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Autore Discussione: Carlo FLAMIGNI-  (Letto 8099 volte)
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« inserito:: Settembre 26, 2007, 10:42:28 pm »

Fecondazione: se la legge fa autogol

Carlo Flamigni


La famigerata legge 40, quella che detta le norme in materia di procreazione medicalmente assistita, recita, all’articolo 13, che «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso e qualora non siano disponibili metodologie alternative». In altri termini: mai.

Nell’articolo 14, quello dunque immediatamente successivo, al punto 5, si legge invece che «i soggetti di cui all’articolo 5 (cioè i genitori) sono informati sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero».

Non vorrei sembrare maleducato, ma mi pare evidente che chi ha scritto questa legge soffra di lunghe pause cognitive, come dimostra la palese incompatibilità tra i due articoli: nell’articolo 13 si nega alle coppie la possibilità di eseguire indagini pre-impiantatorie sui propri embrioni, un divieto del quale l’articolo 14 sembra farsi beffe.

Provo a spiegare questo punto, a totale beneficio della senatrice Binetti.

La norma riconosce alle coppie il diritto di essere informate sulla salute degli embrioni prodotti: non dice ootidi, zigoti, blastocisti, dice embrioni. Ora, mentre per sapere se un ootide è normale può anche bastare (entro precisi limiti, ma non voglio complicare il discorso) l’analisi al microscopio, quella consentita dalla legge (ci sono tre pronuclei invece di due? Buttiamo via tutto o ci metteremo nei guai) l’unico modo per conoscere le condizioni di salute di un embrione è l’analisi genetica. Capisco che una parte dei cattolici non voglia ammettere l’esistenza dell’ootide, ma l’idea piace al cardinale Martini e questo mi basta. Che poi il Vaticano abbia il diritto di correggere i termini della biologia e lo eserciti al punto di costringere i suoi più illustri genetisti a cambiare idea sul significato delle parole mi può anche andar bene, purché si conceda ai biologi laici un analogo diritto di critica in materia di esegesi biblica. Se vuoi che un’amicizia si mantenga...

Dunque , ad avviso di molti, la legge 40 ammette la diagnosi genetica pre-impiantatoria e non solo per la ragione che ho citato. Esiste ad esempio un problema di congruità pragmatica: una donna che si vede rifiutare questo accertamento avrà poi modo di eseguire le stesse indagini, in gravidanza, sul feto e di decidere di interrompere la gravidanza se lo scoprirà malato, spero che a nessuno sfugga la crudeltà inutile del primo diniego. Inoltre in queste circostanza è certamente a rischio la salute psicologica della donna e vorrei ricordare che una sentenza della Consulta di circa trent’anni or sono afferma che deve essere privilegiata la salute e l’interesse di chi è già persona nei confronti di chi persona deve ancora diventare.

Nel 2005 una coppia di coniugi di Quartu Sant’Elena portatrice di una comune anomalia genetica (l’anemia mediterranea) aveva fatto ricorso contro il divieto di eseguire una diagnosi pre-impiantatoria con istanza d’urgenza presentata al Tribunale di Cagliari. Il magistrato aveva passato gli atti alla Consulta, la quale aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità perché non posta correttamente. Ricordo il commento del professor Emilio Dolcini, ordinario di diritto penale nell’Università di Milano, il quale aveva interpretato la sentenza come una sorta di incitamento a ripresentare il ricorso presso un tribunale ordinario, cosa che è poi stata regolarmente fatta. Per quanto posso capire, il giudice ha ritenuto di dover privilegiare il diritto della donna alla salute e all’informazione sulle condizioni di salute del nascituro, anche e soprattutto alla luce dei principi costituzionali che ho appena citato. Scelta, a mio avviso, logica, razionale e piena di buon senso.

Mi attendevo le solite convulsioni cattoliche, ma debbo confessare che chi mi da le maggiori soddisfazioni è, come sempre, Paola Binetti, la quale chiama in causa la dichiarazione di inammissibilità della Corte Costituzionale del 2005, della quale non ha evidentemente capito una parola. Ho per la senatrice Binetti una forte simpatia personale (mia moglie lo sa) e, se continua a darmi queste soddisfazioni, non vedo come potrò evitare di chiederle di farmi entrare nel suo nuovo partito.

Molti mi chiedono come si potrà andare avanti a partire da questa piccola vittoria. Anzitutto credo che il tempo dei ricorsi non sia ancora terminato e mi auguro che prima o poi si porti al magistrato- ma in termini più corretti di quelli usati in passato - la questione dell’ootide, l’oocita fecondato nel quale non si è ancora formato un genoma unico e che la legge tedesca, la legge svizzera e un grande numero di teologi cattolici considera «fase pre-zigotica e perciò pre-embrionale». Bisogna però trovare un sinonimo di ootide, termine in molti sensi non grato ai cattolici: nel sito di «Verità e Vita», nella parte dedicata all’«antilingua» il povero ootide figura come «ootite (sic)», che potrebbe aver a che fare con il mal d’orecchi. Una volta questi si chiamavano autogol.

In secondo luogo deve diventare chiaro a tutti che una donna ha il diritto di rifiutare il trasferimento di tre embrioni e che a seguito di questo rifiuto il medico non può che congelare l’embrione o gli embrioni che la donna non ha voluto accogliere nel proprio grembo. In tempi lunghi, mi sembra che la soluzione più logica sia quella di tornare a proporre ai cittadini italiani la solita domanda: ma proprio la volete una legge così stupida e così ingiusta?

In tempi brevi, poco da fare :mi sembra che continui a prevalere l’ormai cronico atteggiamento di rispettosa e modesta rassegnazione che la maggior parte dei parlamentari ha deciso di assumere quando deve confrontarsi, anche da grande distanza, con un qualsiasi rappresentante del Vaticano, Guardie Svizzere incluse. E non mi pare che il Ministero della Salute possa attualmente essere considerato un tempio della laicità, considerate le recenti proposte di adozione per la nascita e i peana in onore di chi accetta un figlio malformato , che alle mie orecchie suonano come sgradevoli e inattese condanne a che ha invece deciso diversamente e che, perbacco, meriterebbe un po’ più di rispetto. Perché, vedete compagni, se vogliamo che il Paese possa respirare la pulita e trasparente aria della laicità bisogna che i nostri attuali politici passino tutti (o quasi tutti) a miglior vita. No, non sto affatto pensando a una epidemia, mi auguro solo che divengano tutti così ricchi da decidere collettivamente di trasferirsi nelle Hawai, dove sembra - dico sembra, non ho prove concrete - che la vita sia senz’altro migliore.

Pubblicato il: 26.09.07
Modificato il: 26.09.07 alle ore 9.08   
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« Ultima modifica: Settembre 22, 2008, 11:02:15 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 28, 2007, 10:48:37 pm »

La fecondazione e l’accanimento

Luigi Cancrini


Il modo in cui alcuni personaggi del mondo politico che hanno avuto un ruolo decisivo nella scrittura della legge 40 sulla fecondazione assistita si preoccupano della salute delle donne e dei bambini è stato reso drammaticamente evidente, ieri, dall'On. Volonté, capogruppo dell'Udc alla Camera. Con una interrogazione presentata al ministro della giustizia Mastella, egli ha avuto la sfrontatezza di chiedergli, infatti, un intervento ispettivo ed, eventualmente, disciplinare nei confronti dei magistrati del Tribunale Civile di Cagliari: rei, a suo avviso, di aver offeso la legge e «la volontà del popolo italiano» nel momento in cui hanno deciso di accogliere l'istanza di una donna, portatrice sana di betatalassemia, per la diagnosi preimpianto nel suo embrione congelato. Disponendone l'esecuzione in un Centro ospedaliero fra i più qualificati nel campo della fecondazione medicalmente assistita e della prevenzione delle malattie genetiche e permettendo, così, ad una coppia che correva un rischio alto di mettere al mondo un bambino gravemente e irrimediabilmente malato, condannato ad una breve vita e ad una serie infinita ed ingiusta di sofferenze, di fare le sue valutazioni e di assumere le sue decisioni da subito. Senza dover aspettare, cioè, l'amniocentesi del quarto mese di gravidanza.

Non c'è in realtà paese al mondo in cui si sia arrivati a definire una situazione così assurda.

Ce lo segnalano ogni giorno le coppie che se ne vanno all'estero per ottenere un'assistenza che la legge italiana non consente loro di ottenere qui. Quello che particolarmente mi ha colpito ieri, tuttavia, ascoltando Volonté che parlava alla Camera è il modo in cui un deputato ha sentito la necessità di esprimersi pubblicamente, e con tanta violenza, nei confronti di due persone che hanno esercitato in modo così semplice un loro diritto naturale criticando il Tribunale che ha accettato di tutelarlo.

Serve una mancanza totale di comune senso del pudore, mi veniva da pensare ascoltandolo, per accanirsi così nei confronti di persone che il destino ha messo di fronte ad una scelta così difficile e dolorosa e per opporsi, con tanta rigida imperturbabilità, a quelli che sono per fortuna i progressi della ricerca scientifica. L'on. Volonté dovrebbe ricordarsi forse, a questo punto, che anche un Papa ha deciso, dall'alto della sua «infallibilità», di riconoscere gli errori fatti dalla Chiesa nei confronti di Copernico, di Galilei e di tanti altri scienziati. Ma dovrebbe ricordare anche, un po' più vicino alla materia di cui continua ad interessarsi, che perfino una legge discutibile come la legge 40 non proibisce affatto la diagnosi preimpianto.

È stato solo il ministro Sirchia, infatti, con una circolare faziosa ed alquanto originale, a indicare che tale diagnosi poteva essere fatta solo utilizzando un metodo «osservazionale». Escludendo, cioè, per ragioni da lui mai spiegate (ed in effetti difficilmente spiegabili), non la diagnosi in sé e per sé ma la diagnosi fatta con l'unico strumento davvero efficace, quello legato all'indagine cromosomica. Passando sopra dunque con disinvoltura degna di miglior causa al primo obbligo che un medico ha nell'esercizio della sua professione: quello di occuparsi, in scienza e coscienza, della salute di chi a lui si rivolge utilizzando a tal fine tutti i mezzi che le conoscenze scientifiche mettono a sua disposizione.

Le linee guida di Sirchia possono e debbono essere modificate ora dal ministro Turco che riferirà alla Camera su questo tema nei primi giorni di ottobre. Lo chiede da oggi con chiarezza l'On. Sanna, deputato dell'Ulivo, medico e pediatra, con una interpellanza urgente cui ci siamo uniti in molti. Quella di cui va dato atto al Tribunale di Cagliari, dice Sanna, è una decisione inattaccabile dal punto di vista giuridico, con cui si liberano sia le donne sia i medici dall'obbligo di impiantare embrioni potenzialmente portatori di gravi patologie e sui quali si può intervenire solo con traumatiche interruzioni di gravidanza di cui Sirchia e Volontè non vogliono considerare le dolorose conseguenze cliniche, psicologiche e familiari. Quella di cui va dato atto al capogruppo dell'Udc, d'altra parte, è una indifferenza totale di fronte a sofferenze che per sua fortuna non lo riguardano personalmente. Come accade spesso, purtroppo, a chi aderisce ideologicamente ad una dottrina di cui dimentica il fondamento: la parola di un uomo che si chiamava Gesù.

Pubblicato il: 28.09.07
Modificato il: 28.09.07 alle ore 9.28   
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 10, 2007, 06:32:00 pm »

Bioetica: comitato o tribunale?

Carlo Flamigni


Nel Comitato Nazionale di Bioetica c'è attualmente un forte clima di tensione che stenta a stemperarsi per la sola ragione che nessuno parla direttamente al proprio interlocutore: ho letto in questi giorni dichiarazioni villane, accuse bizzarre, solidarietà improprie e posso solo augurarmi che questo clima piuttosto isterico ceda al buonsenso prima della prossima plenaria di ottobre. Come contributo personale, non entrerò in merito e aspetterò che il problema venga affrontato e discusso nella sede appropriata. A mio personale avviso, però, il nodo che il CNB deve sciogliere non riguarda la bravura del Presidente nell'affrontare i problemi, i litigi dei vicepresidenti o il quesito (irrisolvibile) dell'appartenenza mia, di Demetrio Neri e di Gilberto Corbellini alla sinistra radicale o a quella post-comunista.

Il problema, molto più antico, riguarda il profondo disaccordo che ancora sussiste a proposito dei reali compiti del Comitato.

Una premessa, necessaria perché il lettore possa capire. Il CNB non è una istituzione elettiva e, perciò, democratica: Presidente e membri vengono scelti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ragion per cui le maggioranze interne che si formano sono del tutto casuali e prive di significato. Fino ad oggi queste maggioranze sono state sempre cattoliche, ma questo sappiamo tutti da cosa dipende. I compiti del Comitato, per statuto, sono:

- elaborare un quadro riassuntivo dei programmi, degli obiettivi e dei risultati della ricerca nel campo delle scienze della vita e della salute dell'uomo;

- formulare pareri e indicare soluzioni per affrontare i problemi di natura etica e giuridica che possono emergere con il progredire delle ricerche e con la comparsa di nuove possibili applicazioni di interesse clinico;

- prospettare soluzioni per le funzioni di controllo rivolte alla tutela della sicurezza dell'uomo e dell'ambiente nella produzione di materiale biologico e alla protezione dei pazienti trattati con prodotti dell'ingegneria genetica o sottoposti a terapia genica;

- promuovere la redazione di codici di comportamento per gli operatori dei vari settori interessati a favorire una corretta informazione dell'opinione pubblica.

Il Comitato ha davanti a sé due scelte possibili: può comportarsi da «piccolo parlamento» o, se volete, da tribunale che giudica le scelte in campo etico e alla fine propone la soluzione giusta alla Presidenza del Consiglio dei Ministri perché la usi per costruire le sue leggi; in alternativa può comportarsi come un laboratorio, prospettando le varie posizioni esistenti sui differenti problemi, specificandone vantaggi e svantaggi, chiarendone i punti più complessi e controversi e usando i documenti prodotti per promuovere la cultura specifica dei cittadini e del Parlamento.Il «Comitato tribunale» è naturalmente costretto a votare, perché deve dare alla politica un unico parere, quello della maggioranza, secondo il principio della cosiddetta «bioetica normativa». Ciò è, a mio avviso, sbagliato per due motivi: perché crea graduatorie tra le diverse etiche, cosa assolutamente impropria in un paese laico, ma probabilmente considerata logica e normale negli Stati etici, quelli nei quali il libro della religione è anche il libro della legge (ma questi Paesi non hanno Comitati di bioetica); la seconda ragione per la quale è assurdo stabilire qual è la morale giusta a colpi di maggioranza riguarda la casualità con la quale questa maggioranza si forma, inevitabile conseguenza del fatto che, come ho già detto, la scelta dei membri del CNB non risponde a nessuna delle regole della democrazia. Chi è favorevole a questa scelta, mi ricorda la possibilità di accludere ai pareri ufficiali postille contenenti l'opinione di chi dissente, ma posso affermare che queste osservazioni vengono lette solo da alcuni studiosi, giornali e lettori comuni le ignorano completamente.

Il «Comitato laboratorio» compie una operazione del tutto diversa: cerca i punti di contatto tra le diverse posizioni e parte da questi per delineare le diversità, valutarle, eventualmente criticarle, comunque metterle a confronto. In questo modo rispetta tutte le culture e tutte le ideologie e si comporta in modo virtuosamente laico, lasciando alla politica il suo mestiere, che è quello di mediare e di scegliere. Il professor D'Agostino, presidente onorario del CNB, lo chiama, con una sfumatura di disprezzo, il metodo dossografico, perché evidentemente gli ricorda l'opera di Teofrasto e degli antichi scrittori che raccoglievano le dottrine e le filosofie dei filosofi greci, ma il professor D'Agostino vorrebbe trasformare i documenti del Comitato in formule dossologiche e va capito. In ogni caso nel 1990, in una delle primissime riunioni dell' appena costituito CNB, Eugenio Lecaldano ed io chiedemmo al presidente Bompiani di non votare sui problemi che avevano a che fare con scelte morali e il professor Bompiani, con raro senso dell'umorismo, mise ai voti la nostra proposta.

La critica più utilizzata contro questo metodo, quello che chiamerò per semplicità il metodo dossologico (spero che il professor D'Agostino sia soddisfatto della mia scelta delle parole) riguarda la eventualità che tra le posizioni morali incluse nei documenti ce ne possano essere di astruse, o folli, o esplicitamente immorali, almeno secondo il senso comune. Ma il Presidente del Consiglio ha fatto le sue scelte personali, ha indicato una trentina di persone delle quali vuole conoscere l'opinione, dimenticando tra l'altro sistematicamente di inserire un valdese o un buddista, riceverà le informazioni che quelle persone decideranno di fargli avere, non altre, nessuno certamente si farà paladino della pedofilia. Se ricordo bene questo è stato uno dei primi argomenti di discussione dell'attuale Comitato, oggetto di uno scritto al Presidente di Demetrio Neri e di una mia richiesta verbale, argomento purtroppo restato a mezz'aria, come tutte le cose che è sgradevole esaminare.

Le conseguenze della scelta del CNB di comportarsi come un tribunale sono sotto gli occhi di tutti e non sono certamente positive. È stato il CNB a dare inizio a questa «dittatura dell'embrione» ed è il CNB il responsabile dell'attuale ostilità, preconcetta e stupida, nei confronti della ricerca sulle cellule staminali embrionali. Adesso che Mario Capecchi è stato premiato con il premio Nobel per i suoi studi in questo specifico settore dovrebbe essere chiaro a tutti che qualsiasi cosa accada in avvenire, è questa la ricerca che ha fornito il maggior numero di informazioni scientifiche e che ha consentito ai ricercatori che si occupano di staminali adulte di progredire con straordinaria rapidità. A me però è sempre stato detto che in questi casi di «complicità», quando è provata la «cooperatio ad malum», un buon cristiano non può avvalersi di quanto una ricerca apparentemente ineccepibile sul piamo etico gli può regalare. Significa che se domani fosse possibile guarire la leucemia con farmaci prodotti con le staminali «buone» i cattolici non potrebbero usarli per i loro figli perché c'è stata contaminazione con la linea di ricerca «cattiva». C'è qualcuno che ci crede? E perché dal CNB non è mai uscito un rigo su questi temi?

Concludo. Il Comitato di bioetica ha recentemente e faticosamente approvato una mozione contro la compravendita di oociti e molti dei suoi membri si sono espressi criticamente (molto criticamente) nei confronti della decisione dell'Autorità britannica per l'embriologia e la fertilità di valutare progetti di ricerca su embrioni ibridi uomo-animale. Un membro di questa Autorità, Emily Jackson, e il direttore del laboratorio di ricerca sulle staminali del King's College di Londra, Stephen Minger, saranno a Roma il 15 e il 16 ottobre su invito dell'associazione Luca Coscioni per discutere di questi temi. Che ne dicono i membri cattolici del CNB di partecipare a queste due riunioni per cercare un confronto pacato? Possibile che la scelta ricada sempre sull'invio di dichiarazioni poco civili ai giornali cattolici? Ripaga?

Pubblicato il: 10.10.07
Modificato il: 10.10.07 alle ore 8.47   
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 31, 2007, 11:14:21 am »

Il dibattito aperto da Mori prosegue (30 ottobre 2007)

Laicità, il metodo che consente la convivenza di diverse ideologie
di Carlo Flamigni*


Maurizio Mori, nella sua attenta e intelligente analisi dei rapporti tra religione e politica ( sono personalmente convinto che la morale ha ben poco a che fare con questo difficile dialogo) ha posto con la sua consueta concretezza il problema della “mediazione”. Poiché ho inutilmente tentato, per quasi 20 anni, di proporre mediazioni nel campo della bioetica e sono stato sistematicamente preso a calci sia dalla Chiesa cattolica romana ( forse è più giusto dire dal Magistero cattolico) che dal mio defunto partito, vorrei tentare di dare un contributo a questa discussione.
Mi chiedo anzitutto se esista veramente qualcuno disposto a iniziare questo dialogo, a dar corpo a una sorta di trattativa preliminare, e non sono sicuro di saper rispondere. Spero solo che qualcuno non pensi di poter identificare questo ipotetico interlocutore nel Vaticano, l’ipotesi mi sembra assolutamente priva di consistenza. Ricordo – ma so che si tratta di cosa nota – il contenuto di una conferenza tenuta dall’attuale pontefice ai parlamentari cattolici europei, un discorso al quale  ci si riferisce quasi sempre come alla “teoria del non possumus”. In quella circostanza il pontefice disse ai parlamentari intervenuti come fosse loro preciso dovere non arretrare mai di un solo passo quando erano in discussione i temi “eticamente sensibili”, e in particolare  quelli relativi all’inizio e alla fine della vita, alla dignità della procreazione e alla famiglia, sui quali un cattolico non può assolutamente mediare né accettare compromessi. Si tratta, e lo sa chi conosce  le posizioni molte volte assunte da Ratzinger, di una conclusione inevitabile: è, ancora una volta, l’etica della verità, privilegiata anche dopo averne dovuto constatare il carattere conflittuale e la complessiva impopolarità, molto diffusa anche e soprattutto tra quei  cattolici identificati da Prini come autori di una sorta di  scisma sommerso , una devianza che sembrava rispondere alle esigenze del buon senso e della storia.
Posso accettare e posso persino comprendere la grande presunzione che si cela dietro l’etica della verità, una tentazione alla quale è difficile resistere se si ritiene di essere portatori di una luce e si è convinti che  questa fiaccola, l’unica che illumini le tenebre tra le quale brancola l’uomo, sia stata accesa direttamente da Dio. Il problema sta nel fatto che questa luce dovrebbe illuminarci il cammino non tanto, o non solo, verso la salvezza, ma anche verso una casa comune, rifugio di tutti coloro che credono in questa verità rivelata e  ispiratrice diretta di tutte le norme alle quali dovremmo adeguare  i nostri comportamenti. Tutto ciò mi crea una notevole confusione: in realtà vedo la casa della quale mi parlano, sono costretto a obbedire alle norme giuridiche che riesce a dettare al mio Paese, ma mi sembra assai più un mercato che  un tempio e francamente non la definirei proprio come il contenitore privilegiato di una unica verità. Debbo fare, per chiarire questo punto, alcuni esempi.
Richiamo anzitutto la vostra attenzione sull’ipotesi relativa all’inizio della vita personale che il Magistero cattolico identifica (oggi, pochi anni or sono la definizione era diversa) nella attivazione dell’oocita ( anche perché più indietro di così non si può andare, si finirebbe nelle gonadi dei cittadini). Sostenere questa posizione è molto difficile: per farlo, i bioeticisti cattolici hanno smesso di discutere sulla definizione di persona, in realtà troppo controversa, e si sono rivolti alla biologia, ignorando persino le raccomandazioni dello stesso Ratzinger e del Donum Vitae nel quale potete trovare un esplicito invito a questa disciplina scientifica a non immischiarsi in cose che non la riguardano. Sono personalmente molto d’accordo con questa raccomandazione: i padri della biologia, a cominciare da Claude Bernard,  hanno sempre sostenuto di voler rimanere estranei a definizioni come quelle relative alla vita e al mistero che la circonda. Ma i bioeticisti cattolici, che amano definirsi laici e razionali, trovano grande conforto nell’individuare un sostegno, alle loro razionali e laiche teorie metafisiche, nella scienza: ma siccome sono, oltre che laici e razionali, anche straordinariamente dotati di fantasia, sono riusciti a formulare, sull’inizio della vita personale, almeno otto differenti teorie, secondo le quali, per trovare “uno di noi”, bisogna guardare all’oocita penetrato, all’ootide, allo zigote, alla blastocisti, alla linea embrionaria primitiva, e ad altre strutture che vi risparmio per evitare complesse e noiose definizioni. A sostegno di queste ipotesi potete trovare i nomi di teologi, bioeticisti e principi della Chiesa, nomi illustri di uomini di ingegno: che io sappia, d’altra parte, nessuna di queste teorie è stata condannata, anche se immagino che si tratti comunque di fratelli che sbagliano, perché non credo che l’etica di Ratzinger contempli verità molteplici. Errata o meno che sia, ognuna di queste ipotesi pretende di avere il conforto della biologia, e questo ve la dice lunga  sulla razionalità di queste costruzioni teoriche.
Ci sono dunque molte fiaccole accese, dentro alla casa comune, anche se dobbiamo ammettere che si tratti, per lo più, di fuochi fatui. Si tratta comunque di un dignitoso confronto di opinioni, che confonde un po’ l’osservatore esterno ma che non merita particolari critiche.  Ma è proprio sempre così?
Il Paese europeo che viene considerato da tutti come il più rigorosamente cattolico è certamente l’Irlanda, una nazione nella quale l’episcopato ha sempre interferito con l’amministrazione della cosa pubblica, condizionandola nelle stesura delle norme relative a  problemi etici fino a farle inserire dei veri e propri proclami religiosi all’interno dalla Costituzione. L’Irlanda è ormai l’unico Paese, in Europa, che  condanna l’interruzione volontaria della gravidanza, esclusa persino nelle circostanze nelle quali è a rischio la salute della madre, e ciò anche in virtù di una norma costituzionale che assicura alla vita nascente protezione assoluta sin dal momento del concepimento. Nel 2002 il Governo irlandese, per ragioni troppo lunghe da spiegare, ha cercato di portare qualche modifica alla legge e, per farlo, ha proposto di modificare quel particolare articolo della Costituzione: protezione sì, ma non più a partire dal concepimento, ma soltanto dall’impianto in utero.
Questa modifica, apparentemente di scarsa importanza, in realtà comporta conseguenze di straordinario rilievo: ad esempio, abbandona l’embrione in provetta al suo destino, il che significa un implicito consenso alle sperimentazione e alla produzione di cellule staminali embrionali e alle indagini genetiche pre-impiantatorie.: insomma, una posizione in aperto contrasto con quella della Chiesa cattolica romana e un omaggio al “personalismo relazionale” sostenuto da una parte del mondo protestante.
Poiché tutte le modifiche della Costituzione debbono avere l’approvazione del popolo, nel 2002 è stato indetto un referendum (vi anticipo che la modifica della costituzione non è stata approvata) e si sono subito delineati gli schieramenti: contrari i cattolici più  intransigenti; favorevoli , oltre a una parte dei partiti politici che sostenevano il governo, con grande sorpresa generale, tutti i vescovi, persino quelli ausiliari.
Come vi ho anticipato, il referendum si è concluso con una risicata vittoria di chi voleva mantenere la versione originale dell’articolo. Forti di questa vittoria, i giornali cattolici irlandesi più intransigenti hanno attaccato l’episcopato, accusandolo di aver stipulato un (vergognoso) contratto con il governo: in cambio di un esplicito appoggio politico  il governo si sarebbe addossato il carico – per niente indifferente – dei rimborsi dovuti a un enorme numero di famiglie dei bambini che , soprattutto tra il 1950 e il 1970, erano stati violentati da sacerdoti cattolici, uno scandalo emerso con incredibile ritardo e che aveva già notevolmente minato la credibilità dell’episcopato, colpevole di avere coperto i responsabili per oltre vent’anni.
Ebbene, di tutta questa storia e, in particolare di questa posizione eretica relativa all’inizio della vita personale, non ho trovato alcuna traccia nei giornali cattolici italiani, che attualmente, con grande impudenza, stanno plaudendo alle posizioni anti-abortiste degli irlandesi, alcun giudizio critico, niente . Siamo tutti uomini di mondo, è vero, inutile atteggiarsi a verginelle e fingere di indignarsi, nel nostro paese succede di peggio, ma è almeno legittimo affermare che quella splendida casa comune che ospita quanti sono stati illuminati dalla luce della verità (compresi i vescovi irlandesi) adesso ci sembra un po’ più simile a un mercato? Illuminato, è vero, ma esistono supermercati luminosissimi.
E come se la cava, l’etica della verità, questo presunto monolite, con la storia e con il buon senso? Anche qui, i guai sono molti e molto complessi, come potrete desumere dall’esempio che segue.
E’ noto a tutti che l’ultimo premio Nobel per la medicina è stato assegnato a un ricercatore che ha dedicato gran parte della sua vita scientifica allo studio delle cellule staminali embrionali. Non voglio riaprire qui l’annosa e ormai inutile diatriba sul primato di questa o di quella cellula, ma penso che non esistano ormai più dubbi sul fatto che  la ricerca sulle staminali embrionali abbia consentito fondamentali progressi a tutto il settore. Si è così configurata, per i teologi cattolici,  una cooperatio ad malum , quella sorta di complicità tra ricerca lecita e ricerca illecita che rende la prima altrettanto inaccettabile quanto la seconda. Le conseguenze di questa inevitabile tracimazione di informazioni e di scoperte sono altrettanto inevitabili: se in un avvenire più o meno lontano gli studi sulle staminali adulte dovessero avere successo, e consentire, ad esempio, di curare con successo una malattia sistemica attualmente mortale, un buon cattolico non dovrebbe tenerla in alcun conto, trattandosi del risultato di una ricerca immorale perché contaminata. Provate a fare una rapida inchiesta tra i genitori (cattolici) di bambini gravemente ammalati e mi saprete dire quanti di loro sono disposti a optare per la dolorosa ( ma pia) rassegnazione. Deve esserci da qualche parte un nome che definisce le norme così prive di buon senso da risultare stupide.
Dunque, con questa parte dell’universo cattolico mi sembra proprio impossibile dialogare; e non essendo personalmente adatto al commercio, temo che anche le vie non ufficiali mi siano precluse. Ma il mondo cattolico non è, per fortuna, soltanto questo, esistono comunità che hanno privilegiato un’etica diversa, che definisco per semplicità l’etica della compassione, che molti laici si sentono di condividere.
A questo punto è però opportuno aprire una nuova discussione, perché non mi è del tutto chiaro il tipo di dialogo che  dovremmo aprire con queste persone. Per il momento, mi limito a due diverse ipotesi.
Potremmo anzitutto proporre l’applicazione piena del principio di laicità, inteso come metodo utile per consentire la convivenza di differenti ideologie e di diverse filosofie. Uno stato laico dovrebbe garantire libertà di religione e di culto considerando in linea di principio tutti i convincimenti su un piano di uguale libertà, senza mai istituire, nei loro confronti, né un sistema di privilegi né un sistema di controlli, senza mai nulla concedere a quelle forme di potere che si sono costituite secondo regole non democratiche ( penso all’Opus Dei e alla massoneria).  La capacità di mediazione di questa scelta è evidentemente modesta, capace forse di trasformare i contrasti in divergenze, ma incapace di costruire una società omogenea e con l’inevitabile rischio di costruire società contigue, incapaci di assottigliare le proprie diversità, tendenti a una crescita non uniforme  e separata. In alternativa, penso alla mediazione costante e puntuale su tutti i principi “non ultimi”, possibile solo in assenza di posizioni protette da qualche tipo di dogma, impermeabili al dubbio, per la quali ogni forma di mediazione è evidentemente impossibile., qualcosa che assomigli all’isola per stranieri morali proposta da Tristam Engelhardt.
Non è marginale, nell’analisi di queste diverse possibilità, il ruolo che dovrebbe essere affidato al Comitato Nazionale per la Bioetica, il problema che è alla base dei recenti dissidi che hanno turbato la vita del Comitato stesso. Fino ad oggi la scelta del CNB è stata quella di comportarsi come un piccolo parlamento, che sceglie, a colpi di maggioranza, le verità morali sulle quali il Parlamento vero dovrebbe costruire le proprie norme giuridiche quando si tratti di materie eticamente sensibili. Il Comitato, che non è un organismo eletto e che non vedo come possa stabilire al proprio interno l’esistenza di una maggioranza, dovrebbe capire che scegliere tra differenti opzioni morali è piuttosto diverso da un concorso di bellezza, e che se si può accettare che esista una ragazza più bella delle altre, è per lo meno stupido immaginare che esistano regole morali  migliori in assoluto, una follia degna dei più arretrati tra gli stati etici. Il compito del CNB dovrebbe essere quello di comportarsi come un laboratorio e di preparare i suoi documenti secondo i criteri dell’etica descrittiva, affidando poi alla politica il compito di mediare e di scegliere. E’ su questa capacità di mediazione che si dovrebbe poi misurare la laicità di uno stato, che dovrebbe trovare soluzioni capaci di evitare il disordine senza ferire le sensibilità, attentare ai diritti, incoraggiare la separazione e il rancore.

Componente il Comitato Nazionale di Bioetica e il Comitato Promotore di Sd

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 23, 2007, 06:38:33 pm »

L'embrione dell'Avvenire

Carlo Flamigni


Non dico di essere commosso, ma certamente sono molto colpito dall’entusiasmo che alcuni commentatori cattolici dimostrano nel presentare, su Avvenire e su altri giornali, le ultime novità della ricerca sulle cellule staminali. Si è letteralmente messa in moto una gioiosa macchina da guerra (che importanza ha che si tratti solo di soldatini di latta? Importanti sono l’entusiasmo e la buona fede), e la fresca ingenuità degli articoli fa passare in secondo piano il fatto che questa stampa cerchi di ammannirci un numero incredibile di inesattezze, che ignori alcuni dei punti più importanti della questione, che citi solo quello che conviene, insomma, che rappresenti un esempio luminoso del giornalismo più indecoroso e insincero.

Un signore che non conosco, tale Luc Volonté, ha persino scritto che a questo punto dovrei chiedere scusa agli italiani (a tutti? anche agli embrioni?). Il signor Volontè, che immaginavo di origini francesi, è invece un italiano che sa poco di biologia e del quale si cita una iniziativa contro un fantomatico «Monte dei Maschi di Siena», la maggiore banca del seme italiana (ma secondo me è una calunnia). A mio avviso dovrebbe chiedere scusa lui all’italiano per aver usato la parola «occisivo» alludendo alla fecondazione assistita.

Riassumo per i meno attenti. Tutti ricorderanno la diatriba che riguarda le cellule staminali, i cattolici appassionatamente dedicati a sostenere la ricerca sulle staminali “adulte” e a ricordarci con tediosa insistenza che l’embrione è uno di noi, che la ricerca sulle staminali embrionali sacrifica migliaia di esseri umani, magari un po’ piccoli, ma sempre uguali a noi esseri umani adulti, gli altri a sostenere che le cellule staminali embrionali sono, tra tutte, le più dotate della potenza indispensabile per trasformarsi in cellule dei più diversi tessuti. Tra le molte critiche che i bioeticisti cattolici hanno avanzato nei confronti dell’impiego delle staminali embrionali, ne cito al momento solo una: si tratta di esperimenti pericolosi perché nella loro attività proliferativa le staminali embrionali comprendono anche un possibile sviluppo di tumori.

Ora, scienziati di due differenti équipes, una giapponese e una americana, hanno ottenuto cellule staminali molto simili a quelle embrionali partendo da linee cellulari adulte prelevate dalla pelle (quindi non da cellule staminali) sia umana che di animali da esperimento. Per ottenere questo risultato hanno inserito nelle cellule le copie di quattro geni (presenti nel corso dello sviluppo embrionale, ma inattivi nelle cellule differenziate adulte) affidati a un retrovirus che si è comportato da vettore. Una volta riattivati, i geni hanno ricostituito nelle cellule una condizione di pluripotenza indistinguibile da quella delle cellule staminali embrionali, consentendo loro di trasformarsi nelle cellule di qualsiasi tessuto umano. Nella sperimentazione fatta sul topo, queste cellule sono state trasferite all’interno di una blastocisti (un embrione giunto al quinto giorno di sviluppo) e hanno contribuito alla formazione di topi chimerici, essendo presenti persino nelle cellule germinali.

Leggere i titoli dei giornali cattolici è una vera esperienza di vita: «Scienza, uccidere non serve»; «Spazzato via l’alibi di chi distrugge embrioni»; «È ideologico perseverare sugli embrioni». La lettura degli articoli è ancora più appassionante: si va da un benevolo «Chi insiste su questa strada lo fa per interessi diversi da quelli scientifici» a un ingenuo «Bye Bye Dolly», apprezzabile perché supplisce alla scarsa cultura con un simpatico entusiasmo.

Poi uno va a leggere un po’ meglio i resoconti e le interviste, e scopre che sia il giapponese (Yamanaka) che l’americano (Thomson) hanno dichiarato che questi progressi della ricerca scientifica non tolgono nulla all’importanza delle ricerche sulle cellule staminali prelevate dagli embrioni, che continueranno; scopre che entrambi affermano che questi sono risultati preliminari e che bisogna avere molta pazienza prima di poter dare per dimostrato che esiste una applicazione pratica di queste scoperte; che queste cellule hanno la capacità di indurre la comparsa di tumori (ma non era il più straordinario degli ostacoli all’uso delle cellule staminali embrionali fino a ieri?); che bisogna ancora apprendere come poter distinguere con certezza le cellule staminali embrionali da quelle create grazie al nuovo metodo scientifico; che non è ancora sufficientemente chiaro se queste cellule siano analoghe a quelle prelevate dalla massa cellulare interna della blastocisti (in questo caso sarebbero pluripotenti) o piuttosto simili ai blastomeri delle morule (e in questo caso si tratterebbe di cellule totipotenti, cioè di embrioni, e allora che cavolo mi state a raccontare? siamo punto e a capo).

A me sembra che la cosa più interessante che risulta da queste ricerche è il riconoscimento della fondamentale importanza delle cellule staminali embrionali, comunque ottenute: la ricerca sulle cellule staminali embrionali è più importante di quella sulle staminali adulte. Quale sarà poi il miglior metodo per ottenerle, lasciamo che ce lo dica il tempo, i ricercatori si adegueranno alla sperimentazione più semplice e meno costosa, nessuno di loro è matto e anche i Frankestein, all’interno del loro sparuto gruppo, sembrano distratti da altre preoccupazioni (capire per esempio dove sono andati a nascondersi tutti quegli uomini politici e quegli scienziati che hanno sempre cercato di sostenere le loro - legittime - riserve etiche raccontando in giro che la ricerca sulle staminali embrionali non serviva a niente e che era più che sufficiente quella sulle staminali adulte).

Vorrei comunque alcuni chiarimenti, da questi simpatici festaioli (è generico, tra loro ci sono anche distinte signore). Anzitutto vorrei conoscere le ragioni di tanta sorpresa e di tanti elettrizzati peana di vittoria: se non ricordo male il professor Vescovi, aveva già superato tutti i motivi di questi contrasti etici quando (Science, 1999) aveva dichiarato di poter trasformare le cellule staminali adulte del cervello in sangue, avendo scoperto che le adulte erano altrettanto pluripotenti quanto le embrionali al punto da rendere queste ultime inutili. In ogni caso, se questa è la via da seguire, quella da chiudere con urgenza è la strada lastricata d’oro del trapianto di cellule staminali adulte prelevate da aborti spontanei, mai caratterizzate, mai validate, sulle quali i ricercatori cattolici e gli atei compunti sembrano insistere tanto. In terzo luogo, vorrei tanto sapere come mai non ha più nessuna importanza, per tanti bravi cattolici, la famosa cooperatio ad malum in nome della quale, fino a non molto tempo fa, venivo brutalmente zittito nei pubblici dibattiti. Capisco che la cosa può sembrare misteriosa, ma non è così, ve la spiego rapidamente. Questo concetto si basa sul principio della cosiddetta complicità indiretta: se qualcosa deriva da una catena di eventi che inizia con un atto moralmente eccepibile, tutti i suoi anelli sono macchiati dalla immoralità originaria, non importa quanto grandi siano i benefici e indipendentemente dal fatto che l'atto immorale iniziale sia stato o no condannato da chi ha potuto fruire di questi vantaggi, perché l’immoralità, il disvalore, si trasferisce dal primo atto eticamente condannabile a tutti gli atti successivi. È possibile che questo trasferimento di colpa implicita si arresti in un qualsiasi stadio della catena di indagini, così che da quel momento in avanti chi trae vantaggio dai risultati possa essere considerato esente da colpe morali? Non ne sono sicuro, ma immagino che la risposta dipenda da molte cose, come la gravità dell’atto, il carattere determinante della cooperazione, la natura dei benefici e il fatto che essi siano così importanti da incoraggiare la ripetizione dell’atto immorale iniziale. In ogni caso, ritengo che sarebbe immorale utilizzare una conquista scientifica che si fosse basata su ricerche eseguite dai criminali tedeschi nei campi di concentramento. In ogni caso, la Pontificia Accademia per la vita ha condannato non solo la possibilità di utilizzare le cellule staminali embrionali, ma anche la loro progenie cellulare e ciò perché esiste «cooperazione materiale prossima nella produzione e nella manipolazione degli embrioni umani da parte del produttore o fornitore»: è complicità indiretta, cooperatio ad malum.

Che nessuno per favore mi venga a raccontare che gran parte delle conoscenze che hanno consentito a Thomson e a Yamanaka di ottenere i risultati dei quali discutiamo non derivano da studi eseguiti sugli embrioni, studi dei quali Thomson è particolarmente esperto, studi che Yamanaka continuerà a condurre per accumulare ulteriori conoscenze. Quindi, come la mettiamo? Uccidere non serve (forse) più, abbiamo già dato? O la religione cattolica ha deciso di adeguarsi, di non prendere troppo di petto questo mondo inquieto e incerto e di inserire, tra i propri comandamenti, anche un bel “scurdammoce o’ passato”?

Leggo, tra le richieste dei bioeticisti cattolici, anche quella di sospendere i finanziamenti delle ricerche sulle staminali embrionali (ma non è un suicidio? Anche quelle di Yamanaka sono, adesso, staminali embrionali!), ma su questo punto ritornerò, ho bisogno di spazio. Per il momento mi limito a riproporre ai bravi cattolici la questione che ho già presentato loro in un precedente intervento su questo giornale: come mai i vescovi irlandesi si sono dichiarati tutti favorevoli a modificare la norma costituzionale che prevede la protezione dell’embrione a partire dal concepimento spostando l’inizio di questa tutela al momento in cui l’embrione si impianta? In altri termini, come mai i buoni vescovi irlandesi hanno scelto di privare di protezione l’embrione fuori dal grembo materno, autorizzando implicitamente la produzione di cellule staminali dalla blastocisti e altre consimili porcherie? Non ci saranno, in seno al Vaticano, eretici e miscredenti che si sono lasciati contagiare da queste o da altre teorie diaboliche? Non sarebbe poi così strano, tutte le dittature creano qualche forma di resistenza, perché la dittatura dell’embrione dovrebbe fare eccezione?


Pubblicato il: 23.11.07
Modificato il: 23.11.07 alle ore 13.05   
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 15, 2008, 12:06:39 pm »

di Carlo Flamigni*



Vita, morte e miracoli
 
Questa questione della morte sta diventando una sorta di rebus del quale il Magistero cattolico ha deciso di dare una interpretazione personale, la correttezza della quale sarà lui stesso a decidere: l’autoreferenzialità è privilegio dei poteri forti, inutile illudersi. Del resto mi sembra che questo Magistero – ma non è stato sempre così – sia particolarmente interessato  a due tratti specifici della mia vita, quello che ha preceduto la mia nascita e quello che seguirà  la mia morte , mentre prova scarso interessa per il tratto intermedio, l’unico che interessa a me. Pazienza.
Non mi dilungherei sul problema della definizione di morte, la signora Scaraffia, nel mettere in discussione la definizione universalmente accettata di morte cerebrale, ha fatto – fatemi usare una espressione che usavo quando ero ragazzo e che credo non sia più di moda – la pipì fuori dal vaso, il Vaticano l’ha già ripresa, i bioeticisti cattolici le hanno tirato le orecchie, tutto è rimasto come era. Sono abbastanza vecchio da ricordare quella discussione, ero personalmente favorevole alla scelta basata sull’accertamento di morte corticale, non credo che potrei intrattenere rapporti cordiali con individui talamici, ma debbo ammettere che la scelta si è alla fin fine rivelata utile, non vedo perché ritornarci sopra.  Vale invece la pena  ragionare, separatamente, sul tema che nessuno vuole affrontare, l’eutanasia, e su quello che vogliono discutere in troppi, il destino delle persone in stato vegetativo e, di conseguenza, la questione del testamento biologico.
La prima domanda che dobbiamo porci è se esista una giustificazione morale alla scelta dell’eutanasia come possibile termine del percorso terreno di un individuo.
Credo che si possa partire da un dato di fatto: la domanda di eutanasia è cresciuta via via che si sono modificate le circostanze del morire ed è per questo che l’etica medica è dovuta tornare a ragionare di temi sui quali sembrava fosse stato ormai detto tutto, si è dovuta rendere conto del fatto che le risposte tradizionali erano largamente insufficienti.
Credo che la parola eutanasia sia stata usata per la prima volta da Svetonio, che ne parlava riferendo il desiderio di Augusto di andare incontro a una morte serena e priva di sofferenza. Ma somministrare una morte pietosa a chi soffre  è abitudine antica. Negli eserciti greci e in quelli romani c’era sempre un medico – o comunque un uomo che sapeva di medicina – che dopo le battaglie andava sul campo a verificare le condizioni dei feriti e dei moribondi e, con uno scalpello e un martelletto, causava una lesione mortale del midollo spinale, alla base del cranio, ogni qual volta si rendeva conto che per quel ferito non c’era speranza di sopravvivenza ma solo certezza di dolore e sofferenza. Gli storici raccontano che questi “portatori di morte” erano trattati con rispetto e deferenza dai soldati, che apprezzavano questi atti di pietà.
Bacone scriveva che i medici avrebbero dovuto imparare l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con maggiore dolcezza e serenità, e nei secoli molti filosofi  hanno giudicato criticamente il giuramento di Ippocrate.
Eppure, un tempo la morte arrivava rapidamente, sia perché sopraggiungevano complicazioni delle malattie che i medici non sapevano trattare,  sia perché nessuno, in realtà, la contrastava. Il vitalismo medico era certamente velleitario, nella maggioranza dei casi il malato decedeva a casa sua, non sempre dolcemente e quietamente, certo, ma di solito molto rapidamente.
Nel 1928 Giuseppe Del Vecchio pubblicò un libro intitolato “Morte benefica”  nel quale si schierava in favore della liceità degli interventi di eutanasia, ma nella prefazione Tullio Murri si chiedeva se valesse effettivamente la pena introdurre nell’ordinamento giuridico una norma tanto discutibile e controversa per evitare ai moribondi una sofferenza di poche ore o di pochissimi giorni. E’ però vero che nel 1903 moltissimi medici americani, riuniti in un congresso di oncologia, avevano chiesto  l’eutanasia attiva per i malati di cancro terminali.
Oggi, nei paesi occidentali, oltre l’80% delle morti si verifica in ospedale e le condizioni del morire sono cambiate in modo straordinario. Essendo in grado di vicariare le funzioni di organi essenziali per la sopravvivenza del corpo- per quella della persona il problema è diverso – la medicina moderna si è messa in grado di controllare tempi e circostanze del morire. Le cose sono dunque cambiate. In meglio?
Secondo molti critici, scelti tra quelli che ritengono che non ci sia molto da rallegrarsi per il fatto di avere una vita più lunga, ma una salute peggiore, malattie più lunghe e morti più lente, vecchiaia più lunga e demenza sempre crescente, la medicina ha sottratto il malato alla malattia, lo nasconde alla morte, tanto da creare una vittimizzazione da tecnologia.
L’etica medica si è formata in un’epoca nella quale il medico poteva far ben poco per i suoi pazienti, ma sapeva che quel poco andava fatto, a tutti i costi. Molte delle resistenze dei medici nei confronti delle varie forme di eutanasia si rifanno al vitalismo medico, che aveva assunto una importante valenza morale a partire dal 700 con il pensiero di  Sthal, professore nell’Università di Halle,  e aveva stabilito, come obiettivo prioritario dell’intervento sanitario il mantenimento in vita del paziente.  Nella metà del secolo scorso il vitalismo era divenuto il paradigma guida di gran parte dei medici italiani, impegnati nella conservazione del flusso vitale, della vita che attraversa il paziente. L’acerrima nemica era dunque la morte, la vita era considerata in senso astratto, indipendentemente dalla peculiarità delle sue manifestazioni. Il vitalismo non aveva in cura le persone, ma la vita in sé.   Questa filosofia  non ha più giustificazioni, la medicina non è più impotente, eppure qualcosa dell’antico vitalismo medico si respira ancora  nell’aria degli ospedali.
Certamente oggi possiamo fare molto  per prolungare la vita di una persona, anche si tratta di una vita che non promette più niente e che, secondo quella persona, non vale la pena di essere vissuta. La medicina deve affrontare, però, nuovi problemi, alcuni dei quali sono persino difficili da definire.  Ci si chiede soprattutto: è possibile governare l’enorme potere che la medicina certamente possiede  e che si manifesta nei suoi interventi sul processo del morire al solo scopo di evitare che questo potere privi il paziente del suo diritto di morire con dignità?
Le risposte sono molte, non tutte in grado di raccogliere consensi. C’è che ritiene che sia arrivato il momento di rinunciare alla tecnologia, che è poi all’origine del problema. C’è chi si limita a chiedere regole per fermarla là dove  cessa la possibilità di assicurare al paziente una condizione di vita decorosa e compatibile con lo stato della malattia, cioè nel momento in cui sta per trasformarsi in un inutile accanimento sul corpo e sulla persona del paziente. Ma se poniamo dei limiti è necessario stabilire regole che impediscano di superarli. Quali? Tutti concordano nel considerare invalicabile il limite dell’accanimento terapeutico, ma poi i criteri per definirlo non sono condivisi.
Nel 1595, Un teologo di nome Domingo Banez introdusse una distinzione tra mezzi di cura ordinari e mezzi di cura straordinari, distinzione basata sulla sofferenza: la gangrena di un arto doveva essere trattata con l’amputazione, eseguita in assenza di anestesia e di antidolorifici e con minime probabilità di sopravvivenza, un trattamento certamente straordinario che il buon senso induceva a evitare. Questa distinzione è stata sostituita da quella più moderna tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, recepita nel 1980 nella dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede.  Ciò non ha però cancellato l’accanimento terapeutico, ed esistono, come vedremo, teorie morali che sostengono che trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono sempre dovuti e quindi obbligatori. La Dichiarazione li definisce “cure normali” anche se poi nella Carta per operatori sanitari (che è del 1994) si aggiunge “quando non divengano gravosi per il malato”. Ma quando mai si può verificare un  evento del genere?
I giuristi pongono naturalmente molta attenzione al tipo di eutanasia al quale si fa ricorso, altro è parlare di una eutanasia attiva, altro è ragionare di una eutanasia passiva, cioè della sospensione di un trattamento che mantiene in vita un malato: in questo ultimo caso si tratta di un atto omissivo, la causa della morte di quel soggetto sarà la malattia, non la condotta del medico o dell’amico. Ma anche nel caso di eutanasia passiva bisogna saper distinguere gli eventi nei quali è stato comunque necessario un intervento – staccare una spina, togliere una fleboclisi – da quelli nei quali si è più semplicemente deciso di interrompere le cure prestate fino a quel momento, e bisogna distinguere tra i casi in cui la decisione è stata tutta del medico e quelli in cui è il paziente a richiedere la sospensione del trattamento. Non c’è bisogno che ricordi che nel nostro Paese l’eutanasia è vietata e configura il reato di omicidio, ma che alla faccia di tutte le leggi moltissimi medici sono disponibili a eseguire interventi di eutanasia indiretta, somministrando quantità di farmaci – usualmente antidolorifici – così elevate da avere come effetto secondario quello di anticipare la morte.
Esiste su questi temi un conflitto aperto e i valori che si confrontano sono sin troppo evidentemente inconciliabili: il valore della vita umana, nell’accezione nella quale essa risulta indisponibile anche al suo titolare, e il valore dell’autonomia della persona, cui sono legati la libertà di poter autonomamente disporre del proprio corpo e il diritto di governarsi da sé nella sfera delle scelte personali. Entrambi i valori sono stati eretti a principi morali definiti, in questo contesto, come “criteri di giustificazione delle credenze morali”. Ogni principio consiste in una affermazione generale su ciò che ha valore e su ciò che si deve fare e può scaturire da una teoria morale di riferimento,  nel senso di rappresentare i cardini in base ai quali una certa teoria morale viene costruita, oppure riassumere  una gamma di principi o di preoccupazioni morali, oppure ancora indicare  radici differenti per la giustificazione delle preoccupazioni morali nel campo dell’assistenza sanitaria.
Secondo il principio della inviolabilità della vita il valore  della vita umana è assoluto e speciale in sé, indipendentemente dalla sua qualità e dalla possibilità di poterla apprezzare, e senza dare alcun peso ai  desideri delle persone viventi.  La versione religiosa di questo principio pone la questione in termini di sacralità, dal concepimento alla sua fine naturale (e qui cosa significhi naturale alla luce dei progressi della medicina è tutto da stabilire). La vita dell’uomo è sacra in quanto egli è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi possiede una propria irriducibile dignità, che conferisce un senso intrinseco alla vita  e le dona una specifica sacralità. Questa dignità diventa un carico da portare per sempre, un fardello da sommare alle piaghe da decubito, al vomito e alla diarrea indotti dalla chemioterapia, alla paralisi di un corpo ridotto a brandelli e di una mente devastata dal dolore, ai clisteri, ai sondini, ai cateteri, mi sembra che al confronto impallidisca l’immagine delle celle nelle quali  i tedeschi torturavano i  patrioti. Comunque alla percezione soggettiva che ognuno ha della sua dignità personale non viene dato alcun peso.
La vita umana è inviolabile, dio ne è l’unico signore, l’uomo non può disporne e tutto ciò è legato al principio dell’assoluto, i valori assoluti, i principi assoluti, i divieti assoluti, che non ammette eccezioni. In realtà se questi principi si svincolano dalla dimensione religiosa e vengono considerati solo nella loro dimensione razionale diventano molto incerti e, diciamolo, poco  credibili.  Solo i dogmi fideistici rendono  accettabile questa visione del mondo: verrebbe da dire, ascoltando il buon senso, che la sacralità della vita  dovrebbe essere interpretata come protezione della vita in senso biografico e non come tutela della sopravvivenza biologica. Per molti di noi  essere vivi ha importanza solo se costituisce la possibilità di avere una vita, in assenza di una vita cosciente  è indifferente vivere o morire.
Dal punto di vista filosofico, la posizione di quanti sostengono l’obbligatorietà del trattamento medico di sostegno si rifà al vitalismo medico, che ha assunto valenza medica a partire dal 700 con il pensiero di Sthal, professore nell’Università di Halle. Il vitalismo pone il mantenimento della vita umana come obiettivo primario e prioritario dell’intervento del medico. Nella metà del secolo scorso il vitalismo divenne il paradigma guida della maggior parte dei medici italiani, impegnati nella conservazione del flusso vitale, della vita che attraversa il paziente, di cui le malattie erano le manifestazioni.  L’acerrima nemica è dunque la morte, la vita è considerata in senso astratto, indipendentemente dalla peculiarità delle sue manifestazioni. Il vitalismo non ha in cura le persone, ha in cura la vita umana in sé.
Al polo opposto, il principio morale di riferimento è quello di autonomia o di autodeterminazione del paziente, la capacità di scegliere razionalmente la propria condotta, di imporre un certo corso alle proprie azioni e ai propri desideri, dei propri sentimenti e delle proprie inclinazioni, attraverso un volere capace di indirizzarli alla luce di una visione ideale di sé, alla ricerca di quella particolare identità  che ognuno di noi desidera  realizzare.
Nel Manifesto di bioetica laica, alla cui stesura ho collaborato più di dieci anni or sono insieme a Massarenti, Mori e Petroni, si può leggere: “ogni individuo ha pari dignità e non debbono esistere autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui nelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita”. Dunque l’autonomia è il punto  centrale della riflessione bioetica sull’uomo, il principio che ispira e legittima il consenso informato: è da questo principio che nasce la richiesta ai medici di considerare sempre prioritarie le richieste dei loro malati, è questo principio che deve essere considerato guida e cardine della riflessione bioetica sull’uomo, anche perché è quello che ispira e legittima il consenso informato.
Secondo questo principio  il valore delle scelte personali ha la sua valenza morale indipendentemente dai contenuti “nei limiti in cui le scelte derivano dall’autonoma deliberazione e decisione degli individui. Le singole credenze sono giustificate nei limiti  in cui sono ricondotte a un principio morale di fondo”(Lecaldano).
Anton Leist definisce in modo diverso l’autonomia come diritto alla libertà sociale e l’autonomia come valore di realizzazione. La prima innesca meccanismi di tutela e impone il rispetto delle scelte altrui come vincolo nelle relazioni sociali; la seconda è il pilastro su cui fondare  il senso della propria vita. L’unica limitazione è quella di riservare pari diritto agli altri L’autonomia è un valore in sé indipendentemente da ogni altro bene che procura e una scelta personale non può essere subordinata e delusa per nessuna altra motivazione che agli occhi altrui appaia moralmente più rilevante In questo modo si accetta il dominio dell’uomo sulla propria vita.
Scrive Giovanni Boniolo nel libro che ha recentemente curato sulla laicità e che è stato pubblicato da Einaudi che è necessario distinguere vita da esistenza e inizio e fine della vita da inizio e fine dell’esistenza. Cambiano evidentemente i livelli di analisi: descrittivo quello che riguarda la vita, assiologico quello che concerne l’esistenza.

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« Risposta #6 inserito:: Settembre 15, 2008, 12:07:36 pm »




Nel mio mestiere si dà un grande rilievo alle definizioni, così che dovrò tentarne anche a proposito dei termini che ho appena utilizzato. Allora una cosa è vivente se è caratterizzata da processi biochimici di natura metabolica che attraverso l’utilizzazione di energia esterna permettano la costruzione, il mantenimento e, un  grande numero di casi, la distruzione della sua struttura fisica e che ne condizionano il comportamento.
L’esistenza indica invece l’intera vita di una specie biologica, o un periodo di questa vita, o la vita di un membro di questa specie, cui è stato attribuito valore.
Il quesito fondamentale, la domanda che prima o poi tutti gli uomini si pongono, è a chi appartiene la vita e a chi appartiene l’esistenza. Se si tiene conto delle definizioni che ho azzardato, la vita non è di nessuno; stabilire a chi appartenga l’esistenza dipende dal punto di vista da cui le si attribuisce valore. Ci sono vite cui non attribuiamo il valore di esistenza e non ci interessa il loro destino. Ci sono vite alle quali attribuiamo valore ed è a seconda della quantità di questo valore che ci preoccupiamo del loro destino.
Personalmente, da uomo laico, sono soprattutto interessato alla possibilità di essere libero di esistere, perché da questa discendono altre libertà, come quella di scegliere la mia morte, cioè la fine della mia esistenza, cioè ancora la fine della mia vita. Certamente questo non può essere casuale: il problema fondamentale nella vita di un uomo laico è comunque e sempre la libertà: in fondo la laicità rappresenta l’atteggiamento intellettuale di chi considera primaria la libertà di coscienza, intesa come libertà di credenza, conoscenza, critica e autocritica.
Dunque, il quesito fondamentale resta sempre lo stesso,  a chi appartiene la nostra esistenza, domanda certamente non oziosa, che chiama subito in causa il problema della religione, un problema destinato inevitabilmente a dividerci. Se l’esistenza è nostra, se è nostra la nostra vita, abbiamo il diritto di farne ciò che vogliamo, indipendentemente da quanto pensano gli altri e nei limiti che ci sono imposti dal fatto di vivere in una comunità e di aver potuto contrarre debiti con gli altri. Se la vita non è nostra, se ci è stata donata, se dobbiamo comunque risponderne a qualcuno, allora le regole alle quali siamo tenuti ad attenerci sono evidentemente diverse. Siamo di nuovo di fronte a definizioni differenti: la morte è la fine della vita o è invece  in modo più complesso un passaggio? Perché se non ci sono traghettatori coi quali trovare un accordo, questo problema me lo sbrigo io, è un fatto squisitamente personale.
Da questo primo quesito ne discende immediatamente un secondo: cosa è la cosa più importante della nostra esistenza, quella alla quale attribuiamo il maggior valore? E’ la vita in sé, perché sacra e inviolabile e dobbiamo perciò rispettarla e accettarla comunque sia, qualsiasi cosa ci faccia, senza neppure poter ritenerla responsabile delle nostre sofferenze? O possiamo apprezzarla diversamente, valutandola e giudicandola proprio in rapporto a quanto ci concede? E cosa ci aspettiamo da lei per poter assegnarle un valore? Dignità? Qualità? E’ una scelta difficile, che in alcune circostanza può divenire drammatica. La vita di un bambino nato con una malattia che altro non gli concede e altro non gli concederà se non sofferenza, vale la pena di essere vissuta? Nelle stesse condizioni, la mia vita, alla quale la malattia può aver tolto tutta la dignità di cui disponeva, vale la pena di essere continuata? E questo merita una doppia precisazione: la prima che la misura della dignità compatibile con l’esistenza è assolutamente soggettiva; la seconda che è molto più difficile intervenire sulla perdita di dignità che su quella del benessere fisico.
Secondo me bisognerebbe rispondere no a entrambe queste domande, ma è ovvio che si tratta di un giudizio personale. So bene che  le risposte possono essere del tutto diverse dalla mia: questo accade perché su questo e su molti altri temi ci comportiamo come stranieri morali.
A creare stranieri morali sono soprattutto le religioni, le stesse religioni che negano che stranieri morali possano esistere. In realtà, credere in dio, in un qualsiasi dio, e persino aspirare a credere in un qualsiasi dio, crea inevitabilmente stranieri morali. E la cosa più peculiare e divertente è che le religioni, per evitare di dover accettare questa sin troppo evidente separazione, hanno fatto la scelta di considerare la loro l’unica morale esistente e possibile, ignorando, denigrando o insultando la morale degli altri. Ma i laici sono abituati a sentirsi chiamare persone che sbagliano, o infedeli, o a sentir definire debole il loro pensiero, e hanno persino smesso di chiedersi come si possa considerare forte il pensiero di chi, per tutto allenamento, si è abituato a credere nelle verità rivelate. In realtà posso immaginare la convivenza, nella stessa società, di persone che credono nel dio della bibbia o del corano, di persone che credono in una divinità diversa da queste, di uomini che non credono e di uomini che vorrebbero credere. Mi pare però premessa fondamentale a questa convivenza il fatto che tutte queste convinzioni siano ugualmente rispettate. Altrettanto importante è che lo stato si limiti a questo rispetto, e non conceda mai privilegi a questa o a quella ideologia. Abbagnano definiva immorale un governo che sceglieva la strada del privilegio.
Rispetto è una parola complessa, molto più di quanto possa sembrare a prima vista. Esige anzitutto laicità da parte di tutti, il che comporta la necessità che, quali che siano i nostri convincimenti, ci rendiamo ben conto del fatto che essi non ci danno il diritto di ritenerci gli unici a conoscere la verità, una forma di presunzione stupida, prima ancora che intollerabile  per la sua arroganza. D’altra parte cose illuminate dalla verità ne esistono ben poche se pure ne esistono, e il nostro rapporto quotidiano è con cose che vivacchiano nella penombra dell’incertezza o del momentaneo consenso. Così siamo tutti stupiti dalla violenza che è presente nel pensiero ci certi fondamentalisti, che negano ostinatamente qualsiasi parvenza di verità nelle opinioni degli altri e che non si rendono conto della casualità dei loro sentimenti e delle loro convinzioni: eppure è straordinariamente evidente la casualità della loro fede, poiché sarebbe bastato che fossero nati nella casa di fronte per attribuirgliene una diversa.
Anche al di fuori della violenza che è implicita in ogni forma di fondamentalismo, persino il solo considerare gli altri come fratelli che vivono nell’errore  non si può conciliare con il rispetto, ma solo con sentimenti di compassione e di pietà, che nella fattispecie sono gravemente offensivi. E a parte questo, chi è convinto di possedere la verità, è inevitabilmente portato a fare proseliti, anzi è addirittura disposto a soffrire e a rischiare per fare proseliti. Ma il proselitismo è pura violenza morale, denuncia la più totale mancanza di rispetto per le opinioni, la cultura e le scelte degli altri, e ciò in particolare quando il rapporto dialettico è improprio e sbilanciato per ragioni culturali, economiche o psicologiche.
Mi sembra allora di poter immaginare solo due soluzioni civili per questo problema della convivenza di stranieri morali: possiamo vivere separati, in colonie diverse, destinati a guardarci con sospetto, ma, forse, a non farci del male; oppure possiamo cercare di vivere insieme  cercando di mediare sui temi più controversi, là dove questa ricerca dipende dalla nostra disponibilità. Non è invece civile una convivenza come quella attuale, nella quale alcuni sono costretti a vivere secondo norma ispirate a una ideologia che non condividono; nello stesso modo non sarebbe civile accettare l’esistenza di una religione o di una non religione di stato, imposta dall’altro. Se ci pensate, oltretutto, questo tipo di convivenza non garantisce nessuno, anzi crea le basi per le rivendicazioni e le ritorsioni.
Ho parlato del valore dell’esistenza e voglio tornare rapidamente su questo argomento. Alla mia età si tende a tirare le somme, a ragionare sul passato, anche perché ci si rende conto che il futuro è singolarmente breve. In realtà potrei giudicare il mio passato in differenti modi, basandomi sul criterio della eudamonia, o della quantità di felicità della quale ho potuto godere, o del rapporto tra quello che ho desiderato e quello che ho ottenuto. A me viene istintivo ricordare e calcolare le sere in cui mi sono addormentato serenamente, senza angosce, senza preoccupazioni e senza rimorsi. Credo che questo mi accada perché sono un animale sociale e provo rancore nei miei stessi confronti quando so di non essermi comportato bene con gli altri, così come provo rancore per gli altri quando sono convinto di essere stato vittima di una ingiustizia o di un sopruso. Come ogni animale  sociale ho la capacità di giudicare i comportamenti in base a regole che ho appreso dalla morale di senso comune  (che ha radici molto più antiche delle religioni cristiana e giudaica) e ho un forte senso della dignità personale, un sentimento molto complesso sul quale non ho il tempo di intrattenervi. In questo modo i conti sono semplici e sono presto fatti.
Essere un animale sociale non ha a che fare con la metafisica, ma è molto semplicemente il risultato di una constatazione: è conveniente per tutti essere (comportarsi) generosi e capaci di compassione, i due principi che stanno alla base della convivenza.  In questo modo la società funziona meglio e i suoi membri ne sono avvantaggiati. E’ una scelta dettata dall’egoismo, cioè da una valutazione della convenienza, ma è ormai talmente radicata in noi che abbiamo finito per attribuirle valenze che non possiede. E non c’è niente di più fastidioso e di più inutile di mettere in discussione cose interiorizzate da secoli.
Ancora due brevi commenti, prima di passare al secondo tema, quello che riguarda le condizioni di stato vegetativo e il testamento biologico.
Vorrei anzitutto ricordare a tutti che il concetto di dignità, quello che ognuno di noi intende per dignità, è assolutamente personale, non ci può essere insegnato dagli altri.
L’origine della parola è oscura, ricalca tra l’altro la parola greca assioma, che aveva un duplice significato. In modo molto generico indica una condizione di nobiltà morale nella quale l’uomo si trova soprattutto in ragione della sua stessa natura umana e insieme fa riferimento al rispetto che per tale condizione gli è dovuto dagli altri e che egli deve a se stesso. Ma si può pensare alla dignità anche come una sorta di cenestesi dello spirito, ci rendiamo conto di averne una e riusciamo finalmente a valutarne l’importanza nel momento in cui viene ferita o minacciata. Che cosa poi ciascuno di noi intenda per dignità del morire dipende grandemente da   come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza. Immaginate un uomo che per tutta la sua vita si è adoperato perché ai suoi cari giungesse una certa immagine di sé, e che questa immagine abbia cercato di rivestirla sempre e soprattutto di dignità. Il pensiero di vedersela strappare di dosso, questa veste misericordiosa, nel momento della sua morte, l’idea di lasciare ai figli e alla moglie come ultima immagine quella di un uomo privo di un qualsiasi controllo sul proprio corpo, completamente affidato agli altri, soffocato dal proprio vomito, sepolto dalle proprie feci, annegato dalle proprie urine, può essere intollerabile proprio perché incompatibile con  il suo senso della dignità. Voi, nel nome di un dio al quale probabilmente lui ha smesso di credere o non ha mai creduto,  potrete proibirgli di andarsene in un modo più decoroso e rapido, ma non potrete impedirgli di maledirvi.
Il secondo problema riguarda la possibilità di trovare mediazioni utili su questi temi così difficili e complessi. Io credo che gli interlocutori esistano e siano le persone religiose che riescono a discutere sulla base di principi razionali e laici, rinunciando all’idea di essere assistiti da una verità che sta dietro di loro e che illumina loro la strada. A queste discussioni non possono partecipare preti, sacerdoti e cultori della metafisica, poiché l’esistenza di un dio, che è l’unico sostegno delle loro ipotesi, è una tesi interessante ma impossibile da dimostrare e rimarrà per sempre, per molte persone come me, una romantica menzogna.
L’eutanasia riguarda, almeno in linea di principio, persone gravemente ammalate, senza ragionevoli speranze di migliorare e guarire, afflitte da terribili sofferenze o gravate da altrettanto dolorose sensazioni di perdita della propria dignità, che sono però generalmente coscienti e consapevoli e comunque in grado di comunicare agli altri le proprie scelte razionali. Questa seconda parte dell’articolo riguarda però persone che questa possibilità di comunicare l’hanno perduta e giacciono in uno stato di incoscienza. Si tratta dunque di ragionare sulla irreversibilità di questa privazione della coscienza e della capacità di comunicare e insieme di chiederci come consentire a un comune cittadino, che ha idee molto precise sulle cure e sui trattamenti che è disposto a ricevere e a subire e  sa di poter  imporre le proprie  scelte ai medici finché è in grado di comunicare  con loro, di veder rispettate le proprie scelte anche se non riesce a comunicarle ai sanitari perché è giunto incosciente in ospedale. 
Lo stato vegetativo permanente appartiene alla famiglia allargata dei coma, definita anche degli stati neurobiologici a basso livello – low level neurological state.
Attualmente per riferirsi a queste forme di patologia si usano tre espressioni: coma, sindrome locked in e stato vegetativo.
Il  coma: è uno stato di areattività psicologica non suscettibile di risveglio in cui il soggetto giace a occhi chiusi in uno stato di incoscienza e di  incapacità di reagire agli stimoli esterni. Simile al sonno, è il risultato di una sofferenza cerebrale, (brain failure, secondo gli anglosassoni) e viene classificato in rapporto alla sua gravità e alle probabilità di recupero delle funzioni cerebrali.
Lo stato vegetativo, forse il meno compreso e il più controverso disturbo della coscienza, segue in genere uno stato di coma causato da una grave lesione cerebrale  di tipo traumatico, anossico, ischemico, emorragico, tossico, infettivo o da compressione di masse tumorali non trattabili. Più raramente è causato da malattie metaboliche degenerative come il morbo di Alzheimer, o da malformazioni dell’encefalo come l’anencefalia, uniche condizioni che non sono precedute dal coma.
E’ una condizione nella quale manca completamente la coscienza di sé e dell’ambiente, accompagnata dal mantenimento del ritmo sonno - veglia mentre sono mantenute,  in modo completo o parziale, le funzioni autonomiche.
Esistono   condizioni patologiche affini per le quali è necessaria una valutazione differenziale e che causano un tasso elevato di errori diagnostici: la sindrome di deafferentazione (locked-in syndrome), una apparente condizione di coma in cui le lesioni subite interrompono le vie motorie e le vie di comunicazione che dagli emisferi arrivano alle cellule nervose che innervano i muscoli periferici. Lo stato di coscienza viene mantenuto in quanto il sistema reticolare attivatore non è intaccato, per cui il paziente ha piena percezione di sé e dell’ambiente e le funzioni cognitive e intellettive rimangono integre.  Il danno non riguarda diffusamente la corteccia ma il tronco encefalico. Di questa sindrome  esistono diverse forme classificate a seconda del tipo di movimenti volontari residui.
Lo stato minimamente responsivo, o minimally conscious state, è uno stadio intermedio tra lo stato vegetativo e la condizione di piena coscienza. Può essere transitorio o permanente. Ci sono limitati e intermittenti segni di consapevolezza e i soggetti riescono a compiere ogni tanto alcune semplici azioni, come rispondere a un comando e anche comunicare con parole semplici. Queste persone possono provare dolore  e sofferenza e avere qualche consapevolezza della propria immobilità, della dipendenza dagli altri, della perdita del controllo degli sfinteri.


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« Risposta #7 inserito:: Settembre 15, 2008, 12:08:44 pm »

Lo stato vegetativo è stato descritto per la prima volta da Kretschner nel 1940, come uno stato post- comatoso in cui il paziente, apparentemente vigile, non è cosciente.  Kretschner chiamò questa condizione sindrome apallica, la parola vegetativo è stata utilizzata per la prima volta da Arnaud nel 1963 con l’espressione vie vegetative e qualche anno dopo da Troupp con il termine vegetative survival.
L’espressione stato vegetativo persistente è del 1973  (fu suggerita da Fred Plum, un neurologo americano, e da Bryan Jennet, un medico scozzese) per descrivere una nuova sindrome che sembrava comparire grazie alla possibilità della medicina moderna di mantenere in vita il corpo dei pazienti che avevano subito gravi lesioni encefaliche. Plum constatò che non erano necessarie gravi o estese lesioni corticali e che la corteccia poteva essere totalmente disattivata  senza essere strutturalmente danneggiata: esisteva invece molto spesso un danno irreversibile della sostanza bianca o del talamo.
Ecco la sua descrizione: il paziente  ha gli occhi aperti o li apre dopo intensa stimolazione nervosa, mostra movimenti oculari erratici, ma non di inseguimento, muove gli arti, ma non intenzionalmente, emette suoni, ma non parole. Sono presenti alcuni atti motori involontari (il paziente cerca di afferrare oggetti inesistenti, mostra i denti in una sorta di trisma facciale) ma riesce a masticare e a deglutire. Ecco insomma cosa accade: in linea di massima le attività cognitive e vegetative, da sempre connesse tra loro – e che alla morte vengono meno tutte insieme – si dissociano: le funzioni vegetative, quelle necessarie alla sopravvivenza dell’organismo, vengono ripristinate e mantenute mentre gli apparati sensitivo, cognitivo e motorio perdono, in alcuni casi definitivamente, la loro funzionalità.  Insieme all’abolizione della coscienza viene meno la possibilità di relazione interiore con se stessi e con l’ambiente.
Forse è bene ricordare che per coscienza si intende la presenza contemporanea di almeno due componenti, e cioè:
-  la vigilanza, lo stare ad occhi aperti, lo stato di veglia
-    la consapevolezza, l’insieme delle funzioni cognitive e affettive, delle attività mentali che occupano in un determinato momento la mente (il contenuto).
La vigilanza è necessaria per la manifestazione dei contenuti, nel senso che è necessario superare la soglia della veglia per esplicare e assorbire contenuti. Nello stesso tempo essa può essere presente senza alcun contenuto esplorabile della coscienza.
Entrambe le componenti, vigilanza e consapevolezza, sottintendono un substrato anatomo-funzionale perché i processi cerebrali necessari  per una attività cosciente siano realizzabili. Se questi vengono meno, si determinano patologie diverse a seconda della parte traumatizzata. Nello stato vegetativo persistente il tronco, o meglio il sistema reticolare che presiede alla funzione della vigilanza, rimane integro mentre la connettività tra aree cerebrali normalmente interconnesse viene meno, come vengono meno le interazioni tra talamo, corteccia e tronco, responsabili dei contenuti di coscienza. Lo stato vegetativo persistente è una interconnession syndrome, possono esistere solo isole di attività neuronale isolate, che non consentono però uno stato di coscienza.
Esistono alcune alte proprietà dello stato di coscienza che sono:
-la possibilità di avere relazione con il mondo (però nella locked in syndrome questa capacità risulta persa senza che la coscienza ne risulti alterata);
-la memoria, il raffronto continuo tra esperienze passate e dati sensoriali appena acquisiti;
-l’attenzione selettiva, la volontaria concentrazione della coscienza su uno stimolo.
E’ difficile verificare in alcuni casi fino a che punto la coscienza sia soppressa, e se lo sia definitivamente, ma si conviene che la persistenza di isolati focolai di attività corticale, anche se associati con alcuni schemi comportamentali stereotipati, non indicano la persistenza di un livello anche minimo di coscienza. Insomma per essere coscienti non è sufficiente avere alcune parti anatomiche isolate che accidentalmente reagiscono agli stimoli, ma serve l’interazione complessa di diverse sezioni encefaliche.
I medici sono da tempo giunti a un consenso per quanto riguarda le condizioni necessarie perché si possa perfezionare la diagnosi di stato vegetativo persistente:
-  nessuna consapevolezza di sé o dell’ambiente;
-  incapacità di interagire;
-    nessuna evidenza di comportamenti riproducibili,     
   finalizzati o volontari in risposta a stimoli uditivi, tattili o
   dolorosi;
-  nessun segno di comprensione o espressione verbale;
-    uno stato di intermittente vigilanza compatibile con il ritmo
   sonno veglia;
-    il parziale mantenimento delle funzioni del tronco e
   dell’ipotalamo sufficienti a garantire la sopravvivenza in
   presenza di cure mediche;
-  incontinenza;
-    variabile conservazione delle risposte riflesse dei nervi
   cranici.
Immaginiamo adesso di lavorare in un istituto di neurologia e di avere ricoverato un paziente che è, da un certo periodo di tempo, in uno stato neurovegetativo persistente.  Avremo anzitutto preoccupazioni di ordine clinico, come ho detto non sempre la diagnosi è semplice e in alcuni casi è richiesta molta attenzione perché la diagnosi differenziale con condizioni patologiche consimili può presentare difficoltà. Una volta accertato che si tratta di uno stato vegetativo e valutata l’entità delle lesioni, sarà poi nostra preoccupazione cercare di formulare una prognosi, cioè stabilire se esistono probabilità che il paziente possa uscire da quella condizione di incoscienza o se lo stato vegetativo debba invece essere considerato permanente, cioè definitivo. Certamente verremo molto aiutati dai consensi che esistono su questi temi, ma dovremo avere ben presente il fatto che i consensi non sono verità rivelate e che la medicina non è una scienza esatta, ma solo una disciplina biologica. Ma ammettiamo di trovarci di fronte a un caso in cui il tempo trascorso in condizioni di incoscienza, il tipo di lesioni, gli accertamenti strumentali tutti, ci confermano nella certezza che per quella persona non esiste la possibilità di un recupero. E, per intenderci, quello che è successo nel caso di Eluana Englaro.
Immagino che in una situazione siffatta dovremmo chiedere ai parenti e agli amici più cari del paziente se lo avevano mai sentito esprimersi su questo argomento, se aveva mai dichiarato, quando poteva farlo, la propria indisponibilità alle cure mediche  nel caso fosse stato evidente che si trattava di interventi inutili, rivolti solo a mantenere un vita il suo corpo dopo che tutto quello che faceva di lui una persona – intelligenza, sensibilità, capacità di comunicare e di entrare in relazione con il mondo, dite voi - se ne era andato per sempre. E immaginate di scoprire che sì, in effetti quel paziente aveva dichiarato, più volte, di voler rifiutare, in quelle condizioni, ogni specie di trattamento e di cura.
Alla fine delle vostre indagini, dunque, vi trovate a dover gestire un corpo che è stato abbandonato dalla persona che lo ha abitato a lungo, un corpo nel quale tutte le cellule sono in grado di sopravvivere, ma che è ormai e per sempre privo di intelligenza, coscienza, sensibilità, di tutto quello per cui le persone che ora piangono fuori dalla porta gli hanno voluto bene, lo hanno amato e apprezzato.  E quella persona che se ne è andata per sempre vi invia anche, tramite i suoi amici, il suo ultimo messaggio, la sua ultima richiesta: rispetta il mio povero involucro, lascialo morire in pace.
Credo che una gran parte di noi, in queste circostanze, non avrebbe perplessità, saprebbe chiaramente come comportarsi. Nella realtà e nella pratica, però, non è così, e la maggioranza dei medici si ritiene obbligata a mantenere in vita quell’involucro, per permettere all’intestino di avere la sua peristalsi, alla barba di crescere, ai reni di filtrare urina.  Per capire perché bisogna leggere il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica approvato a maggioranza  nel 2007.
  Questo documento esordisce con una descrizione dello stato vegetativo persistente che non differisce da quella che ho dato nelle pagine precedenti. Sottolinea  che  il problema etico è dato dalla  dipendenza di queste persone  da altre;  dice ancora che non sono necessarie  tecnologie sofisticate costose    e di difficile accesso, che questi “pazienti”  hanno bisogno solo di cura, intesa non solo come terapia ma soprattutto di care: essi hanno il diritto di essere accuditi, e perciò richiedono una assistenza di altissimo contenuto umano e di modesto contenuto tecnologico.
Secondo il documento non sono né le probabilità di guarigione né la qualità della patologia a giustificare la cura che trova la sua ragion d’essere nel bisogno che il malato ha, come soggetto debole, di essere accudito.
Ciò che va garantito a queste persone è il sostentamento ordinario di base, la nutrizione e l’idratazione, per via naturale o artificiale. Queste attenzioni non rappresentano né un atto medico né un possibile accanimento terapeutico Interromperle rappresenta, da un punto di vista umano e simbolico, un crudele atto di abbandono del malato.
In questa attenzione esiste dunque una valenza umana che è un segno della solidarietà nel prendersi cura del più debole:  si tratta di sollecitudine per l’altro.  Sospendere alimentazione e idratazione si configura come vera eutanasia omissiva, intervento illecito sia eticamente che giuridicamente. Dunque, la vita umana è un bene indisponibile, indipendentemente dalla percezione della qualità della vita, dell’autonomia e della capacità di intendere e di volere; qualsiasi distinzione tra vita degna e vita indegna di essere vissuta è arbitraria, non potendo la dignità essere attribuita in modo variabile in base alle condizioni di esistenza; l’idratazione e l’alimentazione artificiali sono sostentamento vitale di base la cui sospensione è lecita soltanto quando si configuri autentico accanimento terapeutico ed è invece illecita quando viene effettuata sulla base delle percezioni che altri hanno della qualità di vita del paziente.
Si sono dichiarati contrari a questo documento tredici membri del CNB che hanno anche firmato una postilla di dissenso, che riporto qui di  seguito integralmente. La ragione di questa scelta è dovuta al fatto che le postille di dissenso, che pur dovrebbero avere peso e significato nella discussione sui temi della bioetica in quanto corrispondono al parere della componente laica del Comitato, vengono generalmente ignorate in tutte le sedi nella quali la discussione trova, in proseguo di tempo, la sua naturale collocazione.
 “
Rammaricandosi per il fatto che non sia stato possibile perseguire fino in fondo la via della redazione di un documento unico anche se non unitario, i Proff. Mauro Barni, Luisella Battaglia, Cinzia Caporale, Isabella Maria Coghi, Lorenzo D’Avack, Renata De Benedetti Gaddini, Carlo Flamigni, Silvio Garattini, Laura Guidoni, Demetrio Neri, Alberto Piazza, Marco Lorenzo Scarpelli, Michele Schiavone, si esprimono favorevolmente rispetto all’ipotesi di sospensione dell’idratazione e della nutrizione a carico di pazienti in SVP, in determinate circostanze e con opportune garanzie. Gli stessi Professori dichiarano quindi il proprio voto contrario al Documento approvato dalla maggioranza dei Componenti del CNB, motivando tale scelta con le seguenti considerazioni.
1. Tralasciando i primi tre paragrafi del Documento che, opportunamente modificati nella discussione svoltasi nella seduta plenaria del 16 settembre, sono condivisibili in quanto descrizione del quadro clinico denominato «stato vegetativo» (par.2) e introduzione al tipo di problemi da affrontare (par.3), un primo punto di dissenso riguarda il contenuto dei paragrafi 4-5-6 e 7, in particolare relativamente alla tesi secondo cui l’alimentazione e l’idratazione artificiali non possono essere considerati trattamenti medici in senso proprio.


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« Risposta #8 inserito:: Settembre 15, 2008, 12:09:47 pm »

A tal riguardo, occorre sottolineare con forza che esiste una tendenza ormai costante, e sempre più diffusa nella comunità scientifica nazionale e internazionale, a favore della tesi inversa, ovvero che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano a tutti gli effetti un trattamento medico, al pari di altri trattamenti di sostegno vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Ventilazione meccanica che viceversa il Documento ritiene inopportuno evocare come elemento di paragone: quasi che fornire meccanicamente aria a un paziente che non può assumerla da sé, non fosse altrettanto «indispensabile per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere», quanto, secondo il Documento, lo è il fornirgli alimentazione e idratazione artificiali.
Sono, queste ultime, trattamenti che sottendono conoscenze di tipo scientifico e che soltanto i medici possono prescrivere, soltanto i medici possono mettere in atto attraverso l’introduzione di sondini o altre modalità anche più complesse, e soltanto i medici possono valutare ed eventualmente rimodulare nel loro andamento; ciò anche se la parte meramente esecutiva può essere rimessa – come peraltro accade per moltissimi altri trattamenti medici – al personale infermieristico o in generale a chi assiste il paziente. Non sono infatti «cibo e acqua» – come affermato dal Documento – a essere somministrati, ma composti chimici, soluzioni e preparati che implicano procedure tecnologiche e saperi scientifici; e le modalità di somministrazione non sono certamente equiparabili al «fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)» (par.7). Questo linguaggio altamente evocativo ed emotivamente coinvolgente, del quale i paragrafi in esame sono intessuti, è finalizzato a sostenere la tesi del «forte significato oltre che umano, anche simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro» (par.7) rivestito dalla somministrazione, anche per vie artificiali, di «cibo e acqua». Tuttavia, di nuovo, resta incomprensibile – nel senso che nel Documento non viene fornita alcuna motivazione in proposito – perché nello stesso contesto si sostenga che «tale valenza non riguarda ad esempio la respirazione artificiale o la dialisi». In un’etica dell’aver cura non può essere discriminante la natura più o meno tecnologica dei trattamenti: qualunque trattamento medico o non medico, anche il più banale, può e dovrebbe rivestire la valenza della sollecitudine per l’altro.
2. In ogni caso, pur tenendo fermo che se si ragiona sulla natura di questo o quel trattamento non si possono ignorare i pareri delle società scientifiche, chi sottoscrive questa nota integrativa al Documento sottolinea che il giudizio sull’appropriatezza bioetica di tali trattamenti dipende soltanto in parte – o persino affatto, come sostengono alcuni tra gli scriventi – dalla loro catalogazione come trattamenti medici, come del resto in una certa misura ammette lo stesso Documento nella frase che chiude il par. 4.
Potrebbe forse dipendere da tale catalogazione la soluzione di problemi medico-legali e deontologici, ma non ne dipende certo, e comunque non automaticamente, il giudizio di appropriatezza bioetica, il quale – esattamente come nel caso di qualunque altro trattamento – deve prendere in considerazione altri fattori. Tra questi: la condizione in cui versa il paziente e la concezione della propria vita che il paziente stesso può aver manifestato, in varie forme, prima dell’ingresso in SVP.
Non si tratta di formulare giudizi o di ammettere «giudizi di altri» – come paventato dal Documento – sulla «qualità della vita attuale e/o futura» di questi pazienti, ma, al contrario, di esplorare la possibilità di ricostruire il giudizio che il paziente stesso avrebbe formulato circa la propria condizione, oppure di verificare quali preferenze il paziente stesso abbia esplicitamente e chiaramente espresso sotto forma di direttive anticipate. Le due diverse strade si aprono a seconda del principio bioetico cui si fa riferimento: in Gran Bretagna, ad esempio, si punta in genere a stabilire se la permanenza in quella condizione sia nel «miglior interesse» del paziente; mentre negli USA viene considerato prevalente l’interesse del rispetto dell’autonomia del paziente, anche nel caso in cui egli non possa più esercitarla in modo attuale. Queste e altre possibili vie possono essere seguite per trovare soluzioni umanamente accettabili a queste drammatiche situazioni. I firmatari della presente nota integrativa si augurano che il CNB riesamini la tematica, la cui analisi è già iniziata nel precedente mandato, trattandosi di questioni che richiedono ben altro approfondimento.
3. Si deve inoltre osservare – con particolare riferimento ai paragrafi 5 e 6 – che l’idratazione e l’alimentazione artificiali non possono quasi mai trasformarsi in una forma di accanimento terapeutico (sebbene possano diventare accanimento puro e semplice), neppure nei casi, rari ma ipotizzabili, di cui al par.6.
Rispetto a questo paragrafo, c’è però da rilevare che non è realistico, né scientificamente adeguato, parlare di un organismo che «non è più» in grado di assimilare le sostanze fornite (in questo caso il trattamento diverrebbe tra l’altro del tutto futile). È viceversa realistico parlare di un organismo che presenta una sempre più ridotta capacità di assimilazione senza che sia possibile in astratto indicare la soglia al di sotto della quale la capacità di assimilazione diventa insufficiente e, quindi, i nutrienti artificialmente somministrati non raggiungono più il loro scopo biologico di modificare, sia pure in misura sempre più limitata, i parametri bio-umorali.
Non si comprende quindi per quale ragione la sospensione di tali trattamenti nel caso di pazienti in SVP – che in ogni caso non hanno consapevolezza del fatto di essere nutriti e idratati – costituirebbe «una forma, da un punto di vista umano e simbolico particolarmente crudele, di «abbandono» del malato» (che, secondo il Documento approvato, esigerebbe, in chi la proponesse, la coerenza di richiedere anche la soppressione eutanasica di questi pazienti), mentre tale «abbandono», secondo lo stesso Documento, non si verificherebbe nel caso di pazienti con ridotta o ridottissima (ma presumibilmente mai nulla, almeno finché i pazienti sono in vita) capacità di assimilazione, per i quali il Documento prospetta addirittura la «doverosità» della sospensione. E neppure si comprende perché la difficoltà psicologica e umana di lasciar «morire di fame e di sete» un paziente, venga fatta valere nel caso dei pazienti in SVP e non anche nel caso di altro tipo di pazienti gravi con altrettanto ridotta capacità di assimilazione: conta forse il fatto che nel primo caso il processo del morire potrebbe protrarsi anche per due settimane, mentre nel secondo caso «solo» per pochi giorni o poche ore?
Lasciando da parte il fatto che quel che accade nella realtà non è certo riconducibile alle immagini strazianti che il linguaggio usato nel Documento indurrebbe a pensare, se il problema è costituito dal disagio psicologico e umano di chi ha in cura i pazienti (sempre che ciò costituisca un valido motivo), allora – una volta decisa la sospensione di quei trattamenti – in fase terminale si potrebbe procedere nell’uno come nell’altro caso, alla sedazione; nel secondo caso ovviamente col consenso del paziente, se consapevole.
Non c’è quindi alcun bisogno di chiamare in causa il tema dell’eutanasia attiva: nel panorama del dibattito etico in materia è possibile argomentare a favore dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (ivi comprese l’idratazione e l’alimentazione artificiale) senza dover per ciò stesso accettare l’ipotesi dell’intervento eutanasico diretto.
4. Un ulteriore punto di dissenso riguarda il contenuto del par.8, relativamente alla possibilità di inserire la richiesta di non inizio o sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiali nella redazione delle Dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il Documento Dichiarazioni anticipate di trattamento, approvato all’unanimità dal CNB il 18 dicembre 2003, recita testualmente: «Ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale». A giudizio degli scriventi da questa formulazione discende per logica conseguenza che qualunque trattamento o intervento rientra nella disponibilità della persona, indipendentemente dal fatto che sia ordinario o straordinario, che dia luogo o meno ad accanimento terapeutico, oppure – e a maggior ragione, costituendo l’alimentazione artificiale un intervento la cui cessazione comporta degli effetti perfettamente comprensibili dal paziente senza alcuna necessità di particolari informazioni o nozioni – che sia «ordinaria assistenza di base». Non si vede, infatti, come sia possibile argomentare che una persona consapevole, che rifiutasse uno qualunque di questi interventi, possa essere costretta a subirne la somministrazione. E in relazione al tema in discussione, conviene anche ricordare che l’art. 51 del Codice italiano di deontologia medica recita: «Quando una persona, sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può comportare sulle sue condizioni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla» (corsivi degli scriventi).
Se dunque una persona, nella piena consapevolezza della sua condizione e delle conseguenze del suo eventuale rifiuto, è libera di decidere su qualunque intervento gli venga proposto, ivi compresa la nutrizione artificiale, allora, in forza del principio sopra ricordato, non è possibile sottrarre alla medesima persona la libertà di dare disposizioni anticipate di analoga estensione, e quindi anche circa l’attivazione o non attivazione dell’idratazione e alimentazione artificiali, nel caso in cui si venisse a trovare nella condizione che, in base alle conoscenze mediche e ai protocolli disponibili, fosse diagnosticata come stato vegetativo.
5. Quanto alle considerazioni conclusive esposte nel par. 9, esse ovviamente discendono dal contenuto dei paragrafi precedenti e non sono quindi accettabili per coloro che sottoscrivono questa nota integrativa al Documento.
In conclusione appare tuttavia doveroso osservare che per ragionare bioeticamente sul caso dello SVP non è strettamente necessario chiamare in causa la controversia sul valore della vita umana, anche perché così facendo la discussione si sposta sul livello delle più complessive e, spesso, incomponibili concezioni del mondo e dell’uomo, sulle quali non dovrebbe essere compito del CNB prendere posizione. Si potrebbe semmai provare a ragionare sull’oggetto della controversia, chiedendosi, ad esempio, se l’indisponibilità o la disponibilità vada riferita alla vita come mera esistenza biologica o alla vita come biografia, all’essere vivi o all’avere una vita, un’esistenza.
Infine, non pare agli scriventi che sia il caso di richiamare la distinzione tra vite degne o non degne di essere vissute, poiché è sempre vero che la dignità delle persone non dipende dalle condizioni in cui le persone si trovano: possono invece essere le condizioni in cui le persone si trovano a essere più o meno degne delle persone. E, in questo caso, è convinzione degli scriventi – per alcuni subordinando sempre tale decisione al consenso esplicitamente espresso dal paziente in un momento precedente –, che è semmai da considerare come un estremo omaggio alla dignità della persona interrompere i trattamenti che mantengono tali condizioni non degne.”
 
Non mi pare che il documento abbia bisogno di commenti. Aggiungo solo la dichiarazione della Società Italiana di nutrizione parenterale, citata ma non riportata  nel documento , che è tra le altre cose in perfetta linea con i documenti delle società scientifiche internazionali:
La miscela nutrizionale è da ritenere un preparato farmaceutico che  deve essere richiesto con una ricetta medica e deve essere considerato una preparazione galenica magistrale, non essendo un prodotto preconfezionato in commercio.  Si tratta comunque di  un trattamento medico a tutti gli effetti tanto che prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico e che deve essere considerato un trattamento sostitutivo vicariante.
E’ possibile che nei prossimi mesi – o nei prossimi anni – si sviluppi in Parlamento una discussione sul problema del cosiddetto testamento biologico, allo scopo di preparare una legge che regoli una materia complessa e che, come avete letto, divide in modo apparentemente inconciliabile laici e cattolici. E’ possibile immaginare che la maggior ragione del contendere sarà l’interpretazione dell’alimentazione e della idratazione artificiali, ma esistono altre ragioni di dissenso, come potrete ben capire da questa breve storia con la quale concludo questo scritto.
La necessità di affiancare al testamento tradizionale, quello che contiene le ultime volontà  patrimoniali, anche un documento che contenga le decisioni in merito alla propria vita e al modo in cui si desidera che essa si spenga sono soprattutto frutto della cultura giuridica americana e risalgono a più di un secolo fa, e precisamente a una proposta di legge presentata nello Stato dell’Ohio nel 1906 che intendeva legalizzare l’eutanasia. Nel 1950 un altro Stato americano, la Virginia, approvò una legge ( alla quale i testi fanno riferimento come Law of agency) che prevedeva una revisione del potere di procura delineando una differente figura alla quale si poteva affidare  non solo la tutela degli interessi patrimoniali, ma anche la cura di problemi personali tra i quali erano comprese le prestazioni sanitarie. La logica di queste nuove leggi risponde sempre di più a bisogni personali e privati per risolvere i quali si ricorre a interventi volontari e che trova punti di contatto ed esigenze comuni  anche dove nessuno li aveva mai scorti prima, l’aborto e l’eutanasia,  la contraccezione.
Per la prima volta dunque, nei tribunali americani, si discute del diritto di morire, di morire cioè secondo certe regole, e se ne parla come di un corollario del diritto di vivere.
 In una sentenza di quegli anni si legge che il cuore della libertà è rappresentato dal diritto di definire il proprio concetto di esistenza e di esprimersi nei confronti del mistero della vita umana e del suo significato: se le opinioni su questi argomenti fossero imposte dallo stato con leggi specifiche, i cittadini non potrebbero più determinare la propria personalità.
Nel 1991 viene approvata una legge federale, il Patient self-determination act, che contiene norme che hanno a che fare con il consenso informato e il diritto alla salute e altre che riguardano più direttamente l’eutanasia e il diritto di morire: si tratta di una legge ambigua,  che contiene non poche contraddizioni, destinate ad emergere negli anni successivi. Ad esempio autorizza la stesura di disposizioni anticipate che contengono il rifiuto dell’alimentazione artificiale, ignorando che su questo specifico punto altri stati hanno già legiferato in senso contrario.
In Europa la discussione sul testamento biologico comincia agli inizi degli anni’90 in Olanda e in Danimarca, ma si tratta di un vero e proprio corollario alla legge sull’eutanasia; in Belgio, nel 2002, le dichiarazioni anticipate di trattamento sono contenute all’interno della legge sull’eutanasia.
Sempre nel 2002 la Spagna approva una legge sulle Istruzioni anticipate  che ha per oggetto l’autonomia del malato e l’obbligo di informarlo compiutamente sulle sue condizioni di salute.  L’argomento è oggetto di un serrato dibattito anche in Inghilterra, dove però non si riesce a trovare un accordo e il tema, alla fine, viene accantonato.
Italia e Germania cominciano a mostrare interesse sul testamento biologico quasi nello stesso periodo, più o meno agli inizi degli anni). Per quanto riguarda la Germania, l’unica cosa cui si può fare riferimento è una sentenza della corte di appello di Francoforte  che riguarda l’eutanasia dei malati in coma irreversibile, autorizzabile da un magistrato solo se esistono prove che il paziente si era espresso in favore di quella soluzione. Per quanto ci riguarda, è noto che esistono varie proposte di legge, ma la maggior parte dei laici è convinta che se il Parlamento deciderà di approvarne una sceglierà certamente la peggiore possibile.
Tutti i Paesi che hanno legiferato su questo tema si sono dovuti confrontare con due difficoltà: la prima, di ordine squisitamente etico, riguarda l’interpretazione complessiva dei suoi contenuti, aspetti peculiari del grande capitolo dell’eutanasia o regole per normare meglio il consenso informato?  La seconda difficoltà è di tipo giuridico e riguarda il modo di convertire la logica patrimoniale del testamento  in una scelta personale ed esistenziale. Pensato solo a quanto è difficile tradurre living will senza tradirne il significato originale e a quanti differenti tentativi sono stati fatti: testamento di vita, testamento per la vita, testamento biologico, documento per la vita, biocard, direttive anticipate di trattamento, volontà previe di trattamento, dichiarazioni di volontà anticipate, procura sanitaria, carta di autodeterminazione.
Il primo problema è stato affrontato dalla Convenzione di Oviedo (2001) che ha imposto di prendere in esame i desideri precedentemente espressi dal paziente e ha inserito questo punto all’interno del capitolo dedicato al consenso informato. Secondo la Convenzione, dunque, si tratta di rispettare le richieste del malato e di trovare il modo  perché esse siano conosciute e attribuite a lui senza possibilità di errore quando non sarà più in grado di esprimerle.  Si tratta, fondamentalmente, di colmare un grave vuoto di tutela  e, di conseguenza, una grave mancanza di sensibilità morale, consentendo a che si trova in una grave condizione di incapacità di pretendere quegli atti che avrebbe potuto legittimamente esigere e solo fosse stato cosciente. Il documento non fa alcuna concessione alla richiesta di eutanasia, che oltretutto non è contemplata nel documento di Oviedo ed è vietata da molte leggi nazionali, e si limita  a   sollecitare il riconoscimento del diritto di rifiutare l’accanimento terapeutico o le cure sproporzionate o infine, nel caso dei testimoni di Geova, le trasfusioni.
Il secondo problema ha minore intensità etica ma è più complicato e più difficile da risolvere. Il testamento biologico rappresenta, nel suo complesso, un atto eterogeneo che presenta risvolti e implicazioni differenti: il malato manifesta in modo esplicito la propria volontà e al contempo attribuisce a una persona specifica poteri delicati e importanti.  La prima parte può limitarsi all’espressione di un desiderio, o può entrare in una dettagliata descrizione delle proprie volontà, con un minuzioso elenco delle cure rifiutate o di quelle pretese. Queste decisioni possono prevedere l’attribuzione di uno specifico potere di decisione e di controllo a una terza persona, o non avere uno specifico destinatario, la delega può essere assolutamente priva di indirizzo. Si possono così configurare procure sanitarie senza alcuna indicazione di trattamento e indicazioni di trattamento che non si rivolgono a un procuratore specifico.
Chi porrà mano alla preparazione di una legge nel nostro Paese non potrà trascurare i documenti che l’ordine dei medici ha in varie occasioni approvato su questo tema o su temi consimili. Ne cito uno, che copio dal Codice di deontologia Medica del 1998: “il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità e della indipendenza professionale, alla volontà di cura liberamente espressa dalla persona e….. non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal paziente”. Dichiarazione molto esplicita, certamente, ma che non aiuta a risolvere il nodo vero del problema, come comportarsi quando si tratta di richieste relative alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali.
Non v’è d’altra parte alcun dubbio sul fatto che il ruolo del medico viene scosso dalle fondamenta quando si trattano problemi come questo.  Egli può essere uno strumento subalterno fino a mettere in crisi la propria posizione di garanzia, o accentuarla fino a tradire il proprio rapporto fiduciario con il suo paziente, correndo sempre il rischio di violare obblighi rigorosi per adempierne altri.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha tentato una via originale, cercando di garantire l’incontro tra due sensibilità, quella di chi soffre e quella di chi cura. La rilevanza giuridica del consenso informato dovrebbe consistere nella capacità di coinvolgere il medico nella condizione di sofferenza del paziente e il paziente nell’apparato tecnico del medico.  Il desiderabile e il possibile si dovrebbero saldare nelle medesime scelte di vita. L’eticità del testamento biologico consiste allora nel garantire l’alleanza terapeutica tra medico e paziente proprio quando è esclusa ogni prospettiva di dialogo consentendo alla solitudine dell’incapace che non può decidere  di incontrare la solitudine del medico che non sa decidere   e non sa come rispettare i desideri del paziente.
Il CNB ha ritenuto che fosse possibile realizzare questo difficile incontro di sensibilità, prevedendo che le richieste contenuto nel testamento biologico siano vincolanti per il medico, che deve prenderle in esame costruendo su di esse qualsiasi progetto terapeutico ma non sufficienti a determinare un dovere assoluto, lasciando quindi al medico la possibilità di prendere decisioni diverse, purché adeguatamente motivate.  Questo è comprensibile e legittimo se il medico può provare, senza possibilità di errore, che il paziente ha dettato volontà che non hanno tenuto conto o non hanno potuto tenere conto, solo per fare un esempio, del progresso delle conoscenze mediche e delle nuove soluzioni terapeutiche che, con indubbio vantaggio per lui, la medicina può offrirgli: in questo caso il medico potrebbe diventare un obiettore di conoscenza, cioè contestare la quantità di conoscenza che il malato possedeva al momento della stesura del documento e che lui considera insufficiente, inadeguata e perciò destinata a far commettere errori. Sempre secondo il CNB si tratta inoltre di creare un equilibrio tra la bioetica dei desideri e la bioetica dei valori, che può coincidere con il contenuto del documento ma può anche, in certi casi, andare oltre. Il medico capisce che il paziente non aveva una adeguata conoscenza dei problemi e che, se adeguatamente informato, avrebbe preso una differente decisione. In questo modo il testamento biologico assumerebbe una carattere che non è assolutamente vincolante ma neppure meramente orientativo e in cui l’autonomia del medico è strettamente correlata alla sua responsabilità Il medico ha quindi l’obbligo di valutare l’attualità delle richieste in base alle circostanze cliniche e allo sviluppo delle conoscenze.
Ho cercato di dare il maggior numero di informazioni utili a chi voglia intervenire nel dibattito che, già in corso, diventerà sempre più frenetico nei mesi avvenire e  ho cercato di chiarire quali saranno i punti di avvio della discussione parlamentare, senza entrare troppo in dettagli di biologia e di medicina. Non mi dispiacerebbe se i compagni che leggono questo documento intervenissero, inviando a questo sito opinioni, critiche, domande. Chiedo anche a chi legge di tenere conto del fatto che per scrivere questo lungo articolo sono andato a saccheggiare gli scritti dei miei amici che si occupano di bioetica, da Eugenio Lecaldano a Demetrio Neri, a Maurizio Mori, a  Carlo Augusto Viano, e ho potuto tener ben presente una lunga e bella monografia su Eluana Englaro scritta da Elena Nave e attualmente in corso di pubblicazione. Non mi dispiacerebbe se anche loro scegliessero di contribuire alla discussione, sono i maggiori filosofi laici di cui si possa vantare il Paese.

*docente universitario, ginecolo, della Direzione di Sd


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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 22, 2008, 11:23:18 pm »

Una proposta concreta: diamo vita ad una grande camera di mediazione e approfondimento cultura

Cara Sinistra non marciare sul posto


di Carlo Flamigni*



Nella riunione che si è tenuta a Roma sabato scorso, ho ritenuto di dover dare il mio appoggio alle iniziative proposte da Fava, convinto come sono che eventuali errori si possono correggere in corso d’opera e che  uno dei difetti che la sinistra italiana ha dimostrato di possedere in questi ultimi decenni è stata appunto la tendenza a marciare sul posto, frenata abitualmente da una capacità confabulatoria  che apparentemente  resiste a tutte le critiche. Ho anche promesso che avrei mandato qualche appunto su quelli che ritengo momenti prioritari nel percorso verso la ricostituzione di un grande partito di sinistra.

Ho letto con attenzione il documento che ci è stato sottoposto e l’ho trovato carente in un punto, lo scarso apprezzamento dell’importanza della laicità, inaccettabile  per un movimento che si ispira ai più importanti valori della sinistra storica. Credo che meriti un paragrafo un richiamo alla laicità dello stato, almeno nella parte che sottolinea la necessità dell’autonomia delle funzioni pubbliche  e della società civile dalle ingerenze di qualsivoglia organizzazione confessionale nonché dalle direttive di tutti i poteri che si sono costituiti senza ricorrere alle regole imposte dalla democrazia (non so a chi si riferisse Abbagnano quando scrisse queste righe, mi piace pensare che avesse in mente massoneria e Opus Dei).

Sono molto turbato dal fatto che col passare del tempo e malgrado l’accumularsi degli errori e delle sciocchezze, il Presidente Berlusconi stia accumulando un vantaggio sempre più vistoso, sembra che attualmente goda delle simpatie del 60% degli italiani. Immagino che questa sia una conseguenza della mancanza attuale di una forma civile e politicamente apprezzabile di opposizione e penso che l’incapacità della sinistra parlamentare di mostrare agli italiani il vero, vergognoso volto dell’attuale governo giustifichi la scelta di un  grande numero di vecchi compagni che si dichiarano indisponibili a votare alle prossime elezioni. D’altra parte era facile immaginare che cambiando così bruscamente e vistosamente il suo simbolo, passando cioè dalla falce e martello al cilicio e al martello, il PD non sarebbe stato in grado di esercitare un’azione critica efficace. Penso che sia sotto gli occhi di tutti l’imbarazzo dei suoi dirigenti quando si tratta di intervenire sui temi del lavoro, della laicità, della bioetica, dei diritti dei cittadini, della sanità, della scuola, della immigrazione, della sicurezza.

C’è dunque bisogno di una opposizione vera, onesta, trasparente, credibile, ferma, sui temi che ai cittadini sembrano al momento più importanti, e ritengo che il primo compito che dobbiamo affrontare sia proprio quello di mostrarci capaci di elaborare progetti di elevato valore morale e politico. Dunque serietà, trasparenza, innovazione.

Mi limito a un solo esempio, tra i molti che si potrebbero fare.  Viviamo, penso che sia chiaro a tutti, in un Paese di stranieri morali, e prima o poi dovremo affrontare le conseguenze che questa convivenza inevitabilmente determina. Difficile ad esempio immaginare che i musulmani, ormai molto numerosi, continueranno a vivere la loro religione all’interno delle proprie case, o nelle povere moschee che ci siamo degnati di costruire per loro. Sono immaginabili quindi nuovi conflitti, simili a quelli di cui hanno fatto esperienza altri paesi europei, su temi di grande rilievo sociale, dalla famiglia alla scuola, al lavoro.

Sarebbe molto utile per tutti se riuscissimo a costruire una grande camera di mediazione e di approfondimento, nella quale ammettere tutte le persone più sagge e credibili che in Italia rappresentano le differenti posizioni culturali e religiose, per affrontare i temi dei conflitti che si creeranno via via e insieme per assumere iniziative che possano facilitare l’incontro tra le culture.

In un’epoca di conflitti di faglia, nella quale la ricerca dell’identità ha dato un nuovo rilievo alle religioni, la ricerca di mediazioni utili per la convivenza ha senso solo se affidata alle persone più rappresentative e carismatiche disponibili a ricercare strade per la crescita sociale di tutti coloro che vivono e lavorano nel Paese.

Poiché non siamo un partito ma un movimento politico e culturale, ritengo che molte tra le persone migliori potrebbero rivelarsi sensibili al nostro appello.

*della Direzione di Sd


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« Risposta #10 inserito:: Maggio 26, 2009, 03:20:37 pm »

Cosa c’entra la Chiesa con la tutela della salute?

di Carlo Flamigni*

Mar, 26/05/2009 -


L'atteggiamento rigido, dogmatico e in molti momenti prepotente della chiesa cattolica ha da tempo creato imbarazzi in molte società civili, abituate a considerarsi laiche e sorprese dal predominio di posizioni ideologiche che non accettano mediazioni, secondo il principio del non possumus. E' certamente il caso dell'Italia, che prima ha visto approvare una legge che imponeva  comportamenti ispirati a norme etiche derivate direttamente dalla religione cattolica e oggi è testimone di un tentativo di ignorare i mutamenti imposti a questa legge da una sentenza della Corte Costituzionale.  E’ certamente il caso degli Stati Uniti, se si dà retta all'editoriale di Pablo Rodriguez e di Wayne C. Shields, pubblicato pochi anni or sono su Contraception (2005,71,302-303) e disponibile on-line su www.sciencedirect.com. E' un articolo che ho letto con particolare interesse e che riporto in dettaglio.
    La pratica della medicina, scrivono gli Autori, esige che le istituzioni che si debbono far carico della salute pubblica siano in grado di fornire la migliore cura possibile in modo acritico e solidale, senza tenere in alcun conto le specifiche circostanze nelle quali la richiesta di aiuto viene fatta. Esistono, è vero, molte situazioni nelle quali le decisioni di coloro che sono affidati alle nostre cure (una responsabilità che, come medici, abbiamo promesso di accettare) entrano in conflitto con il nostro senso della morale e con i nostri valori religiosi, ma considerazioni etiche superiori dovrebbero costringerci a mantenere il nostro impegno anche se non siamo d'accordo con le loro scelte. Nei casi in cui questi conflitti non possono essere superati, l'unica soluzione eticamente accettabile dovrebbe essere quella di affidare il paziente a mani più adatte delle nostre.
    Ma cosa accade se queste mani non siamo in grado di trovarle? In realtà, questo è quanto accade, con frequenza sempre maggiore, nelle comunità nelle quali gli unici ospedali disponibili appartengono a comunità religiose che si comportano secondo ideologie che sono in contrasto con le politiche ufficiali della sanità pubblica e che da quei comportamenti non sono in alcun caso in grado di derogare. E' esemplare, a questo riguardo, il problema dei servizi di family planning (Eisenstadt L: Separation of Church and hospital - Strategies to protect pro-choice physicians in religiously affiliated hospitals -  Yale J Law Fem 2003,15,135-140).
L'offerta dei servizi necessari per la pratica dell'aborto volontario e per gli interventi di contraccezione di emergenza diventa ogni giorno più a rischio via via che un numero sempre maggiore di istituzioni religiose diventa responsabile della salute delle Comunità negli Stati Uniti (Ibis Reproductive Health. Second chance denied: emergency contraception in Catholic Hospital emergency rooms. Cambridge (Mass): Survey for Chatolics for a free choice;1998).
    Questo problema non riguarda soltanto l'aborto, visto che molti servizi hanno messo al bando anche il counseling per la contraccezione, per la prevenzione dell'AIDS, per le tecniche di procreazione assistita e persino per l'approccio a condizioni cliniche comuni e apparentemente innocenti come la gravidanza extra-uterina  e la contraccezione di emergenza per le vittime dello stupro (Cohen E. - Truth or consequences - Using consumer protection laws to expose institutional restrictions on reproductive and other health care - Washington (DC): National Women's Law Center, 2003).
    Tutti questi scenari sono stati regolati da un insieme di principi che tengono conto soltanto di canoni religiosi ed escludono qualsiasi tipo di protocollo medico. Via via che gli ospedali pubblici trovano più difficile portare a compimento il proprio mandato - soprattutto per la continua diminuzione dei rimborsi da parte del governo e delle compagnie di assicurazione - un numero sempre maggiore di persone si rivolge a istituzioni come quelle rappresentate dagli ospedali cattolici per ricevere assistenza.
    Ma quant'è in realtà preoccupante questa situazione? Secondo uno studio del Merger Watch Prospect  (Family Planning Advocates of N.Y) gli ospedali che appartengono a consociazioni religiose negli USA presentano ogni anno un conto al Governo Federale che si aggira intorno ai 40 miliardi di dollari e nel 2002  cinque delle dieci  maggiori  Istituzioni terapeutiche americane erano di proprietà dei cattolici. Secondo l'American Hospital Association (Annual Survey, Chicago - Illinois - 2002) sempre nel 2002 il 18% degli ospedali e il 20% dei letti ospedalieri era posseduto o controllato dai cattolici. Ciò significa, in numeri semplici, 622 ospedali cattolici, 15 milioni di visite urgenti ambulatoriali, 5,4 milioni di ricoveri ospedalieri. Il problema vero è che per molte comunità gli ospedali cattolici rappresentano l'unica realtà possibile, in grado dunque di decidere il destino di milioni di residenti.
    Malgrado il notevole supporto economico elargito dal governo, le istituzioni religiose o semi-religiose operano ignorando completamente le norme giuridiche che in molti stati sono state varate per difendere la possibilità di ottenere l'accesso alle metodologie anticoncezionali più recenti e sofisticate.  Fin dal 2003 tre stati - Washington, Illinois e California - esigono che le donne vittime di violenza carnale possano avere accesso alla contraccezione di emergenza in tutti gli ambulatori di pronto soccorso. Altri Stati - Florida, Kentucky, Connecticut, Ohio, Maryland e New York - incoraggiano la somministrazione di anticoncezionali d'emergenza alle vittime di uno stupro, senza peraltro esigerla attraverso una norma di legge.  Ebbene, una ricerca condotta da Ibis Reproductive Health ha rivelato che nella maggior parte dei servizi di  pronto soccorso, negli Stati che ho appena citato, l'accesso alla contraccezione di emergenza non è semplicemente possibile. Nell'Illinois, uno stato nel quale questa possibilità è richiesta espressamente dalla legge, solo 6 dei 22 ospedali cattolici provvedono a questo servizio.
    L'influenza delle istituzioni cattoliche sulla possibilità di accedere ai consultori di pianificazione familiare non riguarda soltanto gli ospedali che sono sotto il diretto controllo della Chiesa. Comportamenti analoghi sono osservati da istituzioni "non settarie" come quelle rappresentate da ospedali affiliati e persino da istituzioni laiche che hanno acquistato ospedali religiosi e che sono state costrette per contratto ad accettare alcune delle limitazioni che questi ospedali si erano imposte.
Molti medici che operano in queste strutture ospedaliere, anche semplicemente affittando spazi per la propria attività, scoprono di dover accettare una limitazione della propria libertà d'azione come condizione indispensabile alla loro affiliazione. Nello stesso modo, nelle aree in cui esiste una maggiore possibilità di accedere ai servizi di pianificazione familiare, si scopre che queste specifiche attività sono attributo degli ospedali più piccoli e più poveri, che si trovano a dover competere con un sistema ospedaliero molto più potente, il che li obbliga a fondersi e ad affiliarsi compromettendo così l'intero sistema di cure che ha a che fare con la medicina della riproduzione.
E veniamo al nostro Paese. Come tutti sapete la Chiesa Cattolica è riuscita a fare approvare una legge che si ispira, in modo quasi ossessivo, ai suoi principi etici in merito alla sacralità della vita e all’inizio della vita personale, un tema che, tra le altre cose, non trova certamente d’accordo tutti i pensatori cattolici tanto che all’interno della sola Chiesa Romana esistono almeno una decina di teorie, tutte in forte contrasto tra loro. La legge 40, quella che norma le tecniche di procreazione medicalmente assistita,ha determinato una netta diminuzione dell’efficacia delle tecniche soprattutto per aver limitato il numero di oociti fecondabili ( che non possono essere più di tre, quale che sia l’età della donna e la sua storia personale) e ha proibito il congelamento (oltre che, naturalmente, la distruzione) degli embrioni. A causa di questa norma sono aumentati i parti trigemini nelle donne più giovani e sono diminuite le gravidanze in quelle più anziane.
La Corte Costituzionale, chiamata a intervenire in merito da alcuni Magistrati , ha completamente modificato questa parte della normativa, stabilendo che il numero di oociti fecondabili deve essere stabilito dal medico, secondo scienza e coscienza e tenendo conto dell’interesse della paziente in trattamento. La delibera della Consulta non ha modificato il divieto di congelare gli embrioni soprannumerari, spiegando le ragioni per cui l’abolizione di questa norma non era necessaria. In realtà, il divieto aveva già tre eccezioni, tutte ormai consolidate nella prassi. La prima riguardava le circostanze in cui esistevano rischi per la donna, come nel caso di iperstimolazione ovarica che una eventuale gravidanza avrebbe potuto peggiorare; la seconda riguardava i rischi per l’embrione, dovuti ad esempio a una malattia infettiva della quale la madre si fosse ammalata prima del trasferimento  (pensaste a una rosolia); la terza possibilità era infine relativa a un possibile rifiuto della donna di accogliere gli embrioni nel proprio grembo, un rifiuto reso possibile dal fatto che la norma in questione è imperfetta e non contiene sanzioni nel caso in cui la donna rifiuti di rispettarla. Ora, come conseguenza delle modifiche apportate dalla Corte Costituzionale, esiste una ulteriore eccezione, molto più ampia e probabile delle precedenti, e che riguarda i casi in cui il medico abbia deciso  di produrre un numero di embrioni superiore a quello che considera conveniente trasferire. Si tenga conto del fatto che quando il medico opta per fertilizzare un certo numero di oociti non può sapere a priori quanti embrioni riuscirà ad ottenere.
La materia dovrebbe essere chiara a tutti, ho letto persino un articolo sul Avvenire scritto da un bioeticista cattolico che parlava di un “pilastro ormai sgretolato” e raccomandava di accettare  questa iattura e preoccuparsi semmai che non ne arrivassero altre.
Con molta disinvoltura, però, la signora Roccella, sottosegretario alla sanità,  ha più volte dichiarato che in realtà non è accaduto niente di grave e di irreparabile e che avrebbe lei stessa ben presto provveduto a sanare questo minuscolo inconveniente, apprestando linee guida che avrebbero ridato tranquillità a tutti (immagino che l’allusione sia soprattutto ai Vescovi) e ristabilito le antiche regole. Molte persone di buon senso hanno cercato di spiegarle che le linee guida non hanno il potere di modificare una sentenza della Corte Costituzionale e che addirittura neppure una nuova legge potrebbe non tener conto di quanto questa sentenza ha stabilito, ma la signora Roccella ha proseguito per la sua strada, inserendo solo nei suoi discorsi – come unica novità – l’annuncio di severi controlli sui centri di PMA, un vecchio trucco per spaventare i medici.
Il guaio è che i medici si spaventano davvero, per sono – non tutti, per fortuna – una categoria timorosa di tutto ( si dice così?). Ala resa dei conti solo pochi centri si sono dichiarati disponibili a comportarsi secondo il dettato della sentenza della Consulta e a ripristinare le antiche regole, che privilegiavano la scienza e la coscienza del medico: molti altri bofonchiano scuse, affermano che non ci si può muovere in assenza di nuove  linee guida o prospettano ridicole tabelle mediatorie per imbonirsi il potere. Tutto ciò con grave svantaggio delle coppie di pazienti, che ora dovrebbero capire che è importante salvaguardare il diritto acquisito, anche a costo di portare in tribunale i medici inadempienti.
Insomma la Chiesa Cattolica continua a fare i suoi danni e lo stato laico continua a genuflettersi impotente. La cosiddetta opposizione è spaventata dalle possibili reazioni della signora Binetti  e resta ferma nella sua scomoda lordosi di accettazione. Se questo è il principio di razionalità al quale faceva riferimento Monsignor Sgreccia nella sua polemica con Fini, siamo perduti.

*Candidato alle elezioni europee nella lista di Sinistra e Libertà Circoscrizione Nord Est

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