizie false, che mi riguardavano, e come questo dovesse metterci in guardia nei confronti di uno strumento che, essendo nelle mani di chiunque, è ricco di inesattezze o addirittura di bufale messe in circolazione proprio per minare la fiducia nello strumento stesso.
Non l'avessi mai fatto. Invece di apprezzare questa esortazione critica a non prendere mai nulla per oro colato sono stato criticato da varie parti come apocalittico, luddista, misoneista, intristito nel suo rifiuto delle magnifiche sorti (e progressive). Mi è stato obiettato che tutte le false notizie di cui parlavo erano apparse su giornali o agenzie di stampa e solo dopo erano state diffuse da Internet. Come a dire che, se su un quotidiano apparisse la notizia che Bin Laden è vivo e vegeto nel Guatemala, perché lo ha rivelato un montanaro boliviano coltivatore di coca, la responsabilità della diffusione di questa falsa notizia non sarebbe del giornale ma del montanaro.

Io le notizie di quei quattro falsi le ho ricevute da Internet, perché non mi era capitato di avere tra le mani le fonti giornalistiche in questione, alcune delle quali magari erano arrivate a poche migliaia di persone mentre, una volta amplificate su Internet, hanno raggiunto persino me.
Che la stampa dia spesso notizie false è storia vecchia, tanto che già Oscar Wilde, in uno dei suoi paradossi, lamentava il declino della pubblica moralità dicendo che ormai persino i giornali davano notizie vere. Ma con Internet abbiamo una mutazione quantitativa impressionante e ci sono casi in cui la quantità si trasforma in qualità.

C'è però una cosa consolante sulla quale vale la pena di discutere, e in ragione della quale continuo a usare Internet come fonte di informazione: ed è che la smentita che appare sui giornali finisce in corpo minore nelle pagine interne, quando la notizia falsa aveva campeggiato in prima pagina; al contrario una bufala apparsa su Internet ha buone possibilità di essere contestata, con pari e talora maggiore evidenza. Non tanto la mia Bustina (a stampa), quanto le critiche che le sono state rivolte on line, sono servite a informare moltissimi che quelle quattro notizie erano false.
Ma proprio da questo deriva la virtuosa necessità di continuare a esercitare una critica del Web, così come si esercita una critica della politica, o si falsificano ipotesi errate nella ricerca scientifica - e di insegnarlo specie ai più giovani. Non capisco perché il libero esercizio di questa doverosa attività trovi qualcuno disposto a scandalizzarsi.

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« Risposta #103 inserito:: Giugno 13, 2011, 10:47:27 pm »



di Umberto Eco

Si può mentire per fare del bene o bisogna sempre dire la verità, anche a costo di danneggiare altri? La disputa è antica. Kant, per esempio, scrisse sul tema enormi sciocchezze. Che, venendo da un genio, ci consolano

(10 giugno 2011)

Immanuel Kant Immanuel KantLa scorsa bustina mi occupavo, sulla scia di Swift, dei grandi bugiardi, e accennavo alla disputa millenaria tra ragionevoli e rigoristi, i primi che ammettevano che qualche bugia in fin dei conti si può dire (si pensi alla diplomazia e persino alle formule di cortesia) e i secondi che hanno sempre sostenuto che non si mente neppure per salvare la vita a una persona.

Il quesito classico dei rigoristi era già stato posto da Sant'Agostino: un poveretto si rifugia presso di te dicendo che un terribile assassino lo sta cercando per ucciderlo; tu lo nascondi in casa tua; dopo un poco arriva l'assassino e ti domanda dov'è colui che cerca. Che fai? Il buon senso ci dice che dovremmo mentirgli e dirgli o che non sappiamo o che lo abbiamo visto andare da un'altra parte. Il rigorista invece ti dice che, siccome mentire non si deve mai, devi confessare che la vittima è a casa tua. Naturalmente nel corso dei secoli si sono elaborate delle formule che permettano di non dire senza mentire, ma in generale i rigoristi non si sono mossi dalla massima che non si deve mai mentire, neppure per salvare una vita umana.

Veniamo ora a Kant, che della posizione rigorista è stato uno dei dei famosi rappresentanti.

Kant, lo ricordo, è stata una delle più grandi menti della storia della filosofia, ma gli accadeva talora di dormicchiare, come ad Omero, e di lasciarsi sfuggire delle affermazioni che ci lasciano perplessi. Una delle più note è la condanna della musica come arte inferiore (pronunciata nella "Critica del giudizio") perché disturba anche coloro che non la vogliono sentire - ed è importuna come un profumo troppo penetrante di cui qualcuno intride il fazzoletto, così che quando lo trae di tasca tutti ne sono nauseati. E valga come giustificazione il fatto che forse Kant, di musica, conosceva solo importune marcette militari che turbavano le sue meditazioni quotidiane.

Ora, a proposito dell'assassino che ti chiede se la sua vittima è a casa tua, ecco la straordinaria argomentazione kantiana ("Sul presunto diritto di mentire per amore dell'umanità"): "Se hai appena fermato con una menzogna un potenziale assassino, impedendogli di attuare la sua intenzione, sei ancora giuridicamente responsabile di tutte le conseguenze che potranno derivarne. Ma se ti sei attenuto rigorosamente alla verità, la giustizia ufficiale non potrà addebitarti nulla, qualunque imprevedibile conseguenza possa seguire alla tua dichiarazione. E' anche possibile che, mentre stai rispondendo sinceramente di sì all'assassino che ti chiede se l'uomo da lui inseguito sia in casa tua, quest'ultimo esca senza farsi notare, sottraendosi all'assassino, e così il fatto non avvenga. Al contrario, se menti dicendo che non è in casa ed egli, invece, è realmente uscito a tua insaputa, così che l'assassino, nell'andarsene, lo incontri e compia il suo delitto, allora potresti giustamente essere accusato di aver procurato la sua morte. Infatti se tu avessi detto la verità per come la conoscevi, forse l'assassino sarebbe stato catturato da un vicino di casa accorso in aiuto, mentre quello cercava il tuo nemico in casa tua, e il fatto sarebbe stato impedito. Dunque chi mente, per quanto buone siano le sue intenzioni, è responsabile delle conseguenze della sua scelta, anche di fronte al tribunale civile".

Davvero, spero che ci fosse un giudice, oltre che a Berlino, anche a Königsberg, e che il buon Kant non fosse punito per aver mentito per amore dell'umanità. Quanto alla fiducia nel vicino, se colui aveva il coraggio del filosofo, la vittima era spacciata.

Perché registro questa storia, che sarebbe generoso dimenticare? E' che sono sempre affascinato dalla stupidità, ma quando espressioni di stupidità appaiono nelle pagine di uomini grandissimi, allora si è come folgorati da una salvifica visione. Non tanto perché la sciocchezza detta da un genio sia sempre fragorosa, ma perché che anche i geni possano dire sciocchezze è di grande consolazione per tutti noi, che ogni giorno dubitiamo del nostro buon senso.

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« Risposta #104 inserito:: Giugno 25, 2011, 06:41:05 pm »

Non credete alle coincidenze

di Umberto Eco

(24 giugno 2011)

Qualcuno ha scritto che i nemici di Berlusconi erano (e sono) due, i comunisti e i magistrati, e che nelle scorse amministrative hanno vinto un (ex) comunista e un (ex) magistrato.

Altri ha notato che quando Craxi nel 1991, come presidente del consiglio, ha invitato gli italiani ad andare al mare invece che alle urne, il referendum sul sistema elettorale ha avuto un notevole successo e di lì è iniziata la discesa politica di Craxi.

Si potrebbe continuare: Berlusconi va al potere nel marzo 1994 e in novembre Po, Tanaro e molti loro affluenti esondano devastando le province di Cuneo, Asti e Alessandria; Berlusconi torna al potere nel maggio 2008 e nel giro di un anno abbiamo il terremoto dell'Aquila.

Tutte coincidenze divertenti ma che non valgono proprio nulla (tranne il parallelo Berlusconi-Craxi). Il gioco delle coincidenze affascina da tempo immemorabile paranoici e complottardi ma con le coincidenze, e specie con le date, si può fare ciò che si vuole.

Un'orgia di coincidenze è stata individuata a proposito dell'attentato alle Twin Towers e qualche anno fa su "Scienza e Paranormale" Paolo Attivissimo aveva citato una serie di speculazioni numerologiche fatte sull'11 settembre. Per citarne solo alcune, New York City ha 11 lettere, Afghanistan ha 11 lettere, Ramsin Yuseb, il terrorista che aveva minacciato di distruggere le Torri, ha 11 lettere, Gorge W. Bush ha 11 lettere, le due torri gemelle formavano un 11, New York è l'undicesimo Stato, il primo aereo schiantatosi contro le torri era il volo numero 11, questo volo portava 92 passeggeri e 9+2 fa 11, il volo 77 che si è pure schiantato contro le torri portava 65 passeggeri e 6+5=11, la data 9/11 è uguale al numero d'emergenza americano, 911, la cui somma interna dà 11. Il totale delle vittime di tutti gli aerei dirottati è stato di 254, la cui somma interna dà 11, l'11 settembre è il giorno 254 del calendario annuale e la somma interna di 254 fa 11.
Sfortunatamente New York ha 11 lettere solo se si aggiunge City, l'Afghanistan ha 11 lettere ma i dirottatori non venivano da laggiù bensì dall'Arabia Saudita, dall'Egitto, dal Libano e dagli Emirati Arabi, Ramsin Yuseb ha 11 lettere ma, se invece di Yuseb, si fosse traslitterato Yussef, il gioco non avrebbe funzionato, George W. Bush ha 11 lettere solo se si mette la "middle initial", le torri disegnavano un 11 ma anche un 2 in numeri romani, il volo 77 non ha colpito una delle torri bensì il Pentagono e non portava 65 bensì 59 passeggeri, il totale delle vittime non è stato di 254 bensì 265, e così via.

Altre coincidenze che circolano su Internet? Lincoln è stato eletto al Congresso nel 1846, Kennedy è stato eletto nel 1946, Lincoln è stato eletto Presidente nel 1860, Kennedy nel 1960. Entrambe le loro mogli hanno perduto un bambino mentre risiedevano alla Casa Bianca. Entrambi sono stati colpiti alla testa da un sudista di venerdì. Il segretario di Lincoln si chiamava Kennedy e il segretario di Kennedy si chiamava Lincoln. Il successore di Lincoln fu Johnson (nato nel 1808) e Lyndon Johnson, successore di Kennedy, era nato nel 1908.

John Wilkes Booth, che ha assassinato Lincoln, era nato nel 1839, e Lee Harvey Oswald nel 1939. Lincoln fu colpito al Ford Theater. Kennedy fu colpito in un'automobile Lincoln prodotta dalla Ford.

Lincoln è stato colpito in un teatro e il suo assassino è andato a nascondersi in un magazzino. L'assassino di Kennedy ha sparato da un magazzino ed è andato a nascondersi in un teatro. Sia Booth che Oswald sono stati uccisi prima del processo.

Ciliegina (volgaruccia) sulla torta, che però funziona bene solo in inglese: una settimana prima di essere ucciso Lincoln era stato "in" Monroe, Maryland. Una settimana prima di essere ucciso Kennedy era stato "in" Monroe, Marilyn.

La sola conclusione anticomplottarda (e ragionevole) sarebbe che Berlusconi non è responsabile dell'elezione di Pisapia e De Magistris.

Ma forse sì.

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