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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 99891 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Ottobre 15, 2011, 05:29:13 pm »

L'EDITORIALE

Fiducia mutilata

di EZIO MAURO

DUNQUE il governo è salvo. Ma è politicamente vivo? Questo aveva chiesto Napolitano a Berlusconi dopo il voto negativo sul rendiconto di bilancio: i numeri sono fondamentali, ma davanti all'evidenza di litigi continui nell'esecutivo, di tensioni nella maggioranza, di indecisioni patenti su misure fondamentali, il Premier è in condizione di garantire una tenuta politica del suo governo?

Berlusconi ha risposto con un voto di fiducia risicato e faticoso, dopo una mattinata di fibrillazioni, passata ad inseguire l'ultimo dei cosiddetti "Responsabili" sull'uscio della Camera. Ma non ha potuto rispondere alla vera questione, che riguarda la salute e la forza del suo ministero. Cioè la sua capacità di governare l'Italia, soprattutto in un momento difficile, con la fiducia da riconquistare nei mercati, nelle istituzioni internazionali e nella pubblica opinione.

La crisi latente che sovrasta Berlusconi - e purtroppo il Paese con lui - continua quindi dopo il voto, intatta. Il Premier vanta come una vittoria una fiducia mutilata, dopo aver perso altri pezzi per strada, affondando ogni giorno di più. Non c'è un significato politico, non c'è alcun valore ideale, non c'è più nessuna capacità d'amministrazione in questa avventura che s'incupisce mentre non sa finire.

Al punto in cui siamo, la fiducia non serve per governare, visto che il Premier non sa garantire né coesione né visione. Serve soltanto per comandare, per rimanere chiusi nel bunker del potere,
per difendersi e attaccare. Rimanendo a Palazzo Chigi, il Premier non affronterà le emergenze che premono il Paese ma le sue personali urgenze, con la legge sulle intercettazioni e la prescrizione breve. Più che mai il Paese ha bisogno d'altro: e lo avrà.

(15 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/15/news/fiducia_mutilata-23254296/
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« Risposta #91 inserito:: Ottobre 26, 2011, 05:07:31 pm »

L'EDITORIALE

Un regime vuoto

di EZIO MAURO


INCAPACI di salvare l'Italia, tentano disperatamente di salvare se stessi. A questo si è ridotta la forza titanica del berlusconismo, la "rivoluzione liberale", il governo "del fare", il vento del Nord leghista. Un ceto politico spaventato, timoroso ormai di mostrarsi al suo stesso popolo, impotente a governare la crisi, non riesce a dare le risposte di governo di cui il Paese ha bisogno.

L'unica risposta è un accordo al ribasso, inadeguato e probabilmente inutile, nella speranza che possa imbrogliare l'Europa garantendo uno spazio ulteriore di sopravvivenza alla disperazione congiunta di Bossi e Berlusconi, chiusi nel recinto di governo trasformato in ultimo bunker.

L'Europa aveva imposto il principio di realtà ai trucchi contabili italiani e alla falsa rappresentazione dei conti del Paese. Passata la dogana, anche Berlusconi aveva dovuto parlare di crisi, negata per mesi nei comizi telefonici e nei comunicati imperiali che rimbalzano perfetti nei telegiornali di corte. Una manovra riscritta quattro volte, sotto il diktat europeo, era la prova regina del governo dell'impotenza e del commissariamento europeo, con Napolitano ormai unico punto di riferimento, dentro il Paese e fuori.

Poi l'atto finale. Con la leadership sostanziale dell'Europa (Sarkozy-Merkel) e quella formale (Van Rompuy e Barroso) che notificano a Berlusconi l'obbligo di varare in tre giorni le misure necessarie per far uscire l'Italia dal girone infernale della Grecia. Il Premier dice di sì. Poi torna in Italia e si scontra col
muro della Lega, con la crisi aperta dentro il suo partito e in quello di Bossi, con l'ingovernabilità della maggioranza, con l'esaurimento patente della leadership e di ogni sua autorità.

Dovrebbe dimettersi, consentendo al Paese di provare a salvarsi, finché è in tempo. Ma non è un uomo di Stato, e il suo destino personale gli preme più del destino dell'Italia. Si rinchiude in un'agonia democristiana, da tardo impero, che potrà produrre un accordo con il minimo comun denominatore, ma non produrrà più né politica né governo. L'Europa e i mercati giudicheranno questo vuoto di responsabilità. Intanto dobbiamo prendere atto che, mentre i governi cadono regolarmente quando una fase politica si esaurisce, solo i regimi non sanno finire.
 

(26 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/26/news/un_regime_vuoto-23868925/?ref=HRER3-1
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« Risposta #92 inserito:: Novembre 05, 2011, 11:22:26 am »

EDITORIALE

Un atto di dignità

di EZIO MAURO

Giunto al fondo della sua avventura, Silvio Berlusconi scopre di aver perso insieme la fiducia del suo Paese e del mondo. Il vertice G20 di Cannes è stato un calvario per il premier, isolato tra i Grandi e costretto a impersonare la parte del sorvegliato speciale dell'Occidente.  Per anni Berlusconi ha ingannato l'Italia con una falsa rappresentazione della realtà. Ma oggi il quadro è cambiato perché la crisi espone il vuoto della sua politica davanti alla governance mondiale delle democrazie, dove valgono le regole e dove le anomalie non sono tollerate.

L'Italia, dice Cristine Lagarde, ha un problema di credibilità: che investe il presidente del Consiglio in primo luogo, perché impersona le istituzioni di governo e una maggioranza che si sfarina, nella fuga dalla nave che affonda, quando soldi, ricatti e promesse non bastano più e la politica si vendica. Tutto è consumato. Il Premier ha un'unica strada per uscire di scena con dignità. Vada in Parlamento, ammetta di non avere la maggioranza, chieda aiuto all'opposizione per approvare il pacchetto di Risanamento europeo, annunciando un minuto prima che si dimetterà un minuto dopo il voto. Così si dimostrerà che l'Italia ha le energie e la responsabilità per salvarsi. E Berlusconi uscirà di scena, dopo tanti danni, con un gesto utile al Paese.

(05 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/05/news/atto_dignit-24461897/?ref=HRER1-1
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« Risposta #93 inserito:: Novembre 14, 2011, 07:27:14 pm »

EDITORIALE

Il governo del presidente

di EZIO MAURO

NASCE il governo del riscatto e dell'equità, per uscire dall'emergenza e recuperare la fiducia dei mercati, dell'Europa, dei cittadini. È l'impegno che si sono scambiati ieri Giorgio Napolitano e Mario Monti, nel momento in cui il Capo dello Stato  -  condotte a tempo di record le consultazioni  -  ha affidato al professore l'incarico di formare il governo che guiderà l'Italia nel dopo-Berlusconi. La crisi preme ma tono e forma ieri al Quirinale hanno segnato un cambio d'epoca, non solo di governo. Nessun sorriso, molta preoccupazione: ma anche la convinzione che l'Italia possa farcela, e il ritorno a concetti come "dignità", "scrupolo", "servizio", soprattutto "responsabilità" e "bene comune". Cambiano i protagonisti cambia il lessico e il contesto, con una svolta culturale e concettuale, dunque politica, che non poteva essere più netta.

È un governo del Presidente, il ministero Monti, perché il Capo dello Stato ha cercato in tutti i modi di evitare il vuoto politico di una campagna elettorale in un Paese che da oggi ad aprile  -  come ha ricordato ieri  -  dovrà ricollocare sul mercato 200 miliardi di buoni del Tesoro che andranno in scadenza: e per farlo ha voluto affidarsi a un uomo fuori dalla mischia, la cui competenza è nota a tutta l'Europa. Ma è un governo che nasce nel pieno rispetto per il Parlamento e per i partiti, cui Napolitano e Monti si rivolgono
per trovare sostegno a quello "sforzo straordinario" richiesto dall'emergenza, senza perdere altro tempo in "rivalse faziose" o "sterili recriminazioni".

Basta dunque con lo scontro furioso dell'era berlusconiana, ormai conclusa. Napolitano chiama a concorrere alla salvezza del Paese sia i vincitori del 2008, ricordando loro che in questi anni la maggioranza si è divisa e ridotta nei numeri, sia l'opposizione, garantendo che il governo Monti non sarà un ribaltone né una cancellazione dell'alternanza: ma un gabinetto d'emergenza, che unisce forze diverse per salvare l'Italia, nell'attesa che possa ripartire il confronto a tutto campo tra partiti e schieramenti, una volta che il Paese sia tornato in condizioni di sicurezza. Mentre ricordavano l'urgenza della crisi, Monti e Napolitano hanno sottolineato due impegni, oltre al risanamento finanziario per riportare i conti sotto controllo: la crescita e l'equità sociale. "Lo dobbiamo ai nostri figli - ha spiegato Monti - che hanno diritto ad un futuro di dignità e speranza".

Proprio in questo spazio tra i sacrifici e l'equità, tra le misure europee di risanamento e la ricerca di un percorso di crescita e lavoro, sta lo spazio "politico" in cui si giocherà la qualità dell'esperimento legato al nome di Mario Monti. Il professore è stato scelto come la guida più autorevole e meno parziale per uno schieramento di necessità, che vede insieme forze divise per quasi vent'anni in Parlamento e nel Paese. E anche perché la sua competenza e il suo rigore possono rassicurare le istituzioni europee e i mercati, dopo la crisi verticale di credibilità del ministero Berlusconi. Ma Monti da oggi, con l'incarico del Quirinale, non è un supercontrollore dei conti, nemmeno un emissario di Bruxelles o un legato di Francoforte. È un Capo di governo che ha una missione urgentissima e prioritaria (uscire dall'emergenza finanziaria), e tuttavia ha e deve avere anche l'ambizione di una politica per il Paese. Non solo i numeri e gli spread, dunque, non soltanto la logica - indispensabile - dei parametri di Bruxelles e dei saldi di Francoforte, ma accanto al rispetto degli impegni e alle misure d'emergenza una ricerca autonoma e libera, nazionale e orgogliosa di ripresa e rilancio del Paese, a partire dalla sua affidabilità, dal recupero di fiducia interna e internazionale. Quella che il professore ha chiamato la "sfida del riscatto, che l'Italia deve vincere".

Risanamento e crescita, dunque, credibilità e responsabilità, scrupolo, urgenza e soprattutto "accresciuta attenzione all'equità sociale". Un segno che Monti sente la pressione della disuguaglianza, la vera grande questione di questo inizio di secolo, uno squilibrio che aggrava la crisi, sfiducia la governance dell'Occidente e rischia di corrodere anche il sentimento della democrazia, che è il principale "bene comune" delle nostre società europee moderne. È qui il patto di responsabilità e d'ambizione tra Monti e Napolitano, che ieri lo ha illustrato alle forze politiche, dopo averle guidate con grande sapienza nei giorni della crisi sospesa sul percorso che portava inevitabilmente al nome di Monti. Solo la Lega sembra sottrarsi all'impegno comune di cui il Paese ha bisogno, ma Bossi dopo aver perduto ogni autonomia e ogni libertà d'azione nel vincolo berlusconiano sembra oggi impegnato soprattutto a inseguire i suoi elettori disorientati, e a tenere insieme su parole d'ordine di battaglia un gruppo dirigente in piena guerra di successione.

I due partiti maggiori danno il via libera a Monti con strategie opposte e sentimenti politici divaricati. Il Pd da tempo chiedeva un governo di salvezza nazionale e oggi lo privilegia rispetto agli interessi contingenti di partito, perché tutti i sondaggi dicono che partirebbe nettamente in testa in una corsa elettorale: di cui però il Paese oggi non ha certo bisogno. Il Pdl ha chiesto per giorni e giorni il voto come l'ultima ordalia salvifica e riparatrice di un berlusconismo morente. Oggi arriva al consenso per Monti per timore che il "no" significhi no all'unica chance concessa dal contesto internazionale alla salvezza dell'Italia, col rischio di intestare a Berlusconi non solo una politica fallimentare davanti alla crisi, ma il default del Paese. Il Premier, ridivenuto Cavaliere, ieri ha voluto leggere al gobbo un messaggio solenne al Paese, l'ultimo, con tanto di bandiera a fianco. Ha dichiarato di essersi dimesso per "responsabilità" e "generosità", ha ripetuto di non essere stato sfiduciato, ha evitato di ricordare che in Parlamento il governo era andato sotto perché la sua maggioranza era ormai svanita. Si è lamentato per i fischi e gli insulti che sabato hanno accompagnato il suo percorso verso le dimissioni, dimenticando quante volte ha incendiato il Paese rivolgendosi alla folla, mentre i cittadini che lo attendevano al Quirinale non erano convocati da nessun partito, da nessun movimento, da nessun giornale, ma volevano salutare la fine di un'epoca.

Il Cavaliere appoggia infine lo sforzo di Napolitano e sosterrà Monti, assicurando che non uscirà di scena. Anzi, nel momento dell'addio ripete come un mantra il Credo del '94, proprio quello che i suoi elettori gli imputano di aver tradito. La qualità dell'appoggio di Berlusconi a Monti resta un'incognita. L'ex Premier ha un partito diviso radicalmente tra un'ala moderata e governativa, che vuole lasciarsi alle spalle la stagione degli eccessi, e un'ala radicale che chiede le elezioni: ma in realtà teme che il governo Monti amputi e normalizzi l'anomalia berlusconiana, l'eccezionalità populista e carismatica alimentata dall'inizio dell'avventura e per tutti questi anni, spegnendo il fuoco "rivoluzionario" che ha arroventato il sistema, ma ha protetto il leader in mezzo a tante disavventure. Oggi i falchi sono stati sconfitti. Ma Berlusconi è il vero capo del loro stormo, ed è difficile pensare che accetti a lungo un quadro politico e istituzionale che riunendo le forze non contempla eccezionalità e non ammette anomalie, mentre recupera - finalmente - la Costituzione come orizzonte condiviso e comune. Ieri i toni del Cavaliere sono sembrati responsabili. Poi vedremo. Dipenderà da Monti, certamente. Ma anche da un Paese che sembra essersi risvegliato da un lungo sonno, riscoprendo la soddisfazione e il valore di una "democrazia d'alto stile" (come si diceva nei primi anni della Repubblica) guardando ieri il Presidente e il Professore al vertice del nostro Stato.

(14 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/14/news/editoriale_mauro-24969049/?ref=HREA-1
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« Risposta #94 inserito:: Novembre 17, 2011, 04:55:09 pm »

EDITORIALE

Ora le riforme

di EZIO MAURO


IN QUINDICI giorni è cambiato tutto anche in un Paese immobile, non solo il governo ma il tono del discorso pubblico, il contesto politico e istituzionale, lo spirito repubblicano che sembrava scomparso. Adesso comincia il percorso di guerra di Mario Monti per portare il Paese in zona di salvezza, per recuperare fiducia sui mercati e in Europa.

 Ma c'è un'altra fiducia che va recuperata, ed è quella dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni. In questo senso, la tregua imposta dalla crisi con il governo Monti è una specie di tempo supplementare concesso al nostro sistema dei partiti per rimettersi in sintonia con la pubblica opinione, fermando la crescita dell'antipolitica. Non c'è e non ci può essere un'alleanza tra forze di destra e di sinistra duramente contrapposte per 17 anni, e che sono destinate nuovamente a contendersi il campo. Ma c'è un concorso necessario di responsabilità - vedremo quanto sincero da parte del Pdl - per affrontare l'emergenza, appoggiando lo sforzo di Monti.
Ora, i partiti e tutto il sistema istituzionale hanno una straordinaria occasione, per non restare con le mani in mano mentre Monti governa la crisi: e cioè se vogliono - come debbono e possono - affiancare alla dimensione tecnica dell'esecutivo la forza della buona politica, cogliendo la spinta popolare al suo rinnovamento, come hanno dimostrato i referendum.

Questo è il momento. Si sfrutti la tregua aprendo una vera fase di riforme, partendo dalla legge elettorale e restituendo
la sovranità di scelta ai cittadini, per arrivare a un taglio spettacolare dei costi della politica, nel momento in cui si chiedono sacrifici alle famiglie: e si recuperi il terreno perduto in anni di ideologismo leghista sul piano dei diritti degli immigrati, un altro deficit italiano in Europa. Insomma: mai la politica può avere tanto spazio e tanta ambizione come oggi, con il governo tecnico del professore a Palazzo Chigi.

(17 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/17/news/ora_riforme-25136772/?ref=HREA-1
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« Risposta #95 inserito:: Dicembre 05, 2011, 11:04:09 am »

L'EDITORIALE

Il sentiero stretto

di EZIO MAURO

Il sentiero stretto Il premier Mario Monti
 

"Siamo stati chiamati per salvare l'Italia, davanti a una crisi gravissima. Insieme ce la faremo". Mario Monti è partito da questo drammatico appello rivolto direttamente ai cittadini per annunciare la manovra da 30 miliardi che il governo ha varato ieri, 17 giorni dopo il suo insediamento. Una manovra pesante per i contribuenti, e tuttavia indispensabile per evitare il default del nostro Paese, che segnerebbe la fine dell'euro e di ogni ambizione politica dell'Europa.

È una vera e propria manovra d'emergenza, dunque, perché l'Italia è chiamata a muoversi a grande velocità su un sentiero molto stretto e difficile. L'esito non è assicurato, nemmeno a prezzo di sacrifici, perché la fuoriuscita dall'eurozona non dipende solo da noi. Ma da noi, e interamente, dipende il recupero di credibilità dell'Italia e la sua possibilità di pesare nelle decisioni che l'Europa dovrà prendere per rispondere alla crisi.

Il governo era atteso a misure strutturali, proprio per queste ragioni. La più strutturale di tutte, quella sulle pensioni, è radicale e costosa per i cittadini, come confermano le lacrime del ministro Fornero, ma probabilmente definitiva per un sistema traballante con sacche di privilegio. Poi la casa, il vero bene-rifugio delle famiglie, che vede il ritorno dell'Ici. Quindi qualche taglio ai costi della politica (sforbiciata alle Province, in vista della loro abolizione) e qualche intervento a sostegno della competitività delle imprese, per la crescita.

Dunque tasse, come sempre, per far fronte all'emergenza. Ma anche qualche spazio per l'equità, con la rinuncia all'aumento dell'Irpef e l'introduzione travagliata di un prelievo dell'uno e mezzo per cento per i capitali scudati già rientrati in Italia: che è un primo abbozzo di patrimoniale e consente di creare le risorse per alzare fino alla soglia di mille euro la fascia protetta delle pensioni che recuperano l'aumento dell'inflazione, escluso per quelle più alte.

C'è dunque il rispetto degli obblighi europei, imposti dalla crisi: ma c'è uno spazio di autonomia nazionale e politica, che fa di Monti il capo di un governo, non il legato di Bruxelles e Francoforte.

(05 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/05/news/il_sentiero_stretto-26099697/?ref=HREA-1
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« Risposta #96 inserito:: Dicembre 28, 2011, 05:53:13 pm »

IL GIORNALISTA

Giorgio Bocca, energia e talento quel provinciale maestro di stile

di EZIO MAURO


IL "magone" dei piemontesi che vivono fuori è una specie di peso dell'anima ogni volta che si entra a Torino, o spuntano le colline delle Langhe, o torna davanti agli occhi la cerchia delle montagne, in qualunque stagione.

Giorgio Bocca sorvegliava quel magone permanente per la sua terra, che aveva perso e voleva sempre riconquistare, e portava dentro di sé quei mondi cui non aveva mai rinunciato, perché erano le radici e l'identità, e un "posto" bisogna pure averlo. Così è per tanti. Ma Giorgio era riuscito a trasformare tutto questo  -  le montagne della battaglia di gioventù, la tipografia notturna di corso Valdocco a Torino con Calvino, Pavese e Raf Vallone, Nuto Revelli che racconta nel negozio a Cuneo, i cortili delle Langhe d'estate, con Bobbio e gli altri  -  in un paesaggio morale che ha fatto da sfondo costante al suo giornalismo d'eccezione, dandogli forza e tenuta.

Diceva che nei primi tempi, dopo aver messo il foglio dentro la macchina per scrivere, traduceva mentalmente dal piemontese. Sarà per questo che andava giù dritto, e le parole sembravano cose, e suonano autentiche ancora oggi: non capita a tutti. Bisogna leggerle le vecchie cronache di Giorgio cronista, quelle su Gazzetta Sera, per esempio nel primi Cinquanta, magari quando scopre il delitto nel retrobottega di Emilio Olmo, il calzolaio assassino di Alessandria. Una ruvidezza robusta, che è già schiettezza, lo sguardo che si stupisce fermandosi su un dettaglio nel negozio buio con le serrande a metà, la città che si muove intorno, come un coro inconsapevole, ma presente. O la voglia di cercare il nuovo nelle inchieste, i fiori che parlano a Sanremo, le porte arrugginite che sbattono a vuoto nelle risaie senza più mondine a Vercelli, una curiosità finale sussurrata nelle ultime righe e in mezzo a piazza Galimberti a Cuneo: ma perché qui il bollito è diverso, è più buono, cosa lo rende speciale? E infine, e sempre, il magone mentre arrivava in macchina a Torino da Milano, passava i quartieri di periferia come barriere coralline e tornava a fare i conti eterni con quella città e con quella gente, sua ma così difficile da acchiappare fino in fondo.

Giorgio aveva dovuto in qualche modo saltare Torino, gli anni difficili della Gazzetta del Popolo per conquistare l'Italia da Milano. La città gli si era aperta, si era rivelata, si era fatta prendere e scalare, conoscere. L'Europeo e la scuola dei settimanali, l'inchiesta che lo portava a viaggiare e a conoscere l'Italia per poi reinventarla sulla pagina accanto alle grandi fotografie di un mondo che precedeva la televisione, la Rizzoli che gli ronzava intorno la sera mentre lui faceva l'amore con una segretaria in archivio, poi il Giorno con quel direttore-partigiano, Italo Pietra, che prima di farlo partire per un'inchiesta aveva sempre la stessa raccomandazione, fantastica: "Mi raccomando, sparagli dentro".

Sarà per questo che Tullio Pericoli sulla copertina del vecchio Vita di giornalista scritto con Tobagi disegna Giorgio in piedi, con la fronte squadrata tipica delle valli occitane e la penna stilografica portata in spalla, come un fucile. Il partigiano infatti non era mai andato in pensione, incalzava il giornalista e gli dava l'anima, radunava ricordi, valori, paesaggi e compagni: quella scelta di gioventù restava come scelta di vita, come fondamentale, e diventava il filtro e la lente con cui leggere le persone e gli avvenimenti, come metro personale di condotta ma anche di giudizio. Le maestre-staffette in Val Grana, i fienili d'alta montagna alla Chialvetta, i muli su per il vallone di Elva erano ricordi. Ma la pedagogia politica di Giustizia e Libertà era la vera scuola, e quella non finiva mai.

Troppo basico, come diranno poi quelli che hanno cambiato idea e non sopportavano quel substrato culturale di "Resistenza permanente" nel lavoro di Bocca? Una logica troppo primitiva e binaria, che spaccava il mondo in due selezionando con certezza e per sempre amici e nemici? Ma nell'Italia molle e opportunista in cui abbiamo vissuto, e nei suoi giornali, tutto questo diventava una forza e dava certezza di riferimento, sicurezza nello sguardo. In più disegnava un'Italia di minoranza come il vecchio azionismo, valori forti e presenza debole, una vita di testimonianza e di impegno che poteva ben essere scambiata per ostinazione e testardaggine, visto che stava fuori dal circuito ufficiale del potere. Perché tutto questo consentiva a Bocca di vivere nel luogo che più gli piaceva, in quanto più adatto a lui: fuori, dove c'è l'impegno civile più che l'impegno politico diretto, dove contano gli stili di vita e ciò che si manifesta di sé attraverso il lavoro, dove il potere si incontra per conoscerlo e per giudicarlo, raccontandolo ma senza mai farne parte. Giorgio conosceva bene il craxismo come il comunismo togliattiano, che aveva studiato e avversato, il berlusconismo nascente come sedicente miracolo milanese, il mondo della grande impresa, lo Stato nella forma e nella solitudine quasi eroica dei grandi funzionari che facevano della guerra al crimine un faticoso mestiere.

Era una strada solitaria e ruvida, dove fatalmente Bocca incontrò Repubblica, il suo giornale. In comune, un modo di essere di sinistra, ma senza appartenenze. Soprattutto, una certa idea dell'Italia. Ancor di più, antenati simili, punti di riferimento uguali, culture e storie condivise, da Bobbio a Gobetti, all'Espresso, all'innovazione dei primi anni del Giorno. Viaggiando l'Italia, il giornalista divenne scrittore. Cercando ogni volta di scoprire, di capire, di restituire scrivendo ciò che aveva incontrato e compreso, il cronista diventò uomo di idee, un editorialista, come si dice. "Non sapevo di sapere queste cose  -  confessò una sera rispondendo ai complimenti del giornale per un commento  -  . Certe volte mi capita di pensare che le cose che io firmo sono già dentro la macchina per scrivere, basta premere e tasti e vengono fuori". Era la conferma del talento, e della scuola quotidiana a cui quel talento si sottoponeva. Le idee nascevano proprio così, dall'urto tra i grandi fatti di cronaca e un sistema di valori, di esperienze e di saperi concreti (una cultura), e il risultato era qualcosa di nuovo che ogni volta spostava in avanti la conoscenza e aggiornava la mappa di quei sentimenti e risentimenti pubblici dei quali si parla ogni giorno con i lettori, dando forma  -  per i grandi autori  -  ad un pubblico costituito, come quello che Giorgio aveva.

Aggiungiamo qualcosa di ineliminabile. La testa dura di Bocca, quel carattere che corrispondeva ad un modo di essere, per nulla compiacente, capace di mettersi contro il senso comune dominante di un'Italia inclusiva attraverso il compromesso, accomodante. Uno sguardo mai complice, schietto e ruvido, abituato ad andare al sodo, come se avesse sempre da fare. Anche se gli piaceva raccontare, curiosare con le domande su aspetti minimi, rispondersi da solo con uno schema che aveva costruito per conto suo nelle giornate della vecchiaia dietro la grande scrivania, in mezzo agli scaffali disposti a schiera dei suoi libri, che puntavano tutti verso di lui. "Tutto il mondo che vedo è ormai questo", spiegò in una delle ultime cene sul terrazzo, indicandomi i tetti, le finestre, le ringhiere, e cercando conferma nello sguardo di Silvia. Pensai alle antenne del giornalismo, o qualcosa di simile, la sapienza che consentiva di prendere quel poco di mondo visibile e di metterlo in relazione con l'invisibile, costruendo una scala di riferimenti viva, forte, capace di svelare ciò che restava celato, e di farcelo capire.

La scrittura spiega il resto. Asciutta, modernissima, incapace di invecchiare, mai leziosa, nemica della complessità e della metafora, ma anche del banale, del riduttivismo. L'animava la coscienza dello sguardo provinciale nel senso più alto del termine, la consapevolezza che c'è sempre qualcosa da scoprire più in là, un orizzonte da conquistare che può stupirci: per poi raccontare le storie con cura conservando la loro ricchezza e l'unicità, perché in provincia passano pochi fatti, bisogna saperli rendere simbolici per farli durare a lungo, d'inverno.

L'ultima volta mi ha chiesto se ero stato a Dronero, al Caffè Teatro, se ero salito in Val Maira dalle nostre montagne. Diceva che lo "tiravano per la giacca", le cercava nella mente come quando da partigiano era sceso la prima volta nelle Langhe e fuori dalle montagna si sentiva "come un pesce fuor d'acqua", stupito che si potesse vivere e far la guerra altrove, ad esempio in quella terra piana di canne, viti e pane bianco. In realtà, per lui come per Bobbio la torinesità era solo una "condizione condizionante", un'altra testarda fedeltà ad un modo d'essere. Il resto, puro ricordo che in vecchiaia diventa mitico e fa piacere, come la scoperta da giovane della grande città, la partenza in treno al mattino presto, il Po, i portici, poi allo Standa "a vedere le commesse", nei casini di via Conte Verde e infine al Lagrange per il caffè concerto, "e per mangiare dieci tramezzini e pagarne due".

Ciao Giorgio, sarà bello e facile ricordarci di te attraverso il lavoro e il tuo giornale, che è fatto di persone singole che si sono scelte attraverso una storia comune: cercando come te quel che bisogna sapere, ciò che merita ricordare. Quel che resta da capire.

(27 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/27/news/paesaggio_morale_mauro-27247118/?ref=HRER3-1
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« Risposta #97 inserito:: Gennaio 08, 2012, 10:31:18 am »


L'EDITORIALE

Il sentiero stretto
di EZIO MAURO



 

"Siamo stati chiamati per salvare l'Italia, davanti a una crisi gravissima. Insieme ce la faremo". Mario Monti è partito da questo drammatico appello rivolto direttamente ai cittadini per annunciare la manovra da 30 miliardi che il governo ha varato ieri, 17 giorni dopo il suo insediamento. Una manovra pesante per i contribuenti, e tuttavia indispensabile per evitare il default del nostro Paese, che segnerebbe la fine dell'euro e di ogni ambizione politica dell'Europa.

È una vera e propria manovra d'emergenza, dunque, perché l'Italia è chiamata a muoversi a grande velocità su un sentiero molto stretto e difficile. L'esito non è assicurato, nemmeno a prezzo di sacrifici, perché la fuoriuscita dall'eurozona non dipende solo da noi. Ma da noi, e interamente, dipende il recupero di credibilità dell'Italia e la sua possibilità di pesare nelle decisioni che l'Europa dovrà prendere per rispondere alla crisi.

Il governo era atteso a misure strutturali, proprio per queste ragioni. La più strutturale di tutte, quella sulle pensioni, è radicale e costosa per i cittadini, come confermano le lacrime del ministro Fornero, ma probabilmente definitiva per un sistema traballante con sacche di privilegio. Poi la casa, il vero bene-rifugio delle famiglie, che vede il ritorno dell'Ici. Quindi qualche taglio ai costi della politica (sforbiciata alle Province, in vista della loro abolizione) e qualche intervento a sostegno della competitività delle imprese, per la crescita.

Dunque tasse, come sempre, per far fronte all'emergenza. Ma anche qualche spazio per l'equità, con la rinuncia all'aumento dell'Irpef e l'introduzione travagliata di un prelievo dell'uno e mezzo per cento per i capitali scudati già rientrati in Italia: che è un primo abbozzo di patrimoniale e consente di creare le risorse per alzare fino alla soglia di mille euro la fascia protetta delle pensioni che recuperano l'aumento dell'inflazione, escluso per quelle più alte.

C'è dunque il rispetto degli obblighi europei, imposti dalla crisi: ma c'è uno spazio di autonomia nazionale e politica, che fa di Monti il capo di un governo, non il legato di Bruxelles e Francoforte.

(05 dicembre 2011)© Riproduzione riservata

da - corriere.it
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« Risposta #98 inserito:: Gennaio 19, 2012, 04:51:23 pm »

L'EDITORIALE

Il dovere della riforma elettorale

di EZIO MAURO

LA QUESTIONE della legge elettorale è molto complicata dal punto di vista tecnico, ma è molto semplice dal punto di vista politico.

Prima di tutto, è pacifico che siamo di fronte ad una sorta di mostro che tutti hanno rinnegato: una "porcata", come l'autore l'ha definita, con nomi, cognomi e responsabilità precise, costruita a colpi di maggioranza nel pentolone nero di Berlusconi e Calderoli per favorire lo schieramento di destra.

È altrettanto chiaro che la legge espropria i cittadini elettori del diritto di scegliere i loro rappresentanti, consegnando ai leader dei partiti il potere di decidere non sulla candidatura, ma sull'elezione dei loro protetti, o di chi a loro si è venduto: perché abbiamo assistito anche a questo fenomeno, favorito proprio dal potere che la "porcata" assegna ai capipartito.

In passato ci siamo battuti in molti contro le preferenze, oggetto di mercato e di scambio. Ma le procedure elettorali sono strumenti della democrazia e dunque il loro valore d'uso cambia secondo la sensibilità del Paese. In una fase in cui i cittadini chiedono di partecipare direttamente alle decisioni pubbliche mentre diminuisce la fiducia nei partiti, è evidente che il potere di scelta degli eletti va riconsegnato agli elettori: attraverso collegi uninominali che evitano proprio il mercato delle preferenze.

Dopo che la Corte ha bocciato il referendum il Capo dello Stato ha invitato le Camere a raccogliere comunque la spinta al cambiamento. I partiti
hanno dunque ora la straordinaria occasione di fare per scelta, in autonomia e libertà, ciò che il referendum li avrebbe spinti a fare per obbligo.

Per i partiti e il Parlamento è un'opportunità e una sfida. Possono essere soggetti del cambiamento della politica, oppure saranno costretti a subirlo. Sono capaci ad aprire subito un confronto per rifare la legge? Ma prima ancora: sono pronti a impegnarsi fin d'ora, subito, a non andare alle prossime elezioni con questa legge elettorale?

Se l'intesa per una riforma non fosse possibile, resta una strada, radicale e decisiva: il Pd, che le ha già sperimentate per la scelta del suo leader, decida che si impegna oggi stesso  -  se la legge non cambierà  -  a scegliere tutti i suoi candidati attraverso le primarie. In questo modo, restituirebbe da solo ai cittadini ciò che la "porcata" ha loro tolto. E diventerebbe l'apriscatole del sistema.
 

(19 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #99 inserito:: Febbraio 14, 2012, 12:51:57 pm »

L'Europa e la crisi

Restituire un futuro al vecchio Continente

di EZIO MAURO

ATENE in fiamme, il Parlamento che approva la manovra di tagli e sacrifici, i mercati che applaudono. E il popolo, ci domandiamo tutti, e i cittadini? Sembra che il nuovo ordine europeo possa instaurarsi prescindendo dal consenso, dalla  pubblica opinione, dalla fiducia. L'Europa si presenta come una grande banca, un'istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz'anima, dominato dall'unica religione dei parametri e impegnato nell'unica battaglia di contenimento del debito, prima e assoluta emergenza del continente. Ma l'emergenza può sostituire la politica, soppiantandola? E c'è qualcosa di vivo dietro i tagli, i sacrifici e i parametri europei?

La Repubblica ha condotto su questo tema una grande discussione pubblica, con gli interventi dei direttori delle grandi testate giornalistiche occidentali. Tutti, anche gli inglesi con il loro spirito critico sulla costruzione istituzionale e monetaria europea, hanno convenuto che si esce dalla crisi con più Europa, non con meno.

E tutti hanno denunciato la debolezza della politica che rende l'Europa, come dice il direttore del Times James Harding, "senza leadership e senza soluzione", un continente senza visione, senza coraggio, e dunque incapace di offrire ai cittadini traguardi simbolici che possano ricostruire una speranza oltre l'orizzonte preoccupante della fase che stiamo vivendo. Ma non solo.

Per gli osservatori europei i rischi sono molto maggiori di quelli che vediamo a occhio nudo. Le tre "A" che davvero ci interpellano (Asia, America, Africa) rischiano secondo Erik Izraelewicz, direttore di Le Monde, di marginalizzare l'Europa, troppo piccola e divisa per le nuove sfide globali. Per Arianna Huffington (Huffington Post) e per John Micklethwait, direttore dell'Economist stiamo diventando un continente "sadomasochista" che punta tutto sull'austerity, un'austerity che non farà altro che alimentare la recessione, perché come spiega Laurent Joffrin, direttore del Nouvel Observateur, il rimborso del debito non può fare le veci di una politica europea che non c'è.

Ma il vero allarme è quello per la democrazia. I direttori di due giornali tedeschi, Giovanni di Lorenzo della Zeit e Heribert Prantl della Sueddeutsche Zeitung pongono la questione apertamente: "Il pericolo dall'interno è la sfiducia verso la democrazia, la tendenza a chiedersi se è ancora il sistema più efficiente oppure no. A lungo termine la sfida dell'Europa è questa", dice di Lorenzo.

Se i governi nazionali e la Commissione pensano di difendersi da soli si sbagliano, aggiunge Prantl: "Per farcela hanno bisogno del sostegno delle società dei Paesi membri, della fiducia dei cittadini, perché senza questa fiducia qualsiasi ombrello resta instabile". Come dire che i saldi dell'auterità da soli non bastano. Anzi, avverte il direttore del Guardian Alan Rusbridger, se gli sforzi per la convergenza finanziaria "dovessere essere la causa dello smantellamento dei sistemi di redistribuzione e di welfare dai quali dipendono milioni di europei dei ceti meno abbienti", si rischierebbero "reazioni nazionalistiche e populiste anche violente in quasi tutti gli Stati".

È il problema posto infine del direttore del País, Javier Moreno: la legittimità delle scelte europee: "Con quanta legittimità si possono prendere decisioni per salvare l'Europa senza tener conto degli europei? È accettabile sacrificare la sovranità nazionale per salvare l'Unione Europea? Abbiamo accettato definitivamente l'idea che sia possibile governare senza chiedere ai cittadini il loro parere?".

 Il nodo che viene al pettine è vecchio come l'euro. Un nodo di sovranità, di potestà, di responsabilità intrecciate e mai definitivamente risolte. La moneta unica è stata insieme un atto di fede e di coraggio, dunque un gesto politico che la storia economica del mondo moderno non aveva mai conosciuto, per di più nato nel cuore del Vecchio Continente dove nel Novecento erano nate le guerre e i totalitarismi, con le ideologie trasformate in Stati e partiti.

Ma l'euro non è diventato un principio costituente del nuovo ordine europeo, perché si è realizzato sotto la linea d'ombra della politica, riducendosi a strumento più che a soggetto, mentre ogni passo della sua costruzione fingeva ipocritamente di ignorare il successivo, non guardando al contesto.

Con la moneta unica l'Europa poteva trasformarsi da mercato a soggetto politico, e invece l'euro è nato politicamente e culturalmente sterile, come se fosse soltanto la proiezione geometrica dei parametri di Maastricht e poco più: parametri indispensabili per forzare la convergenza di base e l'uniformità tra i Paesi, ma sordi e ciechi per definizione, in quanto non contemplano la variabile decisiva della pubblica opinione e sono indifferenti ad un problema capitale delle democrazie occidentali, quello appunto della fiducia, della partecipazione e della condivisione, vale a dire del consenso.

La moneta è rimasta un "caffè freddo", come dicevano i tedeschi nel 2001, una moneta nuda perché è senza uno Stato che possa batterla, senza un esercito che sappia difenderla, senza un governo che riesca a guidarla, senza una politica estera che la rappresenti e soprattutto senza un sovrano capace di "spenderla" politicamente nel mondo.

E tuttavia quel gesto di coraggio è il punto simbolico e concreto più alto raggiunto dalla politica nel nostro continente, dopo le divisioni delle guerre. Oggi ci accorgiamo che l'inclusione del consenso è indispensabile, per non far perdere all'Europa e all'euro la fiducia degli europei. Ma dobbiamo anche dire che questa difesa improvvisa delle sovranità e delle autonomie nazionali davanti a Bruxelles e Francoforte nasconde un problema: l'incapacità di molti governi (e delle loro pubbliche opinioni, giornali compresi, va aggiunto) di rispettare le regole comuni che tutta l'Europa si era data, e che sono state per troppi anni disattese o addirittura aggirate.

 Il problema è che tutto il sistema di governance dell'Occidente deve essere rivisto sotto l'urto della crisi. Per la prima volta scopriamo che la ripresa americana rischia di non trainare l'Europa, appesantita dal carico dei debiti sovrani, dalla miopia di un'austerity che non stimola la crescita: se il problema-opportunità della Cina trasformerà nel secondo mandato Obama in un presidente "asiatico" il nostro continente toccherà con mano un isolamento a cui non è abituato e soprattutto non è preparato, avendo abitato per decenni il concetto di Occidente senza una precisa idea di sé, e senza una politica estera conseguente.

Ma gli altri problemi sono tutti indigeni, nascono e crescono in Europa. Come regoleremo il nuovo rapporto di sovranità tra gli Stati nazionali oggi esautorati dall'Europa e le istituzioni comunitarie? Come armonizzeremo la leadership europea di fatto (Merkel) con quella di diritto (Barroso e Van Rompuy)? Come ci comporteremo con una Banca Centrale benedetta perché compra il debito pubblico degli Stati, ma sempre più soggetto attivo e diretto dell'Europa, senza avere alcuna rappresentanza dei cittadini? E infine, come risponderemo a quelle spinte nazionali e sociali (le parole sono proprio queste) che stanno riemergendo a destra e a sinistra davanti ad una politica europea che non sembra una politica, ma il bando di un sovrano a cui dobbiamo soltanto ottemperare?

La parola, per fortuna e come sempre, tocca alla politica, all'establishment europeo, alle cancellerie e alla cultura: anche se la dominante è la crisi, siamo in realtà all'inizio di un processo di fondazione istituzionale, e un nuovo europeismo può diventare l'unica ideologia superstite e utile, dopo la sconfitta di tutte le altre. Tocca alla classe dirigente europea, nel suo insieme, riprendere il coraggio incompiuto dell'euro e usare la moneta e il mercato, dopo un decennio di strumentalità neutra, come suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche: per riunire l'Europa, la politica e i cittadini in un destino condiviso del continente, in un'idea forza e in una visione. Che non può essere soltanto tagli e sacrifici. Una speranza europea è ancora possibile, anzi è l'unica arma contro la crisi.

(14 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #100 inserito:: Marzo 02, 2012, 11:53:37 am »

L'INTERVISTA

Putin: "No alla forza, credo nella democrazia. - Monti un kamikaze per il bene dell'Italia"

Il premier russo, candidato presidente nelle elezioni di domenica, racconta la sua visione della Russia e del mondo.

"Se ci saranno brogli? C'è il tribunale"; "Al potere 24 anni? Se la gente è d'accordo"; "L'Iran? Ha diritto al nucleare civile".

E su Berlusconi dice: "Siamo ancora grandi amici"

di EZIO MAURO


NOVO-OGAREVO (MOSCA) - La terza candidatura alla presidenza della Russia, più un mandato da premier? "Perfettamente normale, io passo attraverso le elezioni, la gente decide". I brogli elettorali? "Non mi risulta, ma per questo ci sono i tribunali". La piazza in protesta che denuncia "Russia Unita" come un partito di malfattori? "Puri slogan elettorali, battute da comizio". Vladimir Putin risponde per due ore e mezza alle domande sui problemi di democrazia in Russia.

Presenta il suo programma per i sei anni di presidenza se domenica sarà eletto, scioglie i dubbi e ricandida ancora una volta Dmitrij Medvedev come premier, si impegna a non usare il pugno di ferro con l'opposizione e affronta i grandi temi aperti in politica estera: la Siria ("Noi vogliamo evitare che succeda quel che è successo in Libia, con quell'esecuzione medievale di Gheddafi"), l'Iran ("Ha diritto di avere il suo programma nucleare civile, sotto il controllo internazionale"), gli Stati Uniti ("Quando l'ho incontrato Obama in questa stessa sala, mi sono riconosciuto nelle sue idee").

Infine, l'Italia: "Monti è un kamikaze, sta facendo tutto benissimo, me l'ha detto proprio ieri Silvio Berlusconi, di cui continuo ad essere un grande amico".

Ci sono più poliziotti qui che nel centro di Mosca, anche nella zona del Cremlino. Si abbandona la Rubliovka (una volta circondata solo da dacie di legno e betulle, mentre adesso le vecchie case si trovano di
fianco vetrine Ferrari e Maserati, il Luxury Village, addirittura un Billionaire) e si gira a destra per una strada silenziosa e vuota col divieto d'accesso in cima, in mezzo ad un bosco pieno di neve. In fondo un grande muro bianco sormontato dall'aquila imperiale della Russia.

Quando si apre il gigantesco cancello di ferro si entra nella zona proibita di Novo-Ogarevo, il comprensorio del nuovo potere russo. A destra nel parco c'è la casa dove abita Putin, invisibile a tutti. A sinistra la pista per gli elicotteri. Davanti, adesso, un altro cancello con soldati di guardia in mimetica. Ed ecco la dacia dove Putin da dodici anni fa gli onori di casa a Capi di Stato e di governo e riceve i suoi ospiti ufficiali. Una grande costruzione gialla in stile moscovita virato al classico, con le colonne bianche sotto una piccola terrazza curva.

Al primo piano, la sala da pranzo dove durante la cena si è svolta l'intervista con i direttori di alcuni tra i principali giornali internazionali: James Harding del Times, Gabor Steingart di Handelsblatt, John Stackhouse del Globe and Mail, Yoshibumi Wakamiya dell'Asahi Shimbun, Sylvie Kauffmann direttrice editoriale di Le Monde, e Repubblica. Ecco il testo dell'intervista.

Il giorno dopo il voto per la Duma, è rimasto sorpreso di vedere così tanta gente in piazza a protestare?
"Perché dovrei sorprendermi? Non c'è nulla di strano. Allora da voi, con migliaia di persone in strada per la crisi? Io sono contento, perché questo significa che le strutture del potere devono reagire, sono costrette a farsi venire delle idee per risolvere i problemi. Questa è una cosa costruttiva, una grande esperienza per la Russia".

Ma lei non dà ascolto agli oppositori, non parla mai con loro. Perché?
"Io parlo con tutti, anzi una volta ogni dieci giorni sono fuori da Mosca a incontrare dirigenti, operai, sindacati, gente della strada. Questa è la caratteristica della mia esperienza nel potere russo. L'altro giorno, quando è esplosa ad Astrakan una casa per il gas con morti, feriti e gente senza tetto, sono andato da loro, sono salito sull'autobus dove avevano trovato rifugio e ho pensato che questo è il mio dovere: il rapporto con la gente, di qualunque colore politico sia".

Ma lei non dialoga mai con la piazza e coi suoi leader. Come mai?
"Un momento, io li rispetto. Anche se molti di loro erano leader già in passato e non possono vantare grandi risultati per questo Paese. Per me, non sono i dibattiti o le promesse che fanno la differenza. La fiducia viene dai risultati raggiunti in questi anni".

I sondaggi dicono che lei può vincere le elezioni al primo turno. Ma come si sente quando ascolta gli slogan urlati in piazza che definiscono il suo partito, Russia Unita, come una formazione di ladri e malfattori?
"Queste sono frasi ad effetto, puri slogan. I loro capi sono stati al potere, hanno ricoperto cariche. Discutere in base a un linguaggio populista non è buona cosa. Non dicono mai niente che serva a risolvere i problemi".

Ma non crede che questo scambio ripetuto di incarichi al vertice tra lei e Medvedev dia vita ad una sorta di oligarchia politica e a un sistema bloccato?
"Senta, e allora Kohl, sedici anni al potere, cos'era? Di Berlusconi non parlo perché è un mio amico. Ma il Premier canadese, altri sedici anni. Perché solo noi diventiamo oligarchi? Penso che candidarci sia un nostro diritto purché si agisca nell'ambito della legge e della costituzione. Di che oligarchia andiamo parlando...".

Ma vediamo in concreto: lei nominerà Medvedev al suo posto come Primo Ministro?
"Sì, se sarò eletto, lui sarà il mio Premier".

Ma dove ha sbagliato Medvedev? Perché lei pensa di essere più adatto di lui alla presidenza della Russia, e di meritarsela di più?
"Ma quando mai ho detto una cosa simile? Noi abbiamo un accordo preciso, che si basa su questo: se i risultati della nostra opera sono buoni e le cose migliorano, noi dobbiamo valutare insieme serenamente chi ha più chance di essere eletto, e gode di maggior fiducia tra i cittadini. Cosa c'è di strano? Alla fine di quest'anno abbiamo visto che toccava a me perché il mio consenso era più alto di due punti percentuali. E non poteva che essere così, visto che i poveri si sono dimezzati e il reddito è cresciuto di 2,4 volte, mentre abbiamo ripreso in mano un Paese a pezzi e abbiamo rianimato l'esercito, risollevando perfino l'indice di natalità, problema di tutta l'Europa. La gente sa che queste cose le ha fatte il governo. Ecco dove nasce la mia ricandidatura".

Ma lei pensa di ricandidarsi anche per il prossimo mandato, rimanendo al potere addirittura 24 anni?
"Se alla gente va bene, perché no? Ma in realtà non lo so, non ci ho proprio pensato".

Lei ha il consenso delle campagne e della periferia, ma la nuova classe media urbana, quella delle grandi città, aperta alle nuove tecnologie e alla modernizzazione del Paese vuole cambiare ed è contro di lei. Cosa risponde?
"Siete proprio sicuri che la classe media sia contro di me? Magari in questa fascia di popolazione il consenso per me si riduce, ma è sempre la maggioranza. E poi, bisogna essere obiettivi: loro sono la novità, la Russia moderna, ma il nuovo non sta tutto qui. Anche nell'agricoltura, ad esempio, è in atto un processo di modernizzazione tecnologica. Non facciamo errori, ci vuole equilibrio. Però, certo, ammetto che la classe media è più esigente, e si scontra direttamente coi problemi, la corruzione, il malfunzionamento della burocrazia. E noi dobbiamo dare risposte. Ma questo riguarda tutto il sistema politico".

Parlando con i leader degli oppositori, si avverte il timore che lei dopo il voto possa avere la tentazione di una prova di forza contro il dissenso. Cos'ha da dire?
"Ma di che hanno paura? Perché dovrei farlo, se stiamo agendo esattamente in senso contrario? La nostra strategia è quella del dialogo. Del resto anche Medvedev ha presentato una legge per rinnovare e aprire il sistema politico, rendendo più facile la nascita di nuovi partiti e introducendo nuovi criteri per le elezioni della Duma. Quindi non capisco da dove nascano questi timori".

Nascono dalle denunce di brogli e falsificazioni alle ultime elezioni politiche. Lei minimizza, ma non crede che questi episodi gettino un'ombra sul sistema di potere russo?
"Non so, ma esiste una legge: rivolgersi al tribunale. In passato è successo, gruppi di persone si sono rivolti alla giustizia e i risultati sono stati modificati. Ad esempio a San Pietroburgo".

Ma quando un leader dell'opposizione come Aleksej Navalnyj denuncia sul suo sito la marcia della corruzione attraverso la Russia, tema sensibilissimo, lei cosa ne pensa?
"Molte persone anche nelle alte sfere del potere sono stati inquisiti e processati. Però bisogna avere le prove, deve esserci un processo. Non faremo mettere in galera la gente se non esistono riscontri indiscutibili sulla loro colpevolezza. È uno sport che nel passato del nostro Paese si è praticato troppo, e ha fatto molte vittime innocenti coi processi sommari. Non lo ripeteremo".

La corruzione sembra dilagare soprattutto nei quadri intermedi, non nel vertice. Perché?
"Ripeto, ogni caso va dimostrato in un libero tribunale. Navalnyj? Anche un suo consigliere ha avuto problemi per abuso in atti d'ufficio. Ma voglio dire che scoprire casi di corruzione corrisponde sempre all'interesse dello Stato. Quello che non mi piace è che tutto questo venga usato a fine politico".

Perché non rivelate i vostri redditi come in Occidente? Negli Usa un candidato deve addirittura quasi calarsi i pantaloni. Da voi?
"Calarsi i pantaloni, forse, darebbe qualche impulso al voto. Ma non è necessario. Noi abbiamo tutto a posto, non vi preoccupate, e già diciamo quanto guadagniamo".

Lei pensa che il peggio della crisi economico-finanziaria sia passato? E appoggia l'austerità di Merkel e Sarkozy o crede più utile puntare sulla crescita?
"Non so rispondere. Ma penso che per superare davvero la crisi bisogna affrontare i fondamentali, che sono l'overproduzione e la saturazione dei mercati. Ci vuole un cambio di priorità, passare dalla finanza all'economia reale. Non voglio dare giudizi su Merkel e Sarkozy, so che la situazione è molto difficile, e al loro posto avrei forse scelto la stessa politica. Non si può superare un burrone in due balzi, bisogna farlo con un salto solo. Basta però non esagerare con l'imposizione della disciplina economica e della rigidità, se no si arriva al collasso e alla stagnazione. C'è una sottile frontiera che dobbiamo stare attenti a non varcare. Se i bond europei potranno aiutare, noi saremo d'accordo, così come se la Bce dovesse fare emissioni per contrastare il debito. Noi comunque daremo una mano, nel limite delle nostre possibilità".

Quale pensa sarà il futuro della Ue e dell'euro?
"Il nostro maggior partner commerciale è l'area euro, arriva al 50 per cento. Ecco perché siamo molto interessati alla crescita della Ue e al suo risanamento e ci auguriamo che l'euro mantenga le sue posizioni. Non dimenticate che il 40 per cento delle riserve della Russia è in euro".

C'è molta preoccupazione in Occidente per ciò che succede in Siria. Le armi usate sono russe, nell'ultimo mese sono morte centinaia di persone. Come si pone lei il problema di fermare questa violenza?
"La gente guarda la Siria coi vostri occhi, ciò che voi mostrate sui giornali e in tv. C'è un conflitto civile armato, e il nostro obiettivo non è di aiutare governo o opposizione armata, ma di arrivare ad una pacificazione. Non voglio che si ripeta la Libia. Ve la ricordate quell'esecuzione medievale di Gheddafi? E dopo? Donne violentate a centinaia, bambini che muoiono, gente che soffre. Lo avete scritto? Troppo poco. Noi non vogliamo che in Siria succeda niente di simile. Quanto alle armi, il nostro interesse non è più alto di quello che può avere la Gran Bretagna, Non abbiamo con la Siria nessun rapporto speciale, ma vogliamo costringere entrambe le parti a fermare la violenza".

Perché non avete firmato la risoluzione dell'Onu sulla Siria?
"Ma voi l'avete letta? Io sì. C'è scritto che bisogna portare via le truppe governative dai villaggi dove si trovano. Ma perché non dire che deve ritirarsi anche l'opposizione armata? Così Assad non avrebbe mai accettato. Facciamo sedere le parti ad un tavolo, apriamo le trattative, questa è la strada".

Ma lei crede che Assad dopo tutto questo possa restare al potere?
"Non lo so, sono le parti che si devono mettere d'accordo. Con gli sforzi congiunti di Unione Europea, Stati Uniti e Russia possiamo farcela. Una cattiva pace è sempre meglio di una buona guerra".

Cosa pensa delle minacce iraniane nei confronti di Israele?
"Stiamo parlando di una regione esplosiva, discorsi troppo bellicosi in quell'area possono essere molto pericolosi. Ma l'Iran ha diritto ad avere un suo nucleare civile, certo sotto il pieno controllo delle organizzazioni internazionali e dell'Aiea".

Se l'Iran verrà attaccato, che farà la Russia?
"Per anni, e negli ultimi dieci in particolare, la Russia ha avuto una posizione precisa. I nostri soldati non escono dalle frontiere della Russia, e questa è una impostazione ferma, di principio, per la pace. Negli ultimi dieci anni si è ricorsi troppo spesso all'uso della forza per risolvere i conflitti internazionali. E questo lascia un'impronta negativa nelle relazioni tra Stati, e spinge certi Paesi a cercare l'arma nucleare come strumento di difesa".

Come sono i rapporti con gli Usa?
"Proprio in questa sala ho visto Obama due anni fa. Mi è sembrato franco e sincero, e molte cose che diceva sono le stesse che penso io. Io non so se riuscirà nei suoi intenti, ma non si può dire che i nostri rapporti non siano buoni. Le discussioni sullo scudo stellare? Le ho avute anche con Bush. Noi non vogliamo che lo scudo ci minacci, loro dicono che è orientato solo verso sud, noi chiediamo che ce lo mettano per scritto: loro dicono che ci dobbiamo fidare. Ecco la questione".

Lei è stato amico molto stretto con Silvio Berlusconi, costretto a dimettersi dal calo di fiducia e di consenso. Cosa pensa dei primi mesi del suo successore Mario Monti?
"Di Berlusconi non 'ero' amico, lo sono sempre. Monti mi sembra che stia facendo tutto bene, assolutamente. Certo, il suo compito è molto difficile. Il primo ministro italiano è un kamikaze. I compiti che devono affrontare i leader dell'Italia e della Grecia possono essere svolti solo da persone che non hanno ambizioni politiche per il futuro, uomini responsabili, che amano il loro Paese, professionisti. Monti mi sembra una persona molto capace e tenace, me lo ha detto proprio Silvio ieri, aggiungendo di avere molto rispetto per lui. Ha aggiunto: lo aiuteremo".

Un'ultima domanda personale. Sua moglie non si vede da molto tempo: come mai?
"Mia moglie non è un personaggio pubblico. Quando lo sei, devi avere a che fare con i mass media, che non sono sempre delicati. Mia moglie e la mia famiglia non fanno politica, non fanno business, io voglio che le cose restino così, anche per la loro sicurezza".

Qualche grave errore che si rimprovera in questi dodici anni di potere?
"Sbagli sì, tanti errori di valutazione. Ma un errore veramente grave non riesco a vederlo".

L'intervista è finita. Putin guarda l'orologio, si fa portare due fette di pane dopo il dessert e il tè e saluta: il corteo di auto nere lo porta a giocare a hockey con le sue guardie del corpo, qui vicino, mentre ormai è notte intorno alla dacia del potere.
 

(02 marzo 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #101 inserito:: Aprile 07, 2012, 11:50:26 am »


L'EDITORIALE

La caduta degli idoli

di EZIO MAURO
 
CADONO ad uno ad uno gli idoli della destra italiana che fino a ieri guidavano il Paese, trasmettendo attraverso il loro potere alieno alle istituzioni l'immagine di un'Italia da comandare, più che da governare. Le dimissioni di Umberto Bossi, affondato dalla nemesi di uno scandalo per uso privato di denaro pubblico, azzerano la politica e persino il linguaggio della Lega, rovesciando sul Capo fondatore quelle accuse spedite per anni contro "Roma ladrona" e contro lo "Stato saccheggiatore". I ladroni la Lega li aveva in casa, anzi a casa Bossi. E il saccheggio lo aveva in sede, a danno del denaro dei contribuenti.

La Lega è il più vecchio partito italiano, nato nell'agonia pentapartitica della prima repubblica, sopravvissuto e cresciuto nella bufera di Tangentopoli che ha cambiato per sempre la geografia politica. Poi alleata con l'altro figlio legittimo della prima repubblica, quel Berlusconi protetto dal Caf, abile più di tutti a infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite nel muro del sistema, e a ereditarne il comando come presunto uomo nuovo, esterno ed estraneo.

L'unione di convenienza dei due leader - al di là della rottura del '94, quando Bossi tuona contro "il mafioso Berlusconi" e la sua "porcilaia fascista" - via via si rinsalda su una prassi e un istinto ideologico, che dà vita all'esperimento italiano di una "destra reale", o realizzata.

Qualcosa di inedito nelle culture di governo dell'Occidente, nel suo mix populista di potenza economico-finanziaria e paganesimo localista, di cesarismo carismatico e telematico e di fazzoletti verdi agitati nel perimetro padano, eccitato dal federalismo alla secessione, fino alla xenofobia.

Quella destra "reale" ed estrema che da oggi, dopo la caduta di Bossi e Berlusconi, non vedremo mai più nella forma con cui l'abbiamo conosciuta.

Bossi viveva se stesso come il Capo indiscusso e perenne di una potenza straniera, che aveva ricevuto dalla decadenza del sistema italiano di rappresentanza politica l'occasione di governare l'Italia come una colonia da spolpare. Parlava contro lo Stato viaggiando sulle sue auto blu, oltraggiava il tricolore rappresentandolo nelle istituzioni, attaccava la Costituzione dopo averle giurato, da ministro, fedeltà repubblicana.

Tutto ciò in combutta con un leader a cui permetteva e perdonava tutto, scandali, vergogne, eccessi ed errori, in cambio di rendite di posizione parziali per sé e per il suo gruppo dirigente. Con il miraggio eterno della terra promessa, la Padania autonoma nello Stato federale e nemico, e la promessa finale (in cambio dei voti sulle leggi ad personam) della più prosaica e concreta Lombardia, per il dopo-Formigoni ormai alle porte.

Invece è arrivato il ciclone dei rimborsi elettorali usati a fini di famiglia. Si è finalmente capito di che pasta era fatto quel "cerchio magico" che proteggeva e ingabbiava il Capo, e quale cemento lo univa, lubrificandolo a spese del contribuente italiano. I soldi dello Stato, per Bossi e i suoi, erano come i beni di un Paese occupato, che bisogna spogliare.

Il "cerchio" alimentava se stesso, tiranneggiando il tesoriere, e muniva così il suo potere. Dentro il cerchio, la famiglia lucrava per sé, piccoli e grandi vizi, la casa del Capo e l'auto del figlio, le spese minute per tutti, e soldi  -  dicono le carte  -  anche per quel Calderoli che oggi pretende di sopravvivere a se stesso e alla vergogna nel ruolo di reggente, insieme con Maroni e Manuela Dal Lago.

La verità è che la Lega non c'era più da tempo, e oggi ciò che ne resta affonda insieme con Bossi. Il capo barbaro degli inizi aveva un istinto politico fortissimo, un linguaggio basico dunque nuovo nella sua spregiudicatezza, un legame istintivo coi militanti, una pratica politica di estraneità al sistema politico declinante, dunque anche ai suoi vizi. La prima auto blu ha trasformato Bossi. La malattia ha fatto il resto, depotenziando il vigore di un leader in cui la fisicità (metaforizzata come virilità politica) era icona del comando, testimonianza di una ribellione perenne, conferma di una irriducibilità permanente.

All'impedimento fisico si è accompagnato una sorta di ottundimento dell'istinto, quindi della manovra politica, alla fine dell'autonomia e della libertà. Da scelta negoziata, Berlusconi è diventato necessità, appoggio, rifugio. Nato come partner, libero e autonomo fino ad andarsene e tornare, il Bossi malato è finito nella tasca capiente e sapiente di Berlusconi, prigioniero volontario di un'alleanza come assicurazione senile di potere.

Il "cerchio magico" ha funzionato da coro greco, impedendo che l'autonomia perduta dal Capo venisse recuperata ed esercitata dal partito, tenuto in minorità permanente, costretto a ricevere e ad ascoltare dai sacerdoti del "cerchio" la traduzione delle parole d'ordine del Capo, elevato (in realtà ridotto) da leader a totem. Un Bossi totemico, simbolo indebolito di se stesso, che non governava ormai più, ma esercitava un potere mediato attraverso il "cerchio". Che in questo modo aveva in mano il controllo del partito ed impediva la crescita di ogni discussione, di qualsiasi articolazione di leadership ausiliaria, di tutte le ipotesi di delfinato. Il punto è che il "cerchio magico" si è impadronito della malattia del Segretario. E quindi, come in un brutto romanzo sudamericano tradotto in dialetto padano, ha cercato di perpetuare l'immobilismo totemico di un potere bloccato ma refrattario ad ogni soggetto esterno, per esercitare così un comando derivato.

Come in tutti i sistemi impaludati e stagnanti, anche nelle acque ferme del vertice leghista si è fatta strada la corruzione, probabilmente come strumento di arricchimento privato, dei singoli membri e della famiglia reale, ma anche come mezzo di potere e di controllo nei confronti degli altri, avversari o pretendenti. Per la Lega, e per Bossi stesso, è il cappio padano che cambia collo, e dalle odiate grisaglie di Stato e di regime passa indosso alle camicie verdi.

Peggio di una tangente, dei soldi corruttori di qualche imprenditore in cambio di un appalto, se si può fare una scala in queste cose: perché si tratta di denaro pubblico, finanziamento dello Stato, soldi di Roma, che il "cerchio" e la famiglia (culmine sacro e pagano di tutto) intascavano a loro profitto, truffando tre soggetti in un colpo solo: lo Stato, i contribuenti, e il partito, derubato da chi lo comandava.

La stessa retorica leghista viene annichilita da questo scandalo, che si racconta al contrario delle leggende bossiane, perduta quella purezza che dava forza e credibilità alla denuncia contro gli sprechi "romani" e lo Stato burocrate, oppressore delle sane abitudini padane. Ecco perché Bossi si è dimesso, ed ecco perché - soprattutto - le dimissioni erano inevitabili, e molto probabilmente non basteranno.

Passata da più di un anno dalla guerra di secessione a quella di successione (che Maroni non ha mai dichiarato formalmente, per non uccidere politicamente Bossi con le sue mani, ma sentendosi l'unico erede), adesso la Lega deve giocare una battaglia di sopravvivenza, che riguarda tutti. Non è credibile che gli altri capi e capetti (da Calderoli a Castelli allo stesso Maroni) non sapessero. I militanti ripeteranno l'ultima leggenda, quella della cospirazione esterna.

Ma gli elettori, i simpatizzanti, si sentono definitivamente truffati da un gruppo dirigente confiscato da un piccolo cerchio di potere con pratiche umilianti, che comandava per rubare  -  come nella peggiore Tangentopoli  -  e rubava per continuare a comandare.

Resta il problema enorme della rappresentanza del Nord, storica, culturale, politica. Rappresentanza simbolica e di interessi concreti. Non è affatto detto che questi interessi debbano coniugarsi per forza alla xenofobia, alle paure per la globalizzazione, all'invettiva spaventata contro l'euro e l'Europa.

Un'altra rappresentanza è possibile, se i partiti avranno la forza, la capacità e l'ambizione di concorrere per dare ascolto e soddisfazione alla parte più forte e moderna del Paese, liberandola dei falsi miti, unendola alle istituzioni e al destino repubblicano e nazionale. Facendole capire che la politica non è una cosa sporca, l'Europa è il nostro destino, e destra e sinistra  -  finalmente  -  non sono soltanto le due sponde del sacro Po: restituito ieri da falso nume a fiume, come accade nel Paese reale in cui vorremmo vivere.

(06 aprile 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #102 inserito:: Aprile 28, 2012, 10:37:07 am »

L'INCONTRO

Ezio Mauro, Monti e la sinistra

"I partiti vanno cambiati, non abbattuti"

Pienone a Perugia e boom su twitter per il direttore di Repubblica, intervistato in sala e via web.

E alla fine l'annuncio: nasce "La Repubblica delle Idee", un appuntamento annuale con la community del giornale, in programma quest'anno dal 14 al 17 giugno a Bologna

Ezio Mauro con Arianna Ciccone al Festival di Giornalismo di Perugia (foto: Paolo Visone)


PERUGIA - "La cifra della nostra epoca è la parola disuguaglianza. Monti aveva promesso rigore ma anche equità, crescita, sviluppo. Ora va incalzato, perché abbiamo visto solo il rigore". "L'antipolitica è il rischio più grave che sta correndo il paese. I partiti vanno scossi e riconnessi alle energie dei cittadini: vanno cambiati, non abbattuti". Ezio Mauro arriva al festival del giornalismo di Perugia e occupa la scena anche in rete, diventando trend topic di Twitter. Sala dei Notari gremita, ragazzi assiepati alle pareti e appollaiati sulle boiserie sotto gli affreschi quattrocenteschi, telefonini, flash e videocamere.  Tanta gente fuori. Con l'evento che si conclude con una torta per i 16 anni di direzione di Repubblica, con l'annuncio di un futuro in cui "c'è una storia che attendo di scrivere da 22 anni, e molte cose che restano da capire". E l'arrivederci al prima festa di Repubblica, si chiamerà proprio "La Repubblica delle Idee" e si farà ogni anno: prima edizione dal 14 al 17 giugno a Bologna.

Intervistato da Arianna Ciccone, fondatrice della kermesse,  il direttore di Repubblica ha risposto anche alle domande della sala e a quelle arrivate da Twitter, con i messaggi che scorrevano sullo schermo alle sue spalle. Ma non si è parlato solo di politica. C'è stato spazio anche per una notizia su Lilli Gruber, che non sarà direttore dell'edizione italiana dell'Huffington Post, per l'ordine dei giornalisti da abolire  e per gli occhi lucidi nel ricordare Giuseppe D'Avanzo, il giornalista di Repubblica morto nel luglio dello scorso anno, "il mio compagno".

Arianna Ciccone chiede: Ezio, vieni qui da sei anni, d'improvviso è cambiato tutto. Silvio Berlusconi non è più premier. Umberto Bossi non è più segretario ed Emilio Fede non è più direttore.
"E' accaduto quel che doveva accadere, ed è successo secondo le forme sane della democrazia. Il governo aveva perso la fiducia delle parti sociali e delle cancellerie, dei mercati, buona ultima della chiesa e dei cittadini. Berlusconi era ormai al 23% dei consensi, non poteva sfidare la legge di gravità. Non è la crisi economica che ha fatto cadere Berlusconi, quello è stato l'elemento finale. La chiave è stata la perdita di connessione del Grande Comunicatore con il suo popolo. Alla fine gli italiani hanno capito".

Il berlusconismo però è ancora vivo...
"Il berlusconismo è un'avventura centrata sulla leggenda autoraccontata di un uomo che si è fatto da sé, mentre in realtà si tratta del figlio del sistema di potere della prima repubblica. Berlusconi è un uomo che è riuscito a deviare la realtà, a decomporla e ristrutturarla sotto forme diverse. Sono convinto che una macchina poderosa di potere politico, economico e mediatico come questa non ci sarà più. Resiste Berlusconi. E' l'inventore della pietra filosofale che ha dato legittimità alla destra. Ma le basi culturali sono effimere, è il destino del carisma populista che brucia nel momento in cui salta nel cerchio di fuoco".

Cos'hai fatto il giorno delle sue dimissioni?
"Quando si è dimesso era sabato, siamo saliti al Quirinale mia moglie e io,  c'era un sacco di gente. Non erano convocati da nessuno. Volevano essere lì in quel giorno per conservare sulla retina l'immagine di quel momento. Quando ho sentito i cori "ladro, ladro", me ne sono andato".

Dai tuoi tweet emerge una presa di distanza dal  linguaggio del governo dei  tecnici, di Mario Monti, di Elsa Fornero.  Che visione hai del loro uso delle parole? Qual è la linea di Repubblica?
"Il giornale non ha una linea, ha una certa idea dell'Italia. Monti è l'indicazione di uno stato di necessità, il tentativo di trovare una soluzione. Ora il resto del giudizio se lo deve guadagnare, sono i cittadini a dare i voti al governo, non il contrario".

Sull'articolo 18 Repubblica si è spaccata?
"Non esageriamo.  Scalfari riteneva che la lezione di responsabilità dello storico leader della Cgil Luciano Lama dovesse essere di guida per l'attuale segretario Susanna Camusso. Ma noi abbiamo sempre sostenuto la concertazione di fatto, affinché venisse conservato il diritto dei lavoratori di rivolgersi a un magistrato per chiedere il proprio reintegro. La democrazia materiale è composta di conquiste dovute alle dinamiche sociali, il governo avrebbe dovuto essere fiero di difenderle".

Il linguaggio del governo è spesso discutibile.
"È sicuramente anni luce lontano dalla natura della destra che abbiamo visto in Italia. I cittadini apprezzano questa lontananza dalle abitudini precedenti, la misura invece della dismisura. Monti uscendo dallo studio del presidente Giorgio Napolitano, al momento di ricevere l'incarico di formare il governo, ha pronunciato quattro parole:  rigore, crescita, equità, sviluppo. Abbiamo visto la prima, ora va incalzato sulle altre tre".

Mentre la legge sulla corruzione, la concussione, la riforma della Rai, sono lì, in attesa...
"La Rai interpella Mario Monti profondamente, non può non riconoscere in questa vicenda la centralità di termini come  libertà, autonomia e concorrenza, che sono state le parole guida del premier in Europa. Ora si tratta di portarle in Rai.

Si parla di candidati per il 2013. Ti piace Matteo Renzi?
"Non particolarmente, ha aspetti bulleschi".

E tu cosa voterai? Oggi non sembrano tutti uguali?
"In quel momento mi chiederò cosa sia più utile al paese e alla sinistra, credo che gli interessi della sinistra si possano combinare con quelli del paese, certo bisognerebbe che la sinistra lo sapesse. Sono stato molto critico con il Pd, ma sarei un pessimo cronista se non vedessi chi si è opposto alle leggi ad personam, chi non ha creduto alla fola di Ruby nipote di Mubarak. È un elemento di giudizio che non si può saltare. Ora la sinistra ha la possibilità di lavorare sulla disuguaglianza".

E l'antipolitica?
"I partiti vanno presi a spintoni, vanno fatti cambiare. Devono capire che  sono forti in quanto contendibili, scalabili. Sono seduti su una montagna di disponibilità democratica. I cittadini esprimono una tensione di cambiamento, i partiti non li devono guardare con diffidenza. Qella connessione è la loro forza, si devono aprire. Che senso hanno le Primarie in stile americano appiccicate con la colla sull'album della politica italiana?"

Ferrara (e parte il filmato di radio Londra) ti ha accusato di antipolitica per aver aperto la riunione di redazione con il ritorno di Valter Lavitola in Italia, alimentando lo sdegno dei cittadini sulle ruberie, d'intesa con alcune Procure.
"Ci sono persone che non possono vivere senza di noi, guardano la riunione di redazione di Repubblica invece di pensare al mondo che ha intorno, dimostrando una mancanza di autonomia culturale. L'antipolitica è pericolosa, il più grosso rischio che sta correndo il paese, rischiamo il disincanto culturale, la crisi può  cambiarci profondamente. L'antipolitica è il terreno di coltura che prepara il populismo. Nel '92 ne uscimmo con Bossi e Berlusconi. La politica si riduce a evento, il cittadino non partecipa, aderisce battendo le mani. Tutto è compresso a una semplificazione elementare. Io non voglio questo".

Ma come si arriva al ricambio della classe dirigente?
"Il ricambio è indispensabile per evitare il rischio di oligarchie. Insieme con altre misure. Il dimezzamento dei parlamentari, il finanziamento dei partiti per il quale va trovato un sistema trasparente. L'antipolitica avvelena i pozzi del linguaggio, procedendo per cortocircuiti. Il vaffanculo-day non è politica. Non è un problema di galateo, è un problema di sostanza. La semplificazione del linguaggio non è neutrale".

Ricambio della classe dirigente, ma non tocca anche a chi comunica? Lilli Gruber, bravissima, direttore dell'edizione italiana dell'Huffington Post è un segnale di novità?
"Non credo sarà lei, anche se non spetta a me sceglierla. Io sono direttore da vent'anni, ma un direttore di giornale  si può cacciare in qualsiasi momento. Guardo ai giornali e vedo che in questi anni ci sono stati molti nuovi direttori che si sono formati, il rinnovamento esiste. Oggi i giornali sono molto articolati al loro interno. Guarda noi, c'è Repubblica.it, ci sono i supplementi. I giornali hanno saputo rispondere alla complessità. C'è il sito per il tempo reale, gratuito; c'è il giornale di carta, letto in forma digitale a pagamento ormai da 50mila persone. Il sistema sta cercando il suo punto d'equilibrio economico, lo troverà".

Giuseppe D'Avanzo, ti va di parlarne?
"Mi manca il giornalista, mi manca la persona che entrava nella mia stanza e mi diceva 'C'è roba'. Quel c'è roba mi accendeva qualcosa dentro".

(M.R.)
 
27 aprile 2012) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #103 inserito:: Maggio 08, 2012, 04:34:48 pm »

EDITORIALE

Il tabù rovesciato

di EZIO MAURO

   
DUNQUE "se il Paese non è pronto" il governo potrebbe anche lasciare. Non è una frase felice quella pronunciata a Seul dal Presidente del Consiglio riguardo all'articolo 18. Chi certifica infatti quando il Paese è "pronto" e in base a quale canone? E soprattutto non siamo a scuola e non tocca ancora ai governi dare il voto ai cittadini: semmai l'opposto.

Non c'è alcun dubbio che se fino ad oggi il voto dei sondaggi per Monti è stato così alto, questo è dovuto in gran parte a due caratteristiche del Premier: il disinteresse personale e la capacità di decidere. C'è dunque un timbro di sincerità quando il Capo del governo spiega che non tirerà a campare pur di durare e non lascerà snaturare dalle Camere quello che considera "un buon lavoro".

Tuttavia la terza caratteristica di Monti è sempre stata, finora, il buonsenso governante. E qui nascono due questioni, una formale ed una sostanziale. La prima è che quando si sostiene che il Parlamento sovrano è il principale interlocutore del governo, bisogna poi saper ascoltare la discussione che si svolge nelle sue aule, rispettando la decisione finale.

La seconda è il carico improprio di ideologismo con cui la destra sta avviluppando quella che chiama "la libertà di licenziare", e che rischia di trasformare l'articolo 18 in un nuovo tabù, questa volta rovesciato. Per la "feroce gioia" di chi non guarda al lavoro ma intende solo regolare per legge conti sospesi dal secolo scorso con la sinistra e con il sindacato.

Occorre tornare in fretta al merito del problema, de-ideologizzandolo. Il modello tedesco non penalizza certo la produttività e la competitività delle imprese, ma lascia al giudice la possibilità di decidere il reintegro per il licenziamento economico, se si rivela illegittimo. È la forza del buonsenso governante: il Paese è già "pronto". 

(27 marzo 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #104 inserito:: Maggio 24, 2012, 09:43:07 am »

EDITORIALE

Per chi suona la campana

di EZIO MAURO


LA QUESTIONE non è Grillo. È la richiesta esasperata di cambiamento che i cittadini rivolgono alla politica dopo anni di occasioni perdute che hanno divorato la fiducia nei partiti e nel Parlamento, portandola al livello più basso d'Europa. La crisi fa il resto, erodendo le basi stesse della democrazia, come accade quando la perdita del lavoro si rivela perdita della libertà materiale, senza la quale non c'è libertà civile. Ci si può stupire, a questo punto, se il voto diventa un ciclone in grado di cambiare il panorama politico italiano?

In realtà siamo solo all'inizio. Non ci sono più strutture politiche e culturali in grado di reggere (si chiamavano partiti), lo Stato è indebolito, la democrazia infragilita. Mezzo Paese, addirittura, non crede più nel voto, come se scegliere chi ci governa non fosse importante. Come se il cambiamento fosse impossibile, o peggio, inutile. È facile prevedere che in questa crisi acuta di rappresentanza ogni voto diventerà un redde rationem, ogni antagonista al sistema verrà applaudito, ogni semplificazione sarà premiata. Non si capisce per quale strada e con quali strumenti si potrà costruire una nuova classe dirigente del Paese, perché la protesta non lascia intravvedere nessuna proposta. Ma si capisce benissimo che per la classe dirigente attuale sta suonando il segnale dell'ultimo giro.

Grillo è la spia di tutto questo, ed è una valvola di sfogo. L'impoverimento progressivo della politica,
la sua perdita di efficienza, la sua separatezza dai cittadini ha prodotto negli ultimi anni solitudini civiche sparse, smarrimenti individuali del sentimento di cittadinanza, secessioni personali: la platea italiana ideale per essere radunata ogni volta che la politica si riduce ad uno show, quando la battuta di un comico cortocircuita in una risata una situazione complessa, mentre il cittadino è trasformato in spettatore, la partecipazione diventa audience, la condivisione prende la forma di un applauso.

È questa la nuova politica, o è la sua caricatura estrema e paradossale? E tuttavia quanti cittadini delusi e comunque interessati alla cosa pubblica accettano questo elettrochoc per desiderio di cambiamento, per una sacrosanta voglia di facce nuove, di criteri di selezione aperti e trasparenti? Per una domanda - ecco il punto - di autonomia e libertà della politica, aperta alla società e alla sua disponibilità a trovare nuove forme di coinvolgimento, di responsabilità e di impegno?

 Il paradosso è vedere ciò che resta dell'armata berlusconiana votare Monti alla Camera, con il rigore e l'austerità, e votare nello stesso tempo Grillo a Parma, con il vaffa e lo sberleffo. Come l'impiccato che compra la corda per il suo boia. Forse il Pdl pensa che i populismi siano tutti uguali, interscambiabili, perché parlano alla pancia degli elettori, ne sollecitano gli istinti, si presentano come alieni al potere, come esclusi, o almeno come outsider. Grillo ha favorito questa scelta, senza mai distinguere tra destra e sinistra, anzi facendo di Parma una questione nazionale ha trasformato il Pd nel suo principale avversario.

Ma questo non basta per spiegare la nemesi del grande populista italiano che va politicamente a morire in braccio ad un comico scegliendolo per disperazione come leader-rifugio, mentre qualche anno fa gli avrebbe offerto tutt'al più un ingaggio serale in qualche drive-in.

 In realtà il Pdl cammina barcollante come un partito cieco, senza rotta e senza guida, polverizzato nel voto dei cittadini e nel consenso dei gruppi sociali: non esiste più. La crepa che gli scandali privati (in realtà tutti politici) di Berlusconi hanno aperto tre anni fa nel suo rapporto con gli italiani si è allungata fin qui, fino a decretare dentro le urne municipali quella sconfitta definitiva che l'ex premier e i suoi cantori cercano di dissimulare nella larga coalizione che sostiene Monti.

Berlusconi ha perso il vero piffero magico che aveva nel '94, quando è sceso in campo, e che ha conservato in tutti questi anni: il potere di coalizione. Oggi non coalizza più a destra, con la Lega spappolata dagli scandali contronatura, e nemmeno al centro, dove Casini ogni giorno chiude la porta in faccia ad Alfano, perché non intende tornare sotto padrone, finché Berlusconi rimarrà proprietario dei resti del suo partito.

 Il potere di coalizione è invece la vera arma che tiene in piedi il Pd, vittorioso in tutti i calcoli elettorali: ma spesso con candidati altrui, come succede a Palermo e Genova dopo Milano e Napoli. Tuttavia il Pd resiste più degli altri partiti, proprio perché ha una naturale capacità di coalizzare a sinistra, con Di Pietro e Vendola, e un'ipotesi addirittura di allargamento al centro, verso un centrosinistra europeo con Casini. In più, Bersani gode della rendita di posizione di chi vede il suo avversario affondare: anche se dovrebbe domandarsi perché della crisi di Berlusconi beneficia spesso (e clamorosamente) Grillo, mentre dopo l'anomalia berlusconiana in un sistema che funziona dovrebbe essere la sinistra ad avvantaggiarsi direttamente della scomparsa della destra.

Tutto questo dovrebbe consigliare al Pd di non fare sonni tranquilli. La spinta al cambiamento investe di petto anche la sinistra, le domande di rinnovamento sono qui anzi più radicali e più motivate. Perché la grande novità rispetto allo sconvolgimento post-Tangentopoli del '92-94, è che questa volta sono in crisi i valori dell'individualismo, del desiderio, del privato e del liberismo che consentirono a Berlusconi di incanalare a destra il malcontento, di modellarlo sulla sua figura, di ricostruirlo come struttura doppia di ribellione e di consenso per una leadership fortemente anomala rispetto ai partiti moderati e conservatori occidentali.

Oggi questa stagione è tramontata, sepolta in Italia dalla prova di malgoverno e dagli abusi, nel mondo dalla crisi. Il sentimento dominante è quello della percezione della disuguaglianza, con il rifiuto della sproporzione di questi anni, della dismisura, con la richiesta di equità, di giustizia sociale. La vera domanda è una domanda di lavoro, e cioè di obbligazione reciproca davanti alla necessità, di legame sociale, di dignità e di responsabilità. Ecco perché la sinistra è direttamente interpellata dall'esigenza di cambiamento, a cui in questi anni non ha saputo rispondere ma a cui non può più sottrarsi oggi.

O si cambia, semplicemente, o si muore. Bisogna ridare un senso alla politica, alla funzione democratica dei partiti, rendendoli forti perché contendibili, sicuri perché scalabili, finalmente aperti. Bisogna recuperare "l'onore sociale" dei vecchi servitori dello Stato, il potere in forza della legalità, in forza della "disposizione all'obbedienza", nell'adempimento di doveri conformi ad una regola. Il senso dello Stato e del suo servizio: separandosi - e già il ritardo è colpevole - dagli abusi dei costi troppo alti della politica, dai riti esibiti del potere, da tutto ciò che rende la classe politica "casta", cioè qualcosa di indistinguibile, che nel privilegio e nella lontananza annulla opzioni, voti e scelte diverse, che pure esistono, e contano.

Se il Pd pensasse che la domanda di cambiamento radicale della politica non lo riguarda, si suiciderebbe consegnando il campo all'antipolitica. Anche perché la geografia dell'Italia che andrà al voto non sarà quella di oggi. Il vuoto e i voti in libertà a destra cercano un autore, un padrone, un idolo, magari anche soltanto un leader: e qualche nuovo pifferaio sta sicuramente preparando il suo strumento. Se il Pd non cambia, rischia di risultare vecchio davanti a qualche incarnazione post-berlusconiana spacciata come novità.

L'antipolitica genera storie più che biografie, personaggi più che uomini di Stato, semplificazioni più che progetti. Ma un Paese disorientato e disancorato da ogni tradizione politica e culturale occidentale, può finir preda di qualsiasi illusione. Perché l'antipolitica è sempre la spia dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di una coscienza nazionale.

Per questo l'establishment italiano (che prepara la corsa ad ereditare qualche spazio politico di supplenza dal vuoto dei partiti) non può ritenersi assolto gettando tutte le colpe sulla politica: ma deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo impoverimento del sistema-Italia, dello smarrimento di ogni spirito repubblicano condiviso. O si cambia, o la campana suona per tutti.

(23 maggio 2012) © Riproduzione riservata
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