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Autore Discussione: Con questo governo si rischia la Democrazia?  (Letto 4479 volte)
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« inserito:: Ottobre 01, 2008, 04:52:10 pm »

C’era una volta il Parlamento


Roberto Zaccaria


Ormai il Governo si comporta come se il Parlamento dovesse semplicemente ratificare le proprie decisioni. Considerazioni analoghe sono state svolte nei giorni scorsi da Pietro Spataro su questo giornale ma data la gravità dei fatti è il caso di ritornare sull’argomento.

C’è soprattutto un’emergenza decreti che riguarda la quantità, il modo in cui sono “gestiti” in Parlamento ed il loro contenuto. Di tutti quelli emanati, ne sono stati convertiti dodici fino a questo momento. I cinque del Governo Prodi sono stati largamente stravolti con disposizioni “ad personam”, come l’emendamento “salva Rete Quattro” e i benefici alle concessionarie autostradali. Molti degli altri sono stati gestiti come “vuoti a perdere” per effettuare spregiudicati trapianti in Parlamento, aggirando le prerogative del Capo dello Stato e in disprezzo palese dei cittadini che li credevano tuttora in vigore. Uno dei dodici (il cosiddetto “decreto Tremonti”) è stato utilizzato come contenitore della manovra finanziaria, con un ulteriore schiaffo al Parlamento che ha ritrovato vizi antichi (voti di fiducia e maxiemendamenti) ma che non aveva mai visto la finanziaria approvata per decreto legge.

Ma la ripresa autunnale rischia di peggiorare il quadro complessivo perché oltre alla sessione di bilancio con il rituale, ormai svuotato della legge finanziaria e di quella di bilancio, annuncia già altri sette decreti legge: quattro già emanati (Alitalia, Scuola, Trasferimento magistrati, e Georgia) ed altri tre deliberati nella seduta del 23 settembre del Consiglio dei ministri: Sicurezza ed immigrazione (in relazione alla tragica vicenda di Castelvolturno), Missioni militari e Adempimenti comunitari. Un quadro che comprime in maniera assoluta le iniziative legislative ordinarie e soprattutto quelle dell’opposizione che i regolamenti garantirebbero.

Ma il provvedimento sul quale è necessario richiamare l’attenzione in questo panorama in cui il Governo appare come unico e incontrastato protagonista parlamentare, non è tanto il Lodo Alfano, passato in una decina di giorni nelle due Camere, con l’incredibile tolleranza dei loro Presidenti, ed ora giustamente approdato al giudizio della Corte costituzionale, ma un altro disegno di legge, sempre del Governo, che è attualmente all’esame dell’Aula.

Il titolo è accattivante. Parla di semplificazione, di competitività e di un sacco di altri argomenti, che interessano praticamente tutte le quattordici commissioni parlamentari. Oltre una settantina di articoli. Ma l’elemento più singolare è costituito dal fatto che all’interno vi sono una dozzina di disposizioni, estremamente complesse che incidono sulla struttura del codice di procedura civile e cambiano radicalmente il processo civile.

Sarebbe stato logico pensare che il provvedimento fosse “spacchettato”, diviso per materia tra le varie commissioni ed esaminato separatamente per l’Aula, come vuole l’art.72 della Costituzione.

Niente di tutto questo, dato che si tratta di un “collegato alla manovra finanziaria” e potendo il Governo chiederne l’esame a data certa, si decide, con l’avallo del Presidente, di andare comunque in Aula in un paio di settimane e si concentra quindi l’esame dell’intero provvedimento (salvo un piccolo stralcio) nelle due commissioni a competenza più ampia: Bilancio e Affari costituzionali.

Inizia così un grottesco procedimento parlamentare che porta due commissioni decisamente incompetenti su molti argomenti trattati, ma soprattutto in tema di giustizia ad esaminare a tappe forzate e in clima di estrema confusione tra emendamenti torrenziali e sub emendamenti la cosiddetta riforma del processo civile.

Il ministro Alfano, che naturalmente non si è fatto vedere in commissione durante l’intero dibattito parlamentare, dichiara pomposamente alle agenzie di stampa che il Parlamento voterà tra una decina di giorni un’ambiziosa riforma per semplificare il processo civile. L’imbarazzo del Governo è talmente evidente che i relatori di maggioranza hanno, con atteggiamento del tutto insolito, modificato addirittura il titolo del provvedimento, al fine di far quantomeno comparire la dicitura “processo civile”.

Non credo che il testo proposto semplificherà in maniera appropriata il processo civile (abbiamo presentato infatti numerosi emendamenti alternativi); sono, invece, certo che con questa procedura si è già determinata un’intollerabile semplificazione del processo parlamentare.

Quando il dibattito parlamentare è sottratto alle sedi competenti, quando si rinuncia, attraverso l’uso disordinato delle procedure, ad un’effettiva pubblicità dei lavori parlamentari ed a qualsiasi rapporto con l’opinione pubblica e quindi anche al dialogo con gli esperti esterni, il Parlamento diventa un inutile passaggio formale e quasi burocratico.

Semplificare il Parlamento, significa purtroppo semplificare la democrazia e questa non è mai stata una buona ricetta. Ci attendiamo che i Presidenti delle Camere esercitino orgogliosamente le loro prerogative. Gli strumenti regolamentari ci sono abbondantemente.

Una volta si cercava un modello di “Governo forte, in un Parlamento forte”. Non credo che interessi né a Fini né a Schifani essere Presidenti di un Parlamento inesistente.

Vice Presidente Commissione Affari Costituzionali Camera dei Deputati



Pubblicato il: 01.10.08
Modificato il: 01.10.08 alle ore 11.10   
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 01, 2008, 04:57:50 pm »

Il governo interviene per sanare il buco dei conti comunali.

Il procuratore: l'ombra della mafia

Grandi manovre per recuperare altri fondi: si parla di aree agricole rese edificabili

Il Cavaliere salva Catania con un regalo da 140 milioni

dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI
 


CATANIA - Il silenzio cupo della più grande città della Sicilia che è a oriente stasera sarà rotto da una strepitosa e strepitante "muschitteria". Si intende per "muschitteria" ? in stretto dialetto catanese ? lo scoppio dei petardi che prelude ai fuochi di artificio. Con 140 milioni di euro gentilmente donati da Berlusconi qui è come se quest'anno fosse arrivata un'altra volta Sant'Agata.

Per un mese o due Catania l'hanno salvata. No, Catania non era sull'orlo del crac: Catania era già fallita. Dopo mesi di luci spente persino sulla via Etnea, dopo i vigili appiedati per la benzina che era finita, dopo i quartieri in putrefazione per quelle montagne di rifiuti che nessuno raccoglieva più, un primo finanziamento (a fondo perduto) fa respirare per un po' i catanesi e grazia per il momento i suoi amministratori spensierati e spendaccioni. Pieni di debiti, inseguiti dai creditori. Autisti, librai, trasportatori, giornalai, ristoratori, albergatori, maestre e pure ballerine brasiliane.

E' stato proprio un bel regalo. Se lo aspettavano e non se lo aspettavano, avevano annusato che il ministro Tremonti aveva puntato i piedi per non farglielo avere, però sotto sotto tutti lo sapevano che il Presidente del consiglio in qualche modo avrebbe "perdonato" il suo farmacologo personale e quei proconsoli catanesi che fra sperperi e organici gonfiati avevano affossato la loro città. Il comunicato ufficiale come al solito è stato secco: "Il comitato interministeriale per la programmazione economica ha disposto uno stanziamento di 140 milioni per far fronte all'emergenza finanziaria dell'Ente". Centoquaranta. Per sistemare i conti ne servirebbero secondo alcuni 300 ancora, secondo altri ce ne vorrebbero almeno 700 e forse di più.

E' un supercrac. Se mai pioveranno un'altra volta finanziamenti come manna dal cielo, allora - e soltanto allora - al Comune di Catania potranno ricoprire la voragine e dimenticare come dallo splendore la città è stata risucchiata in un gorgo.
Non sono spiccoli ma basteranno per poco tempo e per poche cose.

Per ora potranno partire gli accrediti in banca per i 4500 dipendenti comunali, per ora il regalo di Roma tapperà qualche buco e onorerà qualche "pagherò". Il vero mistero è cosa accadrà alla vigilia di Natale. A Catania attendevano un'"anticipazione" di 70 milioni e l'omaggio si è rivelato doppio del previsto, ma il declino della città è già segnato. Per i soldi che servono e che ancora non ci sono, per le guerre intestine che si sono scatenate intorno alla bancarotta, per le voci che proprio in queste ore si rincorrono sulle grandi manovre nel tentativo di recuperare altro denaro. Per non finire a pezzi.

Si parla di speculazioni edilizie, di trasformare con un colpo di bacchetta magica aree agricole in edificabili, qualcuno dice che qualcun altro stia progettando un altro grande "sacco" di Catania.

Altro che la Playa come Copacabana, la famosa spiaggia catanese che l'ex sindaco Umberto Scapagnini - "Sciampagnino" lo chiamavano i catanesi - voleva far diventare una piccola grande colonia carioca. Altro che piste da sci nella discesa di Piazza Stesicoro.

A Catania pochi minuti prima del cadeau di Berlusconi i bambini pagavano ancora 4 euro per mangiare all'asilo, all'economato del Comune non erano partiti i mandati di pagamento per lo stipendio di settembre, i "cassamortari" - quelli delle pompe funebri - non consegnavano gratis le loro bare al cimitero. Tutto il resto è andato come doveva andare.

La prima dichiarazione alla notizia del dono per Catania è stata quella del suo sindaco, il senatore del Pdl Raffaele Stancanelli: "E' un successo per la nostra città. Con questi fondi si potranno chiudere i disavanzi fino al 2006. Ma bisognerà cominciare a rimboccarsi le maniche e a lavorare tutti insieme con grande rigore.
Ringrazio tutti per questo risultato ottenuto, anche quelli che a questa soluzione non credevano ma alla fine si sono accodati".

La seconda dichiarazione è stata quella del presidente della Provincia Giuseppe Castiglione: "L'impegno del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è stato mantenuto in tempi brevi. Ma l'intervento del Cipe non risolve tutti i problemi finanziari del Comune". Poi però Castiglione lancia la sua freccia velenosa: "Questo intervento del Cipe, che sottrae fondi agli investimenti, deve rimanere un intervento assolutamente straordinario e non può diventare la regola o una speranza per alcuni amministratori pubblici per ripianare situazioni d'emergenza". Segnali di guerra.

Fra quello (Stancanelli, in quota An) che alla scadenza delle candidature doveva finire alla Provincia e quell'altro (Castiglione, in quota Forza Italia) che era stato designato sindaco. Dalla notte all'alba uno si è ritrovato al posto dell'altro. E da lì è iniziata una ferocissima e sotterranea battaglia quotidiana su come spartirsi Catania e i suoi debiti presenti passati futuri.

Indovinate chi era nascosto alle spalle di tutti? Sì, proprio lui: il governatore Raffaele Lombardo. Prima di insediarsi a Palermo - non si mai, la lontananza - ha voluto imporre a tutti i costi in Comune (dove di Scapagnini è stato vice sindaco) un suo uomo.
Su quello che c'era ancora da "dividersi" in quegli anni a Catania la verità è affiorata fino in fondo soltanto dopo. Al Comune e nelle "partecipate".

Solo l'Amt, l'azienda trasporti, ha accumulato un deficit di 157 milioni di euro. Sprechi, assunzioni pilotate, spese folli per consulenti, telefonini, viaggi. La Corte dei Conti a giugno ha denunciato tutte le "gravi irregolarità", la "carente attendibilità delle scritture contabili", l'"insufficienza delle risorse destinate ai bilanci.. ".

Un buco sempre più profondo, anno dopo anno dal 2003 in poi. Con un'inchiesta della magistratura che ha già coinvolto una quarantina di personaggi, fra i quali gli ex assessori al Bilancio e e naturalmente l'ex sindaco Scapagnini. E' un'inchiesta che va avanti. "Certo che stiamo indagando ancora sul buco in bilancio al Comune", dice il procuratore capo della repubblica di Catania Vincenzo D'Agata.

E poi scaglia all'improvviso un sasso: "E' un'inchiesta lunga e complessa e io spero che non ci siano connessioni con la criminalità organizzata".

E' solo un sospetto.

E' solo un'ombra mafiosa che si allunga anche sul fallimento di Catania.

(1 ottobre 2008)


da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 01, 2008, 05:32:53 pm »

LA LETTERA

Perché ho timori per la democrazia



Caro direttore,

nel suo editoriale di ieri Pierluigi Battista descrive la preoccupazione e l'allarme che avevo manifestato nell'intervista al Corriere della Sera di domenica come una «vecchia narrazione», come la ripresa di uno scontro muro contro muro in cui viene messa in forse la legittimità democratica dell'avversario. Credo che questa analisi non sia corretta, per due motivi che proverò a spiegare.

Il primo riguarda il rapporto impostato dalla maggioranza e da Berlusconi per primo con l'opposizione, il secondo la natura e la portata del ragionamento sui rischi di un impoverimento della democrazia che ho avviato ormai da tempo, che era al centro del mio discorso al Lingotto e poi a Sinalunga e dell'intervista al suo giornale.

Ha certamente ragione Battista a dire che attorno al tema del rapporto maggioranza- opposizione c'è stato un «gigantesco equivoco»: quello che i giornali hanno stucchevolmente chiamato dialogo, ovvero il confronto con il governo sulle riforme istituzionali necessarie al Paese, è diventato una «autocensura moderata dell'opposizione, la sordina sulle critiche anche veementi all'azione di governo ». Uno schema impossibile e irrealistico, prima di tutto per la vita stessa della democrazia, che però è stato adottato per primo proprio da Berlusconi, che è sembrato aspettarsi una opposizione non dialogante ma inesistente. In cinque mesi di vita il Parlamento è stato chiamato a ratificare una lunga serie di provvedimenti, tutti o quasi decreti legge, tutti o quasi votati sull'onda della fiducia. Male sui contenuti (che si tratti di scuola o di sicurezza, di giustizia o di conti pubblici), male nel metodo che è poi sostanza democratica. Su questo insieme a Casini ho inviato una lettera al presidente della Camera per sottolineare come il Parlamento fosse messo nella condizione di non discutere nulla e sostanzialmente espropriato.

Su tutto questo, sui concreti contenuti dei provvedimenti del governo Berlusconi e sui rischi di una vera decadenza della democrazia, il Pd ha promosso la sua manifestazione del 25 ottobre a Roma. È, questa, una delegittimazione dell' avversario? Potrei ribattere ricordando come il 2 dicembre del 2006, parlando su un palco in cui campeggiava la scritta «Contro il regime, per la libertà», Silvio Berlusconi affermava di rappresentare la maggioranza dell'Italia in lotta contro l'oppressione «imposta da un governo di minoranza».

Ma non voglio andare così indietro per comprendere chi davvero è abituato a mettere in discussione la legittimità democratica dell'avversario.
Mi limito a partire dallo scorso giugno: mentre alle Camere arrivava la norma blocca-processi i magistrati erano definiti metastasi della democrazia e il leader dell'opposizione diventava un «fallito» che dovrebbe «ritirarsi dalla politica». Ed è di qualche giorno fa, nel pieno della trattativa Alitalia, la battuta insultante di un «Veltroni inesistente », spesa per conquistare titoloni sui giornali e smentita solo giorni più tardi. In mezzo, un mare di insulti di tutti gli uomini del Pdl. Chi, se non Berlusconi, ha definito la giudice Gandus suo «nemico politico»? Chi minaccia la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul lodo Alfano? Chi parla del governo come di un «consiglio d'amministrazione »? Chi durante una trattativa offende il sindacato con i suoi prendere o lasciare e si esprime nei confronti di una forza dell'opposizione come l'Idv definendola nemica della democrazia e della libertà? Una litania, questa sì, delegittimante per l'opposizione e per le istituzioni.

È per tutto questo che ho sottolineato quanto sia grande la differenza tra governare pro tempore, come avviene in democrazia, e invece sentirsi «al potere».
E a proposito di narrazione, quando Berlusconi dopo essersi dichiarato disposto al confronto sulle riforme strappa la tela di ogni possibile convergenza e riprende come sempre ad aggredire ed insultare i suoi avversari non ripropone, questa sì, la narrazione antica di cui gli italiani si sono stancati?
Peraltro le mie riflessioni di domenica, sulle quali più del 70% dei lettori del Corriere.it si è dichiarato d'accordo, erano un tentativo di portare lo sguardo un po' più in là rispetto a quanto sta avvenendo nel nostro Paese e alle polemiche contingenti. Non ho interesse, e non ne ho nemmeno la presunzione, ad ascrivere nessuno nella categoria dei «nemici ontologici» della democrazia. A preoccuparmi sono quegli stessi fenomeni di fondo che attraversano le società occidentali e che ovunque richiamano l'attenzione di tanti commentatori e uomini politici.

Basti pensare a come in Francia una rivista cattolica del prestigio di Esprit abbia dedicato un intero numero agli attuali rischi di «regressione democratica », alla possibile fine della democrazia come la conosciamo in Occidente.

A preoccuparmi è questo, è una realtà che si sta incaricandodi dimostrare che nel mondo il mercato può esistere anche senza democrazia o in presenza di democrazie deboli. È la realtà di una diffusa crisi democratica, di pericolose pulsioni xenofobe e razziste che ormai trovano aperta espressione e rappresentanza politica, come il voto austriaco ha appena dimostrato. È la realtà di un generalizzato bisogno di decisione che si manifesta con un insieme di semplificazione mediatica dei problemi, di fastidio per ogni complessità, di richiamo alle paure più profonde delle persone, di tendenze all'investitura plebiscitaria della leadership, di scavalcamento o marginalizzazione delle istituzioni, di noncuranza per la patologica concentrazione del potere, di irrisoria facilità nell'oscillare tra il ruolo di profeti della deregulation e quello di paladini dell'intervento dello Stato. Di tutti questi fenomeni il nostro Paese, anche per l'evidente propensione del Presidente del Consiglio ad esserne l'incarnazione, è purtroppo un evidente esempio.

Non vecchie narrazioni e residui del passato, insomma. Noi siamo l'opposizione dell'innovazione e della democrazia che decide.
Abbiamo la preoccupazione per la complessità dei problemi presenti e sentiamo la responsabilità di cercare risposte nuove per difendere e rafforzare la nostra democrazia, per rendere il nostro Paese più moderno.

Walter Veltroni
01 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 01, 2008, 05:37:23 pm »

VELTRONI E IL PUTINISMO
La vecchia narrazione


di Pierluigi Battista


Un partito, oltre che dai suoi programmi e dalle sue linee di condotta, è necessariamente tenuto insieme da una «narrazione», da una chiave narrativa ed emotiva che legge simbolicamente il mondo e modella il lessico del suo popolo, ravvivandone il senso di appartenenza. La denuncia di Veltroni della deriva autoritario- putiniana in cui starebbe sprofondando la maggioranza di governo dimostra che se sul piano dei programmi e dei valori il Partito democratico ha portato a compimento una coraggiosa frattura con il passato, sul piano della «narrazione» appare invece ancora prigioniero degli schemi, degli automatismi mentali e del discorso retorico dell’oramai defunta Prima Repubblica.

Riaffiora il disegno narrativo che prevede la descrizione dell’avversario come nemico ontologico della democrazia e di conseguenza anima l’appello «unitario» per fronteggiare il pericolo incombente. Contro Putin non si impone forse la mobilitazione straordinaria e la messa tra parentesi di dissensi e diversità? Sembrava che questo schema narrativo finalmente si fosse frantumato con le elezioni, e prima ancora con la scelta dello stesso Veltroni di sottrarsi all’imperativo dell’ammucchiata eterogenea cementata solo da un corale «contro », anziché da un progetto condiviso. Un gigantesco equivoco ha preteso che il nuovo schema dovesse necessariamente prevedere l’autocensura moderata dell’opposizione, la sordina sulle critiche anche veementi all’azione del governo. Invece no, è assolutamente normale che l’opposizione demolisca, eventualmente, la politica economica, le scelte sull’immigrazione, i provvedimenti sulla scuola, gli orientamenti sulla giustizia del governo.

È ciò che fanno tutte le opposizioni del mondo democratico, che talvolta si confrontano con la maggioranza, e molto più spesso ne contrastano duramente la politica. Ma se si cede alla tentazione di alimentare il sospetto sulla stessa lealtà democratica dell’avversario, se tra la maggioranza e l’opposizione si costruisce un muro invalicabile che tende a dividere inappellabilmente il campo della democrazia da quello dell’antidemocrazia, allora si finisce per svuotare il principio stesso della reciproca legittimazione tra le parti politiche che competono alla guida dell’Italia. Crede davvero il leader del Pd che lo stesso avversario con cui solo pochi mesi fa si chiedeva un patto per le riforme istituzionali più urgenti, che lo stesso Berlusconi con cui proprio in questi giorni D’Alema (ma la coincidenza cronologica è davvero casuale: la conversazione con Bruno Vespa è di alcuni mesi fa) ha avviato una discussione sul modello presidenzialista, che dunque proprio l’interlocutore di ieri si sia trasformato nell’odierno rischio democratico?

L’ipotesi più verosimile è che Veltroni, dopo aver imboccato con successo (anche se accolto con le reazioni sgarbate del capo del governo) la via del «confronto» nelle ultime fasi della vicenda Alitalia, abbia in mente la scadenza del 25 ottobre, in cui il popolo democratico manifesterà in piazza contro il governo Berlusconi. Conoscendo il suo popolo e le sue pulsioni, il leader del Pd sa quanto la «narrazione » della democrazia in pericolo, costruita in un quindicennio dominato dal vecchio schema, abbia ancora un’influenza pervasiva nella mentalità e nell’emotività diffusa nella sinistra. Un residuo del passato.

30 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 01, 2008, 10:39:08 pm »

1/10/2008
 
Attenti a chi vuole addomesticare la giustizia
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

Dopo alcune settimane di silenzio la politica ha ricominciato a parlare di giustizia. Ancora una volta è stato Berlusconi a lanciare il sasso: la riforma dev’essere incisiva. Essa dovrà, anzi, tanto più stravolgere gli assetti attuali, quanto più dovesse apparire probabile l'accoglimento dell'eccezione d'illegittimità costituzionale sollevata nei confronti del lodo Alfano o se, a Milano, il processo per corruzione contro il premier dovesse proseguire contro l'imputato non immune accusato insieme a lui.

Che cosa farà, a questo punto, il ministro Alfano? Ad inizio settembre aveva dichiarato che obiettivo primario della riforma sarebbe stato l’interesse del cittadino: dunque, nessuna fretta per eventuali modifiche costituzionali, che interessano principalmente gli equilibri fra i poteri dello Stato, ma priorità per le riforme della giustizia civile e penale e dell’organizzazione giudiziaria, finalizzate a realizzare una giurisdizione rapida ed efficiente. Allora mi ero sforzato di credergli. Smentendo clamorosamente se stesso, in questi giorni il Guardasigilli ha annunciato che invece, guarda caso, anche la riforma delle norme costituzionali costituisce un’urgenza.

Nell’attesa di conoscere i dettagli dei progetti, è comunque possibile prospettare già ora i nodi che dovranno essere affrontati. E sono nodi non da poco. Mi limiterò ad accennare a due fra i principali: riforma del Csm, obbligatorietà dell’azione penale.

In materia di Csm da tempo la maggioranza sta meditando una riforma stravolgente.

Se si diminuisce la consistenza dei togati e si aumentano i laici, se si riesce a spaccare il Consiglio, sdoppiandolo in istituzioni separate per i giudici e per i pubblici ministeri, se si consegna addirittura uno dei due consigli alla direzione del governo, se si affida la disciplina dei magistrati ad un’istituzione autonoma a prevalenza non togata, i giochi sono fatti: il potere dei magistrati risulta indebolito in modo irreparabile, aumenta la capacità della politica d’interferire sulle decisioni che concernono l’ordine giudiziario. Se, poi, si decidesse di eliminare altresì la presidenza del Capo dello Stato, il prestigio dell’organo subirebbe un vulnus decisivo.

Si tratta di una scelta realizzabile con legge costituzionale, che, per certi aspetti, può trovare una giustificazione nel modo non sempre commendevole con il quale la componente togata, dominata dalle correnti, ha gestito in passato i suoi poteri. Bastano, tuttavia, queste disfunzioni, comunque rimediabili, a giustificare anche soltanto l’alterazione della composizione del Consiglio? Già modificando i rapporti di forza al suo interno si rischia, in realtà, di trasformare l’organo di autogoverno, che è stato concepito per assicurare all’ordine giudiziario massima autonomia, in un’istituzione in larga misura eterodiretta dalla politica.

Il colpo di grazia sarebbe costituito, comunque, dall’eliminazione della presidenza del Capo dello Stato, che è, di per sé, garanzia di autorevolezza ed indipendenza e dall’introduzione in un settore del Consiglio, quello dei pubblici ministeri, della gestione diretta del Guardasigilli. Quest’ultima novità sarebbe esiziale per la separazione dei poteri e per lo Stato di diritto.

Altrettanto scivoloso è il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non è chiaro che cosa uscirà davvero dal dibattito in corso. Le ipotesi sul tappeto sono diverse: abolizione del principio costituzionale; sua conservazione, ma introduzione di una programmazione annuale dei reati da perseguire; sua conservazione, ma modificazione dei presupposti dell’esercizio dell’azione penale come conseguenza di una profonda revisione dei poteri del pubblico ministero e della polizia giudiziaria nella conduzione delle inchieste.

Auspico che nessuno vorrà davvero abrogare il principio di obbligatorietà, che nel nostro contesto politico e sociale rimane garanzia irrinunciabile di eguaglianza. Ho qualche perplessità sulla programmazione delle priorità, che rischia di creare pericolose sacche d’impunità. Ma, soprattutto, mi preoccupa la proposta avanzata in modo bipartisan da due esponenti politici di schieramenti apparentemente contrapposti, che stravolge le attuali competenze del pubblico ministero e della polizia nella conduzione delle indagini penali. Com’è noto, si ipotizza di sottrarre al pubblico ministero la loro conduzione e di rendere la polizia autonoma nella loro gestione.

Qui, davvero, il pericolo è insidioso. Se non si dovessero fissare rigorosi confini all’autonomia delle forze dell’ordine, si rischierebbe di vanificare, nei fatti, lo stesso principio di obbligatorietà: il pubblico ministero potrebbe non trovarsi mai nella condizione di valutare se esistano o no i presupposti per l’esercizio dell’azione penale, o, ancor prima, di controllare se le indagini si stiano svolgendo con la necessaria celerità o completezza. Il che appare tanto più preoccupante se si considera che la polizia dipende dall’esecutivo, il quale potrebbe pertanto, se del caso, interferire nelle inchieste. A tacer d’altro c’è dunque, pure a questo riguardo, un rischio forte d’illegittimità su cui la Consulta potrebbe essere chiamata a pronunciarsi.

Chissà se, a questo punto, a qualcuno verrà in mente di abbozzare una riforma della stessa Corte Costituzionale, già sotto pressione a causa del lodo Alfano, al fine di renderla meno indipendente o quantomeno più domestica con il potere politico. Sarebbe una tragedia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 02, 2008, 01:48:41 pm »

Berlusconi alle Camere: «Imporrò molti decreti»


Il governo intanto continua a snobbare il Parlamento. Il premier Silvio Berlusconi intende spingere al massimo sull'utilizzo dei decreti legge. Lo sottolinea rispondendo ad una specifica domanda nel corso della conferenza stampa a Napoli. «Credo che il premier debba utilizzare quello strumento che sono i decreti legge - dice, portando come esempio quello sulla prostituzione - soprattutto quando accade che se si informa di un disegno di legge, non si sa neppure se sia stato assegnato ad una commissione. Credo che in questi casi si debba intervenire con un decreto, imponendo (testuale, Ndr) al Parlamento di occuparsene. Procederemo il più possibile in questo modo in quelle situazioni in cui lo riteniamo urgente».

Gli risponde il capogruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro: «Berlusconi conferma di avere una concezione primitiva della democrazia e autoritaria del governare. Ascoltarlo mentre minaccia di governare solo attraverso la decretazione d'urgenza e sentirlo considerare i lavori parlamentari troppo farraginosi dovrebbe convincere anche i più scettici che quello che stiamo denunciando sulla crisi democratica dell'era Berlusconi è drammaticamente vero. Se ne deduce - aggiunge - che nella sua concezione della democrazia il Parlamento è un inutile inciampo. Come si sentono i parlamentari del Pdl nell'essere silenti e obbedienti "yes man" dei voleri del capo?». «Se considera necessario un decreto per i graffiti sui muri cosa arriverà a fare per la riforma della giustizia?» si chiede ancora Anna Finocchiaro che ricorda «al premier "dimezzato" che sia i Presidenti di Camera e Senato, sia tutti i presidenti delle Commissioni parlamentari appartengono alla maggioranza e che l'opposizione a Palazzo Madama, ancora una volta qualche giorno fa, ha chiesto una diversa organizzazione dei lavori per consentire al Senato di lavorare di più e meglio». «Il nostro interesse è che funzioni il Parlamento. Attendiamo una risposta» conclude l'esponente del Pd.

Anche il ministro Tremonti ha ben poca considerazione del Parlamento. «Il ministro dell'Economia non trova il tempo, ha un'agenda così fitta che non può consentirsi quello che in tutto il mondo, tutti i governi stanno facendo, ha troppi impegni per cui non può venire in Parlamento a rassicurare i cittadini sulla crisi internazionale». È l'attacco del presidente del deputati del Pd Antonello Soro, al termine della riunione dei capigruppo di Montecitorio dalla quale è emerso che il ministro dell'Economia Giulio Tremonti sarà giovedì in Aula a illustrare la finanziaria e non anche a parlare della crisi economica internazionale. «Pensavamo - afferma Soro - che fosse interesse del governo utilizzare la nostra richiesta di sentire il ministro per informare il Parlamento e i cittadini, invece nella sua agenda non c'è spazio, evidentemente lo considera un argomento residuale....».

Stessa linea dall'Udc, con il vicepresidente dei deputati Michele Vietti. «Ci è stata proposta - attacca il centrista - la soluzione dalle 8:30 alle 10 per l'informativa sulla crisi dei mutui, la Finanziaria e la nota di aggiustamento, un'ipotesi francamente offensiva per il Parlamento». «A noi - conclude - pareva un gesto di collaborazione con il governo quello di offrire una occasione per venire in Parlamento a rassicurare i cittadini, se a questo ci rispondono che il ministro alle 10 ha un altro appuntamento, mi sembra francamente una situazione imbarazzante per il governo. L'opposizione ha detto che non avrebbe insistito e ora il governo si prende la responsabilità di non venire nella sede appropriata a riferire della situazione».

Governo battuto a Montecitorio sulla questione del "filtro" in Cassazione. La Camera dei deputati ha approvato un emendamento presentato dal Pd che dichiara inammissibile il ricorso in Cassazione contro una sentenza d'appello, che confermi il giudizio di primo grado.

La seduta è stata sospesa su richiesta della relatrice, Bernini (Pdl).

Per il ministro ombra del Pd, Lanfranco Tenaglia «è stata punita la protervia del Governo che è andato sotto su emendamento tutto fondato sulla nostra costruzione. L'arroganza non paga mai».

Per Michele Vietti, vicepresidente dei deputati Udc, «la vittoria è tutta politica. Di fronte ad un governo che ha rifiutato qualunque apertura. Sono andati sotto a causa delle assenze. Chi fa la voce grossa, deve avere anche i numeri...».

Per il sottosegretario alla Giustizia Elisabetta Alberti Casellati «l'emendamento che è stato accolto dall'Aula della Camera non stravolge l'impianto della norma, anzi aggiunge un'ulteriore ipotesi di filtro in Cassazione».


Pubblicato il: 01.10.08
Modificato il: 02.10.08 alle ore 8.40   
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