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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 114099 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Luglio 27, 2014, 11:23:19 pm »

Creare valore e redistribuire reddito
L’esempio del bonus alla Ferrero


Di Dario Di Vico

Possiamo ragionare di lavoro dentro uno schema che prende in esame la specializzazione produttiva e la capacità di creare valore? Presa a sé la domanda rischia persino di apparire bizzarra ma arriva il giorno dopo la notizia del premio di 6.000 euro (su tre anni) negoziato tra direzione aziendale e sindacati del gruppo Ferrero. E quindi un significato ce l’ha. È chiaro che stiamo parlando di uno dei fiori all’occhiello del made in Italy, un gruppo multinazionale che ha saputo utilizzare al meglio tutti i fattori della specializzazione produttiva: brand conosciutissimo, alta qualità delle produzioni, filiera controllata e ambiente di lavoro orientato alla «complicità». Oltre al bonus l’azienda di Alba si impegna ad ampliare i programmi di welfare aziendale in cambio di una dichiarata disponibilità di Cgil-Cisl-Uil a favorire il lavoro al sabato laddove se ne verificasse la necessità.

Sembra quasi un manifesto del perfetto management italiano e ci indica una strada sulla quale quantomeno riflettere. Nel settore agroalimentare fortunatamente casi come questo non sono mosche bianche perché la tradizione industriale italiana ha dimostrato di saper produrre sufficiente valore per poterlo anche redistribuire ai dipendenti. Non dimentichiamo che il nostro primato internazionale nel food non si basa certo sulla disponibilità illimitata di materie prime (proprio la Ferrero ha annunciato di recente un’acquisizione in Turchia per garantirsi il flusso di nocciole) ma sulla qualità del processo di trasformazione. Insomma siamo più bravi di altri e siamo in grado di spuntare prezzi vantaggiosi.

In altri settori, penso agli elettrodomestici, la musica è diversa. Non siamo riusciti a salire nella catena del valore e c’è ben poco da redistribuire, anzi siamo costretti a inseguire con affanno chi si giova di un costo del lavoro estremamente più basso. Non c’è quindi una ricetta unica, il lavoro sta pienamente dentro la vicenda industriale e il posizionamento giusto/sbagliato che ne è conseguito. Purtroppo però quando nei numerosissimi convegni sindacali si discute è assai difficile che il tema venga impostato così. Prevalgono quasi sempre i toni da comizio.

27 luglio 2014 | 15:44
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_luglio_27/creare-valore-redistribuire-reddito-l-esempio-bonus-ferrero-4dd4b9f4-1593-11e4-bcb3-09a23244c28e.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Agosto 09, 2014, 06:00:48 pm »

Pil - 0,2%: un bagno nella realtà

di Dario Di Vico

È andata peggio del previsto. I dati Istat ci restituiscono l’immagine di un Paese in recessione. Lo 0,2 in meno di Pil rispetto al trimestre precedente è una botta e non ha senso tentare di minimizzare. Una botta che azzera i segnali di cauta speranza che pure venivano da settori industriali vivaci (macchine utensili, occhialeria), dai territori più dinamici (Padova, Vicenza e l’Emilia), dall’indice di fiducia delle imprese e persino dagli ultimi dati sull’occupazione. La verità è che in questi anni sono state le esportazioni a salvare il Paese e quando qualcuno dei mercati-chiave per i nostri prodotti batte in testa i riflessi negativi sull’Italia sono immediati. Poi, che la misurazione a mezzo Pil non sia uno strumento perfetto e che i meccanismi di previsione/valutazione siano invecchiati davanti agli sconvolgimenti della Grande Crisi è più che un’ipotesi, che vale anche per economie come l’inglese e la spagnola che comunque crescono.

Sul breve però dobbiamo capire che cosa questo dato ci comunica e individuare un percorso per uscire dallo stallo. Cominciamo sgomberando il campo da un equivoco: la comunicazione governativa sta esagerando nel danno di immagine procurato ai gufi, che sono animali miti, saggi e considerati nel Medioevo come dei portafortuna. Non è colpa loro se l’effetto Renzi ha una provata efficacia nella raccolta del consenso (il Pd oggi è valutato attorno al 42%) ma non si trasmette all’economia. Del resto è dal tempo di Pietro Nenni che dovremmo sapere che non esistono le stanze dei bottoni, tanto più in presenza di economie che si sono autonomizzate, globalizzate e che usciranno dalla recessione diverse rispetto a come sono entrate. Un’amministrazione responsabile però ha alcuni doveri. Primo: evitare la bulimia legislativa e curare meglio l’accompagnamento dei provvedimenti che sceglie o ha ereditato.

Degli 80 euro finora non abbiamo usufruito in termini di crescita del mercato interno causa le tante tasse da pagare, dei provvedimenti di politica industriale spicciola varati anche dai governi Monti e Letta veniamo a sapere che per la maggior parte sono fermi causa la mancanza di decreti attuativi e il rimpallo di carte tra ministero dello Sviluppo e Tesoro. Potremmo continuare, la fenomenologia è ricca e persino gli addetti ai lavori fanno fatica a districarsi tra i tanti decreti/pacchetti annunciati e solo formalmente approvati. Nella confusione normativa e nella delusione da Pil calante c’è il rischio di buttare al macero gli ultimi mesi del 2014: siccome le previsioni ci dicono che incroceremo la ripresa solo nel 2015 potremmo cadere nella tentazione di un ritorno dalle ferie a bassa intensità. Si provi, invece, a imbastire accanto a quello europeo un semestre italiano. Chiamando alla mobilitazione e alla responsabilità tutte le componenti dell’economia. Anche tra loro serpeggia la disillusione, si accontentano di compilare periodicamente i quaderni delle lagnanze e non prendono invece veri impegni. L’hashtag per loro è #inclusione .

7 agosto 2014 | 07:34
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_07/pil-02percento-bagno-realta-868d9594-1df0-11e4-832c-946865584d19.shtml
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« Risposta #152 inserito:: Agosto 14, 2014, 05:50:17 pm »

Economia reale
I consumi immobili di un Paese in attesa: fare la spesa fa «paura»
Permane la tendenza a rinviare gli acquisti. Spuntano le insegne del sottocosto ma le famiglie non spendono

di Dario Di Vico

Per i tanti che sono stati abituati a considerare l’inflazione come un mostro, cambiar passo e mettere nel mirino la deflazione equivale ad operare su di sé una torsione per imparare a guardare da un’altra parte. Eppure gli ultimi dati sull’andamento dei prezzi ci dicono che è un’operazione che dobbiamo fare e purtroppo non per una breve stagione. Immergendoci in questo nuovo scenario non possiamo però dimenticare quello che dice la Bce ovvero che nell’Eurozona non esiste un vero problema-deflazione perché i prezzi scendono per la gran parte a causa dell’effetto combinato di basso costo del petrolio e euro forte. In Italia comunque non ci vuole un genio per cogliere un’altrettanta evidente correlazione tra bassa inflazione e consumi al lumicino. La stagione estiva non promette grandi cose, il periodo di ferie si va concentrando sempre di più attorno alle due settimane centrali di agosto e la spesa media dei vacanzieri tende pericolosamente verso il basso, con soggiorni che diventano più brevi. Si va diffondendo anche una forma di turismo pendolare con gli autobus che prendono al mattino i bagnanti in città, li scaricano sulle spiagge e li riprendono appena dopo il tramonto. Non dimentichiamo poi che luglio - il mese delle rilevazioni Istat rese note ieri - è stato condizionato dal cattivo tempo che ha ulteriormente amplificato tutti i fenomeni di cui sopra.

La verità è che la tendenza a rinviare gli acquisti dei beni durevoli sembra non aver cambiato verso nonostante gli 80 euro in busta paga. Lo straordinario successo del car sharing nelle grandi città indica anche un mutamento culturale di medio periodo che sarebbe un errore sottovalutare e che promette di andare al di là delle sole autovetture, la cultura della condivisione ci sorprenderà. Intanto gli armadi degli italiani restano pieni («Siamo legati agli oggetti, non buttiamo mai niente» sottolinea il sociologo dei consumi Italo Piccoli) e il ricambio avviene con il contagocce. Lo stesso vale quantomeno per gli elettrodomestici e per l’arredo. Nella grande distribuzione, e non solo, intanto si intensificano le promozioni. In provincia ci sono persino negozi che si chiamano «Sottocosto», Carrefour ha lanciato una campagna-sconti a sensazione legata alle partite dell’Italia durante i Mondiali di calcio e Ikea ha promesso sconti per il 40% ma secondo il professor Piccoli i risultati non sempre sono all’altezza dell’impegno profuso. I volumi venduti per ripagare i tagli di prezzo devono crescere almeno del 20%. «Il consumatore ha imparato a fare zapping tra le varie promozioni e ha cominciato ad essere sospettoso. Se un giorno trova che un pacchetto di caffè costa 3 euro e poi lo vede in promozione a 1,90 perde completamente la percezione del valore di quel prodotto. Il risultato è che compra di meno e che non è più disposto ad acquistare a prezzo pieno». Un boomerang per le aziende produttrici.

Il rinvio degli acquisti è anche legato a considerazioni più di fondo. Secondo l’economista Fausto Panunzi bisogna sempre ricordarsi che sono cambiate profondamente le aspettative, «nelle famiglie si trepida per la disoccupazione dei figli o per il rischio che il padre a 50 anni venga tagliato e licenziato dall’azienda in cui lavora» e di conseguenza si è portati a risparmiare quasi compulsivamente, a comprare solo lo stretto necessario. E non c’è promozione che tenga nei confronti di un mood così negativo.
Che settembre avremo, allora, se l’orientamento dei consumatori rimane lo stesso? Gli 80 euro ci saranno ancora ma Piccoli crede che non sarebbe sensato da parte del governo lanciare campagne pro-consumi: «Anche gli spot che Berlusconi fece a suo tempo alla fine non portarono a nulla di significativo».

13 agosto 2014 | 08:51
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_13/di-vico-consumi-immobili-paese-attesa-7fcf8650-22ae-11e4-9eb4-50fb62fb3913.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Agosto 20, 2014, 07:15:45 pm »

Previdenza
Lasciate in pace il ceto medio

Di Dario Di Vico

La parola chiave della politica sociale di metà agosto è «asticella». L’ha usata ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, intervistato sul Corriere da Enrico Marro. Si discuteva di un (non tanto) ipotetico contributo di solidarietà (slittamento lessicale che sostituisce la parola «tassa») a carico delle pensioni alte ed è rispuntato un progetto e un vecchio dilemma dei governi succedutisi in questi tribolati anni. Se il contributo di solidarietà lo si carica sugli assegni mensili veramente d’oro e d’argento le risorse che si rastrellano per questa via alla fine sono poche, assomigliano dal punto di vista del bilancio dello Stato a briciole. Se invece l’asticella ministeriale del prelievo viene collocata più in basso ecco che la platea dei colpiti diventa molto più larga e si raccoglie decisamente di più. Il guaio è che in questo modo non ci si limita a sforbiciare i redditi dei superburocrati che godono di una pensione aurea ma si tassa di nuovo una parte significativa del ceto medio.

Il governo Renzi ha scelto questa strada? La tesi di un prelievo con asticella bassa nel dibattito di politica economica viene in genere attribuita al deputato Yoram Gutgeld, renziano della seconda ora che in passato aveva immaginato un contributo del 10% sulle pensioni superiori a 3.500 euro per un incasso totale di 3,3 miliardi. Dopo essere stato per un lungo lasso di tempo in ombra, Gutgeld dovrebbe essere il perno della squadra di economisti che Matteo Renzi vuole vicino a sé da settembre a Palazzo Chigi e non è un caso, dunque, che i ministri ricomincino a ventilare l’ipotesi del contributo di solidarietà. Gutgeld è un ex manager di punta della società di consulenza McKinsey ed è naturale quindi che nella sua formazione economico-culturale prevalga un’impostazione di tipo illuministico, sorprende caso mai che Renzi, attentissimo al consenso popolare, la faccia propria. Una nuova tassa che colpisca il ceto medio, seppur la sua porzione relativamente più agiata, riporterebbe indietro le lancette dell’orologio del Pd. I democratici sarebbero risospinti nel solco della tradizione della sinistra italiana poco attenta ai mutamenti di opinione del ceto medio tartassato.

Attenzione, però. Già nei giorni scorsi le cronache hanno registrato un repentino cambio di umore a Nord Est con un sondaggio secondo il quale anche gli artigiani veneti - che pure avevano votato e si erano spellati le mani per Renzi - cominciano a nutrire dubbi sull’efficacia della sua azione. Il segnale, per quanto agostano, non va sottovalutato: vuol dire che i disillusi non albergano solo tra le élite.

Ma al di là delle considerazioni che attengono al campo dei sondaggi e degli indici di popolarità, aprire uno scontro con il ceto medio proprio ora, alla ripresa delle attività dopo la breve pausa estiva, sarebbe un errore grossolano. Il Paese ha bisogno di un semestre di mobilitazione per la crescita, di sforzi sinergici tra azione di governo e sentimento della società civile.
Gli 80 euro in busta paga devono servire a far riprendere i consumi e rianimare la boccheggiante domanda interna. Se invece alla fine a dominare la comunicazione dovesse essere ancora una volta la parola «tasse» saremmo punto e a capo. Saremmo pronti per organizzare il Festival della Depressione.

18 agosto 2014 | 08:04
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_18/lasciate-pace-ceto-medio-a6e1a106-2696-11e4-bbeb-633ac699516c.shtml
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« Risposta #154 inserito:: Agosto 23, 2014, 12:30:50 pm »

Editoriale
IL SINDACATO IMPOPOLARE
Renzi, la Cigl e la Confindustria: tra governi e sindacati si è consumata anche la fase dell’incomunicabilità e siamo arrivati alla stagione dello sberleffo

Di DARIO DI VICO

Sulla velocità e i giochi di parole tra Susanna Camusso e Matteo Renzi non c’è gara. Così al segretario della Cgil che per sottolineare l’estrema gravità dei problemi sul tappeto aveva riproposto/minacciato l’ennesimo e frusto autunno caldo, il premier ha avuto buon gioco a replicare in chiave meramente meteorologica: «Facciano loro, già l’estate non è stata un granché». Tra governi e sindacati, dunque, si è consumata anche la fase dell’incomunicabilità e siamo arrivati alla stagione dello sberleffo. Del resto Renzi proprio sulla contrapposizione alla Cgil ha costruito parte del successo elettorale al Nord ed è quindi convinto che insistendo non gliene possano venire che consensi. Perché la verità - se volete amara - è proprio questa: i sindacati non sono popolari. Potrà sembrare una contraddizione in termini, un ossimoro, invece è proprio così. Basta chiedere a qualsiasi sondaggista che monitori con continuità gli orientamenti degli italiani.

Il motivo è semplice, i nostri leader sindacali hanno perso «il senso della realtà», restano abbarbicati a un potere di interdizione che scema sempre di più e sono schiavi della coazione a ripetere. L’autunno caldo come eterno riflesso condizionato. Gli scioperi dei trasporti pubblici sempre di venerdì. E poi il no alle aperture domenicali dei supermercati, valigia selvaggia a Fiumicino, blocco dei cancelli a Pompei. Il guaio è che andando di questo passo Cgil-Cisl-Uil si condannano all’irrilevanza. Perché, sia detto con chiarezza, i mesi che ci separano dalla fine dell’anno fanno paura anche a noi: come una buona fetta del Paese siamo convinti che il risanamento italiano non sia ancora veramente incominciato e che il governo non abbia le idee del tutto chiare. Ma quelli che difettano sono il coraggio e le soluzioni, di veti e scioperi inutili ne abbiamo collezionati abbastanza da metter su un museo.

Lo stesso rischio, quello dell’irrilevanza, lo corre per altri versi anche la Confindustria (non parlo di Rete Imprese Italia per pudore). Siamo nel terzo anno di una presidenza, quella di Giorgio Squinzi, che finora non ha lasciato un’impronta indelebile. La struttura di Viale dell’Astronomia ha elaborato di recente due (ottimi) documenti sul credito e sul lavoro ma la loro conoscenza è rimasta circoscritta a un ristretto ambito di aficionados. Sul credito non è iniziato - come ci si sarebbe aspettato - un confronto stringente con le banche, sul lavoro non si è difesa nemmeno l’azione degli Ichino e dei Sacconi e si è lasciato che avessero la meglio i deputati democratici di rito cgil. La Confindustria chiede giustamente una svolta di politica industriale ma si attarda su una parola d’ordine, quella di riportare la manifattura dal 18 al 20%, palesemente irrealistica visto che le nuove imprese non nascono certo nei settori pesanti e il ritorno dalle delocalizzazioni non ha purtroppo quel peso quantitativo.

In definitiva, dopo aver discusso animatamente per mesi del rapporto tra corpi intermedi e politica, ci troviamo a fare i conti con la loro assoluta irrilevanza. L’associazionismo avrebbe bisogno di un bagno di realtà e di leadership lungimiranti e invece minaccia o traccheggia. So che molti considerano il loro declino come un bene, tutto sommato, personalmente invece continuo a vederla come una distruzione di valore.

23 agosto 2014 | 08:13
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_23/sindacato-impopolare-4a930080-2a82-11e4-9f31-ce6c8510794f.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Agosto 31, 2014, 09:05:41 am »

Editoriale
A passettini sparsi

Di Dario Di Vico

La gradualità ha dunque preso il sopravvento sulla velocità fine a se stessa. Con la parola d’ordine del «passo dopo passo» il premier Renzi sembra aver preso atto, almeno a livello di comunicazione, che nell’azione di governo c’è bisogno di meno foga e più raziocinio. Da sprinter di valore intermedio il presidente si candida ora a diventare un buon mezzofondista. Confidiamo, di conseguenza, che da oggi in poi i provvedimenti siano ben scritti, che i decreti attuativi seguano per tempo e che l’implementazione delle norme non resti impigliata nelle trappole tese, più o meno ad arte, dalla burocrazia.

Peccato però che questa svolta all’insegna del buon senso si sia confusa ieri con un piccolo show di cui avremmo fatto volentieri a meno. Il presidente del Consiglio che gusta polemicamente un gelato nel cortile di Palazzo Chigi per replicare a una pessima copertina dell’Economist non è certo un’immagine destinata ad aiutare la nostra credibilità internazionale, si presenta invece come una scelta assai discutibile di marketing politico. Onestamente non ci viene in mente un altro grande leader europeo in carica che avrebbe dato vita alla stessa performance. Quantomeno qualcuno a lui vicino avrebbe avuto il fegato per fermarlo in tempo.

Guardando alla sostanza delle scelte del Consiglio dei ministri di ieri si può dire che dalla riunione è uscito un film ricco di abbondante trama e di altrettanti annunci. Insieme al tema della giustizia il nocciolo è rappresentato dal provvedimento sblocca Italia che, pur sceso dai 43 miliardi sbandierati fino a qualche giorno fa a numeri più realistici, si compone di almeno tre parti. La prima è un elenco di opere pubbliche che a detta di Renzi e del ministro competente Maurizio Lupi saranno rese cantierabili entro il 2015, la seconda è uno scambio (che farà discutere a Roma come a Bruxelles) tra il governo e le società autostradali che si impegnano a investire e incassano la proroga delle concessioni, la terza - infine - è la tranche autenticamente liberale che promette di semplificare le ristrutturazioni degli appartamenti e abbassa il tetto per le defiscalizzazioni delle piccole opere.

Rinviata in extremis, invece, l’idea di incentivare fiscalmente l’affitto delle abitazioni. Le tre parti, a un primo esame e in base alle cose che sappiamo finora, non appaiono però in equilibrio tra loro, i passettini prevalgono sui passi. Ed è la lunga lista delle infrastrutture da realizzare ad avere nettamente la meglio con qualche scelta che ha del sorprendente, come l’alta velocità/alta capacità sulla tratta ferroviaria Palermo-Messina-Catania. Una priorità che darà adito ai maliziosi di formulare un cattivo pensiero: quello di un premier che coltiva segretamente l’ipotesi di andare nel 2015 a elezioni anticipate. Senza però volersi lanciare nelle previsioni sull’esito della legislatura e solo attenendosi agli annunci, lo step successivo consisterà nel verificare opera per opera le ipotesi di copertura e i meccanismi di finanziamento di lavori che, giova ricordarlo, interessano alla fine almeno una dozzina di Regioni. Già in passato altri governi avevano giocato con gli annunci del varo di grandi opere spostando e mescolando impegni già presi con pure intenzioni, vecchie risorse con nuovi piccoli stanziamenti. È uno di quei famosi casi in cui il diavolo ha da sempre la capacità di nascondersi nei dettagli.

Dove Matteo Renzi sembra essersi arreso, almeno in questa fase, è il disboscamento della giungla delle municipalizzate. Dopo tante parole spese nelle settimane e nei giorni precedenti, il decisionismo del presidente del Consiglio si è fermato davanti alle remore dei sindaci e così il socialismo municipale italiano è riuscito ancora una volta a evitare la rottamazione. Per una misura che alla fine è mancata all’appello ne va segnalata un’altra che invece è sicuramente positiva e riguarda la ratifica del piano straordinario per accrescere il numero delle aziende italiane che esportano con continuità, predisposto da tempo dal viceministro Carlo Calenda. In materia di competitività delle imprese, Renzi ha riproposto anche ieri nella conferenza stampa l’idea che ha maturato sull’evoluzione del costo del lavoro nella manifattura. Per difendere la scelta - peraltro giusta - di mettere 80 euro in più in busta paga, il premier, fresco dell’incontro con il leader della Fiom Maurizio Landini, ha sostenuto che l’Italia deve puntare sull’industria di qualità e sugli alti salari. In linea di principio niente da obiettare solo che se si vuole difendere l’occupazione sarà forse meglio adottare come Paese una strategia più articolata. Perché ci sono settori e aziende sicuramente in grado di creare una quota significativa di valore aggiunto e di ridistribuirlo ai propri dipendenti - come ha fatto di recente la Ferrero - ma ci sono anche settori labour intensive come elettrodomestici e auto nei quali la competizione internazionale si gioca anche sui costi della manodopera. Ignorarlo vuol dire rassegnarsi presto o tardi a veder emigrare questo tipo di lavorazioni oppure a sussidiarle con vagonate di cassa integrazione e provvedimenti ad hoc di decontribuzione. È bene saperlo.

30 agosto 2014 | 07:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_30/a-passettini-sparsi-409ca284-3004-11e4-88f9-553b1e651ac7.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Agosto 31, 2014, 11:52:08 am »

Promesse e fatti
Quei dubbi di Marchionne

Di Dario Di Vico

Anche Sergio Marchionne comincia ad avere qualche dubbio. In questi mesi l’amministratore delegato della Fiat, quando ha potuto, non ha mancato di far sentire il suo appoggio a Matteo Renzi, in pubblico e in privato. Solo per ricordare un episodio vale la pena tornare a Trento, al festival dell’Economia di inizio giugno, quando Marchionne si era disciplinatamente seduto ad ascoltare e ad applaudire l’intervista-fiume del premier con Enrico Mentana. Ieri invece dal palco di un’altra manifestazione, il meeting di Rimini, i toni sono stati differenti. Quegli accenni agli scarsi risultati ottenuti dal governo e ai tanti compromessi ai quali ha dovuto soggiacere segnano sicuramente uno slittamento di opinione. Un giudizio sui provvedimenti e le amnesie che vale molto di più dei commenti che pure Marchionne ha elargito sulle strategie di comunicazione. Anche a lui la copertina dell’Economist non è piaciuta neanche un po’ ma non avrebbe replicato - ha chiosato -, avrebbe fatto a meno di organizzare la gag con il gelato e il carretto.

Prima di Marchionne a prendere le distanze da Renzi era stato un altro protagonista della vita economica italiana, che pure aveva guardato con favore al nuovo governo e al protagonismo del giovane Matteo, Diego Della Valle. In pieno agosto quando il governo combatteva in Senato per far passare il provvedimento di revisione Mister Tod’s aveva rivolto un inusitato appello al capo dello Stato chiedendogli di evitare che a cambiare la Costituzione fosse «l’ultimo arrivato, seduto in un bar con un gelato in mano a decidere cosa fare». Non sapremo mai con certezza se la direzione dell’Economist abbia rubato a Della Valle l’immagine del giovane premier con il gelato ma alla fine è andata così. E comunque quella presa di distanza da Renzi, che l’imprenditore marchigiano aveva seguito con attenzione sin dai suoi primi passi da sindaco, ha generato comunque sensazione.

Marchionne e Della Valle oltre ad essere due esponenti di primo piano dell’industria italiana ne rappresentano anche la parte che più si confronta con la concorrenza, che non vive di tariffe e riconoscimenti governativi e quindi è più libera ed esplicita nella formulazione dei giudizi. Pro o contro che siano. Ma quale orientamento prenderà Giorgio Squinzi che gli imprenditori li rappresenta tutti, quelli globali e quelli non, e che aveva contribuito a dare una spallata al governo Letta? Il presidente della Confindustria ha parlato anche lui a Rimini, appena 24 ore prima di Marchionne: non ha mai citato Renzi e il suo governo ma ha usato parole dure come pietre. Con riferimento alla sostenibilità del welfare ha scandito che «il nostro Paese ha tenuto finora un tenore di vita che non si può più permettere». Ha chiesto poi «provvedimenti straordinari a costo dell’impopolarità» ma soprattutto ha fatto capire che a questo punto si aspetta che l’esecutivo espliciti un disegno strategico, delinei un orizzonte per il Paese e non viva alla giornata. Squinzi parlerà anche stasera alla Festa nazionale dell’Unità a Bologna, da ospite sarà molto attento a calibrare le critiche verso i padroni di casa ma un giudizio netto sullo sblocca Italia probabilmente lo emetterà e sarà drastico: alla fine non c’è un euro in più di investimento pubblico.

Se questo è il catalogo delle disillusioni imprenditoriali e delle critiche (di merito) confindustriali, in attesa delle decisioni di Andrea Guerra in uscita da Luxottica, sono due i capi-azienda che sembrano conservare intatta la loro stima verso Renzi. Il primo è Oscar Farinetti di Eataly secondo il quale il governo «ha fatto 3-4 mosse giuste» e anzi a questo punto dovrebbe dare altre «due bastonate» imponendo, ad esempio, un tetto massimo di 3 mila euro alle pensioni. L’altro è Pier Silvio Berlusconi, che prima dell’estate aveva esplicitamente dichiarato di tifare per Renzi e nei giorni scorsi, con il conforto di Fedele Confalonieri e Ennio Doris, ha ribadito a papà Silvio la sua assoluta fiducia nell’inquilino di Palazzo Chigi.

31 agosto 2014 | 09:34
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DA - http://www.corriere.it/economia/14_agosto_31/quei-dubbi-marchionne-b9610196-30d7-11e4-9629-425a3e33b602.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Settembre 21, 2014, 11:21:42 am »

Lo scontro

Premi e flessibilità in azienda: la segreteria resiste, la fabbrica riforma
Sindacati tra malessere e contraddizioni.
Per Cisl e Uil il nodo della successione e l’egemonia del triangolo Camusso-Epifani-Damiano


Di Dario Di Vico

L’accusa di thatcherismo rivolta da Susanna Camusso a Matteo Renzi ha fatto sobbalzare molti dentro Cgil-Cisl-Uil. Per carità, è difficile trovare un dirigente sindacale che straveda per il premier e che lo senta culturalmente vicino a sé ma i più non hanno perso il senso della misura e non ci stanno a presentare Renzi come l’Iron Boy, il ragazzo di ferro. Raffaele Bonanni lo ha detto chiaro e tondo ma non è il solo a pensare che Camusso abbia sbagliato a imbracciare il bazooka. Al di là delle forzature polemiche però il malessere del sindacato è assai più composito. Innanzitutto c’è una scissione non dichiarata tra le strutture di fabbrica e i vertici romani. Se si vanno a spulciare i contratti firmati in sede aziendale - e che spesso non vengono spediti a Roma per paura di censure da parte della nomenklatura - la ragionevolezza la fa da padrona. Si contratta di tutto, anche le materie considerate più scabrose come la lotta all’assenteismo e i premi legati alla produttività.

Nel 90% dei casi firmano le Rsu di tutte e tre le confederazioni e quando portano l’accordo al vaglio del referendum quasi sempre i lavoratori confermano la scelta fatta. Complicità è una parola grossa ma in fabbrica sembra che il conflitto che divide azienda e operai sia infinitamente meno acuto di quello che per esempio divide le imprese dalle banche che non erogano il credito. Aggiungiamo che in questi anni la struttura industriale è cambiata, molta flessibilità è stata scaricata sulla filiera di fornitura e di conseguenza il vero problema sta nelle commesse che l’imprenditore riesce a portare a casa. Gli avversari, dunque, sono fuori dai cancelli. Non dentro.

Se ci stacchiamo dai luoghi della produzione e mettiamo invece sotto la lente di ingrandimento il sindacato-istituzione l’agenda delle priorità cambia. L’ultimo congresso nazionale della Cgil si è chiuso con la convocazione di un’ulteriore conferenza d’organizzazione e l’ipotesi di nominare un segretario generale aggiunto. L’apparato si è chiuso a riccio a difesa della segreteria Camusso e ha sconfitto lo sfidante Maurizio Landini ma le ultime 24 ore del congresso hanno vissuto di voci e paure. Era atteso in sala un intervento dirompente del segretario della Fiom che avrebbe dovuto porre con forza la questione morale, incalzando il gruppo dirigente della Cgil sulla trasparenza dei bilanci e i privilegi delle burocrazie. Alla fine il leader della Fiom ha scelto di edulcorare il suo intervento e quello che avrebbe rappresentato per la platea di Rimini un vero shock è stato quantomeno rinviato. Intanto comunque la Fiom continua a comportarsi come una quarta confederazione e, seppur il dialogo con Palazzo Chigi sembra tramontato, Landini a colpi di manifestazioni, presenze televisive e libri si presenta come l’alternativa alla segreteria.

Nella categorie e nei territori poi la Cgil ha attuato un certo ricambio: a Treviso il segretario non ha 40 anni, alla testa della categoria emergente - la Filcams - è stata nominata una donna poco più che quarantenne ma gli entranti contano poco, non proiettano una soggettività nuova e un legame più ricco con la struttura sociale. Si ha invece l’impressione che in Cgil più che strutture formali alla fine l’egemonia sia in mano al triangolo Camusso-Damiano-Epifani ovvero il segretario e due ex dirigenti Cgil che occupano posizioni chiave in Parlamento.

La Cisl nel contrasto tra Renzi e la Cgil rischia di fare la figura del vaso di coccio. Bonanni con ostinazione ripete che non tutti i sindacati sono uguali ma visto che il governo non gli dà retta e non gli concede uno straccio di tavolo è condannato a restare a metà del guado. Vorrebbe collaborare ma il governo non vuole, lui chiede un nuovo scambio e da palazzo Chigi gli fanno marameo. Qualche faccia nuova nelle segreterie la si trova anche in Cisl e sarà proprio una donna, Annamaria Furlan, a sostituire lo stesso Bonanni ma non si può certo dire che questa staffetta entusiasmi l’organizzazione visto che l’erede è sconosciuta ai più e ha un rating esterno bassissimo.

Nei territori qualche dirigente morde il freno e non ci sta a restare schiacciato nella tenaglia Renzi-Camusso. Gigi Petteni, segretario della Lombardia, ad esempio, sostiene che se in una prima fase «Renzi spara nel mucchio non possiamo che difenderci tutti assieme» ma appena possibile la Cisl deve avanzare una proposta che rifletta la sua cultura del lavoro. Se ciò malauguratamente non dovesse avvenire da Roma, «saranno i territori a muoversi». Vedremo. La Uil poi sta scontando una delle fasi di minore visibilità della sua storia di confederazione outsider, la segreteria Angeletti ha perso smalto negli ultimi trimestri e è già stato programmato da tempo il cambio al vertice. Sulla poltrona che fu di Giorgio Benvenuto salirà a fine 2014 Carmelo Barbagallo, un dirigente che persino i benevoli considerano rétro e che rischia di far diventare la Uil non più un sindacato aperto/scomodo ma un club a inviti. Se si cerca un caso per sostenere la bontà delle primarie anche nella rappresentanza, è difficile trovarne uno migliore.

Tutte queste contraddizioni, per così dire, precipiteranno nella battaglia sull’articolo 18. Il video con Renzi che racconta le storie di vita dei precari e li contrappone al dinosauro sindacale è il tema ricorrente delle telefonate di queste ore e la controffensiva di Cgil-Cisl-Uil sarà proprio all’insegna del dialogo con le nuove generazioni. Prepariamoci, dunque, ai gazebo nelle piazze, a strategie di comunicazione a tappeto sui social network e a giovani delle associazioni cattoliche di base che parleranno ai comizi. I soldi per ora, infatti, non sono un problema. Grazie al tesseramento e ai centri di assistenza fiscale i sindacati hanno risorse in quantità tale che i partiti se le sognano di notte e quindi possono finanziare la battaglia contro Renzi. Le manifestazioni costano (tra pullman e vitto un militante che si sposta a Roma costa almeno 30 euro) ma si fanno preferire agli scioperi perché basta mobilitare la cerchia dei simpatizzanti senza chiedere sacrifici salariali agli operai. Se però qualcuno nel sindacato pensa di preparare il Cofferati bis e riempire il Circo Massimo conviene che ripeta ad voce alta quanto Carla Cantone, una dirigente della Cgil tutt’altro che moderata, ha detto di recente all’esecutivo dell’organizzazione: «Cari miei, stiamo attenti. L’esercito delle battaglie di una volta non c’è più».

21 settembre 2014 | 09:34
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_settembre_21/premi-flessibilita-azienda-segreteria-resiste-fabbrica-riforma-9e7d8018-4160-11e4-a55b-96aa9d987f34.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Settembre 28, 2014, 03:57:38 pm »

L’intervista

D’Alema: «Sull’art. 18 Renzi sbaglia E sulle riforme è istruito da Verdini»
L’ex premier: è in difficoltà con Bruxelles e cerca di dare un segnale per tranquillizzare i conservatori. L’unica vecchia guardia con cui parla è rappresentata da Berlusconi»


Di Dario Di Vico

«Renzi è in evidente difficoltà nei rapporti con Bruxelles. E sull’articolo 18 è in atto un’operazione politico-ideologica che non corrisponde a nessuna urgenza. Non esiste un’emergenza legata alla rigidità del mercato del lavoro. C’è persino il sospetto che si cerchi uno scontro con il sindacato e una rottura con una parte del Pd per lanciare un messaggio politico all’Europa e risultare così affidabile a quelle forze conservatrici che restano saldamente dominanti. Spero che Renzi si renda conto che una frattura del maggior partito di governo non sarebbe un messaggio rassicurante. Se vuole, è possibile trovare un accordo ragionevole sugli interventi sul mercato del lavoro». Massimo D’Alema dopo un lungo periodo di silenzio ha deciso di far sentire di nuovo la sua voce nel vivo della battaglia sull’articolo 18. E pensa che l’agenda del governo dovrebbe privilegiare il tema della crescita.

Quando il Parlamento discuteva del Senato gli oppositori di Renzi sostenevano che la priorità fosse il lavoro, ora si discute di Jobs act e il tema diventa un altro. Giochiamo a rimpiattino?
«No, sono favorevole alle riforme elettorali e costituzionali, le ritengo urgenti per il Paese. Purtroppo è stata fatta una brutta legge elettorale che somiglia enormemente a quella di prima. Per quanto riguarda il Senato, vi è un evidente contrasto tra la rilevanza dei compiti assegnati a quell’assemblea e una legittimazione popolare affidata alla nomina regionale. Non ho mai pensato che le riforme costituzionali non siano importanti, ho riserve sulle soluzioni escogitate».

Comunque dopo Bersani arriva anche lei. La vecchia guardia della sinistra unita contro il premier.
«Senta, l’unica vecchia guardia con cui Renzi interloquisce è quella rappresentata dal centro-destra di Berlusconi e Verdini. Al Pd vengono poi imposte, con il metodo del centralismo democratico, le scelte maturate in quegli incontri privati. Gramsci nei Quaderni scriveva che i giovani devono inevitabilmente confrontarsi con la generazione più adulta, ma può capitare che i giovani di una parte si facciano istruire dagli anziani della parte avversa. Mi pare che qualcosa di simile stia accadendo nel nostro Paese».

Torniamo a Bruxelles. Cosa sta sottovalutando Renzi?
«L’Europa doveva “cambiare verso”, ma non sta andando nel verso che i progressisti auspicavano. Anzi. I popolari hanno una decina di eurodeputati in più, ma in Commissione hanno fatto l’en plein. La Merkel ha ottenuto le presidenze della Commissione, del Consiglio europeo e dell’Eurogruppo. E ha pagato un prezzo modesto ai socialisti, nominando il francese Moscovici agli Affari economico-sociali, ma di fatto sotto il controllo di un super-falco come Katainen.

I conservatori hanno 14 commissari, i liberali 5 e i socialisti 8. Insomma, il predominio conservatore è impressionante. Temo che tutto ciò non potrà non avere effetti sulla politica dell’Unione, tanto è vero che c’è grande malcontento nel gruppo socialista a Bruxelles».

I socialdemocratici tedeschi però sono al governo con la Merkel e non riescono a farle cambiare verso.
«Ci sono anche delle responsabilità dell’Spd, ma la Merkel si è mossa da leader europea, non si è preoccupata del peso del portafoglio assegnato al commissario tedesco. Ha piazzato uomini di peso nei posti-chiave, i socialisti invece hanno ragionato in un’ottica di prestigio nei singoli Paesi. Lo ha fatto anche Renzi, che ora, per venire fuori dall’impasse e ottenere concessioni dall’Europa, ha deciso di puntare su una questione che è chiaramente ininfluente rispetto agli ostacoli alla ripresa economica, e cioè l’articolo 18».

Ma anche la Bce ci chiede di riformare il mercato del lavoro. Il presidente Draghi l’ha ripetuto più volte.
«Mario Draghi è sotto attacco da parte dei tedeschi e considero la cosa allarmante. È una conferma dell’offensiva conservatrice in Europa. Se si arriva persino a contestare il presidente della Bce...».

Lei ci crede al piano da 300 miliardi che la nuova commissione Juncker dovrebbe varare ormai nel 2015?
«Finora è una nebulosa, bisognerà capire e controllare su quali settori punteranno gli investimenti. Questo è il centro dello scontro politico in Europa, altro che articolo 18. E teniamo conto che, nel merito, la riforma Fornero ha già sdrammatizzato il problema. Oggi, il contenzioso tra datori di lavoro e dipendenti licenziati è risolto in sede extragiudiziale per larga parte dei casi. Il ricorso al reintegro si è ridotto enormemente, ma è stata mantenuta l’ipotesi del reintegro in caso di grave illegittimità del licenziamento. È il minimo indispensabile. Qui si tratta della tutela dei diritti delle persone e non della difesa delle rigidità. Se si toglie al lavoratore persino la garanzia del reintegro in caso di grave illegittimità si ristabilisce all’interno del luogo di lavoro un rapporto gerarchico basato su paura e subalternità. Una forza di sinistra non può accettarlo».

Lo scontro Renzi-Camusso non riprende il duello che divise lei e Cofferati?
«La vera discussione con il sindacato non fu sull’articolo 18 ma sulla centralizzazione del meccanismo contrattuale, che era arretrata. Sostenevo il decentramento della contrattazione in modo che aderisse meglio all’economia reale. A Cofferati obiettavo che i sindacati negoziavano a Roma un contratto nazionale che poi in una metà del Paese era disatteso. Io sollevavo un problema vero».

Non crede che la vecchia guardia del Pd da allora eviti di scontrarsi con la Cgil per paura di prenderle?
«Non scherziamo. Noi abbiamo innovato radicalmente il mercato del lavoro. Abbiamo proceduto in maniera coraggiosa e radicale, con forme di flessibilità che col tempo si sono rivelate persino eccessive. Questi interventi avrebbero dovuto essere affiancati da innovazioni anche nel campo del welfare e della formazione permanente dei lavoratori: purtroppo è avvenuto solo in parte. E ne hanno fatto le spese tanti giovani».

Ha da avanzare una proposta di mediazione?
«Si può ancora intervenire con misure limitate per togliere alcuni fattori di rigidità, come del resto ha detto Gianni Cuperlo. Si può pensare ad allungare il periodo di prova e a ridurre l’indennizzo economico oggi troppo pesante per le imprese. Contestualmente però occorre discutere anche degli ammortizzatori sociali. Certo, sono favorevole al modello danese, ma quanto costa? Dovendo impostare il governo una legge di Stabilità in nome del rigore, come finanzierà gli ammortizzatori sociali? Quali sono le poste di bilancio? Lo dico perché non sono un ideologo ma un uomo di governo».

Lei in merito alla nomina di Mr. Pesc ha sostenuto che Renzi le ha mentito. Camusso poi lo ha definito thatcheriano. Da Firenze è arrivato il diavolo?
«In questa vicenda non ho mai detto nulla di personale e nulla, ovviamente, sui rapporti intercorsi tra me e il presidente del Consiglio. Ho il senso delle istituzioni».

La avverto che comunque quest’intervista sarà etichettata dai renziani come «rosicona» a seguito della mancata sua nomina in Europa. Le crea problemi?
«Le scelte europee rientravano nelle prerogative di Renzi. Se non ci fosse stata la vicenda dell’articolo 18 non sarei intervenuto. L’argomento della vendetta postuma è privo di riscontro. E penso che sia arrivata l’ora di smettere di avallare la tecnica dell’insulto come metodo permanente di lotta politica, anziché discutere del merito dei problemi».

28 settembre 2014 | 08:41
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_28/renzi-difficolta-bruxelles-lavoro-sbaglia-mediazione-c-e-61a687f6-46d9-11e4-b58c-ffda43e614fc.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Settembre 30, 2014, 10:23:32 pm »

Il commento
Le inutili ipocrisie sulle tasse
F ino ad ora il governo non ha inserito nell’agenda delle sue priorità il lavoro autonomo e le partite Iva
Di Dario Di Vico

F ino ad ora il governo non ha inserito nell’agenda delle sue priorità il lavoro autonomo e le partite Iva. Quando si è trattato di aumentare il reddito disponibile sono state privilegiate le fasce medio-basse del lavoro dipendente e il Jobs act ha come riferimento un laburismo tutto sommato tradizionale, anche se declinato in chiave di flexsecurity . Il tutto è stato gestito con lo strumento della legge delega che si sta rivelando un contenitore ipocrita: inizialmente appare utile per allargare lo spettro dell’azione di riforma senza generare conflitti, ma nel prosieguo mostra tutti i suoi limiti. Accumula contraddizioni e non è in grado di scioglierle se non con un atto d’imperio finale.

Qualcosa del genere rischia di accadere anche con la delega fiscale, lo strumento «largo» con il quale il governo pensa di riprendere a dialogare con gli autonomi. In linea di principio non si può che essere d’accordo con questo riallineamento di attenzioni perché il lavoro indipendente è destinato a crescere ed è la strada che prendono molti giovani in cerca di prima occupazione, di fatto costretti a «inventarsi» il proprio lavoro. Ma il famoso diavolo continua a nascondersi nei dettagli.

Vale la pena ricordare come l’apertura di nuove partite Iva resta sempre sostenuta, al ritmo di 40-50 mila al mese e la percentuale di quelle che mascherano un rapporto di lavoro dipendente si può stimare attorno al 15-20%. Non di più, come pure lasciano pensare i sindacati confederali che ne hanno fatto - come nel caso della Cisl - un punto focale di propaganda e comunicazione. I l guaio maggiore, caso mai, è che molte di queste nuove partite Iva chiudono la loro attività dopo qualche mese, come si può dedurre dalla dinamica delle cancellazioni che rimane sempre molto elevata (80 a 100 nel rapporto con le nuove iscrizioni) e da una rotazione molto frequente in alcune attività economiche giudicate a bassa barriera d’ingresso, segnatamente la ristorazione nei grandi centri urbani.

Detto questo, l’ipotesi di provvedimento che il ministero dell’Economia e finanze ha in gestazione per le mini-imprese (un milione di contribuenti) e che dovrebbe approdare nella delega fiscale appare, nelle intenzioni, ambiziosa perché punta a semplificare drasticamente le procedure, a limare la pressione fiscale e a introdurre nuovi criteri di equità tra i contribuenti di diverse fasce di ricavi. Tre obiettivi in uno, non facili da raggiungere in contemporanea perché da una parte il gettito che proviene da queste attività non può calare di brutto e nello stesso tempo bisogna dare un segnale di riduzione delle tasse. Come se non bastasse occorre affrontare anche alcune contraddizioni che si sono prodotte nel tempo come quella che, proprio a causa del regime forfettario, fa sì che le nuove imprese non siano incentivate a crescere per il rischio di dover pagare a caro prezzo (fiscale) le commesse aggiuntive conquistate.


È giusto, quindi, affrontare le strozzature erariali e normative che oggi penalizzano le piccolissime imprese, ma non va sottovalutato il rischio che il messaggio possa non arrivare chiaro e limpido. Il governo, dunque, si occupi degli autonomi e delle partite Iva ma stia attento allo sperimentalismo fiscale. Le cavie potrebbero non gradire.

30 settembre 2014 | 08:38
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_30/inutili-ipocrisie-tasse-93d09d44-4863-11e4-a045-76c292c97dcc.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:30:16 pm »

Salario minimo
Nel Jobs act la mossa per abbattere l’ultimo tabù
Al di là dell’articolo 18, nel provvedimento sostenuto da Renzi l’introduzione del salario minimo limiterebbe i contratti nazionali a vantaggio della contrattazione aziendale

Di Dario Di Vico

Finora l’attenzione di merito sul Jobs act governativo si è concentrata quasi esclusivamente sulla riscrittura dell’articolo 18, cannibalizzando così un’altra scelta di grande discontinuità contenuta nel provvedimento sostenuto da Matteo Renzi: il salario minimo. In molti Paesi, europei e non, è in vigore da tempo, basta pensare allo Smic dei cugini francesi. In Italia, invece, l’introduzione del salario minimo è stata vista sempre come fumo negli occhi dai sindacati, gelosamente attaccati alla tradizione del contratto nazionale. In linea di principio non c’è contraddizione tra una legge che stabilisca il salario minimo e un Ccnl stipulato tra le parti, ma in una fase di forte polarizzazione del sistema industriale finisce per rappresentare un’alternativa. Le differenze di mercato e di capacità di creazione di valore non sono più solo tra settori: passano all’interno dello stesso comparto. Dopo sei anni di Grande Crisi la distanza tra un’azienda che esporta stabilmente e un’altra che vivacchia di domanda interna è diventata abissale, come altrettanto ampia è la differenza tra industrie technology o labour intensive. Nello stesso settore metalmeccanico ci sono elettrodomestici e auto, che in virtù del basso valore aggiunto delle lavorazioni sono molto sensibili al costo del lavoro, ma anche le macchine utensili, in cui il livello delle paghe non è certo il principale dei problemi. Con l’introduzione del salario minimo il contratto nazionale verrebbe fortemente limitato mentre ne uscirebbe esaltata la contrattazione aziendale. Il minimo stabilito per legge avrebbe poi un’altra valenza: far emergere il lavoro sommerso e combattere il caporalato in settori nei quali la rappresentanza sindacale tradizionale è evaporata e vige la pratica degli appalti al massimo ribasso. Si pensi, ad esempio, ad un business di grande rilievo come la logistica dove si è andato creando un far west di rapporti illegali, Cobas, false cooperative, sfruttamento degli extracomunitari e ricatto dei lavoratori. Costretti a retrocedere al datore di lavoro una parte del salario nominale stampato sulla busta paga. È chiaro che in situazioni come questa il salario minimo non è la panacea (servono anche tanti ispettori del lavoro!) ma potrebbe segnalare - specie agli stranieri - che le istituzioni non sono né cieche né sorde.

5 ottobre 2014 | 09:52
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_ottobre_05/nel-jobs-act-mossa-abbattere-l-ultimo-tabu-a6f4e02a-4c63-11e4-8c5c-557ef01adf3d.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:17:12 pm »

Non è tempo di compromessi
Purché non sia una Fornero bis

Di Dario Di Vico

Una battaglia politica vera merita una conclusione trasparente. Il presidente del Consiglio ha voluto sfidare il sindacato e la sinistra pd sui temi del lavoro e per farlo ha sposato quasi per intero le idee e le elaborazioni di due castigamatti del laburismo italiano, Pietro Ichino e Maurizio Sacconi. In più ha scelto di mettere la fiducia sul Jobs act violando la consuetudine non scritta secondo la quale sui temi del mercato del lavoro non si operano strappi parlamentari. A questo punto sarebbe paradossale che dopo aver infranto tutti questi tabù il risultato concreto dell’iniziativa di Matteo Renzi, ovvero la nuova legge, fosse confuso, indefinito e replicasse gli errori della riforma Fornero che pure si era misurata con il superamento dell’articolo 18. L’opinione pubblica europea non capirebbe e sarebbe portata a considerarla l’ennesima vittoria del bizantinismo politico italiano, anche se in una forma forse inedita: un premier decisionista che vara una legge pasticciata. Ci sarà tempo per vedere e valutare quali saranno le formulazioni finali e che sorte sarà riservata ai licenziamenti disciplinari, ma più si ridurrà l’area dell’incertezza e della discrezionalità dei giudici meglio sarà per tutti. Almeno non ci saremo divisi invano.

La fiducia, oltre a spazzar via circa 700 emendamenti, serve anche a dare sostanza alla giornata politica di oggi. Renzi avrebbe voluto che durante il suo semestre di presidenza - non particolarmente brillante - si tenesse in Italia un vertice europeo sull’occupazione e la crescita. Alla fine ha ottenuto una conferenza informale come quella che si terrà oggi a Milano e che possiamo esserne certi non passerà agli annali, non rappresenterà una pietra miliare nella lotta contro la disoccupazione. Assisteremo a qualche discorso retorico, al solito balletto delle interpretazioni, alle limature dei testi da parte degli sherpa e a una conferenza stampa finale in cui si potrà misurare lo stato dei rapporti tra la cancelliera Merkel, il presidente Hollande e Matteo Renzi. Di proposte nuove e costruttive per produrre posti di lavoro è assai difficile che ne ascolteremo.

Le discussioni vere sul futuro dell’occupazione purtroppo si svolgono altrove. Questa settimana per la seconda volta in pochi mesi l’Economist ha pubblicato un rapporto pessimistico sulle tecnologie che mangiano posti di lavoro. Si parla del peso che Internet ha conquistato anche in questo campo, dello sviluppo dell’e-commerce, del nuovo artigianato, della tendenza dei giovani a inventarsi il proprio lavoro. Tutti temi che fotografano l’evoluzione (contraddittoria) del mercato reale e fanno apparire le istituzioni europee - e il nostro Parlamento - alla stregua di pachidermi che si muovono con esasperante lentezza.

8 ottobre 2014 | 07:20
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« Risposta #162 inserito:: Ottobre 13, 2014, 03:14:20 pm »

Garanzia Giovani, perché non va
Numeri bassi, portale inadeguato, mobilitazione nulla.
La comunicazione è debole
Uno scatto e qualche idea per non buttare 1,5 miliardi
Di Dario Di Vico

Stavolta non c’è neanche l’alibi dei soldi. Gli stanziamenti per la Garanzia Giovani ammontano addirittura a 1,5 miliardi eppure ci stiamo pericolosamente avvicinando a un clamoroso flop. Sull’apposito portale il ministero del Lavoro pubblica un report aggiornato: al 9 ottobre i giovani registrati erano circa 237 mila di cui però solo 53.800 sono «stati presi in carico e profilati». Le occasioni di lavoro pubblicate online dall’inizio del progetto sono poco più di 17 mila. Ma al di là dei numeri, che pure da soli già raccontano di un’iniziativa a scartamento ridotto, la verità è che Garanzia Giovani sta vivendo come fosse una procedura ministeriale. Al dicastero ammettono le lentezze, parlano di realtà «a macchia di leopardo» (vuol dire che al Sud non si è mosso niente), della difficoltà di far dialogare per via telematica Centro per l’impiego (Cpi), Regioni e Stato e dell’intenzione del ministro Giuliano Poletti di fare il punto con gli enti locali a metà novembre. Auguri sinceri.

Comunicazione debole
La verità è che doveva trattarsi di una grande mobilitazione di energie e persino di un’operazione pedagogica. I giovani fino a 29 anni dovevano essere chiamati a fare uno sforzo culturale, a rendersi occupabili. La comunicazione è stata invece debole, non ha colpito i ragazzi e non li ha messi in movimento. Occorreva spiegare loro che non basta volere un posto di lavoro ma oggigiorno diventa decisivo mettersi in grado di conquistarlo e allora bisogna considerare il curriculum come un tesoretto che si accumula e sul quale si investe di continuo. Niente di tutto questo è stato fatto e non vale la considerazione che pure si sente ripetere spesso ovvero che i nostri Centri per l’impiego contano 9 mila addetti e l’Agenzia nazionale tedesca 100 mila. Di un altro carrozzone pubblico facciamo volentieri a meno. Debole come capacità di mobilitazione il ministero lo è stato anche nel coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati. Il terzo settore, ad esempio, poteva essere mobilitato per tempo per la capacità di offrire tirocini ai giovani. Più in generale bisognava creare una coalizione di organizzazioni che si facevano promotrici di Garanzia Giovani e lo inserivano in agenda tra le priorità. Vi risulta che qualche associazione di categoria abbia organizzato iniziative in merito o assicurato un’informazione puntuale? E non valeva la pena incalzare anche i sindacati e i loro centri di assistenza? Anche questa capacità è mancata e nei territori questo vuoto si sente. Al Sud non ne parliamo. I ragazzi non vengono interessati nemmeno per via indiretta, non sentono che attorno i «grandi» si sono mobilitati. Così quando vengono chiamati finiscono per adempiere a un obbligo burocratico e non si responsabilizzano. E poi aspettano che il telefono suoni.

Trascurato il contatto con le imprese
Garanzia Giovani poteva essere un test di politiche attive per il lavoro e invece sta perpetuando l’equivoco dei Cpi. Si comincia dal paradosso che a dar lavoro ai disoccupati dovrebbero essere dei co.co.pro. che lavorano a intermittenza nei Centri e poi si arriva alla mancata collaborazione con le agenzie private.

Non si contano gli ostacoli che sono stati frapposti alle collaborazioni con le varie Adecco, Gi Group, Manpower, Quanta. Disposizioni regionali di 20-30 pagine, doppio accreditamento nazionale e regionale, impossibilità di avere rapporto diretto con i ragazzi. Accanto ad alcuni assessori regionali più aperti e moderni ce ne sono altri che continuano a pensare che occuparsi di lavoro «sia un compito dello Stato e basta». Il risultato di queste incomprensioni è che Garanzia Giovani alla fine trascura il contatto con le imprese.

Non è un caso che la Nestlé voglia assumere qualche migliaio di giovani senza passare di lì o che la McDonald’s in Italia non abbia trovato la collaborazione giusta. Bastava copiare quello che molte università fanno con il placement ovvero i colloqui diretti giovani-aziende e si sarebbe innovato profondamente. Invece sul portale girano sempre gli stessi annunci, lo stesso fotografo viene cercato da settimane e settimane e comunque le richieste puntano su profili esperti e non alla prima prova. E come ha detto il giuslavorista Michele Tiraboschi «basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito governativo non fa altro che rimbalzare offerte presenti su altri siti».

Il decalogo
Che fare adesso per evitare che il flop demotivi tutti, le strutture e soprattutto i giovani disoccupati? Tiraboschi ha steso addirittura un decalogo di miglioramenti pratici per far funzionare il portale. Dall’inserire un filtro che selezioni subito i giovani per condizioni occupazionali/formative a permettere una ricerca avanzata tra i diversi annunci che oggi si affastellano in 400 pagine di visualizzazione. Si cominci pure da qui ma è proprio il caso di dire che bisogna cambiare marcia. Non si può lasciare tutto in mano ai ministeriali, se non altro perché non possiamo buttare dalla finestra un miliardo e mezzo.

Ps. Anche questa settimana a Roma ci sarà il solito e inutile mega convegno su Garanzia Giovani.

12 ottobre 2014 | 09:09
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_ottobre_12/garanzia-giovani-perche-non-va-a20c42ae-51dd-11e4-b208-19bd12be98c1.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Ottobre 28, 2014, 12:02:34 pm »

L’analisi
Dire addio al posto fisso non basta
La flessibilità all’epoca di LinkedIn
I mutamenti del lavoro sono più veloci anche di questa politica
Le aziende più solide fidelizzano la parte di lavoratori di cui hanno più bisogno


Di Dario Di Vico

La querelle sul posto fisso ricorre spesso nella politica italiana degli ultimi anni e quasi sempre in riferimento all’articolo 18. Ne discussero animatamente Massimo D’Alema e Sergio Cofferati, ne parlarono due anni fa Mario Monti e il ministro Elsa Fornero e l’ha ripreso ieri Matteo Renzi. Via via che la polemica si ripete risulta sempre più facile argomentare il tramonto del mito dell’inamovibilità. È cambiata profondamente la geografia della produzione: molte lavorazioni sono state esternalizzate, sono nate intere filiere tutte al di fuori della casa madre, i cicli economici sono diventati più nervosi e anche la predisposizione di quelli che una volta si chiamavano «programmi produttivi» è diventata più erratica. Quando finalmente usciremo da questa crisi questi fattori saranno ancora più evidenti e avremo un andamento dell’economia a dente di sega, con fermate anche lunghe e improvvisi ricorsi allo straordinario o al lavoro nelle giornate festive. All’Electrolux già sta succedendo così, si alternano di fatto orari ridotti e prestazioni supplementari.

Di conseguenza ritornare agli anni del boom, a un’organizzazione industriale centrata sulla figura del capofamiglia maschio che assicurava il reddito a tutta la famiglia, rimaneva nella stessa fabbrica fino alla pensione e maturava il diritto a entrare nel circolo anziani dell’azienda, equivale a sfogliare un vecchio album di famiglia. Chi non deve solo alimentare la polemica politica e può ragionare a mente serena sostiene che questa grande trasformazione mescola elementi positivi (il lavoro viene «svegliato») assieme a conseguenze negative come una riduzione delle aree di professionalità vera. Dobbiamo comunque predisporci a considerare il lavoro come qualcosa che muta con una velocità incredibile e di conseguenza chi si pone il compito di tutelarlo deve tenersi costantemente aggiornato. Oggi non avviene. Senza voler indossare i panni della Cassandra va ricordato poi che mentre noi discutiamo di posto fisso gli interrogativi che si pone il resto del mondo in realtà sono diversi e si possono sintetizzare nell’angosciosa domanda: quanti sono i posti che riusciremo a sottrarre all’avanzata delle tecnologie «Labour saving?».

I giovani, dal canto loro, già vivono una realtà del tutto diversa. Due anni fa Rassegna sindacale raccontò il caso-limite di Claudia Vori, una ragazza che dal 1999 al 2012 aveva cambiato 18 lavori: commessa, impiegata al ministero della Giustizia, gelataia, cameriera, receptionist e altro ancora. Il blog Nuvola del lavoro riporta quasi ogni giorno storie di giovani che cambiano in corsa il percorso prestabilito abbattendo le barriere che una volta separavano il lavoro del laureato da quello del commerciante, il ricercatore dall’artigiano. Con il tempo forse matureranno anche nuovi parametri di misurazione del lavoro, ragioneremo in termini di valore aggiunto creato e impareremo a incrementarlo di continuo per salvaguardare la nostra posizione.

È chiaro che chi ha responsabilità politica e sente la necessità di demitizzare il posto fisso deve anche caricarsi l’onere di gestire la transizione, deve fare in modo che la flessibilità incontri politiche pubbliche che la facilitino assicurando quantomeno strumenti di sicurezza sociale, politiche fiscali favorevoli, possibilità di formarsi continuamente.

A dimostrazione di come però i cambiamenti non siano del tutto preventivabili si possono annotare un paio di novità. La tendenza delle aziende più solide a fidelizzare quella parte di lavoratori di cui hanno assolutamente bisogno e temono di non trovare facilmente sul mercato. La diffusione straordinaria degli accordi di welfare aziendale si spiega anche così. Bologna è diventata un po’ l’epicentro di questo movimento ma gli esempi non mancano anche altrove. La seconda novità riguarda il crescente peso dei social network per entrare nel mondo del lavoro e gestire la propria mobilità successiva. Possiamo chiamarlo, esagerando un po’, «personal branding», sicuramente per le figure professionali di alcuni settori legati alla comunicazione e al marketing il veicolo di questa strategia è la presenza su LinkedIn.

27 ottobre 2014 | 10:17
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« Risposta #164 inserito:: Ottobre 30, 2014, 12:26:46 pm »

Gli scontri alla manifestazione degli operari dell’Ast terni
Il passato che non deve tornare


Di Dario Di Vico

Dell’uso dei manganelli d’un tempo avremmo fatto volentieri a meno. La vertenza degli operai dell’Ast per evitare il drastico ridimensionamento dello stabilimento di Terni si presenta ancor più complessa di altre perché oltre agli orientamenti liquidatori dei proprietari tedeschi - nei confronti di un impianto considerato eccellente per gli standard del settore - si paga il prezzo di regole europee non più al passo con i tempi. In uno scenario di business ormai contrassegnato dall’ascesa delle potenze siderurgiche asiatiche, l’Antitrust di Bruxelles ha impedito la vendita dello stabilimento ai finlandesi dell’Outokumpu per evitare che assumessero una posizione dominante e così la fabbrica umbra è tornata a far parte del gruppo Thyssen che la considera residuale.

Mentre dunque c’è da affrontare questa crisi, e forse da aprire una contestazione con la Commissione Ue appena insediatasi, ieri la tensione tra manifestanti e forze dell’ordine ha occupato quasi totalmente la scena e abbiamo passato la giornata non più a discutere di politica industriale bensì di attribuzione di colpe al ministro competente, al questore o al singolo poliziotto. I metalmeccanici di Genova, appena informati dell’accaduto, hanno addirittura indetto uno sciopero per domani. H a senso tutto ciò o forse è necessario un bagno di realtà? È utile infilare la vertenza Ast nel tritacarne delle polemiche tra Palazzo Chigi e i sindacati? In un caso altrettanto spinoso, come quello della svedese Electrolux che inizialmente voleva lasciare l’Italia, governo e organizzazioni sindacali di categoria hanno lavorato nella stessa direzione e un risultato comunque lo si è ottenuto.

È chiaro che, pur evitando di confondere ordine pubblico e politica industriale, non si può dimenticare come l’iniziativa del premier Matteo Renzi stia scardinando vecchi equilibri e che questa pressione stia generando una contrapposizione ruvida. Al punto che sono stati evocati come suoi mandanti morali e materiali, in successione, Margaret Thatcher e Sergio Marchionne. In omaggio al principio à la guerre comme à la guerre nella battaglia mediatica non si va tanto per il sottile ma è lecito chiedersi a cosa serva tutto ciò e quale sia il legame tra comunicazione e soluzione dei problemi reali. Prendiamo lo sciopero generale che verrà indetto tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre e che, forse, solo un’incauta anticipazione di Nichi Vendola ha contribuito a ritardare.

La parola d’ordine su cui la Cgil punterà tutte le sue carte per far riuscire l’astensione dal lavoro è la richiesta dell’adozione di una tassa patrimoniale. Non è certo la prima volta che se ne parla negli ultimi anni e non è un caso che alla fine non sia stata mai adottata. Il motivo è semplice: con altissima probabilità la nuova imposta non finirebbe per colpire le grandi ricchezze bensì una parte consistente del ceto medio, già ampiamente tosato dalle imposizioni sulla forma di patrimonio più diffusa (la proprietà della casa). E allora ha senso proporre uno sciopero generale, per di più della sola Cgil, con l’obiettivo di far salire ancora la pressione fiscale? Si pensa davvero che si possa uscire dall’impasse riproponendo la vecchia e fallimentare ricetta del «tassa e spendi»? È questa la vera discussione da fare, il resto è solo vento per le bandiere.

30 ottobre 2014 | 07:32
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