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Autore Discussione: Giovanni BIANCONI  (Letto 5016 volte)
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« inserito:: Luglio 15, 2010, 03:47:11 pm »

L’inchiesta

Gli affaristi citano il premier: dobbiamo vedere «Cesare»

Gli investigatori: soldi a Verdini dalla moglie di Carboni

    
ROMA — Le telefonate tra i componenti della presunta «associazione segreta» che secondo l’accusa cercava di condizionare la vita pubblica italiana, cominciavano di prima mattina. E andavano avanti fino a tarda sera. Alle 8.48 di mercoledì 28 ottobre 2009, ad esempio, l’ex assessore napoletano Arcangelo Martino chiamò il geometra e giudice tributario Pasquale Lombardi; ora sono tutti e due in carcere, come l’imprenditore-faccendiere Flavio Carboni.

«Hai visto — dice Lombardi —il fatto del Lodo è stato rinviato, e poi... Mills è stato condannato, confermato quattro anni». Si riferisce alle notizie sul verdetto d’appello per l’avvocato inglese David Mills, imputato di corruzione con Silvio Berlusconi al quale il processo era stato sospeso grazie al «lodo Alfano » giudicato illegittimo dalla Corte costituzionale, e al rinvio della causa per il maxi-risarcimento alla Mondadori da parte della Fininvest, decisa da un altro giudice milanese. Ma il processo che interessa Lombardi, perché secondo il rapporto dei carabinieri se n’è occupato direttamente, è un altro: «E poi stamattina, pare che il 28 c’è l’altro rinvio... Vabbè, quello che facciamo noi». Martino dice: «Oggi che cos’è, non è 28?». E Lombardi: «Eh, e oggi c’è il rinvio». Si tratta della causa per 400 miliardi di debiti della Mondadori con lo Sato risalenti al 1991, che in Cassazione era stata spostata dalla Sezione tributaria alle Sezioni unite. Con conseguente slittamento, per il quale si sarebbe prodigato proprio Lombardi. Ma Martino vuole sapere a quando, e Lombardi si spazientisce: «Io non è che faccio l’avvocato! Viene regolarizzato dalle parti a quando viene rinviato». Poi invita Martino a Roma: «Vieni che ne parliamo, perché ci sono tre quattro casi che ancora sono importanti pure per loro! Per questi stronzi!».

Nel pomeriggio Carboni telefona a Martino e s’intrattiene «sulla stessa questione giudiziaria di cui il Martino aveva parlato poco prima con Lombardi», annotano i carabinieri che ascoltano. «Abbiamo pensato di chiamarti, noi stavamo dalla... da chi sai...», dice Carboni. E aggiunge: «Dunque non si è mosso, non ci si muove perché lui sta lì, il Marcello sta dal... sta da Cesare... (...)». Marcello è il senatore Dell’Utri e «Cesare», secondo quanto riferiscono gli investigatori ai magistrati, «è lo pseudonimo utilizzato dai soggetti per riferirsi al presidente del Consiglio». Cioè Silvio Berlusconi.

Nelle centinaia di telefonate registrate dai carabinieri ci sono diversi accenni a quel soprannome. «Informeranno Cesare solo domani, perché non c’è», dice Carboni il 9 febbraio scorso, presumibilmente a proposito della candidatura alla presidenza della Campania; «amm’a vedé Cesare quanto prima», dice Lombardi riferendosi alle presunte «manovre » per la conferma del «lodo Alfano»; «credo che sia già arrivato nelle stanze di Cesare ... i tribuni hanno già dato notizia», sostiene ancora Carboni a proposito dei tentativi di favorire il sottosegretario Nicola Cosentino. E sullo stesso argomento, di nuovo Carboni: «Ci deve dare una mano, insieme a Marcello il quale parla anche a nome del... di Cesare, capito? ».

Le persone da contattare
Nelle sue ipotetiche «manovre» il trio mandato agli arresti dagli inquirenti romani si avvaleva di politici come i parlamentari del Pdl Verdini (uno dei tre coordinatori nazionali del partito) e dell’Utri, entrambi inquisiti per violazione della legge anti-P2. Ma anche di magistrati. «Personaggi vicini al gruppo— si legge nell’informativa finale redatta dai carabinieri il 18 giugno scorso — che prendono parte alle riunioni nel corso delle quali vengono impostate le principali operazioni, o che paiono fornire il proprio contributo alle attività d’interferenza, sono individuabili nei giudici Miller Arcibaldo, Martone Antonio e nel sottosegretario alla Giustizia Caliendo Giacomo ». Magistrato anche lui, ma ora eletto in Parlamento nelle file del centrodestra.

I loro nomi compaiono spesso nelle intercettazioni telefoniche, dalle quali poi ne spuntano altri, anche solo chiamati in causa nelle conversazioni. Senza che si comprenda se a loro volta quei personaggi siano mai stati contattati. Come accade in un colloquio tra l’ex presidente della Corte costituzionale Cesare Mirabelli e Lombardi, il quale stava tentando di avvicinare qualche giudice della Consulta che doveva decidere sulla legittimità del «lodo Alfano». Mirabelli cerca sempre di cambiare argomento, ma Lombardi insiste: «Quella donna della Consulta che è sua amica, dice che è sua amica, possiamo intervenire almeno su questa signora?». Mirabelli risponde: «Non è che gli interventi valgano granché, comunque io...». Ma Lombardi non molla: «Monsignor Ruini, reverendo Ruini è molto amico anche di... e giustamente suo. Questo Ruini potrebbe intervenire su questa...». Mirabelli non sembra gradire il riferimento al cardinale ex presidente della Cei, e cambia subito discorso: «Ho capito. Senta e... comunque, cosa avete come iniziative?».

I soldi per Verdini
Un corposo capitolo del rapporto dei carabinieri s’intitola «Le operazioni finanziarie sospette ». Racconta di somme da centinaia di migliaia di euro «veicolate periodicamente da Carboni e messe a disposizione da un imprenditore romagnolo coinvolto nell’operazione Pale eoliche», cioè la realizzazione di impianti per l’energia alternativa in Sardegna, per la quale è stato ipotizzato il reato di corruzione anche a Verdini e al presidente della Regione Cappellacci. In una di queste operazioni, 200.000 euro in assegni circolari «sono stati negoziati da persona diversa dal beneficiario» ufficiale, e questa persona «con ogni probabilità si identifica in Verdini o in un suo stretto collaboratore».

Il 1˚ ottobre 2009, su un conto corrente del Monte dei Paschi di Siena intestato alla moglie di Carboni, Maria Laura Scanu Concas, da una società chiamata «Sardinia Renewable Energy Project» arrivano due bonifici da 500.000 euro ciascuno. Lo stesso giorno, vengono emessi assegni circolari per 487.500 euro (ciascuno dal valore di 12.500) in favore di Giuseppe Tomassetti, collaboratore di Carboni. Sedici di questi assegni, pari a 200.000 euro, secondo i carabinieri «sarebbero stati incassati/ depositati in data 2-10-2009 presso la filiale Campi Bisenzio del Credito cooperativo fiorentino, dal beneficiario degli stessi, Tomassetti Giuseppe».

La banca è quella presieduta da Denis Verdini, e si trova in provincia di Firenze. Ma dalle indagini svolte sulle celle utilizzate dal telefonino di Tomassetti, nei giorni 1 e 2 ottobre l’uomo «non risulta essersi recato in quella provincia». Ha sempre parlato da Roma, dove il pomeriggio del 2 s’è sposato suo figlio. Verdini invece quel giorno si trovava negli uffici dell’istituto di credito, da dove ha parlato più volte con Carboni. L’ultima alle 16.18. «Per vedere se tutto era in ordine», dice Carboni. E il deputato-banchiere: «Tutto a posto, tutto a posto». Conclusione dei carabinieri: «Gli assegni in tema dovrebbero essere stati incassati/ depositati da persona diversa dal Tomassetti, che questo ufficio identifica nel Verdini Denis».

Giovanni Bianconi

15 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_15/bianconi-affaristi-citano-berlusconi-cesare_8d33fbfa-8fd7-11df-b54a-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 16, 2010, 05:20:07 pm »

Dietro le quinte -

I voti determinanti erano di Mancino e Carbone

La nomina a sorpresa che spaccò il Csm e innescò i primi sospetti


ROMA — Quella nomina fu una ferita mai rimarginata. E con le intercettazioni sulle manovre sotterranee per ottenerla è tornata a sanguinare. Al punto da dover correre ai ripari in tutta fretta, per quanto si può. La decisione di far presiedere la corte d’appello di Milano ad Alfonso Marra divise a metà il Consiglio superiore. Era il 3 febbraio scorso. Marra ottenne 14 voti contro i 12 dell’altro candidato, Renato Rordorf. Fu una spaccatura trasversale, anche all’interno delle correnti. Dentro Unicost e Magistratura indipendente, i due gruppi «moderati», Berruti e Patrono si schierarono a favore di Rordorf, considerato «di sinistra». E tra i «laici» eletti dall’Ulivo, Celestina Tinelli preferì Marra. Come i tre membri dell’ufficio di presidenza (Mancino, il presidente della Cassazione Carbone e il procuratore generale Esposito); per motivi di opportunità, fecero trapelare, legati a un precedente voto unanime in favore dello stesso giudice, e perché Rordorf aveva lavorato al Csm.

Spiegazioni che all’epoca non convinsero. Perché nei corridoi del palazzo dei Marescialli, sede del Csm, si sussurrò fin da subito che dietro i voti determinanti della Tinelli, di Mancino e di Carbone c’era qualcosa di strano. Niente di dimostrabile, ma molto di avvertito. Nell’abituale resoconto per gli aderenti alla sua corrente, la consigliera di Magistratura democratica Elisabetta Cesqui—già pubblico ministero nel processo alla Loggia P2 —sulla nomina di Marra si lasciò andare a considerazioni amare: «L’aria viziata delle pressioni si è sentita fortissima... Il Consiglio può fare tutti gli sforzi di rinnovamento che vuole, ma quando si parla di decisioni veramente importanti, l’esigenza di presidio di certi territori e di certi uffici prevale sistematicamente sulle logiche di merito effettivo».

Ora le registrazioni di alcuni colloqui messi a fondamento dell’arresto dei tre ispiratori della presunta «associazione segreta» che si sarebbe adoperata, fra l’altro, per la nomina di Marra, ha dato nuovi argomenti a chi sosteneva quella tesi. Al di là della loro rilevanza penale. I dialoghi fra Pasquale Lombardi, il «ministro della Giustizia» del gruppo, con lo stesso Marra e con il sottosegretario Giacomo Caliendo (ex magistrato di Unicost) sembrano dare concretezza ai sospetti. Come se avessero strappato un velo.

«Mi pare che ho concluso, per te, col capo», diceva Lombardi a Marra dopo un incontro con Carbone. «Ma bisogna avvicinare ’sto cazzo di Berruti... », ribatteva Marra. E Lombardi a Caliendo: «Per quanto riguarda Berruti te la devi vedere tu». Poi ancora a Marra: «Ho parlato con Giacomino e... stiamo operando». Alla Tinelli chiedeva: «È opportuno che ne parli un poco con il presidente Carbone?». E lei: «Sì, assolutamente». In altri dialoghi Lombardi faceva intendere che il voto di Carbone si poteva conquistare prolungando la sua permanenza al vertice della Cassazione, con un emendamento sull’eta pensionabile; riferiva di incontri con Mancino, e consigliava Marra di rivolgersi all’ex ministro Diliberto per convincere la «laica» Letizia Vacca.

Tutte chiacchiere e millanterie, replicano gli interessati; Carbone avrebbe persino avvisato il ministro della Giustizia che non avrebbe accettato proroghe della sua presidenza. Ma è difficile districarsi tra intercettazioni e giustificazioni. Restano la puzza di bruciato che si avvertì al tempo della nomina e le conversazioni che oggi rivelano le pressioni. Almeno tentate, visto il tempo trascorso al telefono da Lombardi per il suo amico Marra. «Pasqualì, poi facciamo ’na bella festa, aMilano o a Roma», diceva il giudice. E l’altro: «Eh, ce la facimm’ ’na bella festa!». La rapidissima decisione del Csm — giunto a fine mandato, scadrà fra due settimane — di avviare la pratica per la rimozione di Marra sembra il tentativo di cancellare una pagina opaca della propria storia. Quasi certamente toccherà al prossimo Consiglio decidere il destino di quel giudice, ma chi l’ha nominato ha voluto mettere le basi per dissipare l’ombra di una scelta condizionata da un gruppo di potere occulto e illegale, almeno secondo l’accusa. Lo stesso Csm ha chiesto alla Procura di Roma «ogni utile informazione» su altri magistrati i cui nomi emergono dall’inchiesta. A cominciare da Arcibaldo Miller, il capo degli ispettori del ministero della Giustizia, che—hanno scritto i carabinieri nel loro rapporto— «forniva il proprio contributo alle attività di interferenza». Al pari del sottosegretario Caliendo e dell’ex avvocato generale della Cassazione Antonio Martone, che però hanno abbandonato la toga.

Anche la decisione della Procura generale di aprire l’istruttoria per un procedimento disciplinare a Marra suona come uno squillo di riscossa rispetto alla «questione morale» nella magistratura; e così l’allarme del segretario dell’Associazione magistrati Giuseppe Cascini, che confessa di aver provato «vergogna, indignazione e rabbia» a leggere i dialoghi dei suoi colleghi intercettati. L’Anm ha chiesto ai probiviri di valutare sanzioni, fino all’eventuale espulsione. Come se ci fosse l’urgenza di fare pulizia nella corporazione, a costo di dividere i magistrati e le loro correnti, pure al proprio interno. Per dare un esempio alla politica, l’altro potere toccato dall’indagine giudiziaria, col quale le toghe (non tutte, a leggere i resoconti dell intercettazioni) sembrano in perenne conflitto.

Giovanni Bianconi

16 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_16/bianconi-nomine-mancino-carbone_6eb36882-90a4-11df-8665-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 17, 2010, 10:36:36 pm »

Il documento - Il faccendiere parla del tentativo di candidare un magistrato

Carboni: venivano da me perché li facevo arricchire

E su Cappellacci: è vero, l’ho sostenuto Ma poi ha fatto solo danni a tutti


«Rappresento uno che sa produrre ricchezza. Mi hanno sempre dato fiducia, che si tratti di eolico, di immobiliare». E’ una delle tante verità di Flavio Carboni, in carcere dal 9 luglio scorso e accusato con altri di far parte di una presunta «associazione segreta» che avrebbe interferito su attività di organi istituzionali e della pubblica amministrazione. Nell’interrogatorio Carboni ha anche raccontato degli incontri con Denis Verdini per candidare il giudice Miller in Campania. «All’epoca bisognava nominare i candidati per la Regione ». E Cappellacci, il governatore della Sardegna: «L’ho sostenuto, ma poi ho avuto solo svantaggi»

ROMA—«Sono Carboni Flavio, nato a Sassari il 14 gennaio 1932».
«Titolo di studio?».
«La frequenza del liceo»
«Diploma di scuola media superiore?».
«No, la frequenza. Non ho conseguito il diploma ».
«Ha beni patrimoniali?».
«Non dispongo».
«Nessuno? Automobile, abitazione, niente?».
«No, li ho in uso, ma non sono miei...».
«È sottoposto ad altri procedimenti penali?».
«Sì».
«Condanne ne ha avute?».
«Sì».

Comincia così l’interrogatorio dell’imprenditore sardo— noto alle cronache come «faccendiere », definizione che lui respinge sdegnato— del 9 luglio scorso a Regina Coeli, davanti al giudice che l’ha fatto arrestare. Carboni è accusato di far parte (con altre persone, di cui almeno un paio parlamentari del Pdl) di una presunta «associazione segreta» che avrebbe interferito su attività di organi istituzionali e della pubblica amministrazione. Il giudice riassume i motivi dell’arresto e l’indagato — preoccupato per il suo stato di salute, «ho avuto tre infarti, il quarto non lo vorrei avere» — annuncia di voler ribattere punto su punto, per dimostrare la propria innocenza: «C’è questa meravigliosa, enorme, abnorme raccolta di dati dei carabinieri, ma io non mi riconosco in nessuna di queste affermazioni. Quest’Arma alla quale mi rivolgevo tutte le volte che non mi fidavo della polizia... In questo caso, probabilmente per errore, hanno raccolto dati molto diversi da quella che è la realtà ».

Martino e Lombardi: «Sono estraneo a quei due»
Carboni nega di avere legami d’affari e d’interessi con Martino e Lombardi, gli altri due arrestati. Anzi, cerca di mettere una linea di demarcazione fra loro e sé: «Per me sono due estranei, e mi hanno creato solo guai, altro che complicità ». L’ex politico napoletano Arcangelo Martino, dice Carboni, «mi è stato presentato come uomo importantissimo, pieno di mezzi, di conoscenze innumerevoli», e un imprenditore non deve farsi sfuggire occasioni simili: «Quando conosco una persona importante me la coltivo, e ritengo che Martino meritasse questo tipo di interessamento». Che poi si sarebbe limitato a «qualche sporadico incontro». Il geometra e giudice tributario Pasquale Lombardi, invece, era uno che parlava troppo e a sproposito: «Uno stupido che al telefono diceva quello che a me non interessava... Io non ho mai avuto nessun rapporto di inciuci... Se poi i due soggetti, gli altri che sono incriminati, avessero altre intenzioni o avessero altre malefatte ai danni dello Stato, questo lo chieda a loro, non a me perché io con loro non ho nulla a che fare, né prima né dopo... I miei rapporti sono stati solo e unicamente quelli di ricevere richieste da entrambi, ma soprattutto da Martino, quello che frequentavo di più». Il giudice prova a controbattere che dalle intercettazioni telefoniche emergono interessi comuni e discorsi su interventi provocati da reciproche richieste, ma Carboni non si smuove: «Al Grand Hotel di Roma incontrai due o tre volte il signor Martino e gli dissi "Non mi far parlare più con quel coglione, scusi l’espressione, che al telefono mi dice queste cose"... Non ero tanto ingenuo da non immaginare, scusi sa... Io ho sempre immaginato di essere intercettato ».

«Dopo tre infarti, arrestato come un volgare criminale»
Più avanti il giudice obietta: «Lei è persona acuta, ma deve sapere che io non sono un ingenuo », e Carboni sbotta: «Ma neanche io, signor giudice, ma neanche lei può condannare un innocente. Signor giudice, che non ha nulla a che fare con quei mascalzoni! Né tantomeno con Cappellacci (il presidente della Regione Sardegna indagato per corruzione nella stessa inchiesta, ndr)... Io le sto dicendo che cosa ho fatto, non voglio ingannare lei... Mai un fatto reale, però... ». Nel suo sfogo—«dopo tre infarti, arrestato come un volgare criminale... senza aver fatto nulla!» — l’imprenditore-faccendiere si sente male, l’interrogatorio s’interrompe. Il suo avvocato Renato Borzone, che l’ha fatto assolvere in primo e secondo grado dall’accusa di aver ucciso il banchiere Roberto Calvi nel 1982, invita Carboni a calmarsi e a continuare a rispondere. Alla fine farà mettere a verbale i «non ne sapevo niente» del suo assistito sul dossieraggio a danno di Caldoro (candidato Pdl in Campania, ndr), sulle interferenze nelle nomine del Csm, sulla tentata ispezione ai giudici che avevano escluso la Lista Formigoni dalle elezioni in Lombardia.

La candidatura di Arcibaldo Miller
Alla ripresa si parla delle riunioni a casa del coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, che per l’accusa servivano a pianificare le pressioni sulla corte costituzionale per far dichiarare legittimo il «lodo Alfano» che bloccava i processi a carico di Silvio Berlusconi. Col padrone di casa c’erano i tre arrestati, il senatore Dell’Utri, il sottosegretario alla Giustizia Caliendo, il capo dell’ispettorato dello stesso ministero Arcibaldo Miller, il giudice Antonio Martone. Ma Carboni nega che si sia parlato dei problemi giudiziari del premier, dando un’altra versione: «Bellissima riunione... All’epoca bisognava nominare i candidati della Regione Campania. Miller era la persona più idonea, era considerati da Verdini la persona ideale. E perché proprio io che di politica...? Perché io avevo una certa frequentazione, soprattutto con Verdini». La candidatura del magistrato napoletano a capo degli ispettori ministeriali, spiega Carboni, interessava soprattutto Martino e Lombardi: «Essendo io più amico, probabilmente, di Verdini rispetto a Miller, potevo influenzare, potevo raccomandare. Cosa che ho fatto... che io trovo estremamente normale... Non so se ricordo bene, credo che sia stato Miller a rinunciare... Evidentemente ritenevano che io potessi influire, perché Verdini potesse convincere il dottor Miller, a cui loro tenevano moltissimo, perché accettasse la canditatura ». Carboni esclude accenni al «Lodo Alfano», dice solo che era una cosa di cui scrivevano molto i giornali, e insiste sulla scelta dei candidati: «Si è parlato di Cosentino, si è parlato di un altro, di Altieri, si è parlato di quello che c’è attualmente... Ogni tanto veniva, "vediamoci, vedi di dire a Verdini di sostenere questo e quello", e questo non lo consideravo un reato di alcun genere... ».

Ugo Cappellacci e l’energia eolica
Il giudice, che pare poco convinto dalle risposte, passa al tema Cappellacci e investimenti nell’energia eolica in Sardegna. Carboni è categorico: «L’ho sostenuto, Cappellacci, è vero», ma poi ne avrebbe avuto solo svantaggi. Perché ha cancellato la «legge Soru», dice, che «consentiva alle grandi società di intervenire nel mondo dell’eolico». Insomma: «Da quando è stato eletto questo signore ha creato danni a tutti, non solo a me. E’ vero che è ricolmo di sorrisi, che è venuto da Verdini, è venuto a Roma, ci siamo incontrati, ma per tutto l’anno non ha fatto nessuna legge». Però ci sono telefonate in cui Carboni, dopo gli incontri col governatore, riferiva che «è andata benissimo», ma l’indagato replica: «Ecco, guardi i risultati. Meno male che è andata benissimo... ». Ci sono pure conversazioni su provvedimenti normativi che Carboni e soci dovevano preparare in bozza, per farli approvare. Risposta: «Questo è normale, mi scusi.. Per qualunque imprenditore, cosa che è successa e continua a succedere sia nel campo immobiliare che nel campo dell’energia, di qualunque iniziativa commerciale, la cosa migliore da fare è andare a trattare con il sindaco, con gli assessori, e quindi si va dal presidente... Lo facciamo tutti». E quando il giudice chiede quale fosse la ragione del sostegno di Martino a Cosentino in Campania, Carboni risponde: «Mi permetto di dire che qualunque imprenditore, dico proprio qualunque, più onesto del mondo, ha interesse a che il politico che va a governarlo sia magari suo amico, e questo non credo che costituisca reato...».

«Io sono uno che sa produrre ricchezza»
Carboni ammette quello che per l’accusa è un altro indizio di partecipazione all’associazione segreta, cioè il finanziamento al convegno svoltosi a Fort Village, in Sardegna, nel quale Lombardi aveva radunato decine di giudici. Dando tutt’altra spiegazione, però: «Incontrare le persone e avere rapporti con la gente importante è una cosa che mi interessava, mi interessa e mi interesserà sempre, ma non per finalizzarla a reati ». Ha ricevuto soldi dagli imprenditori romagnoli, almeno 4 milioni di euro; non per la corruzione in vista degli appalti nell’eolico, come sostiene l’accusa, ma perché «io, Flavio Carboni, rappresento uno che sa produrre ricchezza, cosa che è successa sempre nel passato, con 24 lottizzazioni e iniziative di tanti tipi, legali. Mi hanno dato fiducia, che si tratti di eolico, di immobiliare. Quei soldi io li potevo destinare all’eolico o anche al casinò, se poi li facevo produrre... ». E gli assegni per alcune centinaia di euro negoziati nella banca di Denis Verdini (secondo gli investigatori dallo stesso parlamentare-presidente del Credito cooperativo fiorentino) erano un investimento nel quotidiano locale Il Giornale di Toscana: «Non è la prima volta, la Nuova Sardegna era mia, sono stato socio dell’editoriale L’Espresso... Così come ho finanziato Paese Sera... E’ un mondo diverso al quale io tengo moltissimo». Stavolta ha scelto il giornale del coordinatore del Pdl: «Con Verdini c’è un rapporto molto molto intrinseco, direi molto cordiale, molto affettuoso. Naturalmente queste situazioni di questi momenti hanno creato disagi a tutti, come può immaginare, signor giudice...».

Giovanni Bianconi

17 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_luglio_17/carboni-venivano-da-me-perche-li-facevo-arricchire_9b4403a4-916a-11df-8c13-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 18, 2010, 11:07:19 pm »

Le carte

I verbali del geometra-giudice tributario: sono un nullatenente

Lombardi: «Feci pressioni sui giudici Volevo fare bella figura con il premier»

«Contattai esponenti del Csm per la nomina di Marra. Mancino? Lo conosco da 40 anni»


ROMA — Anche Pasquale Lombardi, il «ministro della Giustizia» della presunta associazione segreta che avrebbe condizionato o tentato di condizionare la vita pubblica italiana, non ha beni patrimoniali da dichiarare davanti al giudice che l'interroga nel carcere di Avellino dov'è rinchiuso. Nonostante l'età avanzata, una carriera politica che l'ha portato a fare il sindaco del suo paese, il ruolo ricoperto di giudice tributario. Titolo di studio geometra, professione pensionato, 77 anni il prossimo 19 agosto. Il 10 luglio scorso, all'indomani dell'arresto, accetta di rispondere alle domande per difendersi dalle accuse e comincia dalla vicenda più spinosa: le ipotetiche trame per influenzare i giudici della Corte costituzionale e salvare la legge che bloccava i processi al presidente del Consiglio. «Con riferimento alla vicenda del giudizio di costituzionalità relativo al cosiddetto lodo Alfano — dice Lombardi, intercettato in decine di conversazioni su questo argomento — ho tentato di interessarmi per acquisire meriti con il capo del mio partito, onorevole Silvio Berlusconi, affinché potesse ritenersi che ero in grado di arrivare anche ai giudici della Corte costituzionale». Niente di più. La telefonata con l'ex presidente della Consulta Mirabelli, nella quale chiede di avvicinare una giudice-donna non può negarla, ma dice: «Lui ormai non conta più nulla». Specifica di non ricordare il nome della giudice a cui faceva riferimento, «è stata segnalata dal partito Pdl». In realtà l'unica donna presente alla Corte costituzionale è Maria Rita Saulle, nominata nel 2005 dal presidente della Repubblica Ciampi.

Gli incontri con Verdini e le telefonate a Carbone
Lombardi conferma gli incontri a casa del coordinatore del Pdl Denis Verdini, ma — con Carboni — sostiene che s'è parlato della possibile candidatura del capo degli ispettori del ministero della Giustizia Arcibaldo Miller (anche lui presente ad almeno una riunione) alla presidenza della Regione Campania. Ma da una telefonata successiva col sottosegretario Caliendo s'intuisce che invece s'è discusso anche del «lodo Alfano»: «Si è trattato di un riferimento fatto soltanto di sfuggita», ribatte Lombardi, che non sa spiegare altre frasi sullo stesso tema; «non ricordo» risponde una volta, e «non sono in grado di dire a chi facessi riferimento quando dicevo "lui è rimasto contento di quello che stiamo facendo"; nego tuttavia che si tratti dell'onorevole Verdini».

Le telefonate con l'ex presidente della corte di Cassazione Vincenzo Carbone, spiega Lombardi, sono dovute al fatto che «con lui ho un rapporto di familiarità», ma non ricorda se ricevette indicazioni su come trattare il ricorso presentato in Cassazione dall'onorevole Cosentino. Al quale ha comunque tentato di dare una mano, su sua richiesta, anche perché «ho sempre sostenuto la candidatura del predetto» al governo della Campania. Con Carbone, Pasquale Lombardi parla anche due giorni prima di una decisione su Cosentino, «annunciandogli una piccola regalia», si legge nell'ordine d'arresto: «Stammi a sentì ... mi sò fatto portare l'olio e te lo porto domani mattina ( ... ). Ci vediamo in Cassazione e facciamo il trasbordo». Di che si tratta? «Si fa riferimento effettivamente a olio di oliva», risponde Lombardi, che lui prende presso un'azienda dalle sue parti: «Provvedo io, spesso, a fornire olio di oliva, previo regolare pagamento, affidandolo a un carabiniere che presta servizio in Cassazione», originario del paese dove si produce l'olio e di cui l'indagato indica il nome al giudice. Lombardi nega di essersi interessato al dossier anti Caldoro e alle concessioni degli appalti per l'energia eolica in Sardegna, mentre si sofferma sulla sua attività di animatore dell'Associazione diritti e libertà «di cui presidente è stato sempre un magistrato», che raduna circa 400 magistrati e organizza convegni come quello del settembre 2009 a Forte Village in Sardegna, finanziato «dalla Regione e da piccoli contributi di alcune società; nego di aver ricevuto finanziamenti da Carboni Flavio». Il quale, però, nel suo interrogatorio, ha sostenuto il contrario.

Gli interventi sul Csm e il nome di Mancino
Sulle nomine effettuate dal Consiglio superiore della magistratura Lombardi spiega che alcuni giudici suoi amici da oltre vent'anni (Alfonso Marra, Gianfranco Izzo, Paolo Albano) gli hanno sollecitato un interessamento per ottenere incarichi direttivi: «Lo hanno chiesto a me perché ho molte conoscenze e amicizie nell'ambito politico e giudiziario, e come si sa queste nomine sono influenzate in maniera determinante dalle quattro correnti dell'Associazione nazionale magistrati e dalla politica, che può tutto». Per sostenere Marra alla carica di presidente della Corte d'appello di Milano e altri magistrati di cui si parla nell'ordine di arresto, precisa Lombardi, «ho intrattenuto contatti con due consiglieri togati del Csm (Ferri e Carrelli Palombi) e con i componenti laici Tirelli, Saponara e Bergamo. Nego di aver avuto contatti con il vicepresidente de Csm Nicola Mancino, con il quale peraltro ho rapporti di consuetudine da oltre quarant'anni». Ma nel provvedimento che l'ha spedito in carcere è riportato il testo di una telefonata registrata il 24 novembre 2009, subito dopo un incontro proprio con Mancino. «Ho fatto quello che dovevo fare, è andata bene — diceva Lombardi all'altro arrestato Arcangelo Martino —... Abbiamo fatto un ottimo lavoro (...) per i nostri amici... Il mio intervento è stato decisivo». Spiegazione dell'indagato al giudice: «Effettivamente mi sono incontrato con l'onorevole Mancino, con il quale avrò parlato incidentalmente della nomina di Marra». Argomento che trattò anche con un avvocato: «Gli ho chiesto di parlare con Mancino della nomina di Marra, senza tuttavia avere riscontro, evidenziando che è sempre bene avere amicizie per chiedere qualcosa in caso di difficoltà».

La lista Formigoni esclusa dalle Regionali
Lombardi parla anche dell'esclusione della Lista Formigoni dalle elezioni regionali in Lombardia. «Ho contattato il presidente Marra per sapere l'esito della commissione elettorale; con riferimento al tentativo di sollecitare un'ispezione ministeriale presso la Corte d'appello di Milano in seguito al rigetto del ricorso, intendo dichiarare che si tratta soltanto di sciocchezze». Agli atti c'è una conversazione piuttosto esplicita fra Lombardi e Martino, a proposito di quell'agognata ispezione che non ci fu mai, ma il geometra-ex giudice tributario risponde: «Non ricordo la conversazione che la Signoria vostra mi contesta».

Giovanni Bianconi

18 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_18/bianconi_lombardi_bella_figura_premier_8b35f330-923e-11df-a4a6-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 21, 2010, 11:11:45 pm »

L’inchiesta

Dai pentiti fasulli al depistaggio

Pm al lavoro sulla trattativa tra politica e mafia


ROMA — Pezzi delle istituzioni, settori dello Stato, sottobosco della politica, apparati deviati, rappresentanti infedeli. Non c’è espressione che non sia stata utilizzata per descrivere ed evocare una situazione che qualche investigatore più avvertito aveva intuito fin dai primi giorni successivi alla strage di via D’Amelio, e cioè che dietro l’eliminazione del giudice Borsellino e degli agenti di scorta (a meno di due mesi dall’eccidio che aveva ucciso Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini addetti alla protezione con modalità altrettanti eversive) non c’era soltanto la mafia. Qualcun altro doveva aver spinto affinché i boss di Cosa nostra portassero a termine un’azione che nell’immediato fu un pessimo affare pr l’organizzazione criminale, visto la stretta repressiva che ne seguì.

Ora, a 18 anni da quell’esplosione, forse per la prima volta un’indagine giudiziaria si sta avvicinando a quella realtà nascosta. Su via D’Amelio, come sul fallito attentato a Falcone nella sua villa dell’Addaura, nel 1989. E questo provoca quel corto circuito di frasi riassunte nell’affermazione secondo la quale la verità sarebbe ormai a un passo, e chissà se la politica avrà la forza di sostenerla.

Il problema è che, seppure mai così vicina, quella verità ancora non la conosciamo. Sappiamo che quella passata finora come tale non lo è più. Il pentito Gaspare Spatuzza ha dato prova (secondo tutti i magistrati che hanno vagliato le sue deposizioni) di essere affidabile quando ha riscritto la storia dell’autobomba esplosa in via D’Amelio (fin dove la conosce), ritagliando un ruolo per sé e smentendo i falsi «collaboratori di giustizia » che avevano portato a ben due sentenze definitive. Da queste rivelazioni si è risaliti al depistaggio organizzato 18 anni fa con i pentiti fasulli; per quell’episodio sono indagati tre poliziotti e un quarto—l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, responsabile di quelle indagini — lo sarebbe se non fosse morto qualche anno fa. Ora non può difendersi, né dare la sua versione di una ricostruzione alla quale partecipò direttamente e che adesso si sta sgretolando.

Quel che sembra certo, però, è che depistaggio ci fu. E un depistaggio deve avere un movente. Una ragione che necessariamente evoca i meccanismi della politica e del potere. Che cosa si voleva coprire con una verità fabbricata a tavolino? C’era solo l’ansia di arrivare a un risultato immediato nel momento in cui lo Stato appariva in ginocchio di fronte all’offensiva mafiosa, oppure ci fu qualche trama per nascondere patti o alleanze indicibili? È possibile che Borsellino fu eliminato con una tempistica addirittura controproducente per Cosa nostra, ma obbligata dall’opposizione del magistrato a quella «trattativa» tra Stato e mafia di cui pure si parla da diciott’anni e che adesso acquista contorni un po’ più concreti?

Questo è un ulteriore novità delle ultime indagini, oltre all’acclarato depistaggio sulla strage di via D’Amelio: la consistenza di contatti tra uomini delle istituzioni e dell’organizzazione mafiosa, intesa come trattativa, o qualcosa di simile. Il presidente dell’Antimafia Giuseppe Pisanu ne ha parlato nella sua relazione, prima ancora dell’audizione dei procuratori. Così come ha ricordato ipotetici coinvolgimenti con uomini dei servizi segreti (uno è indagato per concorso in strage, dopo un riconoscimento seppure traballante del pentito Spatuzza) e altre entità: «Un intreccio tra mafia, politica, grandi affari, poteri occulti, gruppi eversivi e pezzi deviati dello Stato che più volte, e non solo in quegli anni, abbiamo visto riemergere dalle viscere del Paese».

Così ha scritto Pisanu, basandosi su acquisizioni giudiziarie già note e su quanto sta emergendo dalle nuove indagini. Che purtroppo rischiano di concludersi fornendo più domande che risposte. Anche per via di una certa tendenza a dimenticare da parte dei politici dell’epoca, alcuni dei quali hanno pensato bene di riferire solo oggi particolari che possono aiutare a disegnare un quadro più rispondente alla realtà; come il fatto che Borsellino fosse stato informato, poco prima di morire, dei contatti fra i carabinieri del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, rivelato dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli nel 2009.

Sono tasselli dai quali potrà emergere una nuova verità giudiziaria, che difficilmente potrà essere esaustiva. Poi toccherà ancora alla politica.

Giovanni Bianconi

21 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_luglio_21/pentiti-fasulli-depistaggio-bianconi_6737aca8-9491-11df-91c3-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 24, 2010, 11:28:17 pm »

LE INCHIESTE SU MAFIA E STRAGI

Troppi segreti poche verità


Fra le molte novità introdotte nel 2007 dalla riforma dei servizi segreti, c’è la temporaneità del segreto di Stato: quindici anni più, eventualmente, altri quindici. Trenta al massimo, è stato stabilito. Ma ora una commissione governativa incaricata di studiare modifiche e migliorie suggerisce la possibilità di reiterare, dopo quella scadenza, la classificazione dei documenti da parte degli stessi servizi di sicurezza, secondo i loro canoni: segreto, segretissimo, riservato, riservatissimo. Che hanno altre regole e nuove decorrenze.

Non più segreto di Stato deciso dall’autorità politica, quindi, ma reintroduzione di un segreto di fatto; non opponibile al magistrato, ma a tutti gli altri sì. Se questa proposta verrà accolta, il messaggio lanciato dalla tanto attesa riforma sul segreto finalmente a tempo—nel Paese che ha una solida e sfortunata tradizione in materia di spionaggio deviato e trame oscure—finirà per diventare l’ennesima promessa non mantenuta. Un modo per far sospettare che si sia trovato l’inganno, dopo aver fatto la legge. Sappiamo che tecnicamente la materia è complessa, e che ci possono essere legittime ragioni per non divulgare un atto non più coperto dal massimo grado di riservatezza deciso dall’autorità politica. Tuttavia, com’è emerso nel dibattito avviato in seno al comitato parlamentare per la sicurezza, quello giunto dalla commissione governativa non sembra un segnale nella direzione della trasparenza. È invece proprio di trasparenza che avremmo bisogno. Anche in materia di segreti, per quanto paradossale possa sembrare. Il prossimo 2 agosto si celebrerà il trentesimo anniversario della strage alla stazione di Bologna (85 morti e 200 feriti), che arriva a un mese dal trentennale della strage di Ustica (81 persone abbattute mentre volavano a bordo di un Dc9); fatti sui quali la verità giudiziaria è molto parziale, oppure non c’è. Lì i segreti di Stato non c’entrano, almeno ufficialmente.

Però c’entrano i depistaggi e le bugie, la scarsa collaborazione di alcuni apparati alle indagini, insomma tutto l’armamentario divenuto abituale nell’Italia dei misteri irrisolti. Ed è inevitabile che se i segreti sono destinati ad allungarsi anziché cadere prima o poi, dubbi e sospetti su verità nascoste in qualche archivio riservato finiscano per moltiplicarsi. L’Italia è anche il Paese dei complotti immaginari, delle inchieste sempre aperte e dei processi infiniti: a Brescia è in corso il dibattimento di primo grado per la bomba assassina di piazza della Loggia nel 1974 (8 morti e 102 feriti); e in Sicilia si sono riaperte le indagini sulle stragi del ’92 che lambiscono uomini delle istituzioni, nelle quali i Servizi riformati hanno fornito (riferiscono gli stessi inquirenti) un’adeguata collaborazione. Forse sarebbe opportuno che questo tipo di sensibilità portasse a trovare soluzioni diverse per tutelare le esigenze di sicurezza quando scade un segreto di Stato, che non sia un semplice e burocratico sbarramento. Anche per non alimentare falsi miti su indicibili arcani custoditi negli archivi inaccessibili; se davvero non c’è niente da nascondere, dovrà pur arrivare il giorno in cui sia consentito guardarci dentro.

di Giovanni Bianconi

23 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_23/bianconi_troppisegreti_pocheverita_03baa8f4-9619-11df-852a-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 29, 2010, 11:49:15 am »

Il commento

La verità e le ombre

È possibile che un generale dei carabinieri in pensione, Mario Mori, lo stesso che nel 1993 guidò l'indagine che portò alla cattura del «capo dei capi» di Cosa nostra Totò Riina, si ritrovi indagato per concorso in associazione mafiosa? Sì, nell'Italia delle stragi e dell'ipotetica trattativa fra pezzi delle istituzioni e pezzi dell'organizzazione criminale è possibile. Ed è plausibile che un funzionario dei servizi segreti che nel '92 era in servizio a Palermo venga inquisito per concorso nell'eccidio di via D'Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino? Sì, nell'Italia dei misteri e dei «mandanti occulti» mai scoperti accade anche questo.

Un paradosso si sovrappone all'altro, e altri ancora se ne aggiungono se si considera che il principale teste d'accusa contro il generale Mori (già processato e assolto per la mancata perquisizione nel covo di Riina e attualmente imputato di favoreggiamento aggravato per l'ipotetica mancata cattura di Provenzano nel 1995) è diventato Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, a sua volta indagato per lo stesso reato, concorso esterno con Cosa nostra. Lo stesso Ciancimino jr è uno dei testi d'accusa contro il funzionario dei servizi, perché dice che l'ha visto a casa sua parlare con suo padre ed era uno dei collaboratori del fantomatico «signor Franco», mai identificato agente segreto di collegamento tra la mafia e lo Stato. Ma a chiamare per primo in causa l'uomo dei Servizi - seppure con molte cautele, giacché prima di riconoscerlo in fotografia e ieri di persona aveva già detto di conservare solo un vago ricordo-flash della persona vista 18 anni fa in un'unica occasione - è il pentito Gaspare Spatuzza, cioè l'ex «uomo d'onore» che ha fatto riaprire le indagini su via D'Amelio autoaccusandosi di aver confezionato l'autobomba, considerato attendibile dai magistrati di ben quattro Procure ma al quale la commissione governativa ha negato il programma di protezione.

Ciò che si verifica nell'Italia del 2010 assomiglia a un gioco di specchi dove le immagini si riflettono una sull'altra fino ad assumere forme irriconoscibili. Per venirne a capo si può ricordare che in questo Paese ci sono già stati poliziotti condannati per contiguità con la mafia (Bruno Contrada, per esempio, anche se lui s'è sempre proclamato innocente); niente di nuovo, insomma, se qualche vecchio metodo investigativo fondato su confidenze e soffiate quando non c'erano i pentiti, riconsiderato in una stagione di confini più netti si trasforma in reato. Si può anche immaginare - visti gli esiti di altri processi che hanno coinvolto alti ufficiali del Ros dei carabinieri, il reparto d'eccellenza a cui apparteneva Mori - che quella particolare articolazione dell'Arma sia ricorsa ad artifici per i quali ogni tanto capita di dover pagare il conto. Ma sarebbero considerazioni riduttive.

La posta in gioco con le indagini riaperte a Palermo e Caltanissetta (ma anche a Firenze, dove si cercano ancora tasselli di verità sulle stragi consumate in continente nel 1993) è molto più alta. Perché va al di là delle singole figure coinvolte, del generale Mori e dell'agente segreto. Se fosse vero anche solo un quarto di ciò che Massimo Ciancimino ha raccontato ai magistrati in due anni e mezzo di interrogatori (e già questa è una bizzarria, sembra che la sua testimonianza non debba finire mai) saremmo ben oltre i favori di qualche carabiniere che chiude un occhio per favorire il proprio informatore.

Il figlio dell'ex sindaco s'è dipinto come una sorta di maggiordomo dei rapporti tra Stato e mafia cominciati nel '92 e andati avanti per un decennio: ha raccontato che Bernardo Provenzano aveva un salvacondotto, che nel 2001 (quando era già diventato il primo latitante nella lista dei ricercati) girava indisturbato per il centro di Roma, bussando nella casa di Vito Ciancimino a due passi da piazza di Spagna; ha detto di aver saputo che in quell'estate di bombe e sangue in cui morirono prima Falcone e poi Borsellino, dietro i tentativi di raggiungere un accordo prima con Riina e poi con Provenzano per fermare le stragi c'erano fior di ministri, non solo un paio di ufficiali dell'Arma; ha spiegato che sugli equilibri nati dal presunto patto tra Stato e mafia è avvenuto il trapasso politico dalla Prima alla Seconda repubblica (cosiddette).

A questo quadro, finora, sono stati trovati limitati riscontri che di certo non consentono di rilasciare la patente di credibilità a questa strana figura di testimone (peraltro condannato in secondo grado a tre anni e quattro mesi per riciclaggio), ma nemmeno permettono di affibbiargli definitivamente il marchio del bugiardo e abbandonarlo al suo destino di ex rampollo in cerca di ribalta e pubblicità. Tra i tanti magistrati che si sono occupati delle sue fluviali dichiarazioni (a volte contraddittorie l'una dell'altra) c'è chi è propenso a dargli fiducia e chi è più scettico, ma nessuno finora s'è sentito di depennarlo dall'elenco delle fonti di prova nelle sue inchieste. Perché lo sfondo nel quale s'è inserito questo imputato-indagato-testimone è tutt'altro che limpido e tranquillizzante.

Che dietro le stragi del '92, e in particolare quella di via D'Amelio, ci fossero mani diverse in aggiunta a quelle dei mafiosi che confezionarono gli ordigni è un'ipotesi avanzata sin dai primi atti d'indagine. E nelle successive sentenze i giudici hanno scritto che la verità non poteva fermarsi agli esecutori materiali. Le inquietanti rivelazioni di un altro ex ufficiale del Ros (l'ex colonnello Michele Riccio, a sua volta coinvolto e condannato in un procedimento che non ha a che fare con le indagini su Cosa Nostra) sull'ipotetico mancato arresto di Provenzano nel 1995 sono precedenti alle deposizioni di Ciancimino jr, così come le ombre sulla mancata perquisizione al covo di Riina che nemmeno la sentenza di assoluzione per Mori ha fugato del tutto. I racconti del figlio dell'ex sindaco sulla «trattativa» sono arrivati dopo, finendo per diventare un possibile movente di comportamenti poco chiari. E qualche riscontro «esterno» alle dichiarazioni del giovane Ciancimino è stato trovato (dai ricordi di Luciano Violante in giù).

Ecco perché anche le ricostruzioni più traballanti o confuse vengono ancora tenute in considerazione e valutate, e hanno portato a una nuova ipotesi di reato contro il generale Mori. Ma per adesso restano quello che sono: dichiarazioni a volte precise, a volte contraddittorie e a volte troppo generiche, difficili da controllare anche se non fossero bugie, invenzioni o - peggio - versioni costruite a tavolino da chissà chi, di cui il testimone ora indagato sarebbe solo il ventriloquo.

Per Spatuzza, che in realtà ha reso testimonianze molto più lineari, almeno quelle che si conoscono, vale lo stesso discorso: s'è autoaccusato di una strage che non gli era mai stata imputata, e dopo la sua confessione s'è scoperto che le indagini del '92-94 sono state inquinate da falsi pentiti. Con un simile biglietto da visita - che provocherà la riapertura di processi già chiusi in Cassazione, caso rarissimo nella storia giudiziaria d'Italia - come si possono non vagliare anche le altre cose che dice? Che ci fosse uno sconosciuto non mafioso nel garage dove la Fiat 126 è stata imbottita di tritolo, Spatuzza l'ha detto nei suoi primi interrogatori. Dopo, sfogliando album pieni di fotografie d'epoca, ha indicato un funzionario del Sisde (oggi Aisi), specificando subito che aveva un ricordo labilissimo di quella persona vista per pochi istanti e poi mai più, né prima né dopo.

In un simile quadro, confuso e paradossale, non è semplice muoversi e tenere comportamenti immuni dal rischio di sollevare polveroni e infangare persone che non lo meritano. L'unica possibilità è quella di lasciare alla magistratura il tempo di svolgere tutti gli accertamenti: avendo cura di farli bene, in tempi rapidi e senza pregiudizi. E tenendo sempre presente che un'indagine e un'ipotesi di reato (tanto più se sollevata per poter procedere a inevitabili accertamenti) non sono una condanna. Per cui il generale e il funzionario dei Servizi hanno diritto di continuare ad essere considerati quello che sono stati finora: uomini di istituzioni contrapposte alla mafia, non affiliati o complici occulti, o addirittura stragisti. Fino alla prova contraria di cui però gli inquirenti hanno il dovere di verificare l'eventuale esistenza, visto che qualcuno ne ha parlato nell'Italia dei misteri e dei segreti mai svelati.

Giovanni Bianconi

28 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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