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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 80280 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Febbraio 17, 2008, 09:19:11 pm »

I nipotini del Cavaliere

Furio Colombo


Sì, è vero, finiamola con l’antiberlusconismo e usiamo toni pacati come è accaduto l’altra sera a Porta a Porta, nell’incontro del “leader necessario” (come Berlusconi ha definito se stesso) fronteggiato da quattro direttori di giornali.

C’è un problema. Le voci basse, i toni cauti che hanno impedito a Berlusconi di accusare come avrebbe voluto, e che lo hanno fatto apparire un po’ impiegatizio nello studio di Vespa, hanno permesso agli spettatori di rendersi conto che i direttori dei giornali non parlavano. È bastato un cronometro per verificare il rapporto fra il 10-12 per cento del tempo dedicato a brevi domande, e il quasi 90 per cento del tempo in cui hanno potuto espandersi le risposte.

Ci sarebbero delle osservazioni che valgono per il giornalismo di tutte le democrazie del mondo in tempo di elezioni e che, nella saga di Porta a Porta, non sono mai state osservate o, forse, conosciute. Una è che le stesse persone devono confrontarsi con i leader diversi. Se cambio il team degli interroganti che si confronteranno con i due leader dei maggiori partiti mancherà agli spettatori-elettori la prova di imparzialità e di equivalenza nella difficoltà della prova. Ma, fra i più malevoli, circolerà anche il sospetto che l’uno o l’altro sia stato favorito da persone più vicine o più amiche o che essi stessi hanno indicato. Tutto ciò serve solo per dire che le interviste politiche sono utili per far luce, non per conversare. Ed è questo il punto che vorrei sollevare. E non importa se non c’è - e non c’è stata in questo caso - ingiustizia nei confronti del secondo candidato (come si ricorderà la prima sera è toccata a Berlusconi, la seconda a Veltroni).

Importa il rischio di ingiustizia nei confronti degli spettatori-elettori rispetto ai quali c’è il problema di amputare parti di realtà, di fatti avvenuti, di cose che dovrebbero essere precisate o ricordate, di omissioni, che sono il peggior peccato della politica.


***

Ma per tentare di dimostrare ciò che vorrei dimostrare - e cioè che stiamo fuori dal giornalismo occidentale - vorrei brevemente seguire e ricostruire gli eventi della sera Vespa-Berlusconi.

Prendete l’inizio. Il conduttore è frizzante e ha ragione. Ancora una volta ha dimostrato che lui, e solo lui, controlla i cancelli del cielo. Vuoi esistere? Qui devi essere. Non è poco, non accade altrove. Ma come dice l’imperatore nella Turandot, «La legge è questa!».

Dunque all’inizio Vespa, garrulo, propone: «Parliamo di Casini e della Udc» E viene subito interrotto dal leader del Popolo della Libertà con un pacato: «No, parlo io».

Questo è un diritto che non spetta all’intervistato, a meno che non sia Putin, Ahamadinejad o (forse) un primo segretario del Partito comunista cinese. Però parla lui ed esordisce con la frase: «Tutto quello che volevo fare l’ho fatto. E l’ho fatto bene».

Ed elenca indisturbato eventi che narrano di una serie di trionfi grandiosi. Afferma che sono otto milioni (otto milioni) gli italiani che hanno affollato i suoi gazebo, che l’Università di Siena (non ci viene detto il Dipartimento) ha certificato la realizzazione dell’85 per cento del suo “patto con gli italiani”. Arriva ad affermare, con un po’ di imprudenza che «con Mastella era tutto preparato, la caduta di Prodi non è stato un caso, non è stata una sorpresa». Fior di notizia. Ma sul fondo campeggia, grande e luminosa la scritta «Basta giochetti». Manca la spiegazione: giochetti di chi? contro chi?

Entra, funereo, lo slogan della campagna berlusconiana. «Alzati Italia» perché, spiega l’autore, la sinistra l’ha messa in ginocchio. Ma l’affinità di linguaggio che il pubblico coglie è piuttosto con la serata Vespa dedicata a Lourdes in un’altra puntata.

Qui c’è una spiegazione interessante. Le nostre disgrazie sono dovute al fatto che noi italiani siamo soggetti (cito) «ad una oppressione fiscale, burocratica, giudiziaria». Qualcuno ha chiesto notizie di queste tre oppressioni? Purtroppo no.

Sulla terza oppressione sappiamo tutto, dal punto di vista di Berlusconi. Sulle altre, forse, avrebbe dovuto spiegare il protagonista, incalzato dalle domande. Ma - come ho detto - non è accaduto. Non ci sono state domande.

I direttori di quotidiani incaricati di investigare per noi spettatori la mente, i progetti, i propositi, le intenzioni psicologiche, i programmi politici del centrodestra (ma non c’è più il centro) sono Ferruccio De Bortoli (Il sole 24 ore) Pierluigi Battista (Il Corriere della Sera), Mario Orfeo (Il Mattino di Napoli) e Piero Sansonetti (Liberazione).

Ascoltano. «Dobbiamo tagliare l’Ici. Per tagliare l’Ici occorre tagliare la spesa pubblica. E riaprire tutti e 106 i cantieri delle grandi opere, a cominciare dal Ponte di Messina». È possibile fare tutto questo e in questa sequenza? Non ci sono domande. Orfei vorrebbe ritornare a Casini. Risposta: «Abbiamo avuto due milioni in piazza, otto ai gazebo,e tutti hanno votato il mio nome. Non lo vede Casini che sono io il leader?».

Tocca a Sansonetti. Il direttore di Liberazione stabilisce subito ce non c’è differenza fra Polo della Libertà e Partito democratico «Sia lei che il Pd non vedete il problema dei salari» afferma, certo senza imbarazzo per Berlusconi. Il leader del Popolo delle libertà viene incoraggiato a non sentirsi solo.

Questa è una domanda corredata da scheda, ovvero film su come è duro sbarcare il lunario per tanta gente in questa Italia di Prodi. E nessuno precisa (o chiede) se era meglio o peggio l’Italia dei cinque anni di Berlusconi. E nessuno si domanda: ma se c’è un filmato sulla domanda di un giornalista, vuol dire che quella domanda era concordata. Dunque lo sapeva anche il candidato sottoposto alla griglia della intervista come in certi esami di notai, che però, quando qualcuno se ne accorge, vengono annullati.

Infatti Berlusconi, prontissimo, può annunciare che Prodi ha tolto 40 miliardi dalle tasche degli italiani. Tutto ciò senza obiezione di quattro giornalisti di punta. 40 miliardi. Come? In che modo? Quando?

Ma Berlusconi ha anche da annunciare un vasto piano di case popolari di cui «ho già studiato la cubatura» (testuale).

Dice di se stesso: «I miei nipotini mi considerano Superman». Il silenzio benevolo lo incoraggia a pensare che i suoi nipotini non sono soli.

Poi afferma che la caduta della nostra immagine del mondo ha abbattuto le nostre esportazioni. L’Istat ha appena fatto sapere che, mentre era ministro Emma Bonino, le esportazioni (che erano in negativo ai bei tempi) sono salite del 12 per cento, con positiva bilancia commerciale. Ma chi siamo noi per farlo notare a Berlusconi? È qui che Ferruccio De Bortoli parla della indecente scena che si è vista in Senato (e nelle televisioni del mondo) a celebrazione della caduta di Prodi. Mortadella e champagne.

Gli altri direttori non raccolgono. Si sente sussurrare dal Capo del Popolo della Libertà che non saranno rieletti i “colpevoli”. Chi era in Senato ricorda una scenata indecente da parte di tutta l’opposizione. Ricorda molti altri protagonisti, oltre all’ormai celebre senatore Strano (il primo a inondare di champagne i commessi, ma non il solo). E l’altra star del “Saloon Senato”, il senatore Barbato, noto per lo sputo e il gesto della pistola. Sarebbe stato bello chiedere a chi ha potere di vita e di morte su tutto il Popolo della Libertà: «Chi esattamente non rieleggerete a causa di quel terribile evento?». Non è stato chiesto. E mi sento di dire che non accadrà perché ogni presunto colpevole potrebbe indicarne un altro con tanto di immagini.

Ma nella serata di Vespa è già partito un filmato sull’immondizia di Napoli, generata dal solo Bassolino negli ultimi sette anni, con musica tipo «Germania anno zero».

Battista interviene con una idea che potrebbe cambiare la storia italiana: «Presidente, perché non fa lei, magari ad interim, il ministro delle opere pubbliche e dei rifiuti?». Finalmente, fa intendere Battista, sarà risolto il problema.

Quel problema, come ogni altro problema. Perché Berlusconi i problemi li risolve tutti. Cadono qui due affermazioni incontrastate. Berlusconi promette che riaprirà tutti i cantieri, realizzerà l’alta velocità in Piemonte anche con la forza, costruirà, eccome se costruirà, il ponte di Messina.

Dice che l’85 per cento del suo programma è stato realizzato. E poiché quel programma era - pensa Berlusconi - perfetto, l’Italia dovrebbe essere oggi l’85 per cento del Paradiso. Possibile che Prodi-Attila abbia distrutto tutto in così poco tempo?

Sansonetti resta sull’argomento Tav. Elenca subito le colpe del Partito democratico e reclama attenzione per la sinistra che lui rappresenta. La domanda è legittima, ma il nemico è molto più il Pd che il Popolo della Libertà. E a questo punto, dopo la pubblicità, Vespa confida agli spettatori: «Sapete? Durante l’interruzione i direttori mi hanno detto: “Ma hai visto come è moderato Berlusconi? Avremo una campagna davvero soft”».

Questa non è che una piccola parte di cronaca di una trasmissione di quasi tre ore. Resta indispensabile citare solo una affermazione di Berlusconi caduta nel silenzio ma che dovrebbe essere destinata a fare il giro del mondo. Trascrivo: «Stiamo pensando con Don Verzè a una nuova struttura che è già in costruzione a Verona per portare la durata della vita umana a 120 anni». Invece di fermare la trasmissione per riflettere insieme col pubblico su un simile annuncio e saperne di più, Vespa ha fatto una domanda sulla signora Rosa, la madre di Berlusconi, appena scomparsa. Berlusconi ha risposto con comprensibile commozione. E l’argomento della vita quasi eterna è rimasta in sospeso.


***

Perché ho ricostruito questa serata elettorale, segnata da alcune anomalie, ma non le peggiori nella storia di Porta a Porta o del personaggio politico Berlusconi, nella sua quinta incarnazione da candidato? Perché lo spettacolo quotidiano delle primarie presidenziali americane ci contagia con una rovente nostalgia di un mondo normale, in cui i politici fanno i politici e i giornalisti fanno i giornalisti. Non mi sento di dare torto a Berlusconi per lo spazio libero che gli è stato donato. Lui è un uomo fortunato. Ma mi sembra indispensabile, per l’equilibrio della campagna elettorale che verrà, elencare, con la maggior cautela possibile, alcune domande a Berlusconi che non sono state fatte dai quattro direttori.

Quelle che seguono sono solo una piccola parte.

1 - Lei ha definito la Lega l’alleato più fedele. Ma Bossi aveva invocato la rivoluzione e parlato di armi «che si possono sempre trovare». Ha cambiato parere? Ha ritrattato? Quando?

2 - Dopo gli impegni presi su integrità e trasparenza delle liste, candiderà il senatore dell’Utri la cui condanna è passata in giudicato? E gli altri condannati e pregiudicati?

3 - Come pensa di finanziare 106 cantieri e costruire il Ponte di Messina e allo stesso tempo togliere l’Ici e tagliare le tasse, mentre crollano le Borse del mondo e vacillano grandi banche?

4 - Lei ha appena detto: «La lotta all’evasione fa paura. Calano i consumi , si ferma la produzione». Vuol dire fine della lotta all’evasione e ritorno alla politica dei condoni?

5 - Ha detto che, durante il periodo Prodi, la criminalità è aumentata. Quando? Come mai le indicazioni dell’Istat dicono che, invece, è alquanto diminuita?

6 - Lei dice che l’Italia è in ginocchio. Dice il contrario di ciò che affermano le fonti europee e internazionali, che mostrano di apprezzare la risalita dell’Italia. Può dare alcune ragioni tecniche e statistiche per la sua affermazione?

7 - Può indicarci dove, in quali eventi, opere o leggi, si è realizzato l’85 per cento del suo programma? Possibile che Prodi abbia distrutto tutto in così poco tempo, fino ad andare, in venti mesi, dal trionfo alla caduta in ginocchio?

8 - Parlando di calo della disoccupazione per merito suo, lei ha citato gli anni 2006 e 2007. Ma in quel periodo l’Italia veniva devastata da Prodi, come lei dice. Può spiegare la contraddizione?

9 - Come pensa di agire con i cittadini che continuano a non volere la Tav? Userà la forza?

10 - Perché abbiamo dovuto correre alle elezioni, rinunciando a cambiare una legge elettorale sbagliata? Qual è la ragione o le ragioni della concitazione e accelerazione cui è stata costretta l’Italia?

11 - Può condividere con noi il progetto geniale suo e di Don Verzè che consentirà il prolungamento della vita umana a 120 anni, o resterà un segreto riservato al Capo del Popolo della Libertà, che lei ha definito, modestamente, indispensabile e insostituibile?

12 - Infine, se fortunatamente vivrà così a lungo, è possibile che prima di quella remotissima data sia permessa l’approvazione di una vera legge sul conflitto di interessi?


Pubblicato il: 17.02.08
Modificato il: 17.02.08 alle ore 15.09   
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« Risposta #61 inserito:: Febbraio 20, 2008, 06:16:59 pm »

Radicali subito

Furio Colombo


Credo che molti, anche fra i lettori di questo giornale, si stiano domandando con un po’ di impazienza e un po’ di fastidio, perché non si è ancora arrivati alla conclusione: il Pd con i Radicali per affrontare una campagna elettorale difficile e insidiosa a causa del terreno scivoloso, di sceneggiate pseudoreligiose, del rischio di un clamoroso squilibrio mediatico, del vento furioso (vedi Fiorello) dell’antipolitica. E persino di passione politica vera che cede all’esasperazione e rischia lo sbando. Ho detto «impazienza» e «fastidio» e spiego. L’impazienza è dovuta al ripetersi di un rinvio che, da fuori e da lontano, non si capisce. È tipico di una cosa nuova in cui i cittadini vedono una seria possibilità di rovesciare la situazione e cambiare l’aria di un’Italia invivibile, di agire presto e bene.

Ci sono certo molte spiegazioni. Ma l’impazienza è inevitabile, perché, letteralmente, non c’è tempo da perdere.
Ho detto «fastidio» per evocare un sentimento che credo ambivalente, tra molti ex Ds e tra molti ex Margherita che ora sono vita e struttura del Pd.
Immagino (penso per esperienza) che molti di loro stimino e approvino la presenza dei Radicali, in un momento di svolta politica davvero radicale come questa, e chiedono che si decida in fretta. Ma so anche (per esperienza) che il fastidio di altri non è il tempo della trattativa che si dilata, ma tutto questo discutere e il desiderio che si chiuda presto, anche subito, con l’esclusione di una presenza che porta troppa tensione, disturba l’idea di una presunta compattezza sui temi «sensibili».
I lettori sanno come concluderò questa nota. La concluderò dicendo di credere fermamente che i Radicali dovrebbero partecipare, con i Pd, a questa impresa arrischiata e promettente di portare l’Italia fuori da una prima claustrofobico e dentro un presente-futuro europeo, occidentale, libero, privo di fobie e di ripetizioni di errori. Ma cerco di motivare.

Primo, in politica non c’è miglior criterio del già fatto. Il già fatto, con la presenza dei Radicali, dentro e accanto al governo di Prodi, sono state due prove diverse e importanti: il lavoro (e il modo di lavorare) di Emma Bonino. E la «Moratoria sulla pena di morte del mondo» approvata dall’Onu. Chiedo anche a coloro che non hanno simpatia per Pannella o credono che Radicali voglia dire «destra», di considerare lo spazio davvero notevole di una presenza segnata da questi due punti: il buon lavoro, leale, concreto (tra l’altro con risultati da record, più dodici per cento nelle esportazioni italiane) e il punto alto, nobile, disinteressato segnato per l’Italia con la «moratoria». È stato un risultato talmente alto da ispirare accaniti imitatori, che vorrebbero rifare la prova a rovescio, ma sognano una equivalente mobilitazione morale. Il Pd ha la possibilità di avere in casa l’originale, mentre fuori infuriano le imitazioni. Non me ne priverei.

Secondo. Possiamo discutere fino a domani sul «più a destra» o «più a sinistra» dei Radicali. Però, da un lato è impossibile dimenticare i due o tre drammatici eventi che, grazie alla loro ostinazione, hanno cambiato la vita italiana e l’hanno resa europea prima che ci fosse il legame dell’Unione (il divorzio come dignità delle coppie e la libera scelta come dignità delle donne).
Dall’altro come non attribuire, in un partito nuovo e moderno, capitale importanza ai diritti civili, che sono esattamente il punto di forza della spesso invocata battaglia americana di Barak Obama?

Terzo, la questione spesso malposta e maldiscussa, della laicità. È malposta quando sono gli altri che pretendono di decidere se la tua laicità è “sana”. È maldiscussa quando le persone credenti che credono di opporsi al «laicismo» in realtà si oppongono alla integrità e intangibilità dei diritti civili.

I Radicali, dovunque vadano, portano in dote la laicità come fatto già discusso e deciso dalla Costituzione e dai fondamenti della democrazia. Un bene dunque non negoziabile non per superiore grado di moralità, ma perché su quei diritti si fonda l’edificio nel quale è garantita, come bene comune a tutti, la libertà di religione. È una visione nella quale i contenitori che tradizionalmente ci vengono indicati (la fede che contiene la vita civile e la regola) sono rovesciati: la vita civile - quando è sistema democratico - include, sostiene e protegge tutti i diritti, a cominciare dal diritto dei credenti. Direte che non di questo si sta discutendo per ore ogni giorno fra Pd e Radicali. Direte che sia sta discutendo di liste, di simboli, di modi di partecipare, di visibilità, di collocazione dei nomi che identificano e contano. Tutto vero. Ma il punto cruciale non è la modalità della trattativa ma il valore di cui si discute.

Poiché sono convinto che questa campagna elettorale vada condotta nel modo più alto e chiaro e pulito, a cominciare dai simboli (e questa sarà la prima vittoria, anche se quella delle urne ci terrà col fiato sospeso fino all’ultimo giorno) sono certo che si dovrà partecipare insieme a questo importante episodio di vita italiana ed europea. Invece di ricordare la bella e famosa frase di Charlie Brown («ho bisogno di tutti gli amici che posso trovare») dirò l’altra: certe presenze segnano e garantiscono. Persino i militanti della antipolitica vedono subito quando una alleanza e uno stare insieme non è di convenienza ma di valore. E ha a che fare con la reputazione (che per qualcuno vale ancora) degli uni e degli altri.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 20.02.08
Modificato il: 20.02.08 alle ore 10.01   
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« Risposta #62 inserito:: Febbraio 24, 2008, 11:26:49 pm »

Lavoro, maledetto lavoro

Furio Colombo


È stata la cacciata dall’Eden o la globalizzazione a svilire il lavoro e a far diventare merce la vita di tanti?
Cerco di riflettere intorno a un fenomeno che sta diventando il grande dibattito nella campagna elettorale americana e in quella italiana. Il lavoro è una disgrazia, un dovere o una sgradevole, temporanea necessità?

Certo niente è più strano del lavoro nella vita umana: lo cerchiamo e desideriamo come una salvezza appena adulti, lo sopportiamo come un pesante bagaglio per decenni, se lo troviamo, e lo lasciamo malvolentieri, nonostante le false dispute sulla presunta voglia di molti di andare in pensione troppo presto e che invece è solo paura di non trovare più la pensione, cioè un residuo decente e dignitoso della paga.
Se esistesse una storia del lavoro, ci accorgeremmo subito che si alternano nei secoli periodi di troppo lavoro - dalla schiavitù delle filande ottocentesche in cui si lavorava anche la domenica. In quei periodi l’infelicità veniva dalla fatica. E periodi senza lavoro, tra carestie, fame, pestilenze e guerre. E allora l’infelicità è provocata dalla penuria.

Mi ricordo di una notte indiana - erano gli anni Sessanta - in cui sono uscito dall’Hotel Taj Mahal di Bombay (credo che oggi dicano Mumbai) e mi sono accorto che la passeggiata notturna che mi ero proposto non sarebbe stata possibile.
Tutte le strade, tutti i marciapiedi, larghi percorsi e vicoli oscuri, erano occupati da corpi che dormivano. Era come una città scoperchiata, come vedere dentro migliaia di case, ma attraverso una vertiginosa diversità di classi. C’era chi dormiva sulla strada con lenzuola e cuscini, chi con una coperta, chi solo con uno straccio, chi con niente. Niente vuol dire nudo sull’asfalto, dunque una immagine estrema e finale della vita senza il lavoro, da cui si risaliva a un di più guadagnato con più mani, più ore, più abilità, più fatica, fino a una curiosa soglia del benessere che l’India, allora, ti rivelava: arrivavi ad avere molto con il lavoro, anche le belle pentole di rame ben lucidate, disposte intorno alla sposa che dorme. Molto ma non la casa.

Ci ho pensato quando ho cominciato a leggere sui giornali americani, e a vedere nelle immagini della Cnn, di Sky, di Fox Television le famiglie americane che, a causa della crisi dei mutui non più rimborsabili (la crisi che sta facendo zigzagare le Borse del mondo e sta facendo tremare immense banche) hanno perso la casa, che è stata ripresa dal creditore quasi all’istante. Anche in quelle immagini c’erano pentole e suppellettili, oggetti della comune intimità domestica, coperte piegate con cura e camicie pulite. E volti di uomini e donne che non avevano perso il lavoro ma avevano perso la casa e chiedevano con stupore alle telecamere: «E adesso dove vado?». Chi avesse avuto la pazienza di restare fino alla fine di quel notiziario (o di sfogliare fino alla parte “economia” le pagine del giornale) avrebbe notato una strana relazione tra quelle immagini e titoli secchi e chiari come questi: «GM: 30 mila licenziamenti». «Citybank: dopo la crisi dei mutui ne hanno lasciati andare 20mila».

Gli eventi dell’economia sono strani, imprevedibili, così sorprendenti da disorientare navigati investitori ed esperti banchieri. Ma, al momento del rendiconto, la punizione colpisce il lavoro in una delle due certezze su cui ha ipotecato la vita: la casa e il lavoro. Ricordate lo slogan di tante manifestazioni, prima del ‘68? Già, perché il ‘68 ha spinto in scena l’immaginazione. Ma per l'immaginazione occorreva avere lavoro e casa, sia pure di altri, e tante vite giovani che hanno invaso piazzole di sosta per fare festa, decise a non risalire sul pullman che porta al lavoro. Oppure alla più strana e allegra forma di ribellione: non voler sapere dove ti porta quel pullman. Di tutto abbiamo discusso in quegli anni, di pace, di guerra, di musica, di poesia, di teatro e se fosse concepibile la violenza (che poi è esplosa senza che potessimo dire perché, contro chi, manovrata da chi) ma non abbiamo parlato molto di lavoro. O perché chi aveva il microfono aperto faceva lavori che gli piacevano. O perché tanti avevano fatto un sogno: il lavoro scompare. Il lavoro è il passato. Tutti noi esseri umani meritiamo una vita migliore.

Ecco ciò che non si è verificato. La cultura si è distratta e il lavoro si è fatto più squallido, più duro, più instabile, più raro. Una vera e propria svolta, sia pure simbolica, l’ha segnata a nome di molti, nel mondo, Ronald Reagan.
Quando è stato eletto Presidente era in corso uno sciopero dei controllori di volo americani. Invece di trattare, il nuovo presidente li ha licenziati tutti, stabilendo due punti importanti della nuova epoca. Il primo è che su tutto decide il mercato. Il secondo è che il mercato può benissimo essere ingiusto perché la regola è sempre la stessa: vince il più forte. Ma il vero gesto di resa che viene richiesto è affermare, anche dal fondo di un altoforno, che il mercato sa, il mercato vede, il mercato regola. In poche ore nuovi controllori di volo sono stati assunti, e quelli sindacalizzati non hanno mai più lavorato. Salari più bassi e niente cure mediche. I lavoratori sono stati invitati a competere non tra chi fa meglio ma tra chi costa meno.

* * *

Ecco perché è stato importante vedere in questi giorni tre film che stanno segnando la vita italiana: La signorina Effe di Wilma Labate, In Fabbrica di Cristina Comencini, Morire di lavoro di Daniele Segre. Hanno una domanda in comune, una domanda a cui non stiamo rispondendo, anzi che non riusciamo neppure a formulare: in quale civiltà viviamo? Qual è la nostra epoca? Quale destino stiamo subendo o disegnando o aspettando per i più giovani?

Mi sbaglierò ma sono convinto che in questi stessi giorni qualcuno sta pensando a film come questi per il periodo della vita che viene subito prima del lavoro. Gli insegnanti lo dicono e lo ripetono: ragazzi e ragazze non ti parlano più, con la tenacia proterva di alcune generazioni fa, del lavoro a cui pensano, quello che vorrebbero fare “da grandi”. I grandi, in quanto più vecchi, non interessano. I grandi che interessano sono ricchi e famosi: hanno i soldi, donne e tempo libero. E - cosa nuova nella Storia - dedicano il tempo libero al tempo libero. Insomma la vita o è una festa o è niente. E forse per questo i film sui ragazzi (da Muccino a Moccia) sono meno inventati e più veri di quel che sembra. Solo che non hanno né un prima né un dopo. E raccontano vite sospese fra soldi e lavoro di altri, in cui niente è stato deciso prima e niente è stato deciso per quella cosa strana chiamata futuro, che non ha più il suono d’avventura e di promessa di un tempo.

Ti fanno desiderare solo il presente, l’unico istante in cui consumo e vita giovane coincidono.
La signorina Effe sfiora un progetto mite e benevolo di felicità: l’istante in cui si congiungono la certezza del lavoro, il riscatto dello studio e la forza di un amore. Ma, come da un sogno, qualcuno ti sveglia per farti notare che la felicità non coincide con il lavoro, che l’amore non fa parte né della storia sociale né di quella sindacale, che la laurea è uno scatto di categoria non un lampo che illumina e cambia la vita.

In Fabbrica è una serie di materiali veri montati come un ansioso cercar di capire di qualcuno arrivato adesso nel mondo. Chi è questa gente che va a un lavoro come a un destino, senza gioia e senza tristezza, per un numero di ore - ogni giorno - quasi uguali alle ore del sole? Ricordate la cattiveria degli studenti agitatori ne La classe operaia va in paradiso di Petri quando gridano agli operai del turno «andate, andate in quella caverna. Tanto quando uscirete sarà già buio!». E sembrano non rendersi conto che senza quegli operai non esistono gli studenti, che senza gli operai quella fabbrica non può esserci, e senza la fabbrica non c’è la città, con tutte le sue attività e i suoi negozi.

Se non ci fosse, la vita cambierebbe per sempre o perché altri operai costruirebbero altre cose, in turni di otto ore per volta più il viaggio di andare e venire, più un’ora per mangiare, più sei ore per dormire ed essere in piedi presto per lavorare di nuovo. O perché la città diventerebbe Calcutta.
Anzi no, perché Calcutta ha cominciato a produrre con fabbriche, in turni di otto ore più il viaggio di andata e ritorno, più l’ora per mangiare, più le ore per dormire. Ma se il lavoro conta così tanto da cambiare una città, una vita - e dunque un’epoca - perché contano così poco gli operai?

Perché il posto di lavoro è l’ultima cosa che aggiungi e la prima che tagli nel respiro forte e affannoso delle civiltà industriali?
E perché il lavoro ha sempre avuto meno dignità, meno inchini, meno ringraziamenti, meno cerimonie, meno bandiere, meno altari della patria, dei soldati, dei religiosi, degli statisti, degli uomini di finanza? Eppure - se il lavoro si ferma - si fermano tutti e cade persino il vento che agita le bandiere.
Una risposta è nel film - così doloroso che a momenti è insopportabile - di Daniele Segre Morire di lavoro.

C’è un punto - ha scoperto Segre - in cui vita e lavoro si congiungono, in cui il lavoro acquista tutta la sua dignità di destino, tanto che assisti al susseguirsi dei volti narranti come alla cupa parata di un esercito. È l’istante in cui qualcuno muore sul lavoro, muore di lavoro, e qualcuno - che lo ha lasciato al mattino e lo aspettava di sera (di solito donne) - racconta di quella amputazione improvvisa. È come nei casi di cecità annunciati da lampi di luce che tormentano gli occhi. Anche qui, sul “buio del lavoro” (questa frase è stata usata con me da Adriano Olivetti quando mi ha chiesto di lavorare in fabbrica come modo di entrare nell’azienda) scatta un lampo in cui intravedi, abbagliato, tutta la vita di un essere umano, non tanto ciò che è stato ma il senso di ciò che non sarà mai.

Certo, per molti di noi tutto è cambiato quando sono morti, in una immensa vampata di fuoco, i sei della Thyssen Krupp di Torino mentre stavano tentando di consumare le loro prescritte ore in più di straordinario (che - adesso molti esperti dicono - sono il segno del merito, quel merito che fa mercato).
Tutto è cambiato perché quella vampata di fuoco è come se l’avessimo vista. Come se l’oscuro rituale di morire in fabbrica, ciascuno per sé, ciascuno una disgrazia, e i compagni di lavoro più vicini, soli destinatari di quel messaggio perduto, fosse adesso un evento pubblico. Come se quelle morti fossero una specie di rito, come la messa solenne o l’altare della patria.
Che cosa celebra quel terribile rito che quasi nessun italiano ha potuto far finta di non vedere? Certo spinge avanti la domanda: siamo sicuri che il lavoro conti così poco al punto da offrirlo per ultima cosa, da tagliarlo per prima cosa e da rimproverare sempre per il costo eccessivo?

Tre film inaspettati e una vampata di fuoco ci chiedono il tentativo di una risposta più chiara. Che civiltà è quella in cui si muore di lavoro più che in guerra eppure il lavoro non conta nulla, poco più di un fastidio, di un ronzare noioso nelle stagioni in cui scadono i contratti?
Poiché questo è un periodo elettorale prendiamo un impegno: noi parliamo di lavoro. Di chi lavora. Di come lavora. Di come vive e di come muore. Il lavoro è un peso morto solo quando lascia cadaveri in fabbrica e famiglie sole di cui ci si dimentica nel giro di due settimane. Certo, il mercato è mercato. Ma la civiltà è un orizzonte più grande. Ed è lì che guardiamo.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 24.02.08
Modificato il: 24.02.08 alle ore 12.41   
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« Risposta #63 inserito:: Marzo 02, 2008, 11:14:47 pm »

Fascisti tra noi

Furio Colombo


Nessuno, credo, ha dimenticato il bellissimo "Fascisti su Marte", lo spettacolo Tv e il film di Corrado Guzzanti. Si rideva del ridicolo, che imitava riti veri e gesti veri di veri e ridicoli e sanguinari fascisti italiani, nei vent´anni del loro governo marcato dalla vergogna assassina delle leggi razziali. Si rideva come se il ridicolo fosse l´esagerazione un po´ spiritosa e cattiva di una vecchia realtà. Chi c´era, a quel tempo, chi ha visto, chi può ancora narrare quei giorni, può dire che sono stati peggiori di tutto ciò che abbiamo letto o ascoltato, sia nella parte ridicola (di cui, in tempo reale, era pericolo mortale ridere) sia nel volto tragico che prometteva sangue e ha sempre mantenuto quella promessa.

Se vi sembra che questo linguaggio sia un po´ pesante, in un´Italia dove tutti vogliono parlare con un tono più neutrale, tenete conto dei fascisti. Tenete conto del fatto che, in queste elezioni sono "in corsa" anche i fascisti. Strani primati, infatti, distinguono l´Italia dagli altri Paesi dell´Unione.

Siamo stati gli unici in Europa ad avere personaggi come Borghezio, Lega Nord, molto attivi nel dare fuoco ai giacigli di immigrati poveri sotto i ponti della Dora a Torino (condanna per un reato spregevole, passata in giudicato, ma che non ha impedito a Borghezio di essere, come è tutt´ora, deputato a Strasburgo della Repubblica italiana, molto attivo, tra la costernazione di tutti i suoi colleghi psichicamente e politicamente normali, nell´ aggredire e insultare il capo dello Stato italiano quando si reca al Parlamento europeo).

Adesso siamo i soli ad avere il fascismo che torna. Si chiama fascismo, reclama la sua eredità di cadaveri.

Non ho letto un solo editoriale dei "liberali" che animano la grande stampa italiana e sono sempre angosciati dalle sorti di tutta la sinistra in generale, e dalle sorti del nuovo Partito democratico in particolare, ma non hanno speso una parola o una riga di perplessità sul tranquillo ritorno del fascismo in Italia.

Adesso siamo i soli ad avere il fascismo che torna. Si chiama fascismo, reclama la sua eredità di cadaveri.

Non ho letto un solo editoriale dei "liberali" che animano la grande stampa italiana e sono sempre angosciati dalle sorti di tutta la sinistra in generale, e dalle sorti del nuovo Partito democratico in particolare, ma non hanno speso una parola o una riga di perplessità sul tranquillo ritorno del fascismo in Italia.

Molti commentatori e corsivisti trovano divertente che vi siano signore della buona società che si dichiarano «orgogliose di essere fasciste» e si iscrivono al primo e al secondo posto della lista elettorale fascista. Le intervistano come a una sfilata di moda e registrano senza obiezioni risposte deliranti e certamente estranee alla Costituzione in vigore che, in qualunque altro Paese, sarebbe un argine invalicabile.

Ma prima delle signore che stanno accorrendo dalle migliori famiglie intorno all´iniziativa dichiaratamente fascista di Storace, credo sia necessario esibire un´altra evidenza, come si direbbe in un processo: il fascismo nelle scuole. Ne ha parlato su questo giornale Marina Boscaino, insegnante e giornalista. Ha fatto notare le nuove dimensioni del problema. Non stiamo parlando di "gruppetti" e meno che mai di "nostalgici". Per la prima volta nella storia italiana del dopoguerra, una parte dei ragazzi italiani che va a scuola (non i più stupidi o volgari o disattenti e - tra loro - alcuni veri leader) guarda al passato solo come area di raccolta di simboli e senso di quello che fanno. Il passato è una prova che si può fare. Fare che cosa? Passare all´azione. Contro un mondo che non funziona, non può funzionare perché si chiama democrazia.

In altre parole, questi ragazzi sono ben radicati nel presente, e nonostante la propensione tipicamente fascista per riti o celebrazioni funebri, hanno cose da fare per il presente, e un senso molto vivo, niente affatto qualunquista o opportunista, del futuro. L´immagine è quella di una lama che taglia i nodi della complicazione che è la democrazia imbrogliona e borghese, della ingiustizia che in un simile mondo è inevitabile, della "legalità", parola pronunciata con ribrezzo, in nome di una civiltà pulita che si crea con uno slancio superiore di persone decise a tutto e consapevoli della loro missione nella storia. Insomma un nuovo fascismo "allo stato nascente", per usare l´efficace definizione di Francesco Alberoni.

* * *

Traggo materiale e ragioni di ciò che sto dicendo da una lettera pubblicata da la Repubblica (28 febbraio) a cui risponde Corrado Augias.

La lettera: «Frequento il secondo anno del liceo classico Virgilio di Roma, ho letto e assistito a manifestazioni scolastiche di rinascita di movimenti fascisti nelle scuole.... Voi forse pensavate che il fascismo avesse dato gli ultimi colpi di coda, che fosse un´ideologia logora. Avevate ragione. Quelli che oggi nelle scuole si autodefiniscono "fascisti" sono ragazzi come me e tanti altri.... Questa lettera è anche una richiesta di comprensione. Il presente è vostro. Il domani no».

Trascrivo in parte la risposta di Corrado Augias: «"Il fascismo" è il rivestimento, la buccia, di domande piuttosto ragionevoli. La buccia fascista, però, si accompagna inevitabilmente a una certa voglia di menar le mani. L´aspetto veramente preoccupante è che i ragazzi di sinistra hanno perso l´iniziativa. Non hanno capito in tempo che bisognava mettere da parte il dibattito sulle ideologie, che ormai interessano poco, e lottare invece per i problemi di ogni giorno».

Utilissima questa lettera e questa risposta, e dobbiamo cominciare da qui.

Lo farò alla luce della pubblicazione "Blocco Studentesco" (anno I, numero 2) diffuso in questi giorni nei licei romani, che ha per sottotitolo «l´avvento dei giovani al potere contro lo spirito parlamentare, burocratico, accademico».

Titolo di copertina. «Giustizia!» Spiega l´articolo di fondo: «La Giustizia è troppo spesso accomunata alla legalità. Per favore non diciamo cazzate. In un Paese dove avere la casa è un lusso, dove i mezzi di informazione sono controllati, dove un innocente come Luigi Ciavardini (ritenuto co-autore della strage di Bologna, ndr) viene condannato a trenta, dico trenta anni di reclusione, dove un ragazzo come Gabriele Sandri viene assassinato senza motivo (il tifoso della Lazio ucciso sulla A1 da un agente di polizia che parla di colpo accidentale, Ndr) dove, a distanza di trent´anni da una delle peggiori stragi degli anni di piombo, quella di Acca Larenzia, non c´è nessun colpevole, chi ancora vuole venire a parlarci di giustizia?»

Per chiarire a quale fonte stiamo attingendo, occorre far sapere ai lettori ciò che Tv e giornali non ci dicono: "Blocco studentesco" colleziona risultati importanti in un bel numero di elezioni scolastiche e di istituto, piazza negli organi di rappresentanza studentesca i suoi esponenti, ricopre cariche, parla a nome di molti. Niente a che fare con i "gruppetti".

Ma l´ideologia c´è, eccome. È ideologia rigorosamente fascista. Ma un modo di interpretare, o di completare l´intuizione di Augias (e anche del ragazzo che gli scrive) è questa: nonostante il tono funebre della rievocazione e l´aspra cattiveria motivata dal ricordo, qui non siamo nel passato. Vediamo perché.

Un primo segnale, quasi una parola codice del nuovo fascismo, sono le Foibe. Il ricordo di una tragedia preparata a lungo, con crudeltà dalla occupazione fascista e nazista, ma conclusasi poi con una feroce vendetta jugoslava contro migliaia di italiani, diventa nelle pagine di "Blocco Studentesco" (come accade del resto anche nelle piazze, nel Parlamento italiano e in televisione) uno strumento per rivendicare la guerra fascista, la sacralità della nazione e dei confini, l´uso continuo dell´altra parola codice, «martiri» (parola che riguarda solo i morti fascisti) per tenere sotto ricatto i giovani di sinistra (che non sanno che la tragedia delle Foibe non è mai stata nascosta e non è mai stata un segreto; posso testimoniarlo perché l´ho studiata e discussa in liceo) e per profittare di uno strano atteggiamento dell´antifascismo adulto italiano, che sembra ogni volta colto di sorpresa da uno degli argomenti più dibattuti da decenni nella vita politica e nella storiografia contemporanea italiana.

La novità introdotta dal nuovo fascismo è di parlare dell´orrore delle Foibe come fenomeno del tutto isolato e indipendente dal feroce orrore assassino del fascismo italiano e tedesco nella Jugoslavia invasa e distrutta.

Le Foibe, comunque, servono per non parlare della Shoah, servono a rovesciare l´indignazione verso il fascismo in indignazione del fascismo. Potete infatti leggere su "Blocco Studentesco", in un articolo firmato «Giorgio Bg»: «Sì, avete capito bene: il 25 aprile è una data fondamentale per la nostra nazione: è il compleanno di Guglielmo Marconi, inventore della radio.... E a tutti abbiamo ricordato che una delle battaglie portate avanti da "Blocco Studentesco" è quella di distruggere il concetto di "antifascismo militante"».

Come si vede, l´idea è chiara e politicamente intelligente. I ragazzi del Blocco non sono né incolti né disinformati. Sanno che stanno lavorando per loro gli storiografi improvvisati che si sono dedicati alla diffamazione della Resistenza. Sanno di poter contare sui molti insegnanti che di Resistenza non parlerebbero mai e non hanno parlato mai. Sanno di disporre di uno spazio vuoto, nel quale la Costituzione italiana rimane ignorata e isolata.

A leggere quello che scrivono, e come scrivono, sono tipi seri che non si occupano del fatto che due belle signore della mondanità milanese, la signora Santanché e la signora Paola Ferrari (moglie del giovane imprenditore Marco De Benedetti) sono la candidata n.1 e la candidata numero 2 nella lista ufficialmente fascista organizzata e promossa da Francesco Storace.

L´effetto mondano però li beneficia comunque. Invece di essere i resti di qualcosa che nel mondo è scomparso per sempre sotto il mare di cadaveri che ha provocato, sono l´avanguardia di un futuro che penetra le aree eleganti e persino zone che ti aspetteresti, in modo naturale, estranee al fascismo.

* * *

Ma c´è un alleato in più per questi ragazzi non male informati e non male organizzati che, se necessario, sembrano in grado di tirare le fila di assembramenti più grandi.

Sono quella manodopera di giovani aspri, aggressivi, e decisi a non accettare alcun dialogo con la politica, qualunque politica, perché sono i militanti duri, ambi-destri e ambi-sinistri dell´antipolitica.

Michele Santoro ne espone ogni tanto gli esemplari in certe sue trasmissioni come quella puntata di Annozero a cui è accaduto anche a me di partecipare (la sera del 7 febbraio). Non ti guardano, non ti parlano, gridano quasi solo "cazzo".

Sono giovani ostili per le condizioni in cui vivono e la vita che fanno. Ma rifiutano con estrema durezza ogni contatto. Ostentano un disprezzo per tutto ciò che è democrazia e Parlamento. È un disprezzo che li collega di fatto con i giovani di "Blocco Studentesco", esattamente come deve essere accaduto negli anni Venti. Dunque qui nessuno si muove nel vuoto. E non ha più senso pensare a frange o gruppetti. Che lo abbia voluto o no, la destra italiana ha creato le condizioni per una destra estrema che raccoglie volentieri certi simboli e parole codice dal passato. Ma invece di nostalgia ha progetti per il futuro. E poiché la discussione e il dibattito non sono i suoi naturali strumenti - e infatti vengono sviliti ed evitati - il progetto è in attesa di una linea strategica. Ma il ritorno di una certa area fascista, con la sua componente di massa ("Blocco Studentesco" ci dice che a Roma esiste una «Casa Pound», dal nome del poeta americano fascista e antisemita, e una «Casa Prati» occupata insieme a famiglie di sfrattati) e la sua componente alto-borghese, è già cominciato.

Per questo è stato importante, e anche consolante, assistendo giorni fa alla commemorazione di Aldo Moro (30 anni dal delitto) ascoltare Alfredo Reichlin, Leopoldo Elia e Walter Veltroni dire: «Il senso della politica di Moro è stato di affermare con tenacia il legame fra la democrazia italiana e l´antifascismo, un legame rappresentato dalla Costituzione nata nella Resistenza».

Questa è l´Italia nel suo passato indimenticabile, nel suo presente difficile, nel futuro per il quale ci ostiniamo ad avere speranza, in nome di ciò che è accaduto, e nonostante ciò che sta accadendo. Una cosa sappiamo: non siamo fuori pericolo.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 02.03.08
Modificato il: 02.03.08 alle ore 10.35   
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« Risposta #64 inserito:: Marzo 09, 2008, 11:55:36 pm »

Il quinto candidato

Furio Colombo


Il titolo di questo articolo non si riferisce a un tentativo avventuroso di interpretare le vicende del pianeta, ma solo al senso degli eventi che stiamo vivendo in Italia, qui, adesso.
Vi dirò quale spunto ha messo in moto questa mia riflessione. Stavo partecipando a una puntata di Controcorrente, Sky Tg24, condotto da Corrado Formigli. Da Londra c’era in collegamento Bill Emmott, l’ex direttore di The Economist, celebre nel mondo per le due copertine che riguardavano Berlusconi, ai tempi di quel governo.
Ricorderete: la prima prudentemente poneva agli italiani una domanda: «Ma Berlusconi è adatto («fit») a governare l’Italia»? La seconda copertina, verso la fine del non dimenticabile quinquennio che ha ridotto l’Italia alla crescita zero, portava in grande, accanto al ritratto del primo ministro di allora, la parola «BASTA», in italiano. A quanto pare non basta, perché quella stessa persona, è candidata per la quinta volta a governare questo Paese che sembra bloccato da una strana sospensione della storia.

Ma l’episodio interessante di quella esperienza televisiva è il seguente. Avevo come controparte una persona che conosco e rispetto, Benedetto Della Vedova, che proviene, come molti ricordano, dal Partito radicale ma ha fatto la scelta opposta a quella di Bonino e Pannella. È un uomo informato e buon economista del tutto adatto alla conversazione con Bill Emmott. Ma era pur sempre in quello studio in rappresentanza di Forza Italia. E Forza Italia ha, nel suo vocabolario, solo poche parole chiave a cui, a quanto pare, anche i più informati e versatili devono attenersi. Soprattutto la parola «comunista». E così è accaduto che quando Bill Emmott - su richiesta del conduttore - ha offerto ciò che nei Paesi anglosassoni si chiamerebbe lo «endorsement» a Walter Veltroni (ha detto, cioè, che - a differenza di altri già caduti sotto il giudizio del suo giornale - lo considera «adatto» (fit) a governare l’Italia) l’on. Della Vedova ha pensato di spiegargli la dolorosa storia italiana. Ha detto, rivolto al maxischermo su cui compariva il volto del giornalista inglese in collegamento da Londra: «Vedo che lei non conosce il passato. La informo io. Walter Veltroni, nel 1981, è stato capo della stampa e propaganda del Partito comunista italiano».

Sarebbe interessante, per i cittadini-elettori italiani, rivedere l’espressione tra stupita e interdetta di uno dei più noti professionisti della informazione del mondo. Da buon «British» si è proibito ogni altro commento e ha detto solo: «Noi di solito conosciamo bene la storia delle persone di cui parliamo (avrebbe potuto dire: «conosciamo anche i processi», ma non lo ha fatto, ndr). E ripeto quello che ho detto: se fossi italiano voterei per Veltroni».
È solo un aneddoto che però fa molta luce. Bisogna impedire che questo periodo elettorale si trasformi in un labirinto di cui Berlusconi, le sue televisioni, le sue case editrici e pattuglie di commentatori «indipendenti» - che però lavorano alacremente per lui - sono abili artefici.

La parola chiave del labirinto è «comunista». La consegna è di pronunciarla il più spesso possibile, in modo da puntare l’attenzione all’indietro. Chi si lascia irretire perde di vista la incredibile vecchiaia politica di Silvio Berlusconi che, come cultura personale, è uomo del tutto estraneo alla modernità; inclusa la Resistenza, che riguarda la libertà, i diritti civili, la Costituzione. Per lui è una parola opaca e un ingombro estraneo al commercio. Ricorderete che ha sempre rifiutato di celebrare anche una sola volta il 25 Aprile. E perde di vista la incredibile vecchiaia psicologica di quell’uomo di Arcore, che nell’Europa di Angela Merkel, di Sarkozy, di Gordon Brown, di Zapatero, si candida a primo ministro per la quinta volta. È molto probabile che il leader di bravi cittadini ribattezzati da un giorno all’altro, a capriccio, «Popolo della libertà» sia già entrato nel Guinness dei primati, perché non esiste alcun leader in alcun Paese del mondo, compresi quelli sgangherati di recente e turbolenta democrazia, che sia nella sua condizione. Candidarsi cinque volte vuol dire avere perso, o essere stato abbattuto lungo il percorso, quattro volte.

Ma è soprattutto un incredibile giudizio che la sua gente deve accettare passivamente, come se fosse vero: che lui solo, fra decine di leader politici della sua parte, migliaia di partecipanti eletti alla vita politica, decine di migliaia di protagonisti nelle aggregazioni di destra locali, milioni di italiani che scelgono il voto conservatore, lui solo può guidare e può vincere. E tutto ciò benché il più delle volte abbia perso.
Ma ecco perché è così importante la parola comunista. Con quella parola, ricordate, Berlusconi è «sceso in campo» (parole sue) tramite cassetta Vhs recapitata, prendere o lasciare, a tutte le televisioni d’Italia. Con quella parola ha affrontato e perso due volte contro Romano Prodi, con quella parola si è recato, dopo la sua unica vera vittoria a Bruxelles per dire ai leader europei: «Ho sconfitto i comunisti in Italia». E così è nata la sua fama, non sempre apprezzata come lui vorrebbe, di narratore di barzellette. Avreste dovuto vedere sguardo ed espressione di Bill Emmott quando, dallo studio di Sky, ha sentito ripetere la rovente accusa, anzi la denuncia al mondo: comunista.

L’esponente del giornalismo finanziario di Londra è apparso da prima smarrito, come se avesse capito male o ci fosse un errore di traduzione. Poi ha scosso la testa con un solidale atteggiamento di comprensione per gli italiani. Ci sono Paesi sfortunati, deve aver pensato, anche se produttivi e potenzialmente importanti.
Sembrava implorare: non potreste fare un passo avanti, un passo dentro il presente invece di logorarvi con storie che, fuori delle frequenze tv controllate da Berlusconi, non hanno alcun senso?

***

Non occorre essere astuti per sapere che «la quinta candidatura» (che bel titolo per un «horror» di Stephen King), non si fonda solo sulla parola «comunista» che dovrebbe scuotere il mondo. Prima di quella parola viene una immensa ricchezza che spiega perché leader politici di primo piano, nel Paese Italia, o si ribellano per dignità (tardi, purtroppo) o si sottomettono sperando di meritare l’eredità (farebbero bene a ricordarsi però che i ricchi che si sono fatti da soli, e per giunta nel mondo dello spettacolo, amano più i colpi di varietà che i comportamenti da statista). Ma l’uso ostinato di quella parola - «comunista» - viene con la speranza, anzi l’intento, di spingere a un fuggi fuggi generale dalla sinistra, che non vuol dire barricate e rivoluzione, ma un mondo di gente viva che si batte per il futuro e per il lavoro, e si colloca più o meno, fra Zapatero e Barak Obama.

Berlusconi e la sua gente contano molto sul far sentire colpevoli, e anche un peso per la loro parte, coloro che si ostinano a restare democraticamente a sinistra.
Vuol dire spostare tutte le frecce del labirinto nella direzione sbagliata, così che sembri moderno non punire chi fa morire gli operai, incoraggiare chi li tiene sul filo dell’eterna prova invece di assumerli, vuol dire far sembrare moderno ogni atteggiamento che ci riporta al paternalismo aziendale principio di secolo, quando un buon imprenditore ti concedeva la domenica pomeriggio per futili svaghi in famiglia, prima di ricominciare il lunedì all’alba (la meritocrazia fondata sugli straordinari di lavoratori esausti e più esposti al pericolo di incidenti).

Le frecce sbagliate del labirinto (che il quinto candidato è in grado di piazzare dove vuole, quando vuole, tramite controllo delle televisioni) puntano contro il presunto maleficio di Prodi. Lo fanno con tale successo che persino, molti, impegnati nel centrosinistra, considerano utile restare a rispettosa distanza da Prodi, che è ancora a Palazzo Chigi, e dal lavoro col suo governo.

***

È moderno, pensano molti, seguendo la freccia sbagliata del quinto candidato, considerare una cosetta secondaria la dura lotta all’evasione fiscale di Visco e Padoa-Schioppa, che ha fatto balzare in alto le entrate fiscali. E c’è chi prova volentieri a contare e ricontare quelle entrate per vedere se si può dimostrare che quelle entrate ci sono state, sì, ma non così tante, come se il vero merito, nella lotta all’evasione, come in quella al crimine organizzato non fossero, prima di tutto, la serietà dell’impegno e la direzione di marcia.

Occorre riconoscere che è stata molto efficace la denigrazione di Prodi durante i venti mesi di quel governo. Le televisioni di Berlusconi, o che lavorano per conto di Berlusconi, hanno svolto un lavoro efficace. Per esempio l’antipolitica si fonda sulla persuasione diffusa che tutti, proprio tutti, in Parlamento, buttano champagne addosso ai commessi, che tutti, proprio tutti, si esercitano a insultare i senatori a vita, che tutti lanciano in aria fette di mortadella, impedendo ogni discussione o lavoro utile. C’era da augurarsi che studiosi e giornalisti specializzati si fossero applicati a calcolare il costo immenso, per i cittadini-contribuenti, di due anni di Parlamento vissuto sotto ostruzionismo continuo, dunque totalmente sprecati.

Posso testimoniare per il Senato: ore di urla e di insulti ogni giorno, con qualunque pretesto (spesso tratto estrosamente dalla cronaca dei giornali) e quasi nessuno spazio per la discussione e per il voto. E sarebbe bene ricordare ai cittadini - contribuenti - elettori che la cosiddetta crisi di fiducia che ha portato alla fine del governo Prodi, non è avvenuta per una vittoria di quell’ostinato, continuo ostruzionismo. È avvenuta per la fuga d’amore dell’allora ministro della Giustizia Mastella, che ha voluto condividere con la moglie gli arresti domiciliari, e per farlo ha tolto (con gli insulti che tutti ricordano e purtroppo ricorderanno per molto tempo) il sostegno del suo gruppo al governo.

L’impegno è dunque di smontare le frecce che puntano verso il passato, disposte dovunque dal quinto candidato. E ritrovare la strada che porta avanti e fuori dall’incubo. Lungo quella strada non è sbagliato fermarsi a dire un grazie a Prodi. E non è fuori luogo un po’ d’orgoglio per lo «endorsement» dedicato pubblicamente a Walter Veltroni da Bill Emmott, ovvero da un mondo che non si lascia ingannare dai vecchi mobili di casa Berlusconi e dai discorsi finto-pacati del quinto candidato.
La porta per uscire dal labirinto c’è, ma è importante non cadere in tutte le trappole seminate dal vecchio che avanza. Se riusciamo ad accendere la luce scopriremo che, rispetto alla vita italiana, Berlusconi è in esubero, e può essere «messo in libertà» (l’espressione è aziendale, non giudiziaria).
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 09.03.08
Modificato il: 09.03.08 alle ore 15.18   
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« Risposta #65 inserito:: Marzo 11, 2008, 05:59:14 pm »

Pannella vivo

Furio Colombo


Una domanda gira con inquietudine e con allarme fra coloro che per una ragione o per un’altra - dall’affetto alla diffidenza - vorrebbero che Marco Pannella non morisse.

La domanda è motivata da un fatto tanto drammatico quanto oscuro (ovvero oscurato) dal punto di vista dei grandi media: mentre scrivo Pannella è al quinto giorno di uno sciopero della sete e della fame. Ora che il lettore ha in mano il giornale comincia il sesto giorno, dunque una fase di estremo pericolo.

Il digiuno, come tutti sanno, nella pratica nonviolenta è il tentativo di aprire un dialogo quando altri modi per farlo sono impossibili.

La domanda è: chi deve rispondere a Marco Pannella?

Per esempio, nel caso dello sciopero totale della sete e della fame del Mahatma Gandhi, la risposta doveva venire, (ed è venuta in tempo) da Lord Mountbatten, governatore inglese dell’India ancora colonia.

Facile rispondere che, per definire la controparte, bisogna conoscere la ragione della drammatica iniziativa, detta - dal linguaggio di Gandhi - “Satyagraha”. Ovvero a chi parla e che cosa chiede Marco Pannella in questa sua iniziativa che sta raggiungendo un percorso di estremo rischio? Ti dice Radio Radicale: «Per la pace, per la giustizia, per la democrazia, perché la parola data sia mantenuta sempre» (e ripete “pacta sunt servanda”, facendo riferimento alla questione italiana delle posizioni in lista Pd di alcuni candidati radicali).

I lettori sanno del mio rapporto di amicizia con Marco Pannella, dell’essergli stato vicino mentre durava la disputa, quando una finale accettazione dei Radicali inclusi nelle liste del Partito Democratico non era ancora avvenuta. Dopo - quando l’accettazione è avvenuta - confesso di avere perso il filo. Chiedo aiuto a Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, agli amici di quella Radio e di quel Partito.

Vedo il problema prigioniero di questo ingorgo: la questione dei patti da rispettare (ovvero in quale posizione alcuni nomi Radicali devono comparire nelle liste del Pd) se è ancora viva, è locale e italiana. Ma può essere allo stesso tempo risolta e non risolta? Tutte le altre ragioni alte e nobili del “Satyagraha” sono mondiali. Infatti l’iniziativa è definita “mondiale” da Radio Radicale e si ascolta un elenco di grandi nomi del mondo, a partire dal Dalai Lama. Tutti questi nomi sono dalla parte dell’estremo impegno di Pannella. Ma - torno all’inizio di queste righe - chi deve rispondere? In altre parole: come si fa a far finire questo rischiosissimo atto, a far tornare Pannella alla sua e alla nostra vita politica, ad essere tranquillizzati sulla fine del pericolo che corre? Per essere di aiuto, urge risposta.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 11.03.08
Modificato il: 11.03.08 alle ore 11.55   
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« Risposta #66 inserito:: Marzo 14, 2008, 06:32:17 pm »

Lo stato dello Stato di Israele

Furio Colombo


Ho letto e riletto l’intervista con Ismail Haniyeh, premier di Hamas, ovvero leader della parte dei territori palestinesi (Gaza) in rivolta contro l’altra parte, Ramallah, che riconosce come presidente Abu Mazen. L’intervista di Umberto De Giovannangeli è stata pubblicata il 13 marzo da l’Unità e viene citata per dare ragione al ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema quando dice che «ovviamente si deve dialogare con Hamas, se no con chi?» e fa seguire un elenco di personalità del mondo che sono dello stesso avviso: parlare con Hamas come condizione per avviare una soluzione del conflitto.

Prima di affrontare la domanda drammatica e centrale: «si può, si deve dialogare con Hamas», occorre fare sosta intorno alla situazione. Ed è bene ricordare se e quali precedenti ci aiutano nella difficile e sanguinosa storia contemporanea. Lo stato dello Stato di Israele (non è un gioco di parole, è la condizione di quel Paese in questo momento) è uno stato di assedio. Di solito subito prima o subito dopo questa affermazione si fa precipitoso riferimento alla potenza israeliana e al “poderoso sostegno” americano.

È vero che Israele ha una struttura militare molto forte (altrimenti non esisterebbe più da tempo). Ed è vero che ha avuto la costante garanzia di sopravvivenza offerta dagli Stati Uniti.

Sul primo aspetto diremo - persino sapendo che chi rappresenta Israele ci darà torto, anche per ragioni di legittimo patriottismo - che Israele non è più così forte a confronto con l’assedio che sta subendo. Lo abbiamo visto nella breve e tremenda guerra dell’estate del 2006.

Una tecnologia costosissima e raffinata ha colpito Israele dal versante del Libano e a cura del potentissimo e ricchissimo “esercito di Dio” o Hezbollah. La difesa accanita e anche precipitosa e affannata di Israele ha indignato molta opinione pubblica del mondo perché troppi civili, troppi bambini erano tra le vittime della risposta di guerra alla violentissima guerra. Questo aspetto terribile faceva parte del piano di Hezbollah, la cui strumentazione elettronica era accuratamente dispersa tra popolosi villaggi e condomini suburbani, in cui tutti gli abitanti erano ostaggi da esibire come cadaveri dopo ogni tentativo israeliano di fermare la pioggia di missili. In quella guerra perfettamente organizzata da Hezbollah i bambini morti sono stati esibiti uno per uno di fronte alle televisioni internazionali come mai era accaduto nelle pur tristi vicende dei sanguinosi scontri dei nostri giorni nel mondo. Lo scopo di rendere odiosa, dunque impossibile, la difesa di Israele è stato raggiunto.

E infatti l’unica soluzione è stata, si ricorderà, la realistica proposta di inviare un importante corpo di spedizione delle Nazioni Unite alla frontiera fra Israele e Libano. Va ricordato che è stata una proposta italiana Prodi-D’Alema, e che si deve all’Italia se i contingenti inviati, specialmente dall’Europa, non sono stati irrilevanti come altri, in Europa, avrebbero voluto.

Nella stessa circostanza, si ricorderà, le famiglie israeliane di tre soldati rapiti e tenuti come ostaggio hanno chiesto disperatamente aiuto all’Italia per avere almeno una notizia dei ragazzi scomparsi. Ma ogni tentativo è risultato vano benché condotto senza pregiudizi o ostilità verso Hamas.

Quanto all’aiuto americano (e dirò un’altra cosa che a volte dispiace all’attuale governo israeliano) esso, con la presidenza Bush è impossibile. La guerra in Iraq, basata sulla falsa credenza dello scontro di civiltà, ha mobilitato il mondo arabo e islamico al completo contro l’Occidente (e il contrario). E dunque ha messo lo Stato di Israele in pericolo. In queste condizioni può fare più guerra (mentre la guerra in Iraq è in un profondo pantano) ma non può fare la pace, perché è circondato da una ostilità altissima, una morsa che stringe e condanna allo scontro sia israeliani che palestinesi.

Ai media, non solo in Italia, continua a sfuggire l’immagine del vero e immenso rischio di cancellazione che Israele corre in questi anni, in questi mesi: la mobilitazione della ricchezza petrolifera del mondo (proprio mentre il prezzo del petrolio continua a salire) la stessa che, dal finto alleato che è l’Arabia Saudita al dichiarato nemico Iran, e persino al lontano Venezuela di Chavez, finanziano senza limiti l’ormai poderosa armata Hezbollah, e la parte violenta di Gaza.

Queste dunque le circostanze, sempre trascurate, quando si esorta a “dialogare” con Hamas. È la stessa formazione che con i palestinesi non dialoga ma uccide in caso di dissenso (la carneficina interna avvenuta a Gaza ha ormai da tempo superato l’immagine del democratico vincitore di normali elezioni politiche).

Dalla utilissima intervista di Umberto De Giovannangeli con Haniyeh si ricavano tre parole chiave. La prima è “tregua”, unico modo di definire una sospensione del conflitto, la seconda è “nemico” parola sistematicamente usata dall’intervistato per non dire mai (mai) Israele, affinché non si sfiori il riconoscimento neppure con il nome. La terza è “resistenza”, una parola che fatalmente evoca l’illegittimità di tutto ciò che è Israele, perché niente - si dichiara - può cominciare se la situazione così come è continua. Ovvero se rimane uno Stato di Israele vivo e in grado di difendersi.

Per dare un senso alla prima parola, “tregua”, che sembra così naturale e umana nel corso di un conflitto infinito, occorre ricordare i giorni dello sfondamento del confine con l’Egitto. In quella occasione, molto più che derrate alimentari, sono entrate armi, anche di classe nuova, adatte a completare l’assedio già avviato da Hezbollah. Il modello tende a ripetersi. Hezbollah usa come “martiri” involontari i libanesi di confine, e più ne muoiono, nel caso di un nuovo divampare del conflitto, più è probabile che il mondo si innervosisca contro Israele.

Hamas usa come “martiri” involontari tutti i palestinesi, condannati a combattere sempre o a prepararsi per una quarta, quinta, sesta Intifada.

Strano che nessuno, nel giudicare continuamente e con severità gli errori veri e presunti dei governi israeliani, non sosti a domandarsi quale deve essere il grado di allarme, tensione, paura, panico, nelle strade, nella vita, nelle famiglie di Israele.

Proviamo a confrontare tutto ciò con i sentimenti degli italiani. Un delitto, una aggressione, il gesto balordo di alcuni immigrati balordi provoca da un lato la paura, l’indignazione, la richiesta di difese di interi quartieri, di intere città e alla fine di tutto un Paese che ha i suoi guai, ma non è affatto minacciato.

Dall’altro lato, però, sul versante politico più progressista delle decisioni di governo, non si ritiene eccessivo mettere al bando (come si è fatto per un momento) l’intera immigrazione rumena, né alzare muri in mezzo a una città (Padova)o promettere poliziotti dovunque. Se è giusto e legittimo pensare alle sofferenze dei palestinesi usati come ostaggi dai loro stessi leader, non dovrebbe essere fuori posto pensare a come vive un ebreo sopravvissuto di Gerusalemme nel giorno in cui constata che si può facilmente compiere una strage di adolescenti in una Yeshiva. Per prima cosa vado a fare un dialogo?

Ma la vera domanda è: potete, ministri e lettori, sostenitori veri e appassionati di chi soffre e reclama un diritto, potete indicare un solo Paese al mondo, fra i più civili, ragionevoli e democratici, che aprirebbe una trattativa o anche solo “un contatto” con chi non riconosce uno Stato, ne proclama e invoca la distruzione e ha alle spalle potenze militari e economiche che apertamente proclamano che quello Stato deve essere cancellato dal mondo?

Sono le ragioni per cui l’Italia non ha trattato con le Brigate rosse, Zapatero non può avviare conversazioni con i separatisti baschi, e l’Inghilterra ci ha messo più di 70 anni - e ha preteso la rinuncia di ogni azione o intenzione militare - prima di avviare lo smantellamento della guerra contro l’Ira. Eppure l’Ira era una minaccia minima rispetto alla grande coalizione del mondo islamico che tiene sotto assedio Israele. Il problema alla fine è questo. Se, nel bene e nel male, nei momenti illuminati da politici come Rabin e da scrittori come come Grossman e Yehoshua, e nei momenti difficili o sbagliati o criticabili, Israele sia o no un Paese normale, come l’Irlanda o la Spagna, che per prima cosa ha diritto alla sicurezza e a non vivere in uno stato di assedio. Subito dopo - non in una tregua utile sopratutto ai rifornimenti di nuove armi ma in uno spazio che riconosce la Storia - inizia il confronto. Come segnale, un minuto prima, basterà restituire gli ostaggi, di cui è negata alle famiglie ogni notizia nel più antico e barbaro rituale di guerra perenne.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 14.03.08
Modificato il: 14.03.08 alle ore 13.36   
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« Risposta #67 inserito:: Marzo 16, 2008, 06:34:03 pm »

Lo strappo

Furio Colombo


L’immagine di uno dei candidati intento a strappare il programma del suo principale avversario ha fatto il giro delle televisioni europee e americane e ha confermato qualcosa che, come una magia malefica, continua a pesare sull’Italia. C’è un incubo del passato che non se ne va. Non solo ritorna, ma ritorna identico, senza neppure un tentativo apparente o l’uso di qualche abile inganno per far apparire “nuova” la scena.

No, la scena si ripete identica, stessi scatti di rabbia, stesse cattiverie minacciose, stesse frasi finto gioviali ispirate ai più banali spot televisivi.

Stesse scenette concordate come quella della finta precaria, finta aspirante al matrimonio con Piersilvio che poi risulta candidata di An.

Ma la lezione è sempre la stessa: non provocatelo, se no lui spiattella al mondo la verità. «A chi ricorda il fascismo di Ciarrapico dico: volete che noi ricominciamo a parlare dei comunisti tantissimi candidati nel Pd?».

So di avere già scritto questo articolo, in tutta la campagna elettorale del 2001, e in tutta la campagna elettorale del 2006. So di avere letto le cose che sto per dire, una per una, sui maggiori giornali del mondo, da The Economist al Guardian, da Le Monde al New York Times.

So anche che ci deve essere una costellazione malefica, di quelle di cui parlano con persuasione angosciata gli astrologi notando il modo in cui si dispongono le stelle nei cieli delle varie stagioni. Brutta stagione o brutta costellazione questa. Infatti, mentre l’Italia rivive l’incubo del ritorno di Berlusconi, mentre in Piazza del Popolo e in via del Babuino a Roma si sentono ragazzi a pagamento cantare a squarcia gola «Meno male che c’è Silvio», applauditi dai turisti di Pasqua come lo sono, al Foro, i disoccupati vestiti da antichi romani, in Thailandia ritorna Taksin, l’ex primo ministro processato e condannato varie volte per corruzione, proprietario di tutta l’informazione di quel Paese, così ricco da tenere testa persino all’unico re democratico di quella parte del mondo.

Non occorre un analista per dire che c’è qualcosa di funereo quando sei certo di rivivere le scene più sgradevoli di un passato che ti eri appena lasciato alle spalle. Tutti sanno che la parola “futuro” non garantisce niente. Niente, tranne il fatto che stai entrando in una vita diversa, senza Bonaiuti che te la interpreta, senza Tremonti piantato al centro della scena, come se fosse un dato inevitabile della natura, senza Berlusconi che ripete, quasi con esattezza, tutto ciò che ha già detto, compresa la benevola compassione con cui guarda a se stesso, «costretto a governare».

S’intende che faremo di tutto per liberarlo da questa costrizione. S’intende che questo impegno è interpretato bene dallo slancio quasi disumano con cui Veltroni riesce a visitare tre-quattro città italiane al giorno per rassicurare i cittadini perplessi, per dire: «Qualunque cosa sia, noi vi promettiamo il futuro, non il passato. La vita continua, non è un tremendo museo delle cere».

Eppure la pretesa, per quanto volonterosa, di far finta di non vedere (di non vederlo), di non ascoltare (di non ascoltarlo) non cancella la brutta realtà che - a parte la Thailandia - siamo il solo Paese costretto a vivere.

Meglio guardare in faccia questo strano destino, persino se ha la faccia triste, umiliante, di coloro che si inginocchiano davanti a Berlusconi.

* * *

Vediamo. Nel giorno uno Berlusconi dichiara: «Noi dobbiamo fare una campagna elettorale e si deve vincere. L’editore Ciarrapico ha giornali importanti e a noi non ostili, ed è assolutamente importante che questi giornali continuino ad esserlo, visto che tutti i grandi giornali stanno dall’altra parte».

Nel giorno due la stessa persona che si aspetta di essere rieletto leader e guida unica dell’Italia, afferma: «Ciarrapico è un indipendente che non conterà niente nella politica».

Fra le due affermazioni imbarazzanti e menzognere c’è una costellazione di falsi minori. Per esempio afferma che Fini e quelli di An sapevano dell’arrivo in lista di qualcuno che si proclama fascista («Sono sempre stato fascista e lo sarò sempre»).

Ma Fini e quelli di An affermano che non è vero. Così come si dissociano candidati di varie provenienze, compresa la Mussolini, che, però, porta in lista il negazionista Roberto Fiore. Ma a quanto pare va bene lo stesso.

Nel senso che nessuno ha il cattivo gusto di insistere. E poi, se esaminate le clamorose bugie berlusconiane, vi accorgete che esse contengono, come sempre, una minaccia, nello stile che l’uomo di Arcore deve avere imparato bene dallo stalliere Mangano, prima che Mangano venisse arrestato, processato e condannato per mafia.

Lo stile è questo: far sapere ai potenziali avversari che sono nel mirino e che quel mirino, trattandosi del più grande editore italiano e di uno dei più potenti in Europa, è un mirino a cui è bene prestare attenzione. Enzo Biagi insegna anche da morto. Pensate che sia una buffonata dire che solo i giornali di Ciarrapico (tipo l’Eco della Ciociaria) gli sono amici e tutta la grande stampa lo avversa? Eh no, cari lettori. Mentire va bene, ma nella frase falsa ci avvolgi un coltello.

I giornalisti della grande stampa sono avvertiti. Con me si fila dritto, si dimenticano le contraddizioni, si fa finta che le cose dette siano coerenti e siano vere, non si notano le gaffe e le pagliacciate, si descrivono farse come se fossero fatti plausibili e veri, ci si dimentica della Mussolini parlando di Ciarrapico e ci si dimentica del negazionista Fiore parlando della Mussolini. Ci si dimentica del dirigismo statalista predicato da Tremonti quando il Pdl si autodefinisce «La casa dei liberali». Nessuno dovrà notare l’anti-europeismo mostrato in cinque anni di governo e in due di accanita opposizione dai dipendenti di Berlusconi. Non si farà mai riferimento al continuo e umiliante «obbedisco» di Fini, regredito da delfino politico a numero due aziendale. E si farà finta di non avere ascoltato l’uomo che ha inventato Nassiriya e i nostri 30 soldati morti (mentre quella Provincia abbandonata è una delle più infestate dal banditismo in Iraq) e di non aver capito che cosa intende dire Antonio Martino quando annuncia: «Ritireremo i soldati italiani dal Libano e li manderemo in Afghanistan e in Iraq».

Avete letto bene. Martino - l’autore della «missione di pace italiana» in pieno terrorismo, responsabile dell’insediamento dei soldati italiani in una casa senza difesa contro l’attentato del camion carico di esplosivo - parla da solo, e senza verifiche parlamentari, di più soldati in Afghanistan e in Iraq. Ritorno in Iraq, capito? Anche i nostri colleghi hanno capito. Ma debitamente ammoniti sul rischio di apparire «voi, tutti gli altri, la grande stampa ostile, tutti nemici tranne Ciarrapico», hanno scelto.

Mai far notare l’incredibile demolizione di se stesso che Berlusconi riesce a fare con le sue dichiarazioni farsesche (dice lui stesso di avere un solo amico, un fascista editore di giornaletti della Ciociaria); mai far balzare agli occhi che proprio tu potresti essere il nemico. Poiché si finisce pedinati dai servizi di spionaggio tipo Pio Pompa e perseguiti dalle commissioni parlamentari di inchiesta tipo Mithrokin. Davvero pensate che non le ricostituiranno? Avete notato fino ad ora qualcosa che Berlusconi faceva in passato, ma poi si è ravveduto, ha capito, è diventato più normale, più europeo, e non la fa più? Potete dirne una che che distingua «il nuovo Berlusconi» dal vecchio?

Persino il comportamento del suo fido Bonaiuti è identico come nel replay di un vecchio film o in una geniale scheggia di Blob. Ascoltiamolo. Risaliamo per un momento all’inizio della storia Ciarrapico. Nel suo piccolo è una storia utile. Alcuni giornalisti votati al suicidio professionale hanno appena detto a Berlusconi che Ciarrapico ha dichiarato «sono sempre stato e sempre resterò fascista».

In un contesto normale l’interrogato risponde, per esempio: «Guardi, lo avranno provocato... Si dicono tante cose... Il fascismo o c’è o non c’è. Se non c’è, dov’è il pericolo?» o scuse del genere. Niente affatto. Bonaiuti, che pure è persona equilibrata e attenta, deve rappresentare il ruolo, che non è dei più simpatici. Il ruolo gli richiede di dire - e lui la dice - la seguente frase assurda, fuori dal tempo e dalla logica: «Adesso basta con la superiorità morale della sinistra. Ma chi si credono di essere per giudicare?».

Il problema posto era: come la mettete con uno che viene nelle vostre fila e si dichiara fascista? Ora andate a rivedere la reazione imposta dal ruolo a Bonaiuti e vi rendete conto che siamo nel cuore dell’incubo.

L’incubo è un terrificante ritorno a un passato identico. Identiche le violazioni della legge (Berlusconi darà a Berlusconi la licenza per trasmettere dalle Tv private di sua proprietà e intanto controllerà fino all’ultimo talk show e all’ultimo frammento di telegiornale la Tv pubblica, con il leale sostegno dei Bruno Vespa, su cui ha sempre potuto contare).

Identica la volontà di violare la Costituzione. L’ex ministro della Difesa Martino annuncia, prima ancora di sapere se non sarà destinato ai Trasporti (e comunque tenuto lontano dal solo campo che conosce, l’economia) che «questa volta le nostre saranno truppe combattenti» in spregio al nostro costituzionale art. 11 sul ripudio della guerra.

Identica la propensione a mentire su tutto in coincidenza con una grande intimidazione di tutti, in modo che non vi siano dissonanze, o che certe affermazioni non appaiano folli.

Tanto per completare la citazione di Martino, tratta dall’agenzia Reuters, sentite la frase che segue immediatamente quella sulle truppe italiane che saranno finalmente combattenti: «Ritireremo invece i soldati italiani dal Libano perché di essi non vi è assolutamente bisogno, e perché sono a rischio».

Una negazione della verità (chi non ricorda la guerra di Hezbollah nell’estate del 2006?) e una affermazione insensata (soldati italiani saranno mandati a combattere in Afghanistan, ma saranno rimossi dal Libano a causa del rischio) sono un bel manifesto elettorale.

* * *

Non segue analisi o commento di frasi che stroncherebbero un candidato americano più della squillo Ashely. Non segue perché altrimenti corri il rischio di apparire «dei loro» cioè comunista.

E allora per te scatta il bando professionale, lo spionaggio tipo Pio Pompa e le future commissioni Mithrokin. È questo il punto su cui vorrei richiamare l’attenzione di coloro che inviano affettuose e tristi email dicendo che stanno pensando di non votare a causa di tante ragioni che lasciano perplessi o che generano incertezza (e certo, volendo, se ne possono indicare alcune nella nuova creatura detta Partito Democratico che cammina un po’ come una giraffa giovane).

Non votare vuol dire votare (anzi rischiare il plebiscito) per Berlusconi - Ciarrapico - Mussolini - Bonaiuti (mi spiace citare il suo nome qui, ma lo traggo dai fatti, non dalla mia opinione) - Antonio Martino.

È vero che tutto quel gruppo, pronto a volere la guerra, tra poco, con il cambiamento drammatico della presidenza americana, si troverà solo al mondo. Sono già completamente isolati dall’Europa, destra compresa (anzi è la destra europea la più combattiva contro l’idea di accogliere fascisti in un governo europeo). Ma poiché il ritorno cupo e tragico al passato ci riporta anche il peso e la ricchezza di quel passato, e la infinita campagna acquisti che quella ricchezza consente (come in Thailandia), il male che può essere fatto all’Italia è immenso. E non consente la severità di giudizio che certe volte si riserva a Walter Veltroni, la sola persona che fino ad oggi ha spaventato Berlusconi e i suoi, inducendoli a reazioni scomposte, fino all’insulto.

Mi permetto di dire che anche la Sinistra Arcobaleno avrebbe ragioni per riflettere su ciò che ci spetta in caso di ritorno al passato. È importante per non sbagliarsi nell’indicare il nemico.

Mi ricordo della sinistra americana più rigida che, nella prima campagna elettorale di George W. Bush contro Al Gore, andava dicendo che era meglio non votare perché tra i due non c’era alcuna differenza. Una differenza c’è stata, e grande. Si chiama «guerra», si chiama «rendition», si chiama ingresso al governo della destra più estrema, si tratta di abolizione dello habeas corpus ovvero dei fondamentali diritti civili. Si tratta di vandalismo ecologico.

Pensate alla bella soddisfazione di argomentare sulla somiglianza di Veltroni con Berlusconi mentre Berlusconi governa, con il suo conflitto di interessi, la sua potente intimidazione, le sue marce trionfali da e per Piazza del Popolo, a Roma, o da e per San Babila a Milano, il suo sodalizio fascista, i soldati italiani finalmente combattenti, lo spionaggio di magistrati e giornalisti e le nuove commissioni Mithrokin.

Il potere di scacciare l’incubo è ancora nelle nostre mani, nelle mani di tutti coloro che provano un senso di umiliazione ascoltando le note di «Per fortuna che c’è Silvio». È il potere di fare in modo che ci sia un futuro. È il nostro legittimo strappo dal passato.

furiocolombo@unita.


Pubblicato il: 16.03.08
Modificato il: 16.03.08 alle ore 14.45   
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« Risposta #68 inserito:: Marzo 23, 2008, 07:29:29 pm »

Elezioni Usa. Perché sono qui

Furio Colombo


Alcuni giorni fa qualcosa è accaduto che ha cambiato in modo profondo non solo la campagna elettorale americana, ma anche la percezione che molti hanno di questo spaventoso momento storico. Anche l’idea del passato e l’attesa del futuro. Ha scritto il New York Times: «La politica è salita al piano di sopra».

È stato il discorso di Barak Obama la mattina del 19 marzo, nello stesso luogo in cui, duecentoventuno anni fa, era stata presentata la Costituzione degli Stati Uniti d’America.

Quel discorso ha fatto di colpo il giro dei terminali di Internet, è diventato messaggio (le frasi chiave) su milioni di telefonini, ha dirottato la sequenza dei programmi televisivi, ha fermato la gente al lavoro e per le strade, per ascoltare o per sapere l’uno dall’altro.

Perché ne parlo, come se fosse il solito omaggio all’America, mentre noi viviamo le difficili giornate che stiamo vivendo? Perché ci sono eventi che non capitano in un solo Paese e non hanno un senso limitato da circostanze e confini.

Ricordate “I have a dream” di Martin Luther King? Ricordate gli ultimi discorsi di Robert Kennedy? Erano discorsi sull’America ma non all’America. Erano discorsi per un mondo e per un tempo in cui tanti aspettavamo che qualcosa cambiasse. Sto per spiegare il perché del senso di tensione, uno stato d’animo in bilico tra dramma e festa. Perché il discorso di cui sto parlando significa quasi certamente la vittoria nelle elezioni primarie. Ma potrebbe avere gettato sul percorso della corsa alla presidenza l’ostacolo insuperabile del coraggio, della chiarezza, della verità.

Ecco che cosa è accaduto, e perché ciò che è accaduto ci riguarda. Barak Obama ha parlato, apertamente e frontalmente, di razza, e del suo essere “nero” in un mondo di civiltà evoluta eppure profondamente diviso dai pregiudizi. Un mondo, tutto il mondo nel quale viviamo, in cui “essere nero” (che di volta in volta vuol dire diverso o nuovo venuto o sconosciuto o parte di un gruppo percepito come cattivo o illegale) resta una porta stretta, a volte un muro.

Barak Obama ha parlato apertamente e frontalmente di povertà: che cosa è, come nasce, come si vive e quali conseguenze porta, del modo in cui sposta in basso il livello, la dignità, l’orgoglio di un intero Paese, persino di un Paese potente.

Barak Obama ha parlato del razzismo dei bianchi e del razzismo dei neri e del fatto che il lamento di entrambi chiude fuori gli immigrati, i clandestini, i privi di tutto, che non sono neppure in condizione di partecipare alla disputa.

Barak Obama ha parlato del tipo di cultura che genera l’esclusione: le immense aggregazioni d’affari che governano con la falsa informazione, la falsa immagine, la falsa contabilità, e sono capaci di dominare Washington attraverso il fitto lavoro delle lobbies che dirottano le leggi in modo che tutto (o tanto o troppo) vada a beneficio di pochi.

Ha citato William Faulkner per dire: «Il passato non è morto e sepolto. Il passato siamo noi. Noi che siamo il presente. Non stiamo facendo una recita dell’ingiustizia. La viviamo».

Barak Obama ha descritto così il tempo che stiamo vivendo e il tempo prossimo venturo che stiamo affrontando: «Due guerre, la minaccia del terrorismo, un’economia che crolla, la crisi dell’assistenza medica, la devastazione dell’ambiente».

Parlo di questo discorso, di cui avete già letto notizie, riassunti, frammenti di telegiornali, perché è la prima volta che un candidato alla presidenza degli Stati Uniti decide di abbandonare ogni precauzione, ogni espediente e soprattutto la sua estrema facilità di comunicatore “magico”. Lo fa per dire - invece - in modo semplice alcune cose che riguardano non solo la sua vita, ma la vita di tutti, che vogliano riconoscersi o no. E, attraverso la gran parte delle cose che ha avuto il coraggio di dire, è bene ascoltare Barak Obama anche in Paesi apparentemente lontani però soggetti allo stesso destino. Un destino che dipende in modo drammatico dalle scelte americane.


* * *


«Non sono abbastanza nero per essere nero e non sono abbastanza bianco per essere bianco». Comincia qui, senza precauzioni, il discorso di Obama, che pone subito al suo pubblico stupito e pronto per una celebrazione (duecentoventuno anni dopo la Costituzione degli Stati Uniti). E io non sono così ingenuo da pensare che noi risolveremo il nostro problema razziale con la mia elezione».

«Mi dicono che tutti i maschi bianchi di questo Paese andranno a votare per John McCain, che condividano o no le sue posizioni politiche». Ma questo ammonimento, probabilmente ricevuto da consulenti e strateghi, non consiglia alla prudenza il candidato Obama. C’è una ragione occasionale. Geraldine Ferraro, già candidata democratica alla vicepresidenza degli Stati Uniti e sostenitrice di Hillary Clinton, aveva detto nei giorni scorsi: «Tanta attenzione su Barak Obama soltanto perché è nero».

Ma c’è una ragione più seria e drammatica. Il reverendo Wright, pastore della chiesa di Chicago che il senatore nero frequenta, che lo ha sposato, il pastore che ha battezzato le sue bambine, nel rispondere a Geraldine Ferraro ha lanciato un attacco durissimo contro la società e la cultura dei bianchi, contro «la cultura che genera il razzismo». Subito si è levata la richiesta sempre più pressante per il giovane senatore nero: sconfessare la sua chiesa e il suo pastore. Oppure condividere il giudizio di nero ostile ai bianchi e dunque inadatto a governare.

È su questo punto sfuggente e rischioso che Barak Obama ha fondato il suo discorso. «Dovrei rifiutare quest’uomo e condannarlo? dovrei separarmi dalla chiesa in cui c’è sempre stato il mio posto? Non lo farò. Non ha torto il pastore Wright nel descrivere il rapporto tra bianchi e neri in modo così drammatico. È la vita americana. Sbaglia nell’immaginare una società ferma, in cui tutto il male è destinato a ripetersi, in cui non ci sono cambiamenti, in cui la separazione continua. Ecco il suo errore: crede davvero che questo sia, che sarà sempre il nostro destino».

È a questo punto che Barak Obama sceglie di parlare di se stesso come non aveva mai fatto. «Non posso rinnegare la mia comunità nera, errori e non errori, per la stessa ragione per cui non potrei rinnegare mia nonna, una donna bianca che ha fatto per me, bambino nero, dei sacrifici grandissimi. Eppure lei - donna bianca che mi proteggeva - aveva paura ogni volta che un nero si avvicinava troppo alla nostra casa. Io sono una contraddizione».

Ha scritto il New York Times quel giorno: «Nella vasta sala il pubblico comincia a mormorare il suo assenso, poi a esclamare, confermare, ognuno lo dice alla persona vicina. Scatta un applauso poi un altro poi un altro, finché una cascata di applausi segue le parole, dette con lo stesso tono basso di voce, con molta chiarezza e molta calma. «Non mi distaccherò dalla comunità nera che è parte di questo Paese. Ma non voglio dimenticarmi che insieme a noi, i bianchi e i neri, ci sono i latini, gli ispanici, gli asiatici. Il nostro genio consiste in questo: noi siamo un Paese che cambia. L’inizio è stato imperfetto e difficile. La continuazione della nostra storia può avvenire soltanto attraverso il cambiamento. Il cambiamento può avvenire soltanto insieme. Per questo mi presento alla porta della Presidenza degli Stati Uniti».

Il suo punto è: «Noi siamo storie diverse e una sola speranza. Le nostre vite sono imperfette. Non fingiamo di non sapere ciò che è accaduto e che ha separato così profondamente bianchi da neri. Ma non permettiamo che ciò ci separi dagli immigrati. La responsabilità per le nostre vite è responsabilità per le loro vite. Siamo una sola comunità, un solo Paese». L’altra distanza di cui il candidato Barak Obama intende rendere conto è quella tra ricchi e poveri. Spiega che «non bastano e non basteranno mai le parole. I fatti si chiamano scuole per tutti i bambini, ospedali per tutti i malati, tribunali in cui i diritti civili siano la garanzia per tutti, una speranza di vita decente per i nuovi venuti».


* * *


Si spiega bene Barak Obama di fronte alla sua folla che lo ascolta e partecipa come se fosse parte di una grande conversazione. Gli parlano, si parlano, coloro che ascoltano, esclamano “finalmente!”, dicono “sì è vero, ripetilo ancora” come nei rituali delle chiese nere. Ma non sono neri, a Philadelphia, non la maggior parte. E alzano le mani, sopra le teste perché l’applauso scrosci più forte (sto ancora citando dal New York Times e da ciò che ho visto in televisione). E lui: «Dal momento che sono nero mi chiedono: credi nel capitalismo? E credi nel mercato? Sissignore, rispondo, credo nel capitalismo e credo nel mercato. Ma quando mi rendo conto che certi capi d’azienda, certi dirigenti, fra compensi e bonus, guadagnano in dieci minuti ciò che un operaio guadagna in una vita, allora mi dico che va bene il capitalismo e va bene il mercato, ma c’è qualcosa da cambiare in questo grande sistema».

E aggiunge: «Non sono così ingenuo da pensare che la mia candidatura di nero sia la chiave che apre la porta della giustizia sociale e razziale. Ma penso che sapere del passato non vuol dire essere vittime del passato, non vuol dire piazzarsi in un mondo immobile in cui niente cambia. Cambia con noi. E proprio noi, i neri che erano schiavi, gli immigrati che sono illegali, i bambini che non hanno scuole, i malati che non hanno ospedali, gli operai che non hanno fabbriche, proprio noi possiamo impadronirci del più tipico credo conservatore che dice: “Adesso tocca a ognuno di noi dare la prova di valere e di meritare qualcosa”. Ma noi aggiungiamo: “Insieme”. Perché questo si intende quando si dice “Nazione”. Non vuol dire schierare gli eserciti. “Insieme vuol dire: insieme si può”».

Obama ha un esempio recente per ciò che dice: «Basti pensare a quello che è successo a New Orleans con lo spaventoso passaggio dell’uragano Kathrina: abbandonati da soli, migliaia di americani sono restati a morire sott’acqua»

Come ripetendo “I have a dream”, il mai dimenticato appello agli americani di Martin Luther King, il candidato Obama finisce il suo discorso con l’incalzare di una preghiera. Usa il rito delle chiese nere: dire e ripetere insieme l’inizio della stessa frase. Chiede di rivedere tutte le scene dei nostri giorni (niente di ciò che dice è solo americano) e di dire perché questa volta è diverso.


* * *


«Questa volta vogliamo che l’ospedale sia aperto a chi non ha l’assicurazione. Questa volta chi non ha potere non resterà da solo. Questa volta vogliamo che il destino di chi trova la fabbrica chiusa non sia il destino di qualcuno che deve provvedere in solitudine perché conta esclusivamente il guadagno di alcuni.

Questa volta vogliamo parlare del destino comune di bianchi e di neri, di immigrati e illegali, di asiatici e ispanici. Se può accadere di spargere il nostro sangue insieme perché non pretendere insieme un po’ di felicità? Questa volta sappiamo che patriottismo è prendersi cura degli altri, delle loro famiglie, dei bambini che non sono i nostri figli e fare in modo che ciascuno abbia il compenso che non ha mai avuto per il suo lavoro e il suo sacrificio, che fa grande un Paese».

E poi Obama racconta a chi lo ascolta e lo sta seguendo con una sorta di febbrile entusiasmo la storia della bambina Ashley, e non ci dice se è bianca o se è nera. Dice che adesso ha ventitrè anni e lavora per portare più gente possibile al voto. Ma quando aveva nove anni e sua madre moriva di cancro, la bambina senza padre ha scoperto che cosa vuol dire non avere diritto ai medicinali e alle cure. Ha capito in quel momento che non c’era scelta: o ti impegni per gli altri e lavori insieme. O sei solo e intorno non c’è nessuno. Ed è un percorso crudele e impossibile.

Il senatore Obama fa passare fra chi lo ascolta questa parola d’ordine, semplice e non politica: «Io sono qui per Ashley». La folla capisce e ripete.

C’è una morale in questa vicenda di vita politica vera in cui la storia della piccola Ashley è dentro la storia del senatore “troppo nero per i bianchi, troppo bianco per i neri”, in cui la candidatura di quel senatore è dentro un Paese grande, generoso, ingiusto e in pericolo, dove persone che non si amano dovranno vivere insieme, chiedere insieme ciò che meritano e che per molti è soltanto un sogno.

Però è vero. Barak Obama si è esposto al rischio più alto, quello di dire tutto, senza difesa, come un predicatore appassionato, non come un candidato scaltro. Hillary Clinton aveva detto in gennaio:« Si può fare campagna elettorale in poesia. Ma si deve governare in prosa». Le risponde (21 marzo) Roger Cohen sul New York Times: «Sbagliato. Di prosa in questi anni ne abbiamo avuta fin troppa».

Si salverà Barak Obama dopo questo gesto arrischiato che butta all’aria ogni manuale di strategia elettorale? Non lo sappiamo. Sappiamo che c’è una politica priva di scorie e di cinismo. Per questo sarebbe bello, anche in Italia, non cadere all’indietro, nel tempo umiliante fondato sulla compravendita di tutto. Sarebbe bello vivere giorni nuovi senza interessi privati e modeste scene di varietà fatte per coprire la solitudine e il pericolo.

Per questo molti di noi sono impegnati nella nostra campagna elettorale, come Obama nella sua. Tra poco sapremo se e quanto sono lontani questi due Paesi.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 23.03.08
Modificato il: 23.03.08 alle ore 8.07   
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« Risposta #69 inserito:: Marzo 25, 2008, 11:51:12 pm »

La Pasqua politica

Furio Colombo


Il giorno di Pasqua del 2008 resterà memorabile per una svolta della Chiesa cattolica sotto la guida di Papa Ratzinger. Una terminologia politica sarebbe forse più adatta di quella religiosa per definire la svolta di cui stiamo parlando. Accostare fatti diversi avvenuti nello stesso giorno, e tutti legati al capo della Chiesa di Roma, servirà a far capire di che cosa stiamo parlando. Prima, ma solo il giorno prima di Pasqua, viene il discorso d´addio di Mon. Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme, dunque inviato e rappresentante del Papa, in Medio Oriente, già militante di Al Fatah e amico personale di Arafat, da sempre nemico di Israele.

Vescovo o non vescovo, è naturale che Sabbah sia legato prima di tutto alla sua parte. Ma nell´occasione esclusivamente religiosa del suo addio al patriarcato, ha avuto questo da dire ai suoi fedeli palestinesi, divisi nella violenza, nella repressione e nel sangue fra la fazione Hamas di Gaza e ciò che resta di Al Fatah intorno ad Abu Mazen in Ramallah. Ha detto: «Il Medio Oriente ha bisogno di uomini di pace. Israele non ne ha. Da Israele non può venire la pace».

Sarebbe facile interpretare queste parole incaute e potenzialmente dannose (un implicito invito a continuare il conflitto) se l´evento restasse chiuso nella cornice stretta della esasperazione di un palestinese. Ma Mons. Sabbah rappresenta tutta la Chiesa, e non c´è stato alcun cenno di correzione. Al contrario. Il giorno dopo gli fa eco il capo della Chiesa cattolica. Nella benedizione pasquale invoca (nell´ordine) Iraq, Darfur, Libano, Medio Oriente, Terra Santa.

Come nelle carte geografiche arabe, il nome di Israele non compare, caduto nella fenditura fra Medio Oriente (che definisce l´intera area del conflitto) e Terra Santa, che è il nome della presenza cristiana in alcuni luoghi e territori del Medio Oriente, molti dentro i confini dello stato di Israele, proclamato dalle Nazioni Unite nel 1948.

Si sa che Joseph Ratzinger è uomo attento ai dettagli e - da buon docente di teologia - meticoloso nelle definizioni. Se Israele non viene nominato vuol dire che non esiste, secondo le regole vigorose di una tradizione di insegnamento che - ormai lo abbiamo imparato - calcola e soppesa ogni frammento di evento e di parola.

Ma le decisioni politiche espresse in modo chiaro, addirittura drammatico, nel giorno della Pasqua cristiana non si fermano qui. Accade che un notissimo giornalista e scrittore di origine egiziana e di religione islamica, Magdi Allam, abbia deciso di convertirsi, di diventare cattolico.

A tanti secoli di distanza dai tempi in cui la conversione di un imperatore doveva essere solenne e pubblica perché significava la conversione di un intero popolo, chiunque avrebbe pensato che la luce della fede secondo il Vangelo avrebbe raggiunto uno scrittore-giornalista nell´intimo della sua vita privata. Invece è accaduto qualcosa di sorprendente e di stravagante: Magdi Allam si è convertito in mondovisione. Il suo battesimo è stato somministrato personalmente dal Papa.

Il Papa - lo abbiamo detto e lo ricordiamo - è allo stesso tempo il capo di una grande religione e di un piccolo potentissimo Stato. Le conseguenze di ogni gesto, in entrambi i ruoli, hanno, come tutti sanno, un peso molto grande. E´ un peso che cade due volte sulla delicata e instabile condizione internazionale. In un primo senso una delle tre grandi religioni monoteiste celebra se stessa come la sola unica e vera, e presenta Magdi Allam come qualcuno che ha visto la luce e si è elevato molto al di sopra della sua condizione ("di religione islamica") precedente.

In un secondo senso una implicita ma evidente dichiarazione di superiorità è stata resa pubblica, solennemente, in un modo che non ha niente a che fare con l´intima avventura di una conversione. Lo ha fatto personalmente il capo della Chiesa cattolica dedicandola a tutti i Paesi consegnati allo stato di inferiorità detto "islamismo".

Per evitare incertezze su questa interpretazione, la clamorosa pubblicità del gesto diffuso in mondovisione è diventato il messaggio: Allam è salvo perché non è più islamico. E´ finalmente ospite della grande religione che è il cuore della civiltà occidentale.

Da parte sua Magdi Allam ha voluto offrire un commento chiarificatore. Ha spiegato che l´islamismo - moderato o estremista che sia - ha al suo centro il nodo oscuro della violenza. Ha sanzionato l´idea di una religione inferiore e di una superiore.

Comprensibile, anche se insolita per eccesso, l´illuminazione che Magdi Allam ha voluto dare al suo gesto per ragioni personali. Un giornalista, già noto, battezzato personalmente dal Papa in mondovisione lascia certo una traccia. Ma provate ad accostare il gesto di governo religioso di Papa Ratzinger, che accoglie personalmente un personaggio in fuga dall´inferno islamico e lo congiunge al rifiuto di nominare, nel corso di un altro evento altamente simbolico (la benedizione Urbi et Orbi), il nome di Israele, un Paese la cui sopravvivenza è in pericolo.

Senza dubbio si tratta di due eventi diversi, opposti e straordinari. Ma i due gesti si equivalgono, quasi si rispecchiano per un tratto in comune. Una delle tre grandi religioni monoteiste sceglie, al livello della sua massima rappresentanza, di essere conflittuale verso le altre. Alla patria degli ebrei e alla sensibilità religiosa degli islamici non viene dedicata alcuna attenzione. Non è strano?

Forse no, visto alcuni precedenti di papa Ratzinger. Uno è il discorso di Bratislava, che ha creato, come si ricorderà, una lunga situazione di imbarazzo. Un altro è l´esitazione e il ritardo, e di nuovo l´esitazione, nel porre il Tibet e la sua libertà, prima di tutto religiosa, al centro dell´attenzione.

E poi ci sono precedenti omissioni o disattenzioni di Joseph Ratzinger nei confronti di Israele, che hanno richiesto correzioni e provocato fasi di gelo che non si ricordano sotto la guida dei suoi predecessori.

Questo è il caso di un Papa-governante che è noto per essere un minuzioso tessitore della propria politica e che - a quanto si dice - non ricade mai nei giochi "di curia" o comunque nei giochi di altri.

Dunque è inevitabile la domanda. Mentre tace su Israele e battezza con la massima risonanza mondiale qualcuno che ha abiurato l´islamismo, mentre, intanto si tiene prudentemente alla larga dal Tibet, dove sta andando il Papa, dove sta portando la Chiesa di cui è governante e docente?

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 25.03.08
Modificato il: 25.03.08 alle ore 11.13   
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« Risposta #70 inserito:: Marzo 29, 2008, 06:36:57 pm »

Nazi-rock, nella culla del serpente

Furio Colombo


Niente sarebbe memorabile, nei gruppi, nei tipi umani, nei linguaggi e nei gesti dei personaggi a cui è dedicato questo libro e questo Dvd.
Niente, tranne il fatto che esistono. La loro esistenza è causa costante di un clamoroso equivoco che torna a ripetersi.

Nei media l’immagine presenta qualcosa di cupo e di grandioso come spesso immaginiamo che siano i volti e le manifestazioni del male. Molti di noi (che scrivono, riportano, commentano), attribuiscono a tutto ciò che riguarda la destra estranea alla democrazia e alla legalità, il volto tremendo e forte, autoritario e mortale la cui maschera ci portiamo dietro dalla storia: i nazisti con le croci di ferro; i fascisti con le armi in pugno delle Brigate Nere e della Decima Mas; le guardie di ferro di Antonescu, i croati torturatori di Ante Pavelich. In realtà il fascismo e il nazismo sono sempre stati squallore umano, morale, mentale. Ma - come i corpi di Frankenstein senza storia - gli squallidi adepti e i convertiti al regime, appena attraversati dalle scosse ad alta tensione del potere senza limiti, hanno coperto lo squallore con la maschera della forza e la vocazione a dare la morte. In tale veste e con tale maschera hanno riempito di sangue la storia - migliaia e migliaia di serial killer in austere, temute uniformi, capaci di lasciare il sigillo della paura e della sottomissione accanto ad ogni delitto.

Il ricordo di quelle maschere di sangue coincide con il ricordo di coloro che, a viso scoperto e senza potere, si sono ribellati, hanno tenuto testa, hanno pagato ogni prezzo per liberare il proprio Paese. Senza di loro - antifascisti e partigiani - e senza i loro torturati e i loro morti, quel territorio sarebbe stato solo un oggetto di scambio fra vincitori e vinti. Ma alcuni, fra gli eredi che hanno combattuto lo squallore e il potere senza scrupoli dei fascismi, stranamente, hanno cominciato a vergognarsi dei loro eroi e dei loro morti. Hanno cominciato a pensare che fosse di cattivo gusto verso qualcuno ricordare le stragi e la ostinata decisione di tener testa a costo di essere sterminati, hanno zittito chi osava mormorare l’aria di una canzone partigiana, hanno cominciato a raccontare la Storia a partire dai protagonisti sopravvissuti, e considerati «vittime», nel mondo del dopo strage.

Sgombrato il campo da ricordi, da lezioni di Storia e dalle occasioni di ricordare come nasce un Paese libero, c’è chi è diventato insensibile, chi opportunista, chi ingenuamente ignorante (nel senso di non sapere in buona fede). E chi, nel vuoto, ha sentito il potente richiamo dello squallore più desolato e del potere assoluto.


***


Ecco quello che accade in Nazirock, narrazione e documento visivo. È come tornare, per un misterioso scherzo della Storia, al fascismo prima del potere. È vuoto, è sbandamento in cerca di un furore violento che senza la scossa del potere non può esplodere.

Leggete nello scritto le parole e ascoltate nel video il suono delle voci che dicono quelle parole. Osservate i volti, scrutate i movimenti, di marcia o di adunata o di festa o di iniziazione o di danza dei gruppi giovani a cui è dedicata questa straordinaria inchiesta (che punta verso alcuni gruppi musicali di Nazirock come possibile reincarnazione).

Troverete questi ingredienti. Nessuna cultura, molta superstizione, uso di reperti e di residuati di regime come reliquie di una religione rozza, pregiudizio ottuso e ostinato, ricerca affannata di bandiera, stile, uniforme: tutto ciò - per la prima volta - ci dà l’occasione , come in un viaggio nel tempo, di osservare il fascismo prima del fascismo. Ci si arriva attraverso una pratica di espulsione, una sorta di ascetismo privo di luce: via la cultura, via la storia, via le regole, via lo Stato. Si cerca una disciplina primitiva e cieca. Si aspettano ordini.

Accade però di scrivere queste cose mentre in Italia divampano - moderne e organizzate - pericolose rivolte: coloro che non vogliono i loro rifiuti; e coloro che non vogliono i rifiuti degli altri. In tutti e due i casi si tratta di imboscate, assalti, guerriglia e sequenze di aggressioni organizzate. In tutti e due i casi - qualunque sia la ragione e persino la giustificazione o la provocazione - i nemici sono lo Stato, la polizia e qualunque tipo di autorità locale, qualunque posizione o decisione sia stata presa.

Sulla scena, segnata di distruzione e vandalismo organizzato, si vede una costellazione di gruppi che sembra oscillare da destra a sinistra, tra annebbiato ambientalismo e vendetta locale, tra tifoseria sportiva e spedizione punitiva su ordinazione. Le maschere, però, variano di poco. Lo squallore prevale; ma questori e investigatori non esitano a dire: «Qualcuno li paga». Il modello appare più vicino al crimine organizzato. Pagare per offendere, come è avvenuto intorno all’abitazione del coraggioso Presidente della Regione sarda, che probabilmente ha violato un codice di malavita in Campania, non in Sardegna (perciò si è ordinato di punirlo) accettando di accogliere una parte dei rifiuti di Napoli e dunque dando una mano alla normalità. Ma telecamere e fotografi hanno visto bandiere politiche per quei rivoltosi che, nel Dvd unito a questo libro, sembrano invocare ed evocare il disastro, l’incendio, la morte di qualcuno. Cercano - nel modo più rozzo e diretto - un potere.


***


Torniamo per un momento ai «Nazirock» che questa inchiesta ha scelto come materiale sensibile per guidarci verso aree di rigurgito del fascismo. Assistiamo a uno spettacolo strano. Manca voce, ispirazione, talento, musica. Non nel senso che la musica giovane di gruppi spontanei appare inferiore (in questo caso di molto) alla media colonna sonora commerciale. Impressioni di questo genere si possono avere (benché non così infime) dai gruppi rock dei centri sociali, militanti a sinistra. No, qui si assiste a due fatti diversi e sgradevoli: uno è quel senso di rancido della storia ingurgitata a forza e poi vomitata, come fanno i bambini ribelli con la verdura odiata e mandata giù con furore.

L’altro è lo spettacolo disorientante del fremito di ribellione in sé autentico, nel senso fisico e ormonale della parola. Ma disperatamente alla ricerca del capo, della predicazione, della proposta distorta a cui giurare servizio, fedeltà e rischio. È un cerchio di fuoco vuoto e afasico, forza fisica inespressiva come le urla più o meno ritmate (testi miserrimi) che dovrebbero essere canto, dovrebbero essere inno e richiamo.

Tutto ciò potrebbe sembrare disprezzo lombrosiano, se non ci fosse una spiegazione. La mia è questa. Giacimenti spontanei di violenza prefascista (nel senso di non ancora arruolata ed organizzata) giacciono sotto la destra italiana. Ora si incarna in tifoseria, ora in guerriglia urbana, ora in dimostrazione, ora in «ronde» leghiste o «guardie padane». È un giacimento che - come certi episodi mostrano - si estende fino a falde sommerse di una sinistra «casseur» e distruttiva, che ha sempre lo stesso bersaglio: lo Stato e l’attività quotidiana. È un giacimento al quale la destra rispettabile manda e ritira segnali, ora celebrando insieme i «caduti» negli scontri degli anni 60 e 70, come se fossero tutti reduci della stessa battaglia; ora mostrando grande rispetto per le istituzioni, ma con l’avvertenza di usare improvvisamente un linguaggio di disprezzo e rifiuto da dentro le istituzioni. La situazione, però, non è di stallo. Al contrario, è dinamica. E segna punti per l’affiorare in superficie della rozza e primitiva destra sommersa che si impara a conoscere in questo libro e si vede in questo film. È vero che questi gruppi hanno leader moralmente squalificati e intellettualmente vicini a zero. Ma essi sono camicie brune da eliminare al momento giusto per ereditarne i manipoli.

Un progetto? Piuttosto un modus operandi; perché la destra ufficiale ama il doppiopetto e la identificazione istituzionale. Anzi, come è stato tipico della destra di questo Paese, ama sbandierare l’identificazione con l’Italia. Ma non ha difficoltà ad associarsi anche pubblicamente, anche in alleanze di governo e anche in patti elettorali, sia con gruppi che insultano e rifiutano pubblicamente la bandiera del Paese, sia con personaggi grigi e minori, moralmente squalificati e politicamente poco più che capi-banda, che compaiono come «fascisti autentici» in questo libro e in questo video e nei margini oscuri della vita italiana.

Ciò vuol dire: la destra italiana si tiene a poca distanza dalla discarica quasi solo teppistica di ciò che resta e torna a dichiararsi fascista, nel caso che fosse necessario reclutare in fretta manovalanza diretta da quell’area. C’è di più. C’è qualcosa che è come una certificazione autentica di tutto ciò che leggerete e vedrete qui, compresi aspetti che un tempo sarebbero stati considerati impossibili e inammissibili.

Francesco Storace si fa fondatore de «La Destra» e subito segnala, con modalità non equivoche, di essere pronto adesso, subito, al reclutamento della destra che si riconosce e si esprime nel Nazirock, ovvero nelle forme primitive di fascismo. Tutti i testi di inchiesta giornalistica aspirano alla attualità immediata.

Questo che leggerete è incalzato da fatti accaduti dopo il libro, che servono da inequivocabile verifica del libro stesso. Poiché è una verifica del peggio, diventa chiaro per il lettore che questo libro e questo video sono anche un fondato e documentato segnale d’allarme.

Testo tratto dal libro «Ho il cuore nero» distribuito da Feltrinelli assieme al dvd del film «Nazirock»

Pubblicato il: 29.03.08
Modificato il: 29.03.08 alle ore 10.11   
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« Risposta #71 inserito:: Marzo 31, 2008, 12:36:44 am »

Il conflitto perfetto

Furio Colombo


Se Berlusconi vincesse le elezioni si realizzerebbe il conflitto perfetto. Perché non potrebbe più trattarsi di una «svista», qualcosa che è accaduto durante la corsa al potere, qualcosa che sul momento non si poteva evitare ma a cui si porrà rimedio «nei prossimi trenta giorni» (Paolo Mieli), «nei prossimi cento giorni» (Gianfranco Fini), «entro un anno dall’inizio della legislatura» (Franco Frattini, autore di una legge finta).

E anche perché questa volta non si potrebbe parlare di una temporanea disattenzione degli elettori. Chi lo voterà saprà, con esattezza, che sta portando di nuovo al vertice del governo italiano il più esemplare conflitto di interessi che vi sia nel mondo democratico, quello che riguarda il controllo praticamente totale delle fonti di informazione.

Gli elettori potranno invocare il fatto che pochi e poche volte gliene hanno parlato e hanno fatto notare la contraddizione vistosa fra democrazia e conflitto di interessi. Non ci illudiamo sul peso e sulla capacità di persuasione di questo giornale. Né cerchiamo l’alibi dei «io lo avevo detto».

Per chiarezza: condividiamo l’idea che meno si litiga e meglio si discute. Però è impossibile non notare due tratti di comportamento che rende difficile la tanto sognata discussione pacata. L’interessato svicola da ogni possibile confronto con tute le scuse. E quando gli chiedono di commentare un’idea o una proposta dei suoi avversari, prontamente replica che «quelli di sinistra fanno come Stalin». La battuta avrebbe animato il fortunato cinema d’altri tempi detto «commedia all’italiana».

Adesso serve a motivare le tristi e dure parole di Paolo Flores d’Arcais (La Repubblica, 25 marzo) che sarebbe bello - ma è impossibile - definire esagerate: «Se Berlusconi vincerà, il fondamento antifascista della Costituzione sarà irriso, la morsa clericale celebrerà fasti medievali, tolleranza zero verso gli emarginati, impunità totale per gli amici».

Gli risponde (La Repubblica, 26 marzo) Michele Serra: «Un quadro grave che amerei molto poter alleggerire, non fosse che è piuttosto realistico, anche perché descrive processi degenerativi della democrazia già ampiamente in atto». Mi sembra però necessario chiarire un punto della previsione triste di Flores d’Arcais.

Il chiarimento è questo. Il conflitto di interessi non è un vecchio signore di Arcore che vuole tornare a governare. Il conflitto di interessi è il centro di tutto e si ripete e moltiplica in ogni azione, iniziativa, dichiarazione o atto che Berlusconi compie. In altre parole il vero scandalo - adesso, e in un deprecabile futuro che dobbiamo essere capaci di rendere impossibile - è la continuazione del reato. Continuando, quel reato si allarga, occupa spazi sempre nuovi e attrae sottomissioni sempre più vaste, come si nota già adesso, osservando con quanto zelo una parte della borghesia italiana già va a mettersi a disposizione, dalla collocazione in lista ai favori, pur di farsi trovare nel posto giusto in caso di vittoria. Sa benissimo che, se Berlusconi tornerà alle sue ville a i suoi cactus, con il centro sinistra non perde niente. Ma con un leader vendicativo come l’uomo di Mediaset, è bene non farsi trovare dalla parte sbagliata.

Questo hanno notato i grandi giornali stranieri, da The Economist a The Wall Street Journal, esprimendo, persino con candore, la meraviglia per i sondaggi italiani. Si stanno chiedendo ad alta voce: «possibile?». Possibile che gli italiani preferiscano il prodotto usato pur avendo la certificazione internazionale del niente (con danno) che è stato il «berlusconismo»? È ricordato, sempre e da tutti, per l’amabile dialogo dell’allora presidente del Consiglio italiano e presidente del Consiglio d’Europa, con l’eurodeputato tedesco Martin Shultz, definito spiritosamente «Kapò»” dall’uomo di Arcore che ha poi descritto l’intero Parlamento europeo come un luogo frequentato dai «turisti della democrazia» solo perché non lo applaudivano come alle feste a pagamento di Forza Italia e, adesso, del «Popolo delle Libertà»?

***

Ma questo stato di sorpresa, condivisa nell’opinione pubblica europea ripetuta e manifestata dalla Spagna del Pais allo Zeit di Amburgo, è esso stesso prova delle conseguenza (in questo caso percezione distorta dei fatti) del conflitto di interessi.

E il conflitto di interessi, proprio mentre deborda dal suo alveo «normale» (notizie false o taroccate che si sovrappongono alle notizie vere e da cancellare a causa del controllo completo di tutte le fonti di informazione e della gigantesca intimidazione sugli operatori tecnicamente «liberi» che ne consegue) va mostrando, come una malattia non curata, la sua capacità di espandersi e perfezionarsi.

L’espansione si verifica nel momento in cui Berlusconi si impadronisce senza alcuna cautela del problema Alitalia, ne fa una questione elettorale, benché ogni sua dichiarazione abbia riflessi immediati sull’andamento del titolo in Borsa. E annuncia un suo modo di risolvere il problema che è due volte fuori legge. Una prima volta perché il candidato presidente del Consiglio (che oggettivamente è già in conflitto di interesse in quanto è l’uomo più ricco ed economicamente potente in ogni campo del Paese che vuole governare) non esita ad affermare che i suoi figli (i suoi figli) faranno parte di una cordata italiana che sostituirà la sola trattativa finora reale ed esistente, quella con Air France.

Una seconda volta perché nega, pur avendone parlato enfaticamente in televisione, di avere mai nominato i suoi figli, e annuncia in modo disinvolto, con l’espediente di «svelare qualche segreto» a un bravo reporter, una serie di nomi che sarebbero parte della nuova, grande avventura d’affari. Tutto ciò avviene in un articolo di prima pagina, de La Stampa (27 marzo) che reca la firma di un provato specialista delle confidenze di Berlusconi, Augusto Minzolini. Ma Augusto Minzolini è anche un buon amico, o meglio questa è la condizione per continuare a ricevere confidenze. Il 28 marzo si lascia benevolmente smentire. E benevolmente le varie Tv pubbliche e private stanno al gioco, che avrebbe stroncato altrove qualunque candidato: a mano a mano che le persone o gruppi indicati come partner della «cordata» smentiscono. Tutti si prestano a mettere in onda, senza precisazioni ulteriori, l’ultima notizia che Berlusconi decide di dare di se stesso. Afferma che non ha mai detto i nomi che ha detto. A tutti va bene così. Eccoci dunque di fronte al conflitto di interessi perfetto.

Primo, non riguarda solo le notizie, ma - come era stato ripetuto dagli allarmisti solitari che non hanno mai smesso di denunciare questo male terminale della democrazia - si estende apertamente a questioni economiche di grande rilevanza.

Secondo, mentre fa campagna elettorale per diventare presidente del Consiglio, Berlusconi non esita a restare con le mani in pasta in affari che lo riguardano, al punto di coinvolgere i suoi figli.

Terzo, nel farlo altera drammaticamente e gravemente il corso del valore delle azioni Alitalia, una iniziativa che sarebbe duramente contestata e punita in ogni legislazione che non consente il conflitto di interessi, e dunque lo «insider trading» (influenzare il corso di un valore azionario attraverso l’uso delle informazioni che hai o che generi).

Quarto, Berlusconi torna tranquillamente e indisturbato al primo tipo di conflitto di interessi, quello sul controllo delle fonti delle notizie. Di fronte alle smentite e alla prova di ciò che ha detto, annunciato, promesso da candidato elettorale, ma anche potente uomo d’affari, nega tutto. Non solo nega, ma attribuisce a Prodi e al suo governo il reato di cui lui si è reso colpevole. Insinua che lo svolgersi della trattativa in corso fra Alitalia e Air France, approvata dal governo italiano, sarebbe - quella e non le sue piazzate - la causa di un oscillazione dei valori azionari dell’Alitalia.

Detta così la balla è un po’ grossa. Ma per Berlusconi non c’è problema. I mezzi di comunicazione scritti, radiofonici, televisivi glielo passano, e non c’è autorità della concorrenza o le comunicazioni, che, finora, si sia fatta sentire. La vita continua e la probabilità che questo campione usato del conflitto di interessi vinca di nuovo le elezioni, alle quali si candida per la quinta volta benché «over Seventy», è considerata da molti troppo rischiosa per contraddirlo, per dare prova di ciò che ha effettivamente detto, dopo ogni smentita.

***

Vale la pena di osservarlo bene mentre dice - di nuovo senza il minimo riscontro - «Io sono un uomo di fatti, gli altri offrono solo parole», e lo dice con disprezzo rivolto a Veltroni, che è stato, con successo, sindaco della città più bella ma anche più complicata d’Europa.

Chiunque annunciasse una cordata che non esiste, mentre piovono smentite, comprese quelle grosse come una casa di Eni e Mediobanca, sarebbe considerato un «pataccaro», termine romano per coloro che tentano di vendere il Colosseo. Nel gergo americano il pataccaro è un «con-man» abbreviazione di «confidential-man», persona che a parole, ma solo a parole, guadagna attenzione e interesse per qualcosa che è falso o non esiste e comunque nasconde un imbroglio. «L’uomo dei fatti» se la cava, perché per le sue parole non esiste posto di blocco. Ripeto: è questo il conflitto di interessi perfetto.

Ma la storia diventa più interessante se uno si domanda, con la insistenza tipica della stampa americana: «fatti? quali fatti?».

Si potrebbe fare una bella celebrazione dei «fatti di Berlusconi» ricordando come tutto comincia. Comincia prima con un oscura ricchezza divisa in tanti depositi intestati a pensionate, segretarie e sconosciuti vari. Poi con una legge, speciale, unica, quella del governo Craxi, per consentire alle sue tante stazioni Tv locali di diventare «reti». Poi con un periodo di duro ed efficace controllo della televisione di Stato, sua unica concorrente in modo da tenere il concorrente nei limiti desiderati. È l’unico vero risultato dei cinque anni del suo governo, oltre alle leggi ad personam. Con quelle leggi «l’uomo dei fatti» si mette al riparo, attraverso una ulteriore estensione del conflitto di interessi (questa volta fra imputato e giustizia) dalle conseguenze penali di tutte le scorciatoie, sentenze acquistate, corruzione di giudici, falsi in bilancio, fondi neri, in modo da non dover mai pagare le conseguenze delle sue disinvolte iniziative (i fatti di cui si vanta sono quasi sempre reati) o a causa della prescrizione guadagnata dai suoi bravi avvocati, che fanno durare troppo i suoi processi (con la sarcastica collaborazione del premier che si presenta per dire «non lo vedete che devo governare e ho cose più importanti da fare che farmi giudicare?»). O perché i reati sono stati cancellati dal Codice con l’operosa attività dei suoi avvocati divenuti, intanto, membri o presidenti delle Commissioni Giustizia della Camera e Senato.

Ma è proprio su questo nuovo e interessante fatto politico che il conflitto di interessi, ormai maturo e solido puntello della vita privata, pubblica e politica di Berlusconi (e forse la vera ragione che gli fa desiderare di non abbandonare la politica) mostra tutta la sua forza.

Mi riferisco a una dichiarazione di Gianfranco Fini che ha annunciato, senza ripercussioni e smentite istituzionali che «il 13 aprile sarà la data in cui celebreremo finalmente la vera liberazione d’Italia». Il 13 aprile è il primo dei due giorni delle prossime elezioni, che Fini presume di vincere. Poiché quella dichiarazione è di un post-fascista, l’ostinazione a smentirlo e dunque a vincere queste elezioni dovrebbe farsi ancora più tenace e ostinata, per tanti di noi. Nessun giornale o tv ha autorevolmente detto a Fini che l’Italia è già stata liberata, il 25 aprile, e liberata proprio dall’oppressione degli antenati e predecessori politici del postfascismo.

Sul momento non sapevamo che la frase di Fini precedeva di poco l’annuncio della candidatura sotto le bandiere di Berlusconi (a cui si è piegato e sottomesso anche Fini) del fascista Ciarrapico, che della sua fede fondata sul delitto (Matteotti, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Fosse Ardeatine) sulla persecuzione dei nemici politici, sulle leggi razziali, fa un vanto orgoglioso e pubblico. Lo fa, in romanesco bonario, nella città che il 16 ottobre 1943 ha visto scomparire mille e diciassette cittadini ebrei romani (quasi nessuno è tornato) in un silenzio prudente di personaggi piccoli e grandi, un po’ come succede adesso.

Ecco dove il conflitto di interessi diventa perfetto. Una democrazia libera e normale non dà pace a un finto leader democratico che include con onori e fanfara nelle sue liste un fascista dichiarato con la motivazione «mi servono i suoi giornali» (segue, come sempre, smentita). Invece rispetto e silenzio. Chi vorrebbe farsi espellere disturbando il giocatore avversario che intanto è diventato arbitro (arbitro mentre gioca)?

La situazione resterà penosa, umiliante, estranea alla civiltà democratica fino ai giorni 13 e 14 aprile. In quei giorni sarà impegno e dovere di tanti italiani esseri sicuri che Paese e governo tornino a celebrare il 25 aprile, la data in cui Ciarrapico e i padrini del post-fascismo hanno perduto il controllo del Paese e l’Italia è diventata, e potrebbe tornare ad essere, un Paese grande, rispettato e libero.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 30.03.08
Modificato il: 30.03.08 alle ore 8.45   
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« Risposta #72 inserito:: Aprile 02, 2008, 03:14:21 pm »

Vieni avanti Gramazio

Furio Colombo



Un ex fascista, il senatore Gramazio, due giorni fa ha selvaggiamente picchiato il Consigliere di Amministrazione di una Asl di cui fa parte, per esprimere il suo dissenso su un punto all’ordine del giorno di quel Cda. Se il fronte lepenista di Berlusconi dovesse vincere le elezioni, dando luogo alla prima vera aggregazione di destra populista e fascista dopo la seconda guerra mondiale in Europa, c’è un solo argomento che nonostante il senso di smarrimento e di paura, non potremo usare. Quello della sorpresa. Chi sono e che cosa saranno i vecchi-nuovi venuti della maggioranza politica italiana, se sgradevoli circostanze ce la butteranno addosso, lo sappiamo già adesso. Lo sappiamo non per pregiudizio, ma perché ne veniamo informati dagli stessi interessati ogni giorno. Molti, per esempio, potrebbero avere pensato che non ci saranno mai più editti bulgari e licenziamenti alla Rai a causa degli umori e degli ordini del presidente del Consiglio.

Errore, fa sapere fin da adesso Silvio Berlusconi, che non ha ancora vinto e - dobbiamo volerlo e sperarlo con tutto il cuore e con tutto l’impegno possibile - non vincerà.

Berlusconi fa sapere senza equivoci che Santoro persevera nella sua “attività criminosa”. Quando l’epurazione toccherà di nuovo a Santoro, non potremo dire che non ci era stato detto e che Berlusconi si era finto normale, civile, democratico.

Non lo è. E tra la benevola disattenzione dei grandi media di tutti i tipi e di tutte le provenienze politiche o industriali, va a provocare i frenetici applausi che gli spettano nei teatri italiani, ripetendo, nel 2008, 20 anni dopo la caduta del muro, la gag del comunismo che minaccia il mondo.

Per coloro che si aspettano la buona armonia del lavoro “insieme”, viene avanti Ciarrapico, che è un capolavoro di schiettezza. È fascista e lo dice. Anzi fa anche tutti i gesti e ripete tutte le parole richieste per poter essere fascisti ed essere considerati fascisti. D’altra parte la carovana Berlusconi aveva già a bordo la camerata Mussolini che a sua volta è capofila di negazionisti e filo nazisti che l’Europa non potrebbe accettare (e - lo ha già detto - non accetterà) in alcun gruppo parlamentare europeo.

Il desiderio di accettare Berlusconi e la sua orda pagano-clericale-fascista come se fosse gente di Angela Merkel, di Chirac o di Sarkozy, (o si trattasse di eroi del proprio Paese come Mc Cain) viene brutalmente frustrata dall’esibizione del camerata Gramazio. Lo so, era senatore della Repubblica nata dalla Resistenza e retta da più democratica e civile Costituzione europea, quella di cui Calamandrei ha potuto dire: «Facile per noi onorarla e rispettarla. Ma quanto sangue è costato conquistarla per renderci liberi e restituirci dignità».

A Calamadrei potremmo forse rispondere oggi che non è più tanto facile neppure per noi difendere e salvaguardare quella Costituzione così duramente pagata.

Perché noi, per esempio, siamo coloro che in Senato si vedono di fronte Gramazio. È colui che, alla notizia del voltafaccia di Mastella, ovvero un ministro della Giustizia che all’improvviso fa cadere il governo di cui è parte per ragioni private e personali, agita una bottiglia di champagne appositamente portata in Aula, in modo da ottenere l’effetto desiderato. E quando si avvicinano i commessi del Senato che cercano di contenerlo, di tranquillizzarlo, nel corso del loro lavoro, rovescia loro addosso il getto di schiuma, urla e si aggira esultante come un adolescente scriteriato, agitando champagne e mortadella, nel luogo che sarebbe, e una volta è stato, il Senato della Repubblica.

Non possiamo negare che ha messo in scena una apertura esemplare di campagna elettorale. Persino Berlusconi, sul momento, sembrava aver notato il pericolo, se non altro per eccesso teatrale di volgarità. E su due piedi l’uomo tutto d’un pezzo di Arcore aveva detto che né Gramazio né l’altro protagonista dello spregevole spettacolo, il senatore Strano, sarebbero mai più stati inclusi nella lista di candidati. Lo sono. Perché alla fine l’uomo tutto d’un pezzo di Arcore deve avere apprezzato un rigurgito così grande e pieno e volgare, che a lui sarà sembrato anti-comunismo.

Ora però Gramazio sembra avere una preoccupazione in più. E se nel mondo nuovo dove stanno per venire dei Ciarrapico - che vanta le radici fasciste - delle Mussolini (“meglio fascista che gay”), delle Santanchè scortate dai naziskin teste rasate, degli Storace che minacciano di fare il pieno del peggio dopo Salò, la sua immagine apparisse, a confronto, molle e borghese?

Che cosa c’è di meglio che piazzare due pugni in faccia a uno che non ti dà ragione, mandandolo al pronto soccorso con prognosi di dieci giorni?

A questo punto nessuno potrà negare che Gramazio è un buon camerata. Nessuno lo nega e certo avrà avuto la sua parte di riconoscimento e di rispetto da parte dei “ragazzi”. Forse un pensiero lo ha fatto anche Fini - che infatti si è guardato bene anche solo dall’esprimere un cauto dissenso. Con gente come Gramazio forse Fini non si troverebbe più nella imbarazzante condizione di fare comizi a sale di cinema vuote. Gramazio, che sa come festeggiare e sa come punire nel suo tipo di Repubblica, saprebbe anche come riempire una sala per il capo.

Il fatto di cui sto parlando però, non riguarda Gramazio e la sua politica virile, tra pugni e champagne.

Il fatto riguarda noi, tutti noi che pensiamo di essere democratici e legati alla Costituzione. Riguarda quelli fra noi che si domandano cosa serve andare a votare se “i programmi si assomigliano” (rivedere per favore il capitolo sulla “televisione criminosa”) coloro che si divertono al fotomontaggio di Newsweek con il titolo copiato dal Foglio «Veltrusconi».

Riguarda coloro che - pur di dimostrare che sono più a sinistra - si preoccupano di dire che il nemico non è Berlusconi ma è Veltroni.

Riguarda quelli fra noi che pensano, insieme alla buona regia di tutte le Tv e alla “pacatezza” un po’ sospetta dei grandi giornali, che sia più civile lasciar correre le ragazzate, in attesa che tanti mitici Gianni Letta, siano pronti a sedersi allo stesso tavolo per il bene della Repubblica.

Nessuno di noi - quando Ciarrapico e Gramazio dovessero andare al governo, con tutti i camerati sia rasati che in grisaglia - potrà dire: «Così fascisti? Non lo sapevo». Sia chiaro, sto parlando di un incubo. Ma loro hanno il coraggio di essere sinceri, e gli elettori potranno decidere sulla base di ciò che sanno.

Vieni avanti Gramazio, fatti vedere bene, camerata di botte e di governo.


furiocolombo@unita.it




Pubblicato il: 02.04.08
Modificato il: 02.04.08 alle ore 8.55   
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« Risposta #73 inserito:: Aprile 03, 2008, 05:05:57 pm »

Quella sera in casa di Luther King

Furio Colombo


Ero ad Atlanta, quel giorno, 4 aprile 1968. Ero in casa di Martin Luther King, all’ora di cena, che nel Sud degli Stati Uniti è molto presto. Coretta King era a capotavola, nella sala da pranzo un po’ pretenziosa della loro casa di borghesia colta e nera. Io sedevo di fronte a lei, i due bambini maschi da un lato, la bambina dall’altro, accanto al reverendo Martin Luther King senior, il padre del predicatore, predicatore lui stesso, e anzi fondatore della piccola chiesa di Auburn Avenue, che era ancora il centro di tutta l’attività del leader del Movimento per i Diritti Civili.

Mancava la figlia più grande, Yolanda. C’era una giovane donna, parente di Coretta King, che si curava dei piccoli, girava intorno a noi, correggendoli e un po’sgridandoli, ma senza sedersi a tavola, perché andava e veniva dal telefono che era in una stanzetta detta «lo studio del dottor King».

Quando non è tornata (erano le sette di sera) e ad uno ad uno gli adulti si sono radunati in quella stanza, davanti al televisore acceso, è toccato a me restare con i bambini.

Sapevano che il padre era a Memphis «a predicare a tanti uomini e donne che facevano una marcia». Il più grande, Martin, sapeva anche perché. Erano coloro che tenevano pulite le città e per tutto quel lavoro «non li pagavano niente». E allora facevano una grande protesta e suo padre era lì, con loro.

La parte privata del racconto finisce qui. Qui cominciano le immagini della televisione, la più difficile da dimenticare è quella di Andrew Young e di Raph Abernathy inginocchiati accanto al corpo di Martin Luther King, sul ballatoio del Lorraine Hotel di Memphis. Young cerca di sollevare con la mano la testa insanguinata di King, appena colpito. Obiettivo facile, più facile di un film. Nei motel poveri d’America per raggiungere le stanze si passa da una terrazza esterna, come nelle case italiane «a ringhiera». Basta sapere il numero della stanza e aspettare con l’arma di precisione puntata alla porta, dopo avere calcolato l’altezza, e dunque la testa della persona da uccidere.Ma il film, più vero e più drammatico e sorprendente di un thriller, continua. In un’altra inquadratura del celebre filmato di quella sera, Andrew Young indica di fronte a sé. Non si vede dove indica, nell’inquadratura. Ma al di là da un ampio spazio desolato, c’è una vecchia casa rossa con scale antincendio esterne, e una grande terrazza in alto, più o meno all’altezza del secondo piano del Lorraine e proprio di fronte alla stanza di King, l’ultima sul ballatoio (a sinistra, guardando da fuori). Dunque a quella casa di fronte, di là dallo spazio desolato (erba, terriccio, auto abbandonate) si può arrivare da dentro, attraverso scricchiolanti e malconce scale di legno, oppure arrampicandosi sulla scala di ferro, da fuori.

L’importante è arrivare prima e appostarsi.

Il perché l’ho capito arrivando, con il cameraman della Rai, dalle scale di legno. Il primo e il secondo piano sono vuoti. Il terzo è un immenso stanzone con brande e sedie. Ci sono una cinquantina di uomini quasi tutti anziani, alcuni incapaci di muoversi o per il tremore o per il disorientamento, perché guardano assenti. Non si vedono infermieri. C’è stato un putiferio di grida al nostro arrivo. Poi è cessato, quasi di colpo, e un grande silenzio, o parole dette a voce molto bassa e senza alcuna coerenza, seguivano il nostro lavoro di montare la telecamera.

Abbiamo chiesto dove si era piazzato l’uomo con l’arma di precisione. Uno che poteva camminare, con un sorriso dolce ci ha indicato un punto, poi un altro. Ha puntato in basso, dove non ci sono finestre, poi in alto, forse per dire dove vanno le anime dopo gli spari. Rideva in modo dolce, come se si rendesse conto della sua impotenza. E della nostra.

C’erano tracce di piedi e di scarponi, ma di chi, ma da quando? C’era già stata la polizia? Molti hanno battuto le mani, altri si sono voltati verso il muro.

Ci hanno avvertito della rivolta di Washington, diceva la radio: «La capitale degli Stati Uniti è in fiamme».

Siamo partiti subito. A quel tempo, in America, c’erano voli anche di notte. Si chiamavano red eyes (occhi rossi) e costavano meno. Era prima, molto prima della mitica de-regulation di Reagan, che ha tagliato a metà l’aviazione civile americana e moltiplicato i costi, perché tutto è stato lasciato alla discrezione di un cartello detto «concorrenza».

A Washington era difficile entrare in città, a causa dei posti di blocco di Guardia Nazionale e paracadutisti, i soldati che avevano sostituito la polizia metropolitana nel tentativo di riprendere il controllo della città. Ma a quel tempo le credenziali di giornalista erano sacre.

All’aeroporto abbiamo fatto la cosa più rischiosa ma anche più utile: abbiamo noleggiato una di quelle enormi auto scoperte che si vedono nelle parate dei film anni Cinquanta.

In quel modo potevamo filmare intorno senza i limiti dei finestrini. Con quell’auto, alla sera del primo giorno, e dopo avere filmato la distruzione (interi isolati di case in fiamme, incendi provocati dai rivoltosi neri nei quartieri e nelle case dei neri, il resto della città era sbarrato da cingolati messi per traverso, filo spinato e soldati) siamo andati nel piccolo edificio a due piani in cui Robert Kenney aveva organizzato il suo ufficio per la sua campagna elettorale. Era candidato democratico contro il presidente democratico Johnson, era il candidato contro la guerra nel Vietnam, votata da senatori e deputati del suo partito. Stava vincendo, ad una ad una, con i suoi indimenticabili discorsi, tutte le elezioni primarie.

Gli ho proposto l’idea pazzesca di venire sulla nostra auto scoperta. Saremmo andati alla Quattordicesima strada, angolo F street dove era cominciata la rivolta, una o due ore dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther King.

Robert Kennedy mi ha chiesto un quarto d’ora per riflettere. Si è ritirato in uno stanzino diviso da una porta a vetri. Potevamo filmarlo, mentre, muovendo un po’ le labbra, stava «pensandoci» come aveva detto, e lo abbiamo fatto, senza tagli o montaggi, Kennedy non ha consultato nessuno. Ha deciso da solo, neppure Ted Sorensen, comune amico e che si vede accanto a me e a lui nel documentario di quel momento. È venuto da solo.

Era notte e non c’erano luci perché l’energia elettrica era stata tolta in città. Siamo entrati in un’area che sembrava vuota e spenta. Ma quando abbiamo acceso l’unico riflettore, puntandolo su Robert Kennedy, che si era alzato e stava dritto sulla parte posteriore dell’auto, alcuni ragazzi si sono avvicinati. Sembravano dieci o venti, e invece erano molti di più, così è accaduto in pochi minuti. C’era una di quelle reti metalliche dei campi da gioco urbani. La rete consentiva a Bob Kennedy di appoggiarsi e di lasciarsi spingere più in alto. Non da noi, dalle mani dei giovani neri.

È in quel modo, in quella condizione, in quella notte, che il giovane senatore Robert Kennedy ha parlato ai neri di Washington in rivolta. Ha parlato di «mio fratello» e di «vostro padre» che sono stati assassinati nella stessa maniera.

«Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di rispondere alla violenza senza violenza. Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di non spargere sangue. Perché noi siamo la prossima America».

Mancavano solo due mesi, stesso giorno, quasi la stessa ora, all’assassinio di Robert Kennedy (ricordate?, Ambassador Hotel di Los Angeles, la notte tra il 4 e il 5 giugno di quello stesso 1968, dopo che Robert Kennedy aveva vinto anche le ultime elezioni primarie in California, e dunque era certo della sua designazione a candidato del partito democratico e certo della sua vittoria alle elezioni presidenziali).

Dunque «la prossima America», senza violenza di cui Kennedy ha parlato quella notte, dopo l’uccisione di Martin Luther King a Memphis e prima della sua uccisione a Los Angeles, quella volta non è venuta. Non ancora. Per questo ha mosso e sconvolto e appassionato gli americani il discorso di Barack Obama, appena due settimane fa a Filadelfia. «La prossima America» è di nuovo in cammino. Di nuovo cerca giustizia per coloro che sono stati lasciati indietro, di nuovo sta dicendo agli americani giovani che il loro destino è molto più grande e importante del morire e combattere. Di nuovo la parola «speranza» ha un senso più vasto e risonante della parola «potenza».

Per questo è giusto ricordarsi di Martin Luther King - e del suo fratello bianco Robert Kennedy - il 4 aprile di un anno in cui potrebbe accadere ciò che non è accaduto, qualcosa di grande e di preannunciato dal senso delle loro vite.

Pubblicato il: 03.04.08
Modificato il: 03.04.08 alle ore 8.28   
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« Risposta #74 inserito:: Aprile 06, 2008, 06:33:01 pm »

Quirinale con vista

Furio Colombo


Uno strano evento ha attraversato la settimana politica italiana, con la complicità dei giornali e delle Tv che vi hanno dedicato ampio spazio. Sono stati i colpi violenti, le manate maleducate al portone del Quirinale.

Berlusconi dice di essersi espresso male o di essere stato frainteso, e ha anche smentito, secondo il suo rigoroso modo di operare (la sua Repubblica è fondata sulla smentita). Può anche darsi che gli si debba concedere l’attenuante delle condizioni estenuanti e della difficoltà di condurre - come sta dicendo - una campagna elettorale alla cieca in cui dice e ripete un’unica proposta, anzi una perentoria richiesta: «Datemi il potere, e poi so io che cosa farne».

Però una cosa è chiara e neppure Bonaiuti, l’uomo che, secondo Berlusconi, «nei momenti difficili è sempre in bagno», ma che a noi pare molto efficiente, potrebbe smentire.

Questa cosa è l’affannosa ricerca, da parte dell’uomo di Arcore, non della porta di Palazzo Chigi, ma del portone del Quirinale. La cosa fa differenza persino se non ci si abbandona all’incubo di Berlusconi che torna a governare.

Noi (noi, tutti gli italiani) sappiamo che, governando da primo ministro, Berlusconi ha violato tutte le regole possibili, scritte e non scritte, dalle buone maniere alle missioni impossibili. Ha licenziato giornalisti italiani di aziende che non hanno niente a che fare con i poteri del premier. Ha insultato parlamentari di altri Paesi sia da premier che da ministro degli Esteri ad interim.

Ha inventato una guerra in Iraq che per l’Italia non esisteva (su quella guerra il governo italiano non è mai stato consultato e non ha mai preso parte ad alcuna decisione), con regole di ingaggio che sono costate la vita a soldati italiani privi di protezione. E adesso la Corte dei Conti ci fa sapere che una parte dei soldi destinata alla protezione dei soldati e all’assistenza alla popolazione civile è stata stranamente dirottata su altri bilanci su cui ora la corte sta indagando. Inoltre Berlusconi ha annunciato a raffica cose che non ha neppure cominciato a fare, come i 136 cantieri delle opere pubbliche, il ponte di Messina o la riforma «come un calzino» del ministero degli Esteri.

Adesso pensa al Quirinale. Si dirà che il presidente della Repubblica in Italia non ha poteri. Ma è proprio intorno a questa constatazione che l’incubo “ritorno di Berlusconi” diventa una minaccia istituzionale. Stiamo parlando di un personaggio che, persino in buona fede, e anche a causa del vasto potere personale che gli conferisce la ricchezza e il completo dominio sulle comunicazioni italiane, è interessato al fatto, ma non al diritto. Non al senso giuridico, meno che mai istituzionale, di ogni cosa che fa. È interessato soltanto a ciò che - legale o illegale - va bene per lui.

Un politico tradizionale, anche se di destra, anche se privo di scrupoli, avrebbe agito dietro lo schermo dei suoi apparenti limiti decisionali per raggiungere scopi brutali come la cacciata dei «criminosi» Biagi e Santoro e Luttazzi dalla Rai. E avrebbe raggiunto il non nobile fine della vendetta personale che gli stava a cuore, lasciando cadere altrove le responsabilità della decisione, protetta da uno schermo di forme e di apparenti espedienti procedurali.

Ora fate attenzione. Berlusconi non ci pensa due volte a divellere con le sue mani i paraventi di buone maniere che separano - e mantengono un poco al riparo - la presidenza della Repubblica dalla politica quotidiana e dai suoi colpi a volte clamorosi e volgari.

Sappiamo tutti che quei paraventi sono strumenti fragili che, tuttavia, hanno un compito che conta molto per le istituzioni e per i cittadini. Consentono al Capo dello Stato, proprio perché è un alto simbolo senza potere (o con pochi, limitati ma essenziali poteri come quello di designare il primo ministro o di sciogliere le Camere) di essere una garanzia per tutti, accettata e rispettata da tutti. Si tratta di un carattere difficilmente soppesabile, un po’ come le “divisioni del Papa” su cui faceva osservazioni sarcastiche Stalin. Il Papa, infatti, non aveva divisioni, ma è stato il mondo di Stalin - che di divisioni ne aveva moltissime - a scomparire, non il mondo apparentemente indifeso del Papa.


* * *


Dunque i poteri non giuridicamente definibili, fatti di consenso dal basso e di responsabilità morale dall’alto, hanno un peso molto grande nella vita di un Paese. Per esempio sono un impedimento all’uso eccessivo, squilibrato o arbitrario di coloro che hanno effettivamente una certa dotazione di potere - come i primi ministri - e la usano male.

Ma se Berlusconi sceglie proprio adesso il momento di vendicarsi di Oscar Luigi Scalfaro, di Carlo Azeglio Ciampi, e - in uno strano modo preventivo, che sa di finta lode e di vero avvertimento - di Giorgio Napolitano, c’è una ragione piccola e una ragione grande.

La ragione piccola è che, qualunque sia la buona e consigliabile strategia di una campagna elettorale in cui persino per lui sarebbe bene essere più accorti, gli preme scaricare la sua malevolenza contro coloro che, con grande senso dello Stato, hanno contenuto, limitato o impedito i gesti di una quotidiana prepotenza che sono stati i principali snodi del modo di governare di Berlusconi, dalle leggi personali a quelle per le sue aziende.

In particolare: come può, l’uomo di Mediaset che vuole governare ancora una volta le sue aziende e l’Italia, accettare la decisione di Ciampi di rinviare alle Camere la penosa legge sulle Comunicazioni scritta apposta per lui da un «antemarcia» del Popolo della Libertà, certo Gasparri, che si era arruolato nel Pdl di Berlusconi molto prima che il Pdl esistesse?

La ragione grande, quella a cui gli elettori, anche coloro che non si sentono chiamati dalle proposte e dalle idee del Pd dovrebbe prestare attenzione, è che - se diventasse Presidente della Repubblica - Berlusconi si comporterebbe secondo la sua visione dei fatti totalmente separata dal diritto. Sei al Quirinale, il colle più alto e la magistratura suprema del Paese? E allora che cosa ti importa di quali poteri sono prescritti e previsti e di quali non sono contemplati dalla Costituzione? Prima di me - lui dirà - c’erano politici imbelli dediti alle buone maniere. Lui è fattivo e farà.

Contro un presidente che esorbita esiste - anche nella versione italiana - una sorta di «impeachment». Provate a immaginare di farlo con lui. Primo, dirà che in realtà volete espropriare le sue aziende, che intanto faranno capo direttamente al Quirinale. Secondo, avrà pur sempre abbastanza sostegno, acquisito alle urne o acquistato al mercato della debolezza umana, per impedirlo. Terzo, da capo dello Stato ha diritto alle reti unificate, che sono il suo vero progetto fin da quando ha mandato alle varie Tv italiane quella famosa cassetta preregistrata in cui, con le dovute cautele e trucchi visivi, annunciava la sua «discesa in campo». Se riesce, già adesso, con poche telefonate, a controllare interi consigli di amministrazione di cui non fa parte e a intimidire intere testate giornalistiche in cui non ha investimenti diretti (c’è pur sempre il controllo di tutta la pubblicità) con le reti unificate farà miracoli di governo.


* * *


È importante non dimenticare un aspetto singolare, unico, del trascorso e infausto governo Berlusconi. Ad ogni attacco o anche solo cauta critica sul suo operato o sull’operato del suo governo, l’uomo della libertà mandava a dire che ogni giudizio contro di lui era in realtà un giudizio contro l’Italia. Per ogni polemica sul suo modo di governare evocava il tradimento. E subito si associavano i suoi, nelle Camere e fuori. Infatti, come sanno deputati e senatori del Popolo delle Libertà che, non avendo consentito sul cento per cento di tutto non sono stati ricandidati, gli ordini sono ordini, e dunque non sono ammessi «deviazionismi» di nessun tipo.

Una volta Umberto Eco ha notato che il modo di intendere il potere, il rapporto con il partito e gli elettori di Silvio Berlusconi e la sua pronta e irritata condanna per ogni pur vago dissenso, è l’«ultimo comunismo».

La scorsa settimana, in un memorabile editoriale su la Repubblica, Eugenio Scalfari ha invitato i lettori a riflettere sul pericolo dei «dodici anni di governo» di Silvio Berlusconi, cinque come primo ministro in caso di vittoria alle urne, e sette da presidente della Repubblica. Scalfari implicava, e io mi sento di dire: dittatore a vita. Là dove la dittatura non deve intendersi (sempre) come restrizione personale, alla vecchia maniera. Ma certo gli avversari devono aspettarsi un monitoraggio elettorale stretto. Per esempio la pratica di far spiare dai servizi segreti militari giudici e giornalisti, già sperimentata nel suo ultimo governo, non promette bene. Dittatura vuol dire togliere la parola, salvo Blog e foglietti. Ma intervenire su tutto a reti unificate sarà (sarebbe) il suo capolavoro: un mondo finto come i modellini computerizzati del ponte di Messina, mandati in onda a tutte le ore nei telegiornali italiani in modo da convincere che quel ponte già esiste e chi si oppone è un luddista o un pazzo.

Ma la vera controparte, il vero nemico che Berlusconi governante a vita preferisce è il traditore, l’anti-italiano che cerca di levare la voce del dissenso e tenta di dire la vera storia, opponendosi così - lui dice e dirà - non a lui ma all’Italia.

Qui occorre notare che - dal tempo della «discesa in campo» ad oggi - Berlusconi ha certamente cambiato e aggiornato i suoi modelli. Ai tempi dell’arrivo di Berlusconi da Arcore si vedeva ben disegnata sul fondo l’ombra di Juan Peron.

Tuttora provoca una immensa meraviglia (certo nella cultura politica del mondo) ricordare che l’uomo più vecchio e datato del mondo politico europeo negli anni Novanta, un paleo-monopolista che ha fondato il suo impero su favori di governo e altri favori, senza mai alcun vero debutto sul mercato inteso come concorrenza e sfida dei migliori, è stato visto, anche in Italia, e anche a sinistra, come qualcuno che «ha capito la modernità» e che «porta modernità».

Nel frattempo però è avvenuto un drastico aggiornamento. Il modello adesso è Putin. Non bisogna dimenticare che uno dei suoi più attivi strumenti di denigrazione e di governo, la non dimenticabile commissione Mithrokin, il cui scopo era di dimostrare l’affiliazione di Prodi al KGB, ha agito con personale a pagamento della Russia di Putin, ed è incorso nella disavventura di alcuni non dimenticabili delitti (spaventosi persino in un esagerato serial Tv) come la morte pubblica, per avvelenamento di polonio, della spia Litvinenko, alla presenza del consigliere principale della Commissione parlamentare, certo «Prof. Sgaramella» presentato e retribuito come star della intelligence mondiale e finito in prigione per falso. Falso su tutto. In altre parole, il Paese in cui è stata assassinata per eccesso di libertà la giornalista Olga Politoskaia è, attraverso l’amico Putin, il modello di comportamento del governo Berlusconi, del governo dei dodici anni.

Una presidenza della Repubblica priva di poteri formali è l’ideale per ospitare un potere forte la cui forza dipende dalla ricchezza, dalle aziende, dalla sottomissione dei dipendenti e dei tanti che aspirano a diventare dipendenti. Tutto ciò che è stato detto fin qui sembra motivato esclusivamente da antagonismo politico. Vi prego di rileggere. Noterete che, togliendo l’aggettivazione negativa e i giudizi personali, certo di profondo dissenso e di incolmabile distanza, la storia che ho provato a tratteggiare, non cambia.

Nel futuro desiderato da Berlusconi l’Italia si impantana in una semidittatura fondata sul potere a senso unico della televisione, e servito dalla sottomissione di molti giornali. Il pericolo, oggettivamente, è grande.


* * *


A confronto con questo scenario, che mi pare purtroppo fondato, provo disorientamento e stupore ogni volta che si rinnova - sempre e solo da parte del Pd - l’esortazione, la speranza, o addirittura la preghiera, di fare qualcosa di «bipartisan».

A parte la legge elettorale, che è una disperata urgenza del Paese, una specie di pronto soccorso delle condizioni minime della democrazia, con cui è inimmaginabile che persino gli autori del misfatto (la «porcata» di Calderoli) rifiutino di misurarsi, non si trova traccia di una offerta, o anche solo di uno spiraglio d’apertura a destra, sul «fare insieme». Né si capisce perché si dovrebbe desiderare. A me non risulta che Barack Obama, ma anche la più pragmatica Hillary Clinton, abbiano mai pensato di coinvolgere George W. Bush e i suoi deleteri ideologi in qualche tipo di conferenza comune per il futuro degli Stati Uniti.

Il Congresso americano, come si sa, è spesso «bipartisan». Ma è un Congresso (Camera e Senato) che non ubbidisce agli ordini del Presidente e agisce in piena autonomia. Nessuno, tra loro, avrebbe accettato l’ordine di insultare in pieno Senato una persona come Rita Levi Montalcini, anche perché la grande stampa e Tv di quel Paese non avrebbe aspettato la denuncia indignata di un solo piccolo giornale come l’Unità per darne notizia e giudicare ignobile il fatto. Perché allora in questa Italia, dove Berlusconi insulta ogni giorno Veltroni, e tutti gli altri si occupano di farci credere che Prodi è peggio di Attila, si deve fare ala riverente al passaggio della più stupida idea mai affiorata tra le bravate della destra? L’idea è che i problemi della scuola italiana si risolvono se gli studenti si alzano in piedi quando entra un insegnante. Intitola il Corriere della Sera (2 aprile): «In piedi quando entra il prof. Franceschini apre al Cavaliere». E scrive: «La proposta di Berlusconi sembra avere un appeal bipartisan».

Perché? Nella mia scuola fascista i bambini dovevano alzarsi in piedi quando entrava l’ispettore della razza. Che rapporto c’è fra una proposta così modesta e irrilevante e la vera profonda crisi della nostra scuola, vigorosamente aggravata dalla Moratti? Come dice Crozza, Franceschini, buona sera Franceschini. Non potremmo avere un’idea migliore, e per giunta nostra? Perché ci tormenta il bisogno di dare ragione a Berlusconi, visto che il suo torto verso l’Italia è così grave che ce lo ripetono da ogni angolo del mondo?

furiocolombo@unita.it





Pubblicato il: 06.04.08
Modificato il: 06.04.08 alle ore 15.54   
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