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Autore Discussione: Rinaldo GIANOLA  (Letto 18831 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 07, 2010, 03:48:12 pm »

Scalfaro: «Difendiamo l'unità e la Costituzione, i baluardi dell'Italia»

di Rinaldo Gianola


Oscar Luigi Scalfaro si ferma per abbracciare Guglielmo Epifani che ha appena terminato la sua relazione al congresso nazionale della Cgil. Ne approfittiamo per salutarlo e per rivolgergli qualche domanda sulle celebrazioni dell’Unità d’Italia e la salute della nostra Costituzione.

Presidente, parteciperà alle celebrazioni per l’Unità d’Italia l’anno prossimo?
«Se Domine Dio mi terrà ancora qui, certamente festeggerò come si deve l’Unità del nostro Paese. Ci mancherebbe… Ho 91 anni, vado per i 92 e ci arriverò».

Ha sentito le polemiche dei ministri leghisti contro il presidente Napolitano per le celebrazioni? Pare che alcuni ministri delle Lega andranno al mare invece di festeggiare.
«Purtroppo sono un segno di quanto siamo caduti in basso, di quanto è precipitata una certa politica italiana che non riconosce nemmeno i valori condivisi, la nostra storia». Per rafforzare il pensiero il presidente Scalfaro si abbassa leggermente, accompagnando il gesto con la mano, come a voler dimostrare fino a quale infimo livello siamo arrivati. Epifani, a fianco, annuisce. In effetti l’attacco della Lega all’Unità d’Italia, le ripetute dichiarazioni di governatori e ministri contro le celebrazioni sono il segno, uno dei tanti, di un evidente attacco ai principi costitutivi del Paese. Così Scalfaro, che presiede il comitato “Salviamo la costituzione”, non gioca con le parole quando parla ai delegati del congresso che si sono appena commossi guardando il filmato con uno storico discorso di Pietro Calamandrei sulla Costituzione degli italiani».

Qual è oggi il ruolo della Costituzione?
«Questa è l’ultima difesa della libertà e delle democrazia, l’ultimo baluardo. Questa è la Costituzione della Repubblica italiana fondata sul lavoro. Capisco che a qualcuno possa dare fastidio e voglia cambiarla, sottoponendo il Parlamento alla volontà del presidente del Consiglio, ma questa è una realtà che va difesa e tutelata». Il presidente emerito commenta con sorpresa il fatto che quest’anno il presidente del Consiglio «si è ricordato del 25 aprile, non si era mai occupato della Festa della Liberazione, lui parlava il 24 o il 26 di aprile, mai il 25. Invece questa volta ha fatto un discorso in tv che alcuni giornalisti con una spina dorsale evidentemente di cemento armato hanno definito un discorso da statista….».

E le riforme?
«Il presidente del Consiglio dice di volerle fare insieme, ma lui pensa ad avere più potere, pensa di averne poco. De Gasperi governò per sette anni in una situazione ben più grave di questa e non chiese mai più potere». Scalfaro, infine, commenta le dimissioni del ministro Claudio Scajola legandole proprio alla dimensione di statista di Silvio Berlusconi. «Un ministro importante si è dimesso, era già successo in un’altra occasione ci sono stati passaggi di assegni che non si capiscono, ma alla fine il presidente del Consiglio ha avuto un’intuizione, ha trovato il punto dolente e ha detto che in Italia c’è troppa libertà di stampa». Il congresso Cgil saluta il presidente con una grande ovazione.

06 maggio 2010
http://www.unita.it/news/italia/98314/scalfaro_difendiamo_lunit_e_la_costituzione_i_baluardi_dellitalia
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 09, 2010, 06:07:32 pm »

I golpisti del mercato

di Rinaldo Gianola


Il problema, dunque, non è solo la Grecia. La crisi non è riconducibile esclusivamente ai conti fuori controllo dei greci ai quali i giornali tedeschi suggeriscono di vendere l’Acropoli per rispettare i sacri parametri di Maastricht. Nel giro di tre giorni l’Europa è passata dalle difficoltà «circoscritte» di un singolo paese, il più debole sotto il profilo finanziario, a una «crisi sistemica», parole del presidente della Bce Trichet, che mette in discussione non solo gli eredi della dracma ma l’intera costruzione dell’Unione e della moneta unica. In poche ore le fiamme e le tragiche violenze di Atene sono passate quasi in secondo piano rispetto alla destabilizzazione che dai mercati è salita fino alle cancellerie che, solo dopo l’intervento preoccupato del presidente Obama su Angela Merkel, hanno deciso di ritrovarsi per il week end a Bruxelles per decidere un piano straordinario di interventi.

Non sappiamo se le misure decise stroncheranno l’attacco della speculazione dei mercati ai governi, all’Unione e all’Euro. È certo, tuttavia, che anche questo maxi piano dell’Europa non risolverà i problemi di fondo, non disinnescherà la bomba che due anni fa è esplosa negli Stati Uniti provocando la prima grande crisi dell’economia globale e che oggi si presenta con la miccia accesa nella vecchia Europa. Nel settembre 2008, quando Wall street visse il dramma storico del fallimento della Lehman Brothers, tutti, ma proprio tutti si impegnarono a limitare le invasioni della finanza, il suo dominio incontrastato sull’economia reale, sull’industria, l’occupazione. Governi e leader politici giurarono, allora, di voler invertire la rotta, di bloccare il gigantesco trasferimento di ricchezza dal profitto, dal lavoro alla rendita finanziaria. La distorsione dell’economia, emersa in modo drammatico due anni fa, avrebbe dovuto essere affrontata con un riequilibrio profondo tra risparmio e investimenti e soprattutto le autorità di governo e quelle che vigilano sui mercati e sulla concorrenza avrebbero dovuto intervenire con provvedimenti rigorosi e coerenti per smontare i giochi perversi della finanza.

Ma poco è stato fatto su questo fronte perchè fortissime sono le resistenze del mondo finanziario e spesso deboli e miopi sono le azioni politiche. Obama, che rappresenta per molta parte del mondo ancora una speranza di cambiamento, ha implorato le lobby delle banche e delle assicurazioni a non ostacolare la sua riforma dei mercati e della finanza. Ma nemmeno Obama è riuscito a sfondare in un sistema, come quello Usa, dove uno può fare il ministro del Tesoro e poi guidare serenamente la Goldman Sachs e viceversa. Quello che viviamo oggi in Europa e che preoccupa la Casa Bianca non è solo la speculazione contro governi o monete deboli, d’altra parte la speculazione - lo insegnano persino nelle università - è parte integrante dei mercati e del loro funzionamento.

C’è una patologia di fondo che sta nel Dna del sistema, per cui il denaro serve solo a creare altro denaro. I golpisti della finanza attaccano gli stati grazie alle armi che gli stessi stati hanno messo loro a disposizione.

Per fronteggiare la crisi del 2008 i governi erano intervenuti per salvare banche, assicurazioni, intermediari, immettendo nel sistema cifre iperboliche. Almeno 3000 miliardi di dollari, denaro pubblico, sarebbero stati spesi per evitare il tracollo del sistema creditizio, ma anche della Chrysler di Sergio Marchionne, trasferendo così le perdite dal sistema privato a quello pubblico. La strada è stata seguita anche in Europa e i mercati finanziari che, fino al 2008, avrebbero speculato contro questa o quella banca o impresa considerata debole oggi si accaniscono contro gli stati e lo loro valute, partono dalla Grecia ma allargano facilmente l’orizzonte e mettono nel mirino l’intera costruzione della moneta unica europea.

Ma gli stati, la politica sono deboli, frammentati, gelosi dei loro poteri e interessi. Si muovono in ritardo, come è avvenuto in questi giorni in Europa dove la signora Merkel (che non è Khol) era preoccupata per l’impatto degli aiuti alla Grecia sul voto regionale in Germania. Mentre l’Europa balbetta, sull’altro fronte invece c’è una corporation planetaria formata da potenti banche d’affari, proprietari e promotori di hedge funds e di strumenti derivati che non rispondono a nessuno, se non ai propri azionisti, il cui unico obiettivo è quello di produrre soldi dopo altri soldi, di alimentare senza ritegno la corsa delle stock options dei propri managers. Quante volte, negli ultimi anni, il mondo si è dovuto confrontare con queste crisi, con il fenomeno della “speculazione” che sarebbe la parte più cattiva, deviante, di un sistema che ai più sembra ancora buono? Ci sono stati gli scandali dell’epoca Bush, come la Enron e la WorldCom. Poi i subprime, la caduta delle grandi banche e di conseguenza la recessione, il crollo dell’economia, la perdita di milioni di posti di lavoro. Ma, dopo le tragiche esperienze del passato, poco è cambiato visto che ancora oggi gli strumenti della speculazione valgono 4 o 5 volte l’intero Pil mondiale.

Il presidente Obama è intervenuto con forza sull’Europa affinchè si muovesse con provvedimenrti straordinari perchè la Casa Bianca non vuole ripetere il dramma del 2008 e l’attacco alla Grecia e poi all’Europa ricalca lo stesso schema, minacciando la possibile ripresa internazionale. In aprile negli Statio Uniti sono stati creati 290mila nuovi posti di lavoro, da quattro mesi c’è un leggero miglioramento che Obama non vuole assolutamente pregiudicare con un’altra crisi finanziaria. Dal 2008 ad oggi gli Stati Uniti hanno perso circa otto milioni di occupati. ci vorranno anni per recuperarli. La preoccupazione di Obama è giustificata. Un timore che dovrebbe essere prioritario per tutta l’Europa e, in particolare, per l’Italia.

Il prevalere degli interessi finanziari, o chiamamola pure della speculazione, rispetto alla tutela degli investimenti, della produzione, del lavoro è l’elemento costante di questi anni e anche di questa crisi. La finanza domina i mercati, ricatta i governi e impone una ristrutturazione delle attività industriali da cui raccogliere altri profitti: un processo politico globale che colpisce soprattutto il mondo del lavoro, i sindacati e si potrebbe aggiungere anche la sinistra. Dopo due anni di crisi, dopo la caduta di simboli storici del capitalismo, dopo le copertine dei settimanali americani che invitano a leggere Carlo Marx, non è cambiato nulla. Siamo ancora qui a registrare il trionfo della finanza e la sconfitta della politica e del lavoro. Questa è la realtà.

09 maggio 2010
http://www.unita.it/news/italia/98447/i_golpisti_del_mercato
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 13, 2010, 12:04:49 pm »

Armando Spataro: «Il potere politico attacca informazione e giudici perché garanti della legalità»

di Rinaldo Gianola

La magistratura e l’informazione sono sotto il tiro del potere politico perchè rappresentano la tutela della legalità e la trasparenza, sono i poteri di bilanciamento di una democrazia. È un brutto periodo per chi ha a cuore la democrazia in Italia, ma sono fiducioso: passerà anche questo».

L’appuntamento con Armando Spataro, procuratore aggiunto a Milano, è a casa sua. Prepara il caffè. Bisognerebbe parlare del suo libro, «Ne valeva la pena» editore Laterza, bisognerebbe chiedere a Spataro, protagonista di 34 anni di vita della Procura di Milano, di svelare se ancora ci sono dei buchi oscuri nella storia del terrorismo rosso o perchè governi di sinistra e di destra si sono comportati allo stesso modo quando si è trattato di bloccare l’inchiesta sul rapimento di Abu Omar. Ma si finisce per parlare dell’aggressione di Berlusconi alla giustizia, all’informazione, alla Carta costituzionale.

Spataro, i rapporti tra potere politico e magistratura sono mai scesi così in basso?
«No, mai. Lo testimoniano anche i fatti di questi giorni. Francesco Saverio Borrelli diceva che il controllo della legalità esercitato dalla magistratura in modo autonomo non può essere gradito al potere politico, qualunque sia il colore della maggioranza di turno. Il potere della magistratura è infatti eccentrico rispetto ai programmi ed agli interessi di chi governa, ed è la Costituzione che ha scelto questo modello di magistratura: noi siamo sottoposti solo alla legge ».

Quando è iniziato questo processo di deterioramento?
«Edmondo Bruti Liberati, nuovo procuratore capo a Milano, ha ben ricostruito la storia di questa crisi. Il peggioramento dei rapporti è iniziato negli anni Novanta con le inchieste della magistratura sulla corruzione, sulla commistione indebita tra politica ed economia, con Mani Pulite. In quegli anni è emersa l’estraneità della magistratura rispetto agli interessi della politica, quello è stato il punto di svolta. Da almeno 15-16 anni il potere politico si è messo di traverso, cercando di ostacolare o condizionare l’attività della magistratura».

Le parole di Berlusconi?
«Lo ha detto anche il CSM. Non si tratta di esercizio del diritto di critica, ma di “espressioni denigratorie che incidono sull’indipendente esercizio delle funzioni dei magistrati e ne delegittimano l’operato”. Avevo pensato di rinviare la pubblicazione del libro e di aggiornarlo con le aggressioni sistematiche alla magistratura, ma attacco dopo attacco non avrei mai finito».

Cosa si aspetta, ora?
«Gli attacchi hanno passato il segno da tempo e messo in crisi il principio della separazione dei poteri. Meriterebbero, forse, una risposta istituzionale adeguata al più alto livello».

Perchè si è messo a scrivere, perchè ci consegna questo “verbale” da 600 pagine?
«Ho iniziato a scrivere di slancio, all’improvviso, spinto dall’amarezza e dalla delusione provate dopo che due governi, di diverso orientamento politico, avevano dato la stessa risposta su un caso importante come l’inchiesta Abu Omar. Opporre il segreto di stato in un caso drammatico di violazione dei diritti umani è stata una decisione politica che mi ha ferito. Ho scritto perchè avevo voglia di buttare fuori tutto quello che avevo dentro, una scelta forse autoterapeutica. E, forse con presunzione, ho pensato che il racconto di quanto ho visto nei miei oltre trent’anni di lavoro in magistratura potesse essere utile anche ad altri».

Quello del magistrato è un lavoro o una missione?
«Il mio è un lavoro non una missione. Ma ho sempre ben presente la lettera che il mio collega e amico Guido Galli, assassinato dai terroristi, scrisse al padre per spiegare la sua scelta della magistratura, per fare qualche cosa per gli altri, per il paese, per le istituzioni. Ho sempre fatto il magistrato cercando di svolgere il mio lavoro al meglio delle mie capacità e competenze. Non mi è mai piaciuto, invece, l’approccio del magistrato come moralizzatore della società».

Perchè è stato grave usare il segreto di stato nell’inchiesta Abu Omar?
«Perchè con questa inchiesta l’Italia avrebbe potuto dare l’esempio, assumere un ruolo trainante in campo internazionale nella tutela dei diritti umani. Avrebbe potuto guidare quel cambiamento che solo oggi, grazie a Obama, inizia faticosamente a prendere corpo. Il caso Abu Omar ha invece segnato uno spartiacque: da quel momento il segreto di stato, la cui opposizione non può che essere un fatto eccezionale, è entrato in tanti altri processi. Opposto nel processo Telecom di Milano dall’imputato Mancini, nel processo di Perugia da Pollari e Pompa accusati di peculato, è comparso persino in un processo per diffamazione a carico di Magdi Allam. E sempre il Presidente del Consiglio ne ha confermato la sussistenza».

Lei ha fatto tutta la sua carriera a Milano, cos’è la Procura di Milano?
«È casa mia. La Procura di Milano ha un’anima, forte e radicata nei magistrati che ci lavorano. Qui hanno lavorato e hanno lasciato il segno dell’impegno per la difesa della democrazia e delle istituzioni i miei amici Emilio Alessandrini e Guido Galli. Quando il potere politico attacca la Procura di Milano, ogni cittadino dovrebbe ricordarsi di questi uomini. Mi considero fortunato di aver fatto questa esperienza, di aver incontrato tanti valorosi colleghi. Milano, per me, è stata fondamentale, mi accolse che non avevo nemmeno trent’anni. C’era il terrorismo, ma era una città vivacissima piena di fermenti culturali e politici. A 28 anni mi trovai immerso nelle inchieste sulle Brigate rosse, gli omicidi. Sono cose che non si dimenticano».

Lei è un personaggio pubblico, un magistrato molto noto, per i suoi critici “troppo potente”. Qual è la giusta dimensione della presenza pubblica di un magistrato, nel suo rapporto con i media? Non le pare che alcuni suoi colleghi esagerino?
«Il giudice vive e lavora da solo. Questa è la condizione generale. L’esposizione mediatica del giudice, la sua presenza pubblica, secondo un politico sensibile come Virginio Rognoni, è spesso la conseguenza del rilievo sociale del suo lavoro. Ovviamente diversa, e non la condivido, è la ricerca narcisistica dell’esposizione mediatica per la creazione del personaggio, una strada che porta alla demagogia e al populismo».

Cos’è la riforma della giustizia?
«E chi lo sa? Una cosa che trovo insopportabile è la retorica delle riforme condivise. Questa formula, molto usata negli ultimi tempi nel mondo politico, nasconde solo la debolezza e la frammentazione di quella politica che nelle riforme condivise trova la mediazione delle proprie divisioni a scapito dei principi. Dal 1989 ad oggi sono state approvate 83 riforme del codice, e oggi siamo ancora qui a discutere di riforme condivise. E quali sarebbero? Il processo breve, la separazione delle carriere o la separazione della sezione disciplinare dal Csm dallo stesso consiglio come chiede Luciano Violante? Volete ridurre il numero delle sedi giudiziarie come dicono da decenni a destra e a sinistra? Bene fatelo. In Piemonte ci sono 16 tribunali, eredità del passato sabaudo. Tagliate questi sprechi. E invece non succede nulla, salvo voler condizionare, per non dire di peggio, le inchieste della magistratura».

Anche il pd chiede la riforma della giustizia. Cosa ne dice?
«Ho letto le proposte di Andrea Orlando, responsabile giustizia del pd: sono una serie di enunciazioni perfette in nome proprio delle “riforme condivise”, anche se non capisco cosa ci guadagnerà la giustizia».

In conclusione, valeva la pena scegliere la magistratura?
«Sì, ne valeva la pena. Anche se viviamo anni difficili, le cose cambieranno, non possono non cambiare.Dobbiamo avere fiducia».

12 giugno 2010
http://www.unita.it/news/italia/99899/armando_spataro_il_potere_politico_attacca_informazione_e_giudici_perch_garanti_della_legalit
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 07, 2010, 05:13:10 pm »

Il vero piano-casa di Berlusconi: «Milano 4» ad Arcore

di Rinaldo Gianola

L’unico che davvero ci spera è il sindaco di Arcore, l’avvocato Marco Rocchini, 70 anni:«Non c’è un centesimo in cassa, noi sindaci siamo costretti a scalare vetri insaponati. Personalmente non ho dubbi, sono favorevole all’investimento immobiliare di Berlusconi nel nostro comune, sarebbe un grande aiuto. Ma, purtroppo, ogni volta che c’è di mezzo Berlusconi si scatena la bagarre». Il primo cittadino di Arcore, targato pdl, si trova nelle condizioni di molti amministratori italiani costretti a guidare le loro comunità con risorse sempre più misere a causa dei tagli del governo.

Ma Rocchini potrebbe contare su un generoso piano di investimenti immobiliari che il concittadino Silvio Berlusconi ha in mente di realizzare nel territorio confinante con la sua residenza. Il piano dell’Immobiliare Idra, società del gruppo Fininvest della famiglia Berlusconi, prevede investimenti per circa 200 milioni di euro, per costruire villette-palazzine che verrebbero date in affitto a giovani coppie. Il territorio interessato parte da Villa San Martino, residenza del premier acquisita negli anni Ottanta grazie alle mediazione dell’avvocato Cesare Previti e dove trovò rifugio e lavoro lo stalliere Vittorio Mangano l’”eroe” di Marcello Dell’Utri, e si estende fino al fiume Lambro e oltre, se fossero concesse le deroghe e i permessi necessari.

Perché quella che è stata battezzata la “Milano 4” di Arcore è un’iniziativa imprenditoriale che è destinata a realizzarsi, se davvero si farà, su un’area di 250.000 metri quadri all’interno del Parco del Lambro, alla quale sono interessate tre province (Monza e Brianza, Lecco, Como). Sulle prime indiscrezioni del progetto ci sono state polemiche e battaglie, apprezzamenti e dichiarazioni di guerra. Come stanno le cose? Il sindaco Rocchini spiega:«Non è vero che io o il comune abbiamo autorizzato il piano. Il progetto non è stato nemmeno protocollato. Un paio di mesi fa gli amministratori di Idra si sono presentati da me e mi hanno illustrato il piano di investimento. Ho ascoltato e le dico che personalmente sono favorevole perché questa iniziativa cambierebbe il futuro di Arcore e della zona intorno, potremmo ottenere 20 milioni di oneri di urbanizzazione e Idra si è impegnata a restaurare Villa Borromeo d’Adda, a creare una casa di riposo per anziani, a realizzare due sottopassi per la ferrovia, piste ciclabili e altre opere.

Insomma, tutti progetti che il comune oggi non è in grado di sostenere. Sarebbe utile per tutti poter discutere pacatamente di questa proposta, valutare gli aspetti positivi e quelli negativi e poi decidere. Ma quando c’è di mezzo Berlusconi diventa difficile, era già successo quando presentò il piano di allargamento della sua residenza...». Fausto Perego, ex assessore all’Urbanistica e oggi consigliere pd ad Arcore, è uno di quelli che si è battuto contro l’estensione della Villa del premier e oggi è contrario al piano “Milano 4”. Argomenta: «Il comune non ha nemmeno il Piano Generale del Territorio e ora dovremmo consentire a Berlusconi di gettare una colata di cemento compromettendo il Parco e il futuro dell’area sulla cui tutela tutti, destra e sinistra, ci eravamo impegnati.

Le contropartite offerte da Idra sono importanti per la città, ma non possiamo farci prendere perché abbiamo fame. Il territorio va salvaguardato, è il nostro patrimonio principale». La proposta di Berlusconi. comunque, è una di quelle che fa discutere e divide non solo perché c’è di mezzo il premier e i suoi enormi interessi. La notizia di un investimento così importante in un’area ricca ma duramente colpita dalla crisi economica sembra fatta apposta per mantenere l’attenzione politica e mediatica, come se ce ne fosse ancora bisogno, sempre su Berlusconi. Nei mesi scorsi, proprio attorno ad Arcore e alle tre ville di proprietà del premier in Brianza, si sono consumate tragedie sociali come il licenziamento degli operai della Yamaha, la ristrutturazione della Dalmine, i tagli della Celestica e ancora la vertenza della Carlo Colombo con gli operai sul tetto a protestare. Berlusconi entrava e usciva con la sua Audi blindata da Villa San Martino, passava davanti ai picchetti operai, ma poi in tv negava la crisi e invitava all’ottimismo.

Oggi come un mecenate generoso offre al suo comune l’opportunità di un ricco investimento, sempre giocato, però, sulla deroga dalle regole: costruisco le case, porto lavoro e soldi, ma voi fatemi usare il Parco. La partita di “Milano 4” non è naturalmente solo una questione economica, assume, come teme il sindaco di Arcore, una forte connotazione politica proprio perché c’è di mezzo Berlusconi. Il premier nuota in Brianza e in Lombardia in piena libertà e con grandi appoggi. La sua rete è talmente articolata e solida che non ci si sorprende più di nulla. Ad esempio il vicepresidente della provincia di Monza, Antonino Brambilla, riveste tranquillamente il ruolo di consulente della Immobiliare Idra, mentre il presidente del Parco valle del Lambro è Emiliano Ronzoni, fedelissimo di Formigoni, che dovrebbe decidere sui permessi. Non resta altro che attendere la decisione di Arcore dove la prossima primavera si andrà al voto e c’è aria di ribaltone. Il sindaco Rocchini è stanco e ha già fatto la sua scelta:«Io non mi candido più».

07 luglio 2010
http://www.unita.it/news/italia/100890/il_vero_pianocasa_di_berlusconi_milano_ad_arcore
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 18, 2010, 11:00:07 am »

Formigoni sotto tiro E lui sospetta Tremonti

di Rinaldo Gianola

A pensar male si fa peccato, ma ogni tanto ci si piglia. Roberto Formigoni deve aver pensato in questi giorni difficili a quella famosa citazione di Giulio Andreotti almeno per consolarsi, o per trovare un indizio, se non una piena giustificazione agli scandali e alle inchieste che come un temporale estivo investono il suo regno lombardo.

Davvero il governatore ha delegato quei galantuomini della P3 affinché facessero pressioni sui giudici per riammettere la sua lista elettorale «Per la Lombardia» dopo il pasticcio della irregolare presentazione? L’incompatibilità ambientale per cui è stato trasferito il presidente della Corte d’Appello, Alfonso Marra, ha qualche relazione con il pressing di Formigoni? E, su altro versante ancora più grave, come fa il governatore a tenersi accanto il consigliere del Pdl Massimo Ponzoni il cui nome è direttamente collegato con l’inchiesta sulla ’ndrangheta in Lombardia?
«Notizie false»

Formigoni ieri ha parlato, ha negato nettamente qualsiasi coinvolgimento con la banda della P3, ha precisato che si tratta di «notizie false e infondate», ha aggiunto di aver dato mandato solo ai suoi legali per ottenere la riammissione della lista e ha evitato di rispondere alla domanda se avesse mai telefonato ad Arcangelo Martino, uno degli arrestati. Ma ci vuole altro per chiudere un partita giudiziaria e politica, con mille risvolti e collegamenti.

Formigoni non è un politico qualsiasi: è un uomo di potere che per il quarto mandato consecutivo ha ottenuto un largo consenso dagli elettori per guidare la regione italiana che da sola produce oltre il 20% del pil. Il governatore passerà alla storia. Nemmeno Franz Joseph Strauss riuscì a resistere così a lungo nella sua Baviera. Formigoni ha una rete di potere consolidata, tra politica, affari e solidarietà, si parte dalla Compagnia delle opere e si finisce alla finanza, con ospedali, scuole, formazione, autostrade e infine l’Expo 2015, per la cui organizzazione ci ha messo la faccia e sta litigando con il sindaco Moratti e il presidente della provincia Podestà.

Lo scontro con Tremonti
Formigoni, da politico di lungo corso e con la sospettosa cultura che gli deriva dalle sue origini democristiane, si è chiesto se ci sia un motivo particolare, se esista una ragione prevalente per spiegare tutta questa bagarre scatenatasi nei giorni scorsi. Il governatore è troppo abile per annunciare di voler mettere taglie per trovare i responsabili di questo disegno, ma qualche idea se l’è fatta. Formigoni ritiene che questa baraonda, che lo porterà nei prossimi giorni ad essere sentito dai magistrati come persona informata dei fatti, possa essere stata strumentalizzata, enfatizzata, a causa della sua opposizione alla manovra correttiva di Tremonti. Il presidente della Lombardia, in effetti, è stato molto duro nei suoi giudizi sugli interventi, sui tagli del ministro dell’Economia col quale, anche su altre questioni ( come il finanziamento dell’Expo), non ci sono rapporti sereni. «Se uno tocca Tremonti rischia di farsi male» avrebbe commentato il governatore in questi giorni e i suoi collaboratori non hanno fatto fatica a mettere in fila gli episodi, importanti e marginali, di contrasto tra Formigoni e Tremonti. Non è un mistero che l’asse tra il fiscalista di Sondrio e la Lega di Bossi puntava a sostituire Formigoni al Pirellone, né che tra il governatore e il ministro dell’Economia sia partita da tempo una corsa senza esclusione di colpi per conquistare la leadership del centrodestra dopo Berlusconi che, comunque, vuole resistere almeno fino a 120 anni...

Lo scontro più duro è quello maturato nelle ultime settimane, attorno alla manovra correttiva dei conti pubblici con i tagli imposti da Tremonti alle Regioni. Formigoni, che si vanta di aver conti in ordine e una gestione oculata delle risorse, si è messo di traverso, ha affondato le critiche al ministro e ha ventilato le pericolose conseguenze politiche che deriverebbero dai tagli ai treni dei pendolari, alla sanità regionale, alle scuole, ai fondi per le aziende e per la cassa integrazione in deroga.
Forse i sospetti di Formigoni sono eccessivi, ma certo qualche fondamento ce l’hanno. Tocca a lui chiarire le sue responsabilità e se davvero esiste una trama del ministro Tremonti che mira a colpirlo. La sola certezza oggi è che l’inchiesta sulla P3, dopo la rissa tra fininiani e premier sulle intercettazioni, sta trasformando il popolo delle libertà in un verminaio ingovernabile.

17 luglio 2010
http://www.unita.it/news/italia/101318/formigoni_sotto_tiro_e_lui_sospetta_tremonti
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 20, 2010, 10:23:22 am »

Un autunno triste

di Rinaldo Gianola

Il presidente Obama dice che negli Stati Uniti per ogni posto di lavoro disponibile ci sono cinque disoccupati in coda. Nonostante i segnali di risveglio dell’economia americana, ben più sostenuti di quelli europei e italiani, il dato diffuso dalla Casa Bianca testimonia che è ben fondato il timore di quanti prevedono una ripresa senza occupazione. A maggior ragione questa preoccupazione dovrebbe investire governo e imprese del nostro Paese perchè è evidente che l’autunno non ci porterà la fine della crisi che ormai dura dal 2008, ma un periodo di nuove difficoltà soprattutto sul fronte sociale.

Le recenti valutazioni del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, e le stesse stime di Confindustria condividono la prospettiva che per l’occupazione il peggio deve ancora venire, anche se il Pil mostra finalmente un segno positivo.

La disoccupazione reale è attorno al 10%, forse di più, giovani e donne sono i più colpiti, non ci sono segni che possano far immaginare una netta inversione di tendenza. La creazione di nuovi posti di lavoro ha bisogno di una forte ripresa dell’economia e non sarà sufficiente l’1 per cento, più o meno, che riusciremo a conquistare. In più oggi bisogna consideare l’impatto della manovra correttiva dei conti pubblici. per la quale è atteso il voto di fiducia della Camera, che potrebbe non garantire il raggiungimento degli auspicati obiettivi sul bilancio dello Stato con la conseguente necessità di un’altra stangata, e potrebbe frenare o pregiudicare i segnali di ripresa.

Ecco perchè i prossimi mesi, dopo l’estate, saranno di grande incertezza per la nostra economia e di forte difficoltà per la tenuta del tessuto sociale, già indebolito dalla lunga crisi. L’autunno si presenterà agli italiani con un’economia ancora debole, una pressione fiscale da record perchè Berlusconi ha aumentato le tasse, servizi locali tagliati dalla manovra e redditi ancora in caduta con una conseguente stagnazione dei consumi. Oggi, inoltre, al di là della congiuntura economica, è necessario aggiungere una valutazione sul comportamento di grandi gruppi e di nomi prestigiosi dell’industria che stanno maturando scelte che potrebbero avere conseguenze gravi sull’occupazione.

Telecomunicazioni, siderurgia, auto, elettrodomestici, chimica, tessile, i settori principali della nostra industria sono coinvolti in piani di ristrutturazione e di riorganizzazione che lasciano a casa migliaia di lavoratori. Il processo è iniziato da molti mesi, ha accompagnato l’evoluzione della crisi, e proprio in questo periodo si sta accentuando quasi si volesse posticipare ancora la fine dell’emergenza. C’è da chiedersi, almeno, se tutti questi sacrifici sul fronte occupazionale siano davvero necessari per superare la crisi e rilanciare l’industria, o se, invece, il semplice taglio dei dipendenti, magari accompagnato da chiusure di fabbriche e da delocalizzazioni produttive, non sia una scorciatoia per recuperare margini di profitto.

Davanti a ogni crisi il capitalismo ne esce con profonde ristrutturazioni e con tagli occupazionali, ma anche in questo momento ci sarebbe spazio per un intervento pubblico, una regia del governo in grado di orientare le scelte industriali, gli investimenti, per verificare se davvero chiusure e licenziamenti non abbiano alternative. Sarebbe necessaria, insomma, una coerente politica industriale, come fanno altri paesi europei, ad esempio Germania e Francia. Da noi, invece, Berlusconi e Sacconi si limitano a fare il tifo per la Fiat a Pomigliano e guai a chi non ci sta. A proposito di auto e diritti.... La storica fabbrica Volkswagen di Wolfsburg, dove gli operai guadagnano quasi il doppio di quelli italiani, ha prodotto oltre 700mila vetture nel 2009. Nessuno ha chiesto agli operai di rinunciare a tutele e diritti

20 luglio 2010
http://www.unita.it/news/analisi/101437/un_autunno_triste
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 23, 2010, 11:50:13 pm »

Landini: «Fabbrica Italia così non è credibile»

di Rinaldo Gianola

Marchionne sposta in Serbia investimenti e produzioni previsti a Mirafiori perché dopo il caso Pomigliano non si fida dei sindacati, non vuole sorprese. Landini, tutta colpa della Fiom? «Non scherziamo, cerchiamo di essere seri. La Fiat cambia il suo piano strategico da un giorno all’altro, con una semplice comunicazione, non lo discute con nessuno. Il piano in Italia è nebuloso, questo è il punto vero.
La Fiat è in difficoltà sul mercato, soprattutto in Europa, i prodotti sono vecchi e poco competitivi e si cerca di creare una cortina fumogena dando la colpa ai sindacati e ai lavoratori».

Maurizio Landini, 48 anni, iscritto alla Fiom da quando aveva 16 anni ed era apprendista saldatore, è il segretario dei metalmeccanici della Cgil da pochi mesi. Si è trovato subito in mezzo alla questione Fiat, alle polemiche, alle accuse, e anche alle incomprensioni con la sua confederazione. Oggi, nel bene o nel male, è il sindacalista più esposto sul fronte della crisi italiana. Per molti è il simbolo di un vecchio sindacalismo anni 70, per altri è un argine al trionfo del pensiero unico aziendalista.

Landini, il taglio dell'investimento a Mirafiori lo avevate previsto dopo il mancato plebiscito a Pomigliano? Siete voi i responsabili?
«Assolutamente no. Bisogna leggere bene le posizioni di Marchionne di questi ultimi mesi per capire dove va e cosa ha in mente la Fiat. La scelta della Serbia oggi non è casuale: quella era una fabbrica distrutta dai bombardamenti, ricostruita con i soldi del governo, esente da tasse per dieci anni e l’azienda incassa un contributo di 10mila euro per ogni dipendente assunto. Un operaio guadagna 400 euro al mese. È un’altra America per Marchionne. Negli Usa la Chrysler era alla bancarotta è stata salvata da Obama, con i soldi pubblici e i fondi dei lavoratori. La logica della Fiat è questa: prende i soldi pubblici, con questi finanzia gli investimenti, e l’azionista non ci mette niente. Per la verità è una logica applicata anche da noi».

Cosa vuol dire? Marchionne ha promesso 20 miliardi di euro...
«Io vedo che quest’anno in Italia si produrranno meno di 600mila vetture della fascia medio-bassa, che Termini Imerese chiude con nessuna opposizione, che i dipendenti Fiat perdono tra i due e tre mesi di reddito con la cassa integrazione e in più Marchionne non paga il premio di risultato mentre distribuisce il dividendo. Una parte degli investimenti è certamente pagata dal lavoro, non c’è dubbio».

Il problema è che perdiamo industria e lavoro, Marchionne chiede garanzie di governabilità nelle fabbriche e nessuno dice niente tranne la Fiom che viene vista come l’irresponsabile.
«La Fiat sta procedendo a scelte profonde, il governo è assente mentre in Europa i governi francese e tedesco sono intervenuti per dare una mano all’industria dell’auto chiedendo in cambio nuovi investimenti, prodotti innovativi, ricerca, tutela delle fabbriche e dell’occupazione. In Italia, invece, non si fa nulla. Così la Fiat avvia la separazione dell’auto e dalla Cnh e all’Iveco, aprendo la strada a una fusione con la Chrylser. La testa e i grandi interessi della Fiat si stanno spostando in America, altro che Fabbrica Italia. Pomigliano è stata una prova per soggiogare i lavoratori e i sindacati, imponendo la violazione del contratto nazionale, della legge e la deroga alla Costituzione. Ma, nonostante tutto, larga parte dei lavoratori non ha accettato quelle condizioni. Non sono solo gli iscritti alla Fiom a dire no a questo disegno autoritario, che si manifesta anche con i licenziamenti, ma come dimostrano le manifestazioni di questi giorni sono migliaia di lavoratori del gruppo che non ci stanno».

Ma non teme che la vostra legittima opposizione privi l’Italia di investimenti e lavoro? Senza fabbriche non ci sarà più bisogno né del sindacato né tantomeno della Fiom.
«Noi siamo i primi a volere una Fiat forte, capace di competere sui mercati con prodotti nuovi. Ma il caso Pomigliano e poi Mirafiori dovrebbe far riflettere tutti sulle condizioni che Marchionne vuole imporre, sull’abbassamento dei salari, sui ritmi, sulla violazione delle leggi e dei contratti. Nelle fabbriche Fiat c’è preoccupazione e malcontento, non solo tra i nostri iscritti. Possibile che gli altri sindacati e la politica non riescano a vedere cosa sta succedendo, non dico che devono condividere le nostre opinioni, ma almeno guardate cosa avviene negli stabilimenti. Se Fabbrica Italia significa che i salari italiani devono competere con quelli polacchi o serbi, e magari cinesi, allora la partita è persa, perché ci sarà sempre nel mondo qualcuno che costa un euro meno di noi».

Molte imprese di Federmeccanica avrebbero chiesto di applicare il modello Pomigliano. Bonanni e Angeletti sono disponibili. Cosa ne pensa?
«Penso che sia un’illusione, penso che se gli imprenditori ritengono di poter gestire le loro fabbriche complesse e delicate senza il consenso e la partecipazione dei loro dipendenti allora hanno smarrito la ragione. Nessuno può illudersi di governare la produzione violando le regole e i contratti, applicando magari ricette autoritarie. Non funziona, e gli industriali intelligenti lo sanno».

Probabilmente la posizione della Fiom godrebbe di maggior credibilità se la sua organizzazione fosse più in sintonia con la Cgil, non crede?
«Tra Fiom e Cgil c’è una lunga storia di confronto, di dialettica. Fa parte della nostra vita democratica. Penso che i problemi nascano da una discussione congressuale non compiuta fino in fondo, abbiamo chiuso il congresso dicendo che c’erano le condizioni per riprendere una processo sindacale unitario e poi abbiamo visto cosa è successo. La Fiom mantiene la sua lealtà verso la confederazione e i suoi iscritti, l’obiettivo di tutti è difendere il lavoro, i diritti, senza cedere ai ricatti. Noi facciamo solo il nostro mestiere».

Nella segreteria Fiom c’è stato uno strappo: la minoranza, che è la maggioranza nella Cgil, non è rappresentata. Perché?
«Fausto Durante, dopo una discussione, ha scelto di non entrare in segreteria. Mi dispiace e penso che abbia fatto un errore. Spero che questa ferita possa rimarginarsi al più presto. Aggiungo che la nostra segreteria ha sempre preso le decisioni all’unanimità anche su Fiat, anche con il voto della minoranza».

Landini, non vi sentite un po’ belli e isolati...
«Non siamo per niente isolati, basta guardare in giro quello che succede. Le nostre lotte hanno successo, raccolgono consensi ben più ampi dei nostri iscritti. Sulla Fiat lotteremo per ottenere un confronto vero sulle scelte industriali. C’è tempo ancora un anno. La nostra unica condizione è il rispetto del contratto nazionale e della Costituzione, non mi pare una richiesta eversiva».

E poi, cosa succede?
«Abbiamo convocato per il 16 ottobre una grande manifestazione a Roma, aperta a tutte le forze sociali, sindacali, politiche. Vogliamo difendere il lavoro, combattere la precarietà, estendere la democrazia. Se c’è qualcuno che pensa che sul lavoro si possa costruire qualcosa di nuovo per il nostro paese noi siamo disponibili».

Landini, sicuro di non aver sbagliato su Pomigliano?
«No, non abbiamo sbagliato».

23 luglio 2010
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http://www.unita.it/news/economia/101580/landini_fabbrica_italia_cos_non_credibile
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« Risposta #22 inserito:: Luglio 29, 2010, 11:47:04 am »

Epifani: «Operazione pericolosa contro Confindustria e contro il sindacato»

di Rinaldo Gianola


Nessun passo avanti, nessuna apertura. Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, è molto deluso dall'incontro con Sergio Marchionne: «Ha ribadito le sue posizioni, al limite del ricatto. Se non fate quello che dico io me ne vado altrove perché la Fiat è un gruppo mondiale e posso scegliere dove fabbricare. Non ci sono cambiamenti nel suo diktat, né oggi, bisogna sottolinearlo, ci sono certezze sui volumi produttivi e sugli investimenti del gruppo in Italia. Resta tutto avvolto nell'incertezza ma la strada scelta dal Lingotto non conviene a nessuno, nemmeno all'azienda».

Epifani, la Cgil non condivide il piano Marchionne e così i nuovi modelli vengono spostati in Serbia.
«Non è così. Lo stesso Marchionne ha detto che il trasferimento in Serbia è stato deciso per una questione di tempi, perché Mirafiori non sarebbe stata pronta. La verità è che Marchionne continua a promettere investimenti che restano confusi, chiede una nuova organizzazione del lavoro, nuovi ritmi, deroghe alle leggi e al contratto nazionale ma poi non c'è la certezza di cosa produrranno le fabbriche italiane. L'incontro è stato deludente, non capisco l'ottimismo del governo, di Cisl e Uil. Il futuro degli stabilimenti italiani oggi è in dubbio. Né il governo né la Regione Piemonte sono riusciti a convincere Marchionne a fare un passo in avanti».

Fabbrica Italia, dice Marchionne, è un progetto aziendale, non un piano condiviso. Quindi: ci state o no?
«Se Fabbrica Italia è una proposta aziendale perché non farla diventare un progetto condiviso dai lavoratori, dai sindacati, dalle istituzioni, perché non renderla più forte con il consenso e la partecipazione di tutti? Ci sono le condizioni, se la Fiat vuole, di riaprire il negoziato e trovare un accordo ampio, su produzioni, organizzazione del lavoro, saturazione degli impianti. L'obiettivo principale della Cgil e della Fiom è di mantenere e di rafforzare l'industria dell'auto in Italia, di consentire alla Fiat di realizzare in sicurezza i suoi investimenti, di rendere più efficienti le fabbriche, di garantire i posti di lavoro. Noi ci stiamo e siamo disposti a dare il nostro importante contributo, nel rispetto della Costituzione, delle leggi dello Stato, dei contratti».

Ma Marchionne non ne vuole sapere di contratti e di tutto il resto. La Cgil si ostina su questi argomenti mentre Marchionne vuole uscire da Federmeccanica e denunciare il contratto nazionale di lavoro. Lui è già nel futuro, è “inarrivabile” come dice il Corriere della Sera...
«Marchionne sta compiendo un'operazione molto pericolosa che danneggia l'intero sistema delle relazione industriali. Uscire da Federmeccanica e derogare dal contratto vuol dire, prima di tutto, dare uno schiaffo alla Confindustria e alla signora Marcegaglia. Se la Confindustria non è in grado di far rispettare gli accordi ai suoi associati quale credibilità potrà avere con le controparti? Marchionne vuole davvero passare sopra tutto, distruggere anni di storia di relazioni industriali, vuole farla finita con i corpi intermedi di rappresentanza? È un rischio molto grave, soprattutto in un paese colpito da una crisi profonda, dove la tenuta del tessuto sociale è in forte pericolo».

Forse Marchionne, alla pari di Berlusconi, si accontenta di tenere la Cgil fuori dalla porta. Non le pare?
«Non voglio pensare che un gruppo importante come la Fiat possa ricercare la sistematica esclusione del più grande sindacato italiano. Sarebbe un gravissimo errore, perché fabbriche con migliaia di dipendenti e produzioni molto complesse non si governano trasformandole in caserme. La Cgil e la Fiom restano in campo con la piena disponibilità a negoziare e a trovare un accordo nell'interesse di tutti. Se, invece, la Fiat sceglierà un'altra strada ne prenderemo atto».

Il sindaco Chiamparino ha detto che il sindacato, e si riferiva alla Cgil e alla Fiom, non è stato all'altezza della sfida Fiat, che Mirafiori non può pagare per Pomigliano...
«Il giudizio di Chiamparino è sbagliato. Che cosa vuol dire, che cosa c'entra Pomigliano con Mirafiori? Il sindaco non ha capito che, comunque, la produzione di Torino sarebbe stata trasferita in Serbia, come ha detto lo stesso Marchionne? E poi bisogna chiarire una volta per tutte: se la politica, anche la sinistra, ritiene che un sindacato moderno sia quello che accoglie tutte le richieste delle imprese a partire dalla Fiat senza fare obiezioni, allora è bene ribadire che questo non è il modello di sindacato che appartiene alla Cgil. Forse il sindaco di Torino ritiene che la Cgil e la Fiom non siano abbastanza responsabili davanti a una sfida come quella della Fiat? Bene, invito lui e la Fiat a metterci alla prova».

La verità, comunque, è che di fronte a Fabbrica Italia la capacità di analisi e di risposta del sindacato e della politica, in particolare delle forze progressiste, sono state insufficienti, è stato impiegato un armamentario vecchio mentre Marchionne fa la parte del modernizzatore in maglioncino.
«Non c'è dubbio che ci siano difficoltà perché l'operazione Fabbrica Italia è ambiziosa e impegnativa per tutti. Ma vorrei aggiungere che la difficoltà più grande è quella di trovarsi di fronte non a disegno industriale, condivisibile o meno, ma a una filosofia del ricatto che ispira le trattative, o meglio: le comunicazioni ai sindacati, e sostanzialmente si basa su un solo principio».

Quale sarebbe questo principio?
«L'azienda è al centro di tutto, vado a produrre dove mi conviene e tutto il resto non conta. Vado dove gli operai costano meno e posso sfruttarli di più, dove i governi mi danno soldi e non mi fanno pagare le tasse. Marchionne, forse, è un po' troppo americano, per questo rischia di compiere gravi errori».

Se questo è il principio che ispira Marchionne, allora la Fiat in Italia durerà poco? Che idea si è fatto della strategia di Marchionne, dove sta andando?
«Il suo primo, principale fronte è l'America. Non ci sono dubbi. Deve riportare in Borsa la Chrysler, rimborsare il maxi-prestito e cercare di sfruttare la congiuntura positiva del mercato. Poi nel medio termine è possibile la fusione tra Fiat e Chrysler, speriamo che ci sia ancora spazio per l'Italia e per l'Europa. Per questo è importante oggi difendere e sviluppare una forte industria dell'auto in Italia».

Non teme che la linea dura di Marchionne possa far presa su altre imprese che affrontano pesanti ristrutturazioni?
«Penso che le imprese italiane non seguiranno questa strada che porterebbe dritti dritti alla balcanizzazione delle relazioni industriali dove comanda il più forte. Mi chiedo e chiedo alle aziende intelligenti: conviene buttare a mare un grande patrimonio di relazioni industriali per colpire momentaneamente lavoratori e sindacati, per fare la faccia dura? No, non credo che seguiranno Marchionne perché già oggi nel nostro paese grandi imprese italiane e multinazionali nella chimica, nel tessile, nell'industria degli occhiali, si accordano con il sindacato per ristrutturare le attività produttive al fine di restare in Italia e difendere l'occupazione».

Cosa succede adesso?
«Attendiamo di conoscere le scelte ufficiali di Marchionne, se esce da Confindustria, se denuncia il contratto, come e se manterrà gli impegni per le fabbriche Fiat in Italia. La Cgil e la Fiom sono pronte a riprendere il confronto per garantire all'azienda di raggiungere gli obiettivi ambiziosi che si è data. Se il governo non si limitasse, come ho detto, a fare il notaio ma mettesse in campo qualche idea di politica industriale darebbe un bel contributo. D'altra parte ricordo che tutta la partita Fiat iniziò a Palazzo Chigi, lì dovrebbe tornare».

29 luglio 2010
http://www.unita.it/news/economia/101834/epifani_operazione_pericolosa_contro_confindustria_e_contro_il_sindacato
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 11, 2010, 10:37:23 am »

Autunno: l’economia si muove, il lavoro no

di Rinaldo Gianola

Il problema più grave sono le donne e i giovani. La maggior parte di loro si sta spostando nella categoria degli “inattivi”, cioè di coloro che sono così scoraggiati da non cercare più attivamente un posto di lavoro. Ma la dinamica del mercato del lavoro italiano negli ultimi due anni ha proposto una nuova figura ormai classica del lavoratore che perde il posto, dalla Brianza al Veneto: è operaio, uomo, spesso immigrato e con un contratto a termine. Stiamo parlando di categorie di lavoratori che escluse dal ciclo produttivo faranno una grande fatica a ritrovare un’occupazione nel breve-medio periodo perchè i positivi segnali di ripresa dell’economia, che finalmente si vedono, non producono effetti diretti e immediati sul lavoro.

La crescita del pil e lo strappo della produzione industriale sono accompagnate da notizie per nulla favorevoli sul fronte dell’occupazione e questo fenomeno - ripresa dell’economia e gelo sul mercato del lavoro - non riguarda solo noi, ma anche l’Europa e gli Stati Uniti.

Il presidente Barack Obama ha sottolineato proprio in questi giorni la sua preoccupazione per la lentezza con cui si creano nuove occasioni di lavoro, dopo che l’America ha perso otto milioni di occupati da quando è iniziata la crisi. «Per ogni nuovo posto disponibile ci sono cinque disoccupati in fila» ha semplificato la situazione il presidente americano.

In Italia, forse stiamo uscendo dal periodo peggiore per l’economia, ma certo non è ancora arrivato il sereno sul fronte sociale.

Anzi, man mano che giungono notizie favorevoli sul fronte dell’economia si innestano nuove situazioni di crisi o di ristrutturazione di imprese che hanno come prima conseguenza l’espulsione di migliaia di lavoratori. La settimana appena conclusa è esemplare: mentre il governo e gli imprenditori si compiacciono per i dati del pil e della produzione industriale, grandi gruppi come Unicredit e Telecom Italia annunciano migliaia di esuberi che vanno a sommarsi a quella multitudine già lasciata a casa negli ultimi mesi. In questa ultima parte dell’anno, se le notizie che emergono in questi giorni saranno confermate, ci sarà un’ondata di riorganizzazioni produttive e aziendali, dall’industria al credito ai servizi, che determinerà probabilmente ulteriori tagli. Fiat, Telecom Italia, Unicredit, Eutelia, Indesit, la chimica, la siderurgia, l’editoria e perfino la finanza legata alla Borsa sono i campi aperti di profondi cambiamenti.

08 agosto 2010
http://www.unita.it/news/economia/102188/autunno_leconomia_si_muove_il_lavoro_no
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 11, 2010, 05:40:49 pm »

Pd, iniziamo da Melfi?

di Rinaldo Gianola


Le sentenze della magistratura si rispettano e non si discutono.
Ieri un giudice del lavoro ha deciso il reintegro degli operai Barozzino, Pignatelli (due delegati Fiom) e Lamorte nello stabilimento Fiat-Sata di Melfi licenziati per «sabotaggio alla produzione». I tre operai erano accusati di aver ostacolato un carrello automatico, durante una protesta in fabbrica, che aveva determinato il blocco della produzione. Il giudice ha riscontrato nella scelta della Fiat un «comportamento antisindacale».

Per noi è una bella notizia. Non abbiamo mai avuto dubbi, e lo avevamo scritto chiaramente, sulla correttezza dei lavoratori di Melfi e sappiamo benissimo che la protesta operaia, pur nelle sue espressioni più radicali, non è paragonabile a un atto eversivo.

Ora ci auguriamo che anche l’impiegato Capozzi di Mirafiori, delegato Fiom e simpatizzante Pd, licenziato perché aveva usato la mail aziendale per un volantino possa presto tornare al lavoro. Nella stagione del bipolarismo bisogna fare scelte chiare: gli operai di Melfi sono i nostri preferiti, Marchionne anche quando cita Karl Popper non ci ha mai pienamente convinto. Ma, forse, ci sbagliamo.

La Fiat non commenta, attende di leggere le motivazioni della sentenza. Nessun commento è arrivato da Emma Marcegaglia, leader di Confindustria, che aveva giustificato il licenziamento dei tre operai perché protagonisti di «iniziative di sabotaggio». In silenzio anche il ministro del Welfare Maurizio Sacconi che aveva spalleggiato la Fiat di «fronte a gravi episodi di interruzione dell’attività produttiva, che ci riportano agli anni Settanta». Bisognerebbe segnalare, ma è meglio lasciar perdere, l’imbarazzo di Cisl e Uil che, in altri tempi, davanti al licenziamento ingiustificato di operai e delegati non avrebbero fatto mancare la loro solidarietà. Ma oggi proprio non ce la fanno.

Questo caso dei licenziamenti alla Fiat, tuttavia, non può essere archiviato con un giudizio in un verso o nell’altro della magistratura.
Il progetto «Fabbrica Italia» annunciato in aprile da Sergio Marchionne porta con sé una sfida non solo industriale, ma culturale e politica al mondo del lavoro, sindacale, al governo. Marchionne dice e conferma con le sue azioni che vuole superare il sistema di relazioni industriali, farsi un contratto di lavoro su misura, derogare da impegni e adesioni confindustriali e soprattutto costituzionali.

Oggi, di fronte alla sentenza di Melfi, Marchionne “l’inarrivabile”, come lo definisce il Corriere della Sera, potrebbe avere qualche dubbio sul successo del suo progetto. È ipotizzabile che i lavoratori di Pomigliano si facciano licenziare e poi riassumere in una newco sempre controllata dalla Fiat con un contratto che deroga dai patti sottoscritti tra le parti, dai principi costituzionali, dal contratto nazionale di lavoro, senza che nessuno osi protestare e ricorrere alla magistratura? Siamo sicuri che i modelli produttivi di Tychy in Polonia o della Chrysler siano indispensabili per convincere Marchionne a mantenere le fabbriche italiane in attività?

A nessuno viene il dubbio che la linea del Lingotto sia stata finora caratterizzata da un’ambiguità che non ha mai chiarito quali saranno i veri investimenti e le reali produzioni destinate all’Italia? In questa situazione difficile converrebbe anche alla Fiat negoziare con tutti, trovare una base più ampia di consenso, nel rispetto dei patti. Sarebbe un successo per Torino, i sindacati, i lavoratori, le istituzioni se «Fabbrica Italia» diventasse un progetto aziendale condiviso da tutti. Ma per ora non ci sono segnali distensivi dal Lingotto, quasi che si volesse cercare un ulteriore scontro, una nuova fase di tensione per ripensare le proprie scelte in Italia.

Può darsi che la strada di Marchionne sia quella vincente, indispensabile allo sviluppo dell’industria dell’auto e alla nuova competizione internazionale. Se ha ragione gli faremo un monumento.
Ma davanti a questa sfida è necessario che la sinistra, il Pd parlino chiaro e forte al paese. Soprattutto è bene che tra le forze progressiste siano chiare le responsabilità di una multinazionale com’è oggi la Fiat, del governo e delle forze sociali. Attribuire, come hanno fatto alcuni esponenti di primo piano del Pd, ai lavoratori di Pomigliano responsabilità dell’inefficienza produttiva, dell’assenteismo ingiustificato, non appare una posizione corretta. A Pomigliano c’è l’«assenteismo» determinato dal fatto che da due anni la fabbrica opera tre giorni al mese e sarà così per un altro anno, ammesso che Marchionne voglia mantenere le promesse. A Pomigliano tra i precari buttati fuori c’erano giovani premiati dal direttore di stabilimento per le loro proposte di miglioramento dell’organizzazione in fabbrica. Questa è la realtà.

Oggi la sinistra, il Pd hanno di fronte sfide importanti. Devono dire da che parte stanno e quali scelte condividono. Perché, come sostiene il presidente della Toscana Ernesto Rossi allergico ai leader fighetti, «l’idea che un partito laburista non debba avere un blocco sociale di riferimento viene da Tony Blair, considero il blairismo una malattia mortale della sinistra». Chi c’è nel blocco sociale del Pd? Iniziamo da Melfi e Pomigliano o no?

11 agosto 2010
http://www.unita.it/news/commenti/102276/pd_iniziamo_da_melfi_di_rinaldo_gianola
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 12, 2010, 09:08:06 am »

Il pugno del padrone.

Finmeccanica scarica il contratto delle tute blu

di Rinaldo Gianola


Sotto il tallone di Sergio Marchionne si strappa la tela delle relazioni industriali improntate alle regole e al rispetto dei contratti. In nome di una malintesa modernità, da mesi in Italia si fanno a pezzi i diritti consolidati del lavoro, una lunga storia di rapporti duri e però costruttivi tra imprese e sindacati e, in conclusione, si altera la dialettica democratica.

La disdetta del contratto dei metalmeccanici del 2008 che scade all’inizio del 2012, l’ultimo firmato anche dalla Fiom, da parte di Federmeccanica è un ulteriore passo di un processo chiaro e coerente ispirato dal governo e finalizzato a destrutturare il sistema dei diritti e delle regole che hanno finora governato il mondo del lavoro. Federmeccanica si è adeguata al diktat della Fiat e fa davvero sorridere il maldestro tentativo del leader degli industriali meccanici Pierluigi Ceccardi di difendere un simulacro di autonomia sostenendo di non aver ricevuto pressioni dal Lingotto.

Dalla prossima settimana Federmeccanica assieme a due sindacati minoritari (il numero di iscritti di Fim-Cisl e Uilm complessivamente è inferiore a quello della Fiom) discuterà le deroghe da apportare al contratto nazionale dei metalmeccanici, in particolare il confronto inizierà dal settore dell’auto come richiesto da Marchionne. Ma non ci sarà nulla da discutere, il contratto dell’auto c’è già: è il «modello Pomigliano» che sarà imposto a tutte le fabbriche della Fiat e poi esteso all’indotto. Le deroghe sono già scritte, non c’è nulla da inventarsi, tantomeno da discutere. I sindacati, quelli che ci stanno, saranno chiamati a sottoscrivere il documento imposto da Marchionne per Pomigliano dove sarà la Fiat a decidere se e quando pagare la malattia o quando sarà possibile scioperare. Il nuovo clima, quello ispirato dalla filosofia di Marchionne, si respirà già a Melfi e a Mirafiori con i licenziamenti punitivi e il rifiuto del Lingotto di rispettare le sentenze della magistratura e persino di accogliere gli appelli del Quirinale e del cardinale Bertone.

La Fiat e Federmeccanica ritengono di poter evitare con questa mossa le battaglie legali della Fiom, ma probabilmente la valutazione è sbagliata. Certo le aziende meccaniche, e poi presumibilmente anche quelle di altri settori rappresentate in Confindustria che vorranno chiedere deroghe (perchè la Fiat sì e gli altri no? Mica sono scemi), pensano di poter ridisegnare i rapporti con i sindacati e i lavoratori usando lo strappo prodotto da Marchionne. Ma, se questa sarà la strada, se non ci sarà un tentativo responsabile di rimettere assieme i cocci e di ricomporre attorno al tavolo la plurale rappresentatività dei sindacati, compreso il maggior sindacato italiano, allora Marchionne e i suoi fans raccoglieranno ancora qualche agiografia sulla grande stampa, magari eviteranno qualche causa in tribunale ma saranno i responsabili di una stagione di conflitti e di tensioni sui luoghi di lavoro.

Certo questo paese è strano: per una settimana tutti elogiano e invidiano il modello tedesco dove i lavoratori sono dentro i centri decisionali delle imprese, poi Marchionne e soci denunciano il contratto dei metalmeccanici per fare quello che vogliono e passare sopra tutto e tutti

07 settembre 2010
http://www.unita.it/news/italia/103258/il_pugno_del_padrone_finmeccanica_scarica_il_contratto_delle_tute_blu
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« Risposta #26 inserito:: Settembre 23, 2010, 10:15:29 am »

Lega, libici e poteri cosa c'è dietro la bufera

di Rinaldo Gianola

Con una drammatizzazione improvvisa il caso Unicredit esplode e rischia di destabilizzare uno dei più grandi gruppi bancari italiani ed europei. Una riunione straordinaria del consiglio di amministrazione è stata convocata per questo pomeriggio dal presidente Dieter Rampl che, dopo un’ultima serie di telefonate con i grandi soci del gruppo, ha deciso nella tarda mattina di ieri di accelerare la svolta. Oggi l’amministratore delegato Alessandro Profumo, uno dei più potenti e influenti banchieri e il protagonista della crescita vertiginosa dell’ex Credito Italiano dopo la privatizzazione, potrebbe presentarsi dimissionario davanti al consiglio di amministrazione.

Anche se da settimane si parlava di crescenti tensioni tra Profumo, il vero capo della banca, e i soci maggiori, in particolare le fondazioni bancarie di Torino e Verona sempre più influenzate dalle pressioni politiche della Lega, era difficile immaginare che si arrivasse così presto a uno showdown che mette in evidenza non solo le incomprensioni già note, ma una vera e propria frattura al vertice di uno dei grandi istituti bancari italiani, una frattura che minaccia la stabilità della banca, la sua strategia e la sua gestione.

Ma perché si arriva a questa resa dei conti? Le fondazioni e anche i soci tedeschi accusano la gestione Profumo di non aver prodotto i risultati attesi e di non essere riuscito a far riprendere quota al titolo in Borsa. Critiche che hanno certo un loro peso e un loro valore, anche se bisognerebbe tener presente che proprio in questi mesi Unicredit ha preparato un nuovo piano di riorganizzazione e in questi giorni è stato avviato il negoziato con i sindacati per una riduzione di personale di 4700 unità in seguito alla creazione della Banca Unica. Ma, probabilmente, questa non è la sola o la vera causa del clamoroso divorzio. Profumo paga la sua indipendenza, spesso esibita nella sua lunga gestione , e soprattutto paga la crisi finanziaria degli ultimi due anni, gli attacchi della Lega e l’ingresso nel capitale degli interessi libici. Questo, probabilmente, è il vero punto. Proprio ieri è stato confermato dalla Consob che la Banca centrale libica e il fondo Libyan Investment authority, riconducibili allo stesso soggetto economico, possiedono complessivamente oltre il 7,5% del capitale sociale di Unicredit e Gheddafi, dunque, è il primo singolo azionista della banca.

Anche se lo stesso Profumo aveva precisato all’inizio di settembre di non aver chiamato o sollecitato l’intervento dei soci libici, sia le fondazioni, sia i soci tedeschi rappresentati da Rampl hanno maturato il sospetto che questo pesante intervento azionario fosse stato ispirato o comunque governato da Profumo.

I libici hanno assunto una posizione tale da sospettarli di voler scalare la banca, come hanno ipotizzato alcuni ambienti politici. Se Gheddafi va a braccetto di Berlusconi, se Italia e Libia stringono affari miliardari, come escludere che Unicredit possa essere diventato oggetto di scambio a livello politico? La partita è molto delicata. I libici hanno il 7,5% del capitale di Unicredit, suddiviso in due soggetti, ma lo statuto di Unicredit impedisce di esercitare il diritto di voto al di sopra della soglia del 5%. Come la mettiamo? La Banca centrale libica e il fondo sovrano sono lo stesso soggetto, come è lecito immaginare, oppure no? Cosa dirà la Banca d’Italia a questo proposito? Come si concluderà l’indagine che lo stesso presidente di Unicredit Rampl sta conducendo?

I libici hanno fatto sapere ieri di essere molto soddisfatti del loro investimento di lunga durata in Unicredit e, naturalmente, il governo e gli amici arabi di Berlusconi, come Tarak Ben Ammar, nessuno sospetta che la Libia possa scalare Unicredit. In ogni caso Profumo, che abbia o meno qualche responsabilità in questa apertura ai libici, è vittima di interessi contrastanti, ad esempio la Lega che non vuole i libici, ma che alla fine si concentrano sulla figura dell’amministratore delegato come figura da colpire. Certo in banca qualche frattura rilevante deve esserci stata se il tedesco Rampl, presidente di Unicredit fin dai tempi della maxi fusione di piazza Cordusio con Hypovereinbank, ha reso esplicite per la prima volta le sue critiche all’operato di Profumo. Davanti a questo crescente fuoco di sbarramento, davanti a questa ostilità sempre più diffusa, dopo due anni di crisi e di difficile gestione della banca, probabilmente Profumo ha deciso di tagliare il cordone, di anticipare le decisioni del consiglio di amministrazione, di non pregiudicare la sua autonomia, arrivando fino alle dimissioni. L’uscita di Profumo, se davvero ci sarà, non risolverà i problemi di rapporti tra azionisti, né l’ingombrante presenza dei capitali di Gheddafi. Ieri sera mentre il banchiere lasciava in silenzio piazza Cordusio già circolavano i nomi dei possibili successori, probabilmente da scegliere tra i vice di Profumo. In pole position c’è Roberto Nicastro. Ma la partita è aperta.
21 settembre 2010

http://www.unita.it/news/economia/103710/lega_libici_e_poteri_cosa_c_dietro_la_bufera
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 20, 2011, 04:57:10 pm »

Il «mito dei bocconiani»: opportunità e qualche rischio...

di Rinaldo Gianola

Un segno dei tempi: su Facebook il gruppo dei “bocconiani” avverte che il primo provvedimento del Governo Monti sarà l’imposizione al Paese del “Codice d’onore” dell’Università Bocconi. Sarà pure uno scherzo, ma certo l’orgoglio e la soddisfazione che tracimano da questa importante istituzione di cultura, ricerca e formazione per l’esecutivo guidato dal presidente dell’Università milanese Mario Monti hanno l’effetto di contagiare docenti, studenti e sostenitori dell’ateneo che sperano, come molti italiani, che questa strada tortuosa porti al risanamento e al rilancio del Paese.

L’esercizio della responsabilità, la difesa del pluralismo, l’etica delle scelte e dei comportamenti sono i principi che ispirano la Bocconi fin dalla nascita e non si dovrebbe dimenticare in queste ore che il fondatore, il milanese Ferdinando Bocconi, fu non solo un promotore di cultura con l’università dedicata alla memoria del figlio Luigi disperso nella battaglia di Adua, ma anche un imprenditore, anticipatore della grande distribuzione, creatore de La Rinascente. C’è in questa lunga storia non solo la crescita e il successo di un centro di studi, ma anche un’esperienza concreta di collaborazione, di vicinanza tra il mondo dei tecnici e il nostro capitalismo. Da molto tempo, ormai, gli uomini della Bocconi hanno rinunciato all’esclusività del ruolo di intellettuali, sono usciti dalla loro torre d’avorio per mischiarsi alla società: scrivono sui giornali, orientano l’opinione pubblica, entrano nei consigli di amministrazione di importanti aziende, costruiscono e rafforzano il rapporto, non privo di problemi e di ambiguità, tra lo studio e l’impresa. La prevalenza dell’economia, la valorizzazione dei tecnici in ruoli che di solito sono deputati ai politici, non sono fenomeni nuovi. La “tecnocrazia”, intesa come predominio dei tecnici nella direzione della vita politica e sociale, è nel dna della Bocconi come di altre università italiane e straniere. L’uso della competenza, della conoscenza dei problemi, «che non guasta in certi momenti» ha detto con un filo d’ironia Mario Monti nei giorni scorsi, fa premio almeno oggi sulla dialettica e la debolezza dei partiti. Monti, il tecnico, diventa premier perchè cooptato per le sue qualità, per la sua esperienza, per la sua credibilità in un momento in cui il governo eletto dai cittadini mostra l’incapacità ad assumersi le responsabilità necessarie. E proprio nel momento in cui i tecnici, i “bocconiani”, ma anche i docenti della Cattolica o del Politecnico, emergono come i protagonisti del salvataggio del Paese, è bene che vengano chiarite, pubblicizzate e separate le responsabilità accademiche, i ruoli nelle aziende private e quelli, eventuali, di governo. Perchè possiamo credere al banchiere bocconiano Claudio Costamagna quando esclude che Mario Monti sia mai stato partner della banca d’affari Goldman Sachs e denuncia che in Italia siamo vittime “di troppi complotti”, ma siccome siamo uomini di mondo Costamagna non può raccontarci che Goldman Sachs è un collegio di arrendevoli fanciulle. Anche la Trilateral e il gruppo Bilderberg sono innocui? Possibile. Attendiamo altre interviste chiarificatrici da parte dei portatori di borracce. Quello che importa oggi, proprio mentre Monti diventa premier, è sapere che la Bocconi esercita un potere che le deriva non solo dalla sua eccellenza accademica, ma dalla estesa rete di professori che finiscono nei consigli di amministrazione di aziende quotate, che esercitano altri ruoli nelle imprese, docenti che sono anche candidati a rivestire ruoli di governo. Non c’è niente di male, basta saperlo ed eventualmente fare un passo indietro. Ci limitiamo a qualche esempio dei nomi più famosi. Il rettore Guido Tabellini, di cui si è molto parlato in questi giorni per un ruolo di governo, ha fatto un scelta bipartisan: siede nei consigli di amministrazione di Fiat Industrial e della Cir di Carlo De Benedetti. L’ex rettore Carlo Secchi, già parlamentare del Partito popolare, è consigliere di amministrazione dui grandi imprese come Mediaset, Pirelli, Italcementi. Il professor Andrea Beltratti è stato nominato presidente del consiglio di sorveglianza di Banca IntesaSanPaolo perchè doveva difendere la torinesità e prendere il posto del leggendario Enrico Salza. Il professore Severino Salvemini ha un ruolo delicato, è presidente di Ti Media, la società di Telecom Italia che detiene «La7». L’ex rettore Roberto Ruozi è presidente di Mediolanum (gruppo Berlusconi), Palladio Finanziaria, Axa Assicurazioni e del collegio sindacale di Borsa Italiana. Il suo nome finì nell’inchiesta sulla scalata di Gianpiero Fiorani all’Antonveneta. Il professor Francesco Giavazzi ha ricoperto in passato importanti responsabilità pubbliche, come direttore del Tesoro e consigliere di Ina, Assitalia, Banco di Napoli. Scrive sul Corriere della Sera, come Monti, e nell’ultimo periodo offre le sue proposte assieme ad Alberto Alesina che insegna in America. Giavazzi è consigliere di amministrazione di Autogrill e non ce l’ha fatta a entrare nel consiglio di Mediobanca, gli azionisti di minoranza gli hanno preferito Roversi Monaco. Si potrebbe aggiungere il nome di Tito Boeri, direttore della fondazione Rodolfo De Benedetti, editorialista di Repubblica, di Marco Onado ex commissario Consob e consigliere del Cnel e di tanti altri. Insomma molti protagonisti della Bocconi hanno un ruolo importante nella vita economica, culturale e oggi anche politica del Paese. L’Università non è un corpo estraneo, nel bene e nel male. Ieri la Guardia di Finanza di Milano si è presentata negli uffici della Bocconi per un’inchiesta che coinvolge un ex ricercatore, Alberto Micalizzi, sospeso dall’ateneo. L’indagine, condotta dal Pm Alfredo Robledo, riguarda una presunta truffa su due fondi d’investimento lanciati e gestiti da Micalizzi e poi messi in liquidazione da una corte delle isole Caiman.

16 novembre 2011
da - http://www.unita.it/italia/il-mito-dei-bocconiani-br-tante-opportunita-e-qualche-rischio-1.352993
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 09, 2012, 05:45:03 pm »

Pisapia: «Evitiamo divisioni la sinistra sia unita»

Di Rinaldo Gianola

8 gennaio 2012

Sostenere il governo Monti è stata una scelta generosa, responsabile. Il Pd ha fatto bene, anche se penso che avrebbe vinto facilmente le elezioni. Non potevamo far affogare il Paese con conseguenze drammatiche soprattutto per i ceti più deboli. Ma oggi bisogna anche evitare che ad annegare sia il centrosinistra. Dobbiamo porci l’obiettivo delle elezioni per uscire dalla crisi con una svolta progressista, di cambiamento profondo della politica e delle scelte sociali ed economiche».

Giuliano Pisapia guarda al futuro del Paese iniziando il nuovo anno sul fronte dell’”Area C”, cioè la zona del centro di Milano dove dal 16 gennaio le auto potranno circolare solo a pagamento. È un provvedimento forte, europeo, che alimenta polemiche e divisioni, ma per il sindaco di Milano questa battaglia segna il passaggio dalla fase dell’emergenza allo sviluppo, al cambiamento anche culturale della città. È un esperimento importante, assieme ad altri progetti, perchè misura la credibilità di un’amministrazione di dare risposte ai cittadini, con la consultazione, la trasparenza delle decisioni giuste o sbagliate che siano, la determinazione nel difendere gli interessi prevalenti della comunità. Di Milano «che può ripartire nel 2012» e della crisi che «ci lascerà ben diversi dal passato» il sindaco parla con l’Unità.

Sindaco Pisapia, qual è il suo giudizio sul governo Monti e la sua prima manovra?
«Monti è una necessità, anzi è un imperativo nella situazione in cui ci aveva trascinato Berlusconi. Penso che solo un governo come questo sia in grado di decidere velocemente i provvedimenti indispensabili a salvare il Paese, provvedimenti tanto impopolari quanto è grave la nostra situazione. La credibilità e la capacità, anche tecnica, del governo Monti sono oggi i fattori su cui deve fare affidamento anche la politica per evitare che il Paese affondi».

In altri tempi avremmo definito Monti e la sua manovra semplicemente di “destra”. È l’emergenza che fa cambiare i giudizi?
«Questa crisi ci sta cambiando e ci lascerà profondamente diversi dal passato. Non mi sfugge che i provvedimenti di Monti sono pesanti e colpiscono chi già fa il suo dovere. Per questo mi aspetto al più presto una correzione, proposte finalizzate a una maggiore equità e giustizia sociale, sostegni alla ripresa e per i ceti sociali più deboli. Monti ha deciso misure straordinarie perché questo momento è straordinario nella sua gravità, ma la stagione dell’emergenza deve avere un limite. È necessario, anche per confermare le nostre basi democratiche, che siano gli elettori a scegliere i governi».

Le ipotesi di riforma del mercato del lavoro hanno riproposto la modifica dello Statuto dei lavoratori e il superamento dell’art.18. Cosa ne pensa?
«Penso che il governo tecnico non possa ripercorrere una strada dove hanno già fallito politicamente Berlusconi e Sacconi. Spero che il governo abbia capito che oggi non c’ è bisogno di creare e alimentare altre tensioni sociali. È poi il problema non è certo l’articolo 18, non è questo che frena lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro. Lo sanno tutti, compresi gli imprenditori, almeno quelli che non sognano vendette ideologiche».

Non teme che il centrosinistra possa uscire logorato da un lungo sostegno al governo tecnico?
«Questo è il momento della responsabilità. Ma il centrosinistra deve prepararsi a una nuova stagione politica, deve essere pronto per la prova elettorale, con un programma, un disegno politico preciso e credibile, aperto alla società e alle associazioni. Sostenere Monti e pensare al voto non è una contraddizione, serve anche a evitare lacerazioni nel centrosinistra. Questa crisi e dico anche le dure scelte di Monti approvate dal Pd devono servire per costruire una proposta nuova, seria, credibile per il futuro del Paese. Possiamo farcela se ripartiamo dal basso, se evitiamo divisioni e polemiche inutili, se ci poniamo l’ambizione di uscire a “sinistra” dalla crisi. Dobbiamo puntare su un allargamento delle alleanze, su un centrosinistra ampio e coeso».

Lei è sindaco di Milano da sei mesi. In che punto si trova?
«Penso di essere uscito dalla drammatica emergenza in cui la mia amministrazione si è trovata nei primi mesi a causa delle scelte realizzate dalle giunte di destra. Abbiamo riavviato il progetto Expo 2015, abbiamo sistemato i conti e rispettato il Patto di stabilità e ora penso che, malgrado la crisi del Paese, Milano possa ripartire nel 2012. Dico che Milano riparte perchè vedo in città una grande partecipazione e disponibilità da parte di tanti soggetti, dal mondo del lavoro alle imprese, dalla società alle associazioni».

Come sta incidendo la crisi economica sul tessuto sociale?
«In città ci sono sacche di povertà, anche di nuove povertà, preoccupanti. C’è chi ha perso il lavoro, lavoratori in cassa integrazione che non ce la fanno, famiglie in difficoltà. L’obiettivo prioritario dall’amministrazione è fronteggiare queste situazioni, mobilitando tutte le risorse possibili e chiedendo la partecipazione di tutte le forze sociali. Oltre alla Fondazione Welfare che ha iniziato ad operare, in questi giorni abbiano recuperato 5 milioni di euro nelle pieghe del bilancio da utilizzare in aiuto dei precari».

Lei ha deciso di vendere una quota della Sea (la società che gestisce gli scali di Linate e Malpensa) per rispettare il Patto di stabilità. Altri suoi colleghi, invece, pensano di violarlo....
«Penso che il Patto vada cambiato, ma Milano ha deciso di rispettarlo e vogliamo restare un comune virtuoso. Abbiamo venduto la quota Sea, di cui manteniamo comunque il 51%, anche per pagare le centinaia di aziende che attendevano i soldi all’amministrazione, abbiamo dato una mano all’economia. Le precedenti giunte di Milano abbellivano i bilanci grazie al fatto che non pagavano le fatture. Oggi siamo nelle condizioni di far ripartire gli investimenti, di realizzare progetti e tutti i giorni ricevo sollecitazioni, offerte da parte di governi e imprese, soprattutto delle economie emergenti, interessati a investire a Milano».

Come conseguenza del riassetto azionario della Edison si è aperta una discussione sul futuro di A2A, la società di cui il Comune di Milano assieme a Brescia ha una ricca partecipazione. La venderete?
«Il dibattito di questi giorni è surreale. La giunta non ha affrontato il tema, lo discuteremo insieme al bilancio 2012. A titolo personale mi pare che A2A, oltre a generare dividendi che servono sempre, possa essere il perno di un grande progetto industriale che potrebbe coinvolgere le altre ex municipalizzate del Nord. È possibile pensare che Milano, Brescia, Bologna, Torino lavorino insieme alla creazione di un forte operatore industriale, a controllo pubblico? Questo mi sembra la sfida dei prossimi mesi».

I poteri economici e finanziari di Milano stanno cambiando. Berlusconi non è più al governo, Ligresti è in gravi difficoltà, il San Raffaele ha perso il suo leader Don Verzè e avrà presto una nuova proprietà. C’ è un filo che lega questi fatti?
«Non entro nel merito di singole vicende imprenditoriali. Ogni azienda ha la sua storia e i suoi problemi. Quello che posso dire, in linea generale, è che c’ è un cambiamento profondo in città nei rapporti tra i poteri dell’economia, della finanza e la politica. La mia amministrazione non dipenderà mai da quei poteri, da quegli interessi che, in passato, hanno sempre fatto quello che volevano».

da - http://www.unita.it/italia/pisapia-sinistra-unita-per-uscire-dalla-crisi-1.369395
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« Risposta #29 inserito:: Aprile 08, 2012, 04:54:18 pm »

Rotelli, che sorpresa: primo azionista del Corsera

Di Rinaldo Gianola

7 aprile 2012

Nell’uovo di Pasqua del potere finanziario ed editoriale italiano non c’è lo strappo di Diego Della Valle con Fiat e Mediobanca per la gestione del Corriere della Sera. La vera sorpresa è arrivata ieri da Giuseppe Rotelli che si candida a diventare il nuovo padrone di Milano.

L’industriale della sanità ha annunciato di aver acquistato la quota pari al 5,2% del capitale di Rcs in mano alla famiglia Toti, pagando 53,7 milioni di euro, diventando così il primo azionista del gruppo con il 16,5%, ben sopra Mediobanca e Fiat. La novità deflagra in un momento particolarmente delicato per gli assetti proprietari e la conduzione manageriale della società editrice del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport: i conti sono in “rosso”, gli azionisti del patto di sindacato hanno deciso di cambiare il consiglio di amministrazione e i vertici, lasciando fuori gli azionisti e suscitando lo strappo di Della Valle.

Proprio mentre nelle sale degli analisti e degli investitori del “miglio quadrato” di piazza Affari ci si stava interrogando sulle conseguenze della rottura clamorosa del patron della Tod’s con gli altri potenti azionisti della Rcs, sulla possibilità di uno scontro, addirittura di una scalata, la mossa di Rotelli spiazza un po’ tutti e apre uno scenario nuovo.

Rotelli non è la ruota di scorta di nessuno, tanto meno di Della Valle le cui ambizioni riformatrici del Corriere non potevano essere certamente credibili se concretizzate con la proposta di portare Luca di Montezemolo o Paolo Mieli alla presidenza di Rcs Mediagroup. L’imprenditore della sanità, proprietario del gruppo San Donato e da gennaio anche del San Raffaele (acquistato per 405 milioni, oltre a 320 milioni di debiti), è da tempo azionista del Corriere dopo aver rilevato azioni e diritti Rcs dalla ex popolare di Lodi di Giampiero Fiorani.

Pur avendo in mano circa l’11% del capitale è sempre rimasto fuori dal patto di sindacato, anche per il timore degli altri partecipanti al salotto che un socio così forte avrebbe potuto modificare gli equilibri. Rotelli ha aspettato con pazienza, poi è entrato nel consiglio di amministrazione (e si ricandida per la prossima assemblea di maggio con una lista di minoranza) e ha continuato a interessarsi al gruppo editoriale.

Perchè tutto questo interesse? Dove vuole arrivare? L’obiettivo di Rotelli è diventare l’editore dello storico gruppo di via Solferino, non sta facendo un investimento finanziario, speculativo, di breve durata. Ha sempre detto di nutrire una vera passione, e probabilmente anche un certo interesse economico e di potere, per l’editoria, di esser disposto a investire, di voler valorizzare la società.

E in questa veste di azionista e di consigliere ha certamente delle idee contrastanti con quanto maturato dai vertici del gruppo per aggiustare il bilancio colpito dalla crisi economica ma anche da investimenti poco remunerativi, come quelli realizzati in Spagna. Rotelli è contrario all’ipotesi di vendita di una parte della storica sede nel centro di Milano, tra via San Marco e via Solferino, alla quale sarebbero stati interessati Dolce & Gabbana e il gruppo iberico Zara.

È inoltre contrario al trasferimento delle redazioni nel palazzo Rcs di Crescenzago e, a quanto risulta, avrebbe espresso la sua opposizione alla cessione della controllata francese Flammarion e della divisione periodici Rcs.

L’imprenditore pavese, che ha creato il suo successo imprenditoriale a Milano dopo esser stato anche un dirigente agli albori della Regione Lombardia, è convinto che Rcs Mediagroup, con i suoi quotidiani, libri e periodici, possa dare buoni risultati con una giusta strategia e una saggia gestione manageriale. Ora la Borsa, gli altri azionisti, i poteri di Milano si interrogano su come si muoverà Rotelli nelle prossime settimane.

Quali saranno le sue scelte? Dopo esser stato per un lungo periodo un azionista silenzioso ed educato, dopo aver anche sopportato una svalutazione della sua quota in Rcs attorno ai 170 milioni di euro, le ultime mosse creano naturalmente un’attenzione diversa su Rotelli e i suoi interessi nel Corriere della Sera.

L’imprenditore, senza debiti e che paga con la propria liquidità, cercherà di acquistare le quote azionarie di Benetton e di Della Valle, complessivamente oltre il 10%, che sono fuori dal patto di sindacato e quindi libere? Oppure manterrà la sua linea di collaborazione e attenderà la scadenza naturale del patto, nel 2014, per manifestare le sue eventuali intenzioni di assumere una posizione ancora più rilevante? Altre sorprese sono in arrivo.

da - http://www.unita.it/italia/rotelli-che-sorpresa-primo-azionista-br-del-corriere-della-sera-1.399373?page=2
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