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Autore Discussione: Alfredo RECANATESI.  (Letto 23220 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Luglio 31, 2008, 03:02:06 pm »

Il ritorno al monopolio


Alfredo Recanatesi


Sulle ragioni dell’ottimismo esibito da Berlusconi sul futuro di Alitalia qualche riserva è a dir poco doverosa. In primo luogo, l’aspetto industriale. In proposito circolano soltanto illazioni, ma bastano per concludere che il punto di forza sul quale il futuro di Alitalia si fonderebbe sarebbe la perpetuazione, anzi il rafforzamento, del monopolio sulle rotte domestiche. La fusione con AirOne, l’unica compagnia in grado di insidiare il dominio Alitalia sulla rete interna, ridurrebbe infatti a qualche operatore marginale la concorrenza su questo mercato.

Lasciando mano libera ad Alitalia-AirOne sulle tariffe per caricarvi anche l'onere di finanziare il mantenimento delle rotte internazionali. Saranno gli utenti domestici, insomma, a dover sostenere gran parte dei costi, se non tutti, della ipotizzata Alitalia.

La ragione di una tale affermazione viene diretta da un secondo aspetto del quadro tracciato da Berlusconi. Sull'estero Alitalia-AirOne sarà un piccolo operatore, vaso di coccio tra vasi di ferro sempre più grossi e robusti. In un quadro di generale difficoltà di tutte le compagnie aeree del mondo, infatti, i più grandi operatori - ben più grandi e strutturati della nostra piccola e disastrata Alitalia - si stanno aggregando per creare gruppi transnazionali in grado di resistere alla morsa tra il costo dell'energia che cresce e la crisi economico-finanziaria che taglia la domanda di voli. L'ultimo colosso del quale è stata annunciata la costituzione è quello formato da Iberia e British Airline, per dire di cosa stiamo parlando e di quali saranno i competitor di quella coppia di nani dei quali uno, Alitalia, azzoppato da diseconomie che l'hanno portato sull'orlo del fallimento, e l'altro, Air One, cieco per un indebitamento ai limiti della sostenibilità. Si parla, certo, ne ha accennato anche Berlusconi alla esigenza di un partenariato con un grosso operatore internazionale, ma per ora non c'è neppure una qualche manifestazione di interesse ed è improbabile che arrivi dal momento che sarà arduo trovare un partner valido (per tale intendendo che abbia esperienza e rete internazionale) che intenda accompagnarsi ad una compagnia piccola, gracile, e condizionata da una pletora di sindacati dallo sciopero facile e dalla vista corta.Se è così - e consideriamo un terzo aspetto - non sarà tanto facile neppure trovare chi metta mano alla tasca per una operazione che non si può sapere se e quando potrà mai rivedere conti in nero. Certo, non manca chi potrà concorrere compensando il rischio Alitalia con favori da ricevere (o già ricevuti) dal governo di centro-destra. Ma, per quanto questi potranno esporsi, non potranno certo raggiungere da soli l'importo dell'investimento da realizzare, che deve mettere in conto la riorganizzazione da fare, il rinnovo della flotta, la ricostituzione di una rete commerciale e, in definitiva, l'avviamento di un nuovo operatore che non partirà da zero, ma da sotto zero.

A meno che . . . . . A meno che - e siamo ad un quarto aspetto di questo ipotizzato salvataggio - i conti dei potenziali investitori non vengano fatti tornare "a forza", ossia con un intervento dello Stato che rilevi la cosiddetta bad-company, una nuova società nella quale riversare tutta la zavorra dell'attuale Alitalia, tutto ciò che fa perdere, tutto quanto c'è di irrecuperabile, e magari anche un po' del personale eccedente; una società da affibbiare a qualche ente o società pubblica col compito di liquidarla nel tempo. Sarebbe un modo, questo, perché Berlusconi salvi la faccia facendo sopravvivere Alitalia, ma a spese della collettività, che di spese a questo fine ne ha già sostenute non poche.

Quinto ed ultimo aspetto: i sindacati. Questi hanno determinato o, se preferite, hanno concorso a far fallire la trattativa con Air France che ora, forse più di allora, può essere giudicata come l'occasione che non andava in nessun caso persa. Air France aveva presentato un piano più credibile, non foss'altro perché inserito nella strategia di un gruppo già grosso e forte, aveva garantito la sopravvivenza del marchio nazionale (quindi una compagnia di bandiera sarebbe rimasta, come è rimasta in Olanda sebbene Klm sia stata integrata con la compagnia francese), e un numero di persone in esubero grossomodo la metà di quello del quale ora parla Berlusconi (è ovvio, e lo era fin dall'inizio della storia, che un gruppo come Air France Klm avrebbe avuto ben maggiori possibilità di riciclare personale eccedente rispetto all'ipotesi che ora si va facendo di una compagnia piccola, sola, e senza alcuna possibilità di riciclare personale). Ora i sindacati si trovano di fronte al dilemma: o accettare un numero di esuberi doppio di quello che a suo tempo hanno rifiutato ad Air France, oppure decretare hic et nunc la fine di Alitalia. Non vorremmo essere nei loro panni, anche perché Berlusconi ha già messo le mani avanti: i sindacati non devono mettere i bastoni tra le ruote, altrimenti salta tutto. Insomma, se il "suo" piano non dovesse andare in porto non sarà perché da un punto di vista industriale non sta comunque in piedi, ma perché i sindacati avranno puntato i piedi.

Pubblicato il: 31.07.08
Modificato il: 31.07.08 alle ore 10.12   
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« Risposta #31 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:26:53 pm »

Un Paese in retromarcia


Alfredo Recanatesi


Che l’economia italiana si fosse impantanata in una stagnazione lo si sapeva e ora i dati dell’Istat non fanno che confermare questa drammatica realtà. Del resto, si sa che quando i sistemi economici più evoluti prendono un raffreddore, quello italiano prende una polmonite: da tempo è così e nulla è stato fatto per modificare questa particolare, grave ed ormai consolidata debolezza.

È una realtà drammatica perché, con quello che sta accadendo nel mondo, una stagnazione della ricchezza prodotta significa un impoverimento del Paese nel suo complesso.

Il forte rincaro dell’energia e di molti altri prodotti di base, alimentari e non, a fronte di un reddito stagnante significa, infatti, che è giocoforza ridurre le quantità acquistate; significa, dunque, una riduzione del benessere medio. E, se si riduce il benessere medio, è evidente che si allarga a macchia d’olio l’area del disagio, ossia di quanti rispetto a quella media si ritrovano dalla parte sbagliata: la maggior parte dei lavoratori dipendenti, degli autonomi, dei pensionati. Ci sono zone d’Italia, e neppure delle più povere, nelle quali sta diventando un fenomeno statisticamente rilevante il consumo di latte che aumenta con l’approssimarsi della fine del mese perché c’è gente che non può permettersi altra alimentazione che, appunto, una tazza di latte ed una fetta di pane.

L’impoverimento ha due aspetti, quello economico e quello sociale. L’aspetto economico è dato da un sistema produttivo che solo in parte si è evoluto in funzione del mondo nel quale deve operare. La maggior parte del sistema è rimasto ad offrire prodotti che i Paesi a basso costo offrono a prezzi che sono frazioni dei costi che devono essere sostenuti in un Paese evoluto come l’Italia. Nell’accumulo di questo ritardo è stato aiutato, quasi incentivato, da una politica che, per inseguire un immediato ed effimero consenso, ha speso fior di risorse per consentirgli di non cambiare, ad esempio riducendo la tassazione (e dunque a spese dell’intera collettività nazionale) anziché creare un ambiente più favorevole allo sviluppo ed all’innalzamento della produttività investendo in strade, trasporto ferroviario, ricerca, reti. Anziché alzare l’asticella che le imprese devono saltare per competere nel mondo globalizzato con prodotti ad alto valore aggiunto, è stata loro vieppiù abbassata. Certo, la riduzione delle tasse sull’attività produttiva si concreta immediatamente in un aumento dei profitti e, dunque, nel consenso dei tanti microimprenditori che formano il grosso del nostro sistema produttivo, ma poi non ci si deve lamentare se il Pil ristagna, la produttività non cresce e le imprese non ce la fanno a pagare salari se non di fame. È disperante il fatto che nel panorama parlamentare non c'è forza politica che abbia il coraggio di criticare la logica seguita negli ultimi anni per proporre un cambio di passo al fine di indurre il sistema produttivo a quelle trasformazioni radicali senza le quali, nel mondo del XXI secolo, l’Italia non potrà che arretrare.

C’è poi un aspetto sociale. Senza opportuni interventi, un impoverimento medio del Paese, specie se dovuto a fattori esterni, si distribuisce in maniera fortemente disuguale sulle diverse categorie di reddito. A soffrirne sono le categorie a più basso reddito perché sulla composizione della loro spesa mensile pesano maggiormente e più direttamente i rincari dell’energia, dei carburanti, delle derrate alimentari. Il governo, anziché impegnarsi in interventi compensativi, ha aggiunto del suo sulla sperequazione distributiva che spontaneamente si va producendo: ha abolito l’Ici sulle abitazioni delle categorie più abbienti, ha detassato le cosiddette componenti variabili del salario, ha tagliato fondi a destra e a manca inducendo i centri di spesa, statali e decentrati, a ridurre le prestazioni anche, se non soprattutto, nell’assistenza alle categorie più disagiate. Poi ha preteso di rifarsi una verginità sociale con iniziative come la social card ed altre misure meramente redistributive che nell'immediato non tolgono che qualche secchio dal mare della povertà, ed in prospettiva sono del tutto inutili perché non hanno nulla a che fare con il recupero di una capacità del sistema produttivo di generare un reddito almeno sufficiente per difendere il livello di benessere raggiunto.

Così il cerchio si chiude precludendo ogni prospettiva che il declino economico e sociale, evidente nelle statistiche come nella esperienza di ciascuno di noi, possa essere arginato.

Pubblicato il: 09.08.08
Modificato il: 09.08.08 alle ore 9.46   
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« Risposta #32 inserito:: Agosto 22, 2008, 10:42:38 pm »

L’Autunno freddo


Alfredo Recanatesi


L’imminenza dell’autunno con il suo carico di problemi economici e sociali ripropone il vecchio errore di prospettiva che affligge la quasi totalità della classe dirigente italiana, quello di impegnarsi sulle tante emergenze che di tempo in tempo si propongono perdendo di vista le questioni di fondo e le azioni di più ampio respiro con le quali dovrebbero essere affrontate. Che in questo errore cadano le forze politiche si potrebbe anche capire dal momento che il dominio delle logiche mediatiche impone loro una quasi quotidiana verifica del consenso popolare. Si capisce meno che vi cada anche chi con simili verifiche non debba fare i conti e che dunque potrebbe permettersi di alzare lo sguardo sulla foresta dei fenomeni che determinano l’evoluzione della struttura produttiva, della distribuzione del reddito, della stessa intelaiatura sociale della nostra collettività nazionale, anziché sui singoli alberi dei problemi, delle lacune, degli squilibri che la compongono.

C’è, pressante e drammatica, una questione definita salariale, ma molto più ampia di quanto questo termine possa individuare anche nella sua più generica accezione. È la prima e più incalzante delle emergenze, che certo reclama interventi immediati, ma senza perdere di vista la genesi che l’ha determinata e, dunque, l’esigenza di affrontarne le cause oltre che gli effetti. Le cause sono da individuare nel divario tra l’incapacità del sistema produttivo nazionale di produrre un maggiore volume di ricchezza e l’aumento dei prezzi internazionali dell’energia, di molte materie prime, delle derrate alimentari. È un divario, questo, tra un fatto strutturale nazionale - l’assenza di sviluppo economico - ed un fatto anch’esso strutturale, ma geopolitico - il rincaro dei prezzi internazionali -. Di fronte ad un tema di tale epocale portata il vuoto di idee è desolante. Le proposte in circolazione ipotizzano, al più, delle una tantum che, quand’anche possano produrre un qualche sollievo nell’immediato, non risolvono (e talvolta addirittura aggravano) il problema quale si pone in una prospettiva di più lungo periodo. Il caso più emblematico è la detassazione dei salari. Ipotizziamo pure una enormità, ossia che la fiscalità venga ridotta di 50 euro al mese su ogni busta paga. Tenuto conto della dinamica dei prezzi, significa solo compensare uno o due gradini di una scalinata già lunga e destinata, al dilà di qualche contingente assestamento, a salire ancora chissà per quanto.

Comunque meglio di niente, si dirà. Non è detto. Data la struttura del bilancio statale, dati i vincoli imposti dal rispetto degli equilibri di finanza pubblica, e data una politica fiscale che esclude aggravi e sta allentando anche la lotta all’evasione, il finanziamento di una tale detassazione non potrebbe che avvenire o a spese dei già scarsi investimenti, e dunque a detrimento della crescita futura, o col taglio di prestazioni sociali, del quale soffrirebbero in primis proprio gli eventuali beneficiari di quei 50 euro in più. Da aggiungere che queste non sono opinioni, ma semplici deduzioni da esperienze già vissute anche molto recentemente.

Considerazioni analoghe valgono per quanti credono di poter risolvere il problema del potere d’acquisto dei consumatori razionalizzando le catene distributive dei carburanti come degli ortaggi. Ci sono inefficienze e rendite da eliminare, certo; ma anche in questo caso si possono eliminare uno o due gradini di quella scala di rincari che ha determinato e continuerà a determinare l’impoverimento dell’Italia e continuerà a concentrarlo sulle categorie sociali già più disagiate.

Un conto sono gli interventi di solidarietà o di razionalizzazione; altro conto è la politica economica. Nell’immediato gli uni possono contenere (e sarebbe già tanto) l’emergenza, ma senza alleviare di tanto il ruolo che deve svolgere l’altra affinchè i loro effetti non svaniscano in pochi mesi come è avvenuto finora. Se la politica economica non affronta il problema della crescita, ossia di una produzione di ricchezza incapace di tener dietro e di compensare le conseguenze dei processi geoeconomici che ci sottraggono e continueranno a sottrarci potere d’acquisto, ogni intervento di solidarietà o di redistribuzione è destinato ad essere rapidamente travolto. La politica non ha il coraggio di fare puntate alte imboccando una via del genere perché la porterebbe in rotta di collisione con il sistema produttivo esistente, con la sua frammentazione, con le sue strutture proprietarie familiari, con la sua inattitudine a investire guardando lontano, con le sue strutture finanziarie insufficienti per sostenere programmi di investimento consistenti e con ritorni che non possono essere immediati. Questo dovrebbe essere il primario tema di un autunno dominato da una stagnazione dell’economia europea che l’Italia deve affrontare già prostrata da una stagnazione ormai decennale aggravata da una sperequazione distributiva che ormai costituisce un ennesimo primato negativo almeno nell’Europa più evoluta. E invece, anziché pensare di aumentare i salari con produzioni più qualificate e remunerative, così incrementando il ruolo ed il valore del lavoro, si studia di aumentarli a carico del bilancio dello Stato, ossia - in un modo o nell’altro - della collettività nazionale. Così è difficile che si possa andare lontano.

Pubblicato il: 22.08.08
Modificato il: 22.08.08 alle ore 10.17   
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« Risposta #33 inserito:: Agosto 29, 2008, 06:51:39 pm »

A caro prezzo

Alfredo Recanatesi


Il decreto e il disegno di legge che il Consiglio dei ministri ha approvato ieri mattina costituiscono il compimento formale dell’operazione Alitalia: ossia dell’uso del potere esecutivo e legislativo in funzione di interessi particolari se non addirittura personali. Perché, non dimentichiamolo mai, tutta questa vicenda è nata dall’interesse personale di Berlusconi di far credere, per fini elettorali, che per la compagnia di bandiera fosse possibile una soluzione più conveniente di quella che il governo Prodi aveva imbastito con il gruppo Air France-Klm.

Se non ci fossero state di mezzo le elezioni, oggi Alitalia farebbe parte del più grande gruppo europeo di trasporto aereo; la gran parte del personale eccedente avrebbe trovato nuove collocazioni all’interno del gruppo ed un’altra parte sarebbe stata in attesa di rientrare; l’Italia avrebbe continuato ad avere una compagnia di bandiera, solida e con un rilevante potenziale di espansione, che avrebbe portato nel mondo i colori del nostro Paese; lo Stato avrebbe visto riconosciuto un valore netto della compagnia ceduta incassando soldi. Ma tutto questo avrebbe costituito - come ebbe a dire propagandisticamente - una “svendita”.

Bene. E ora la vendita qual è? La lista di quanto è stato venduto è corposa, ma è fatta di principi, di trasparenza, di legalità, di molte delle regole che in una democrazia compiuta dovrebbero guidare il comportamento e le determinazioni di ogni pubblico potere. Non si tratta solo degli oneri finanziari che finiranno per ricadere, direttamente o indirettamente, sulle finanze statali: saranno assai cospicui, ma c’è di peggio. C’è che la parte più consistente dell’operazione si perderà nei meandri obliqui di trattative private, di intese discrezionali, di regole ad hoc per comprare o compensare l’adesione al progetto di tutte le parti in causa. Non potremo avere mai un conto, sia pure approssimativo, di tutti i costi che ne deriveranno, ma saranno costi ingenti. Basti pensare quali potranno essere gli elementi dei calcoli di convenienza che possono aver indotto aziende di gestione di autostrade, imprese di assicurazione, aziende siderurgiche, armatori, a metter mano alla tasca per partecipare, in un settore di attività estraneo e distante quant’altri mai, ad una impresa che - ne parleremo dopo - è destinata a concludersi comunque con la fine dell'autonomia e della italianità di Alitalia. È forse un caso che quasi tutti i partecipanti alla cordata siano titolari di concessioni pubbliche o svolgano attività i cui ricavi dipendono da decisioni amministrative? È almeno lecito immaginare che nel rinnovo delle concessioni, o nella determinazione di tariffe, o nella concessione di licenze questi si attendano - come dire? - un occhio di riguardo?

Basti pensare a quale scompiglio potrà essere determinato dalla confluenza di migliaia di esuberi nell’azienda postale dopo che - sempre con una legge ad hoc giustificata dalla salvaguardia della efficienza e del conto economico - è stato bloccata l'assunzione di chi già vi ha lavorato con contratti a tempo determinato. Basti pensare all’indennizzo previsto - sarebbe davvero interessante sapere in base a quale principio lo Stato soccorre chi perde dall’investimento in attività finanziarie - a beneficio degli azionisti e degli obbligazionisti di Alitalia, una azienda di diritto privato, quotata in borsa come molte altre, le cui condizioni prefallimentari (a differenza del caso Parmalat tante volte evocato) erano da tempo ampiamente note. Basti pensare a quale futuro possano essere destinate le tariffe per i voli sulla tratta Roma - Milano, una tratta che già è stata dalle uova d’oro con quel po’ di concorrenza che Air One poteva fare ad Alitalia e sulla quale ora la nuova Alitalia potrà fare ancor più quel che gli parrà dal momento che Air One sarà stata incorporata e le norme antitrust tranquillamente scavalcate ope legis.

Basti pensare che la legge Marzano è stata modificata per consentire che una azienda in dissesto - nel caso Alitalia, ma d’ora in avanti potrà essere applicata ad altri casi - possa essere spaccata in due, con le cose buone da una parte e quelle in perdita da un’altra insieme ai debiti, in modo che con opportune ripartizioni sia possibile sottrarre dalle procedure fallimentari ciò che di buono può esserci, con buona pace dei creditori (una misura, questa, che può avere ripercussioni assai pesanti sull’intera economia andando nella direzione esattamente opposta a quella nella quale è da tempo avvertita la necessità di una riforma della legge fallimentare).

E qual è il risultato di una simile devastazione di principi, regole, doveri di trasparenza, criteri di sana amministrazione? Una Alitalia che, seppure ripulita da debiti ed inefficienze, e con un personale drasticamente ridotto e con stipendi “ricontrattati”, sarà assai più piccola, con una flotta quasi dimezzata ed una rete fortemente connotata dal corto e medio raggio. In tempi nei quali compagnie del calibro di Iberia e di British Airways si uniscono nella consapevolezza che da sole non ce la possono più fare, chiunque può capire quale sia il respiro, la prospettiva di questa operazione. La contropartita della devastazione di cui si è detto non può essere che quella di guadagnare un po’ di tempo prima che per Alitalia si compia il destino univocamente scritto da tempo: quello di confluire in un grande gruppo di trasporto aereo. Fino ad allora sarà italiana, certo, ma non per questo si potrà dire che ne sarà stata salvaguardata l’italianità. Una italianità così precaria, così costosa, ottenuta con tanto sacrificio di persone e di principi, vale ben poco, anzi è peggio di niente; comunque peggio di un accordo che fosse stato stipulato quando Alitalia un valore netto ancora lo aveva e con esso un minimo di forza contrattuale. Ma quella sarebbe stata una svendita. Noi, liberi da preconcetti, rimaniamo in attesa - poco fiduciosa, dobbiamo francamente dire - che qualcuno ci dimostri che questo, invece, è un affare.

Pubblicato il: 29.08.08
Modificato il: 29.08.08 alle ore 11.32   
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« Risposta #34 inserito:: Settembre 18, 2008, 12:00:07 am »

E il governo sta a guardare


Alfredo Recanatesi


Se si guardano le quotazioni di borsa, l’Italia appare coinvolta nella crisi finanziaria globale non meno degli altri Paesi. Ma la borsa va interpretata, tenendo conto che vive, per sua stessa natura, di umori, timori, sensazioni soggettive non meno che dei dati oggettivi che riguardano le specifiche realtà sia dei sistemi economici che delle singole imprese. Allora occorre distinguere; e se facciamo qualche distinzione, non è difficile concludere che, insieme a indubbi problemi che ci vengono dall’altra parte dell’Atlantico, ci viene anche qualche profittevole opportunità.

I problemi sono quelli ormai ben conosciuti. In un mondo globalizzato, nessuno ha la possibilità di sottrarsi da un ciclo congiunturale negativo. L’Italia meno degli altri, come è evidente in un andamento del Pil costantemente peggiore di quello medio del resto d’Europa. Dipendiamo dalle esportazioni in una condizione di scarsa competitività continuando a confrontarci su prodotti a bassa tecnologia che possono essere offerti a prezzi per noi irraggiungibili anche dai Paesi a basso costo. Di conseguenza, quando la domanda è elevata qualche raggio di sole illumina anche le nostre esportazioni, ma queste sono, per converso, le prime a soffrire quando la domanda diminuisce. Nelle circostanze attuali, poi, c’è una aggravante. Ancor prima dell’ultima scossa del terremoto finanziario, negli Stati Uniti come in altri Paesi evoluti la crisi ha colpito una parte non piccola delle classi medio-alte, quelle per così dire rampanti, sensibili agli emblemi dell’agiatezza e del gusto e, perciò, clienti di quel made in Italy che negli anni della espansione della ricchezza finanziaria ha dato un sostanziale concorso alle produzioni ed alle esportazioni delle griffe italiane. Insomma, quando le cose vanno male le carenze e le debolezze strutturali del nostro sistema economico in genere, e del nostro sistema produttivo più in particolare, risaltano maggiormente ed aggravano ulteriormente i problemi rimasti senza soluzione: la frammentazione delle imprese e la loro inattitudine a collocarsi su una offerta più innovativa e più remunerativa, la loro conseguente incapacità di impiegare lavoro più qualificato e meglio retribuito, e in definitiva la loro debolezza nella tenuta di fronte a fasi negative come quella che da un anno a questa parte, a motivo della sregolatezza della più grande economia del mondo, stiamo vivendo. Se mettiamo nel conto che in una situazione siffatta, contrariamente alle misure di sostegno che altri governi europei hanno tempestivamente preso per arginare gli effetti più negativi, il nostro governo sembra uno spettatore passivo ed inerte di quanto ci sta piovendo addosso, c’è poco da stare allegri o almeno sperare che i danni possano essere contenuti.

Eppure, qualche opportunità sulla quale lavorare non manca. La crisi sta inducendo un arretramento dei prezzi internazionali dell’energia, di quasi tutte le materie prime e delle derrate alimentari di base. I consumatori finali, quelli che devono frequentare le pompe di carburanti, o i mercati alimentari, o che devono pagare le bollette di luce e gas, non se ne sono quasi accorti. Parliamo di mercati liberi, si sa, i prezzi non si possono imporre. Sta, però, di fatto che quando ha un obiettivo da perseguire con determinazione – il caso Alitalia e la formazione della cordata insegnano – il governo gli argomenti per raggiungere i suoi scopi li trova eccome. Così come da noi in rincari sono stati più accentuati che altrove, ora le riduzioni potrebbero essere parimenti più consistenti, la l’occasione sembra andare in gran parte sprecata.

Comparativamente agli altri Paesi, poi, l’Italia ha un punto di forza in un sistema bancario che sta soffrendo solo marginalmente della crisi mondiale. A dispetto delle perdite di borsa delle sue azioni, si sta mostrando assai più solido di altri pur blasonati sistemi bancari. Le nostre bistrattate banche, tanto criticate perché tradizionali, prudenti, scarsamente innovative, sono in grado più di quelle di altri Paesi di sostenere anche nelle critiche circostanze attuali il sistema produttivo se questo avesse grandi progetti di medio-lungo periodo per crescere in Italia e fuori. Alcune grandi imprese, ad esempio, hanno approfittato della debolezza del dollaro per fare acquisizioni negli Stati Uniti (guarda caso, si tratta soprattutto di aziende provenienti dal mondo delle partecipazioni statali) o per piantare radici più solide nei Paesi con i sistemi economici più dinamici. Ma sono poche a cogliere queste opportunità: i capitali ci sono, ma sono poche le imprese con il respiro strategico e la visione lunga in grado di approfittarne. Così, con un governo assorbito dal tentativo di dare una soluzione purchessia al caso dell’Alitalia, ed un sistema produttivo con la testa incassata nelle spalle in attesa che la buriana passi, è evidente che gli effetti della crisi finanziaria e della recessione che sta colpendo l’Europa e buona parte del mondo ce li prendiamo tutti, senza alcuna attenuazione, senza alcuna pur possibile contropartita.




Pubblicato il: 17.09.08
Modificato il: 17.09.08 alle ore 8.11   
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 17, 2008, 11:08:34 pm »

Il fantasma dell’italianità

Alfredo Recanatesi


Un soprassalto di italianità ha indotto il nostro premier a lanciare un allarme sull’eventualità di «Opa» ostili su quelle (poche) grandi aziende che l’Italia può ancora vantare. Il forte ciclo di rialzo dei prezzi internazionali delle fonti energetiche e delle materie prime di base ha determinato una robusta redistribuzione della ricchezza mondiale a favore dei Paesi produttori, a cominciare da quelli che hanno petrolio sotto terra.

Questi Paesi, di conseguenza hanno accumulato miliardi e miliardi di dollari ed euro, così come li ha accumulati la Cina attraverso una politica di sottovalutazione della propria moneta e, dunque, un forte surplus della propria bilancia commerciale. Per altro verso, la crisi finanziaria ha picchiato e continua a picchiare sulle quotazioni di borsa al punto da aver dimezzato il valore delle imprese rispetto ad un anno fa o poco più. Immaginare come possano combinarsi queste due circostanze - da una parte chi ha molto denaro da spendere e dall’altra imprese e banche a prezzi di saldo - è cosa che viene immediata; del resto, questa combinazione ha già avuto numerose applicazioni la dove fondi cinesi e mediorientali sono intervenuti per salvare banche americane ed inglesi.

Venendo all’Italia, il rischio che i fondi statali di questi Paesi (i cosiddetti “fondi sovrani”) vengano a far man bassa di nostre imprese potrebbe anche esserci, ma è limitato. È limitato intanto per l’aspetto politico che non manca mai nelle scelte di investimento di questi fondi che sono proprietà di istituzioni e, quindi, impiegati anche in base di considerazioni di ordine politico-strategico. E l’Italia non è certo tra i Paesi che possano maggiormente interessare al fine di acquisire potere contrattuale nelle grandi questioni internazionali. Ma è limitato soprattutto perché sono poche le occasioni che possano interessare gli Stati-investitori, e queste poche tutte o quasi con assetti proprietari blindati. Difficile scalare Enel, Eni, Finmeccanica senza l’acquisizione delle cospicue partecipazioni che ancora vi ha lo Stato italiano, o una Mediaset senza che la venda lo stesso Berlusconi. Possiamo mettere nell’elenco anche Telecom, che però da tempo non è più una azienda di punta nel settore delle telecomunicazioni e nella quale l’ingresso della Libia, benché “amichevole”, sembra presentare non pochi problemi. Di altro, almeno nel campo industriale, c’è ben poco. Ci sono aziende non quotate che nelle loro nicchie hanno livelli di eccellenza, anche in attività sulla frontiera più avanzata della tecnologia, ma queste escono dal tema delle opa perché non hanno azioni a proprietà diffusa.

Poi ci sono le banche, e qui il discorso cambia. L’acquisto del 4,23% di Unicredit effettuato ieri dalla Banca centrale libica dimostra infatti la differenza tra l’allarme lanciato da Berlusconi e le dimensioni reali di simili operazioni. Tolte dunque le grandi banche che, attorno alle fondazioni bancarie, hanno proprietà stabili, e tolte le banche popolari, che essendo costituite in forma cooperativa non possono essere oggetto di scalate ostili, rimane qualche banca di medio calibro. Acquistarla può essere una operazione attraente per chi volesse costituire una presenza diretta, ma di qui ad ipotizzare qualche significativa conquista ce ne corre comunque, anche in tempi nei quali le banche italiane - banche solide e con reti di raccolta ampie ed efficienti - sono sottovalutate.

È comunque singolare che l’italianità delle banche costituisca motivo di preoccupazione per il premier, la sua parte politica, il suo ministro dell’Economia che sostituirono il Governatore della Banca d’Italia Fazio proprio perché ostacolava l’ingresso di banche straniere nel nostro Paese, ma tant’è: ora la ruota ha girato ed a difesa dell’italianità anche delle banche troviamo il centro-destra: meglio tardi che mai.

Se, dunque, i rischi che (altri) significativi pezzi del nostro sistema produttivo cadano in mani straniere sono oggettivamente ridotti, c’è da chiedersi il motivo dell’improvviso allarme. Un primo motivo è quello di riformare la legge sulle Opa che, frutto della ubriacatura liberista, è tanto rigida da inibire ogni possibilità di autonoma difesa da parte della impresa sotto tiro: non può acquistare azioni proprie, non può aumentare il capitale, tanto meno può deliberare aggregazioni; può solo sperare in un cavaliere bianco che offra più dell’aggressore, ma se si trattasse di competere con i “fondi sovrani” è presumibile che più che un cavaliere occorra un’armata. Una legge meno rigida, in definitiva, può anche essere opportuna. Un secondo motivo potrebbe essere la riproposizione di una fusione tra Enel ed Eni della quale tempo addietro già si vagheggiò proprio al fine di farne una entità tanto grossa da non poter essere scalata. Ma mettere insieme questi due ex-enti per farne una azienda energetica integrata non ha gran senso economico e suscita non poche perplessità per la concentrazione di potere che si verrebbe a determinare. A meno che... a meno che, con la motivazione della difesa dell’italianità, ora non si intenda spianare la strada ad una fusione tra Enel ed Eni per poter finanziare il piano nucleare che il governo intende promuovere e che l’Enel da sola, con l’elevato indebitamento che già ha, avrebbe qualche difficoltà a realizzare.

Pubblicato il: 17.10.08
Modificato il: 17.10.08 alle ore 8.35   
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« Risposta #36 inserito:: Settembre 06, 2016, 04:44:12 pm »

ALFREDO RECANATESI

Socio fondatore del Club dell'Economia, è giornalista dal 1962. Ha lavorato prima a "Il Globo" e, quindi, a "Il Sole - 24 Ore" fino a raggiungere il ruolo di capo della redazione romana e vice-direttore. Dopo l'esperienza di un anno nello staff del ministro del Tesoro e Presidente dell'Interim Commity del Fondo monetario internazionale, è rientrato col grado di vice-direttore a "Il Sole - 24 Ore", giornale che ha lasciato nel 1985 per assumere la direzione del mensile dell'ABI, "Bancaria", fino al 1991. Negli ultimi anni, all'attività di editorialista di economia de "La Stampa" e dei circa venti quotidiani locali della catena Aga, ha unito quella di consulente per la comunicazione finanziaria di un grande gruppo industriale. Nell'arco dell'intera vita professionale ha collaborato a numerosi quotidiani - tra i quali "La Repubblica" e il "Wall Street Journal" -, a numerosi periodici con prevalente contenuto economico e finanziario, nonché a trasmissioni radiofoniche e televisive. Tra i riconoscimenti ricevuti, il premio di giornalismo Saint Vincent, ed il premio Lingotto.
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