LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTRICI e OPINIONISTE. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 13, 2007, 11:21:55 pm



Titolo: LIDIA RAVERA.
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2007, 11:21:55 pm
Chi picchia le donne

Lidia Ravera


La prima frase era veramente carina: «Nessun Dio autorizza un uomo a picchiare la donna». Sacrosanta, ben detta (io avrei usato l’articolo indeterminativo, nessun dio autorizza un uomo a piacchiare una donna, ma sono sfumature). La seconda frase era - nelle intenzioni - umoristica: «È una tradizione siculo-pachistana, che vuole far credere il contrario», e lì il ministro dell’Interno è scivolato in una trappola. Voleva dire che l’Italia non è la Svezia, che fino a qualche decina d’anni fa se un uomo tradiva la moglie erano fatti suoi se una donna tradiva il marito era la galera, voleva dire che in Sicilia se una ragazza veniva rapita a scopo di libidine poi doveva lasciarsi sposare se no era disonorata, voleva dire che ancora oggi gli uomini godono di libertà, rispetto, potere ben maggiori di quelli di cui godono le donne.

Voleva dire che se un uomo è scapolo è desiderato e conteso, se una donna è zitella è disprezzata e derisa, voleva dire che anche nel nostro sud, trent’anni fa, vent’anni fa, si usava la copertura della religione per discriminare le ragazze. Casta, pura, illibata, scortata dalle zie, condannata, condizionata oppure velata, infibulata, lapidata.

Sono variazioni significative ma sono variazioni di una stessa musica: Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, la donna, invece, è uguale sputata al demonio, sotto forma di Eva tentatrice. L’uomo ha il peccato originale che poverino non era poi neanche colpa sua, la donna è titolare di tutti i duplicati: è corrotta e corrompe, se ha il ciclo fa appassire i fiori, se sgarra la fai nera, se la sposi diventa roba tua.

Subisce, la donna, ancora oggi, buona parte degli effetti collaterali del suo statuto di oggetto, di cosa rosa, puttana e graziosa, di essere inferiore alla persona. Da noi, fra pizza tanga e chiese, come da loro, fra montone stufato burka e moschee.

Voleva dire tutto questo, il dottor Sottile? Certo che no. Voleva dire molto meno, ma ha commesso l’errore di nominare una regione. E questo, nell’Italia disunita delle suscettibilità locali, non si può fare. Non puoi dire falso e cortese a un piemontese, come non puoi dire che abita una terra di mafia a un siciliano. Ci sarà sempre un torinese che si dichiara sincero e cafone e un siciliano che si dichiara onesto e legalitario. E avranno assolutamente ragione. Peccato che, negando la base di realtà che corre sotto le barzellette (l’umorismo per questo è crudele), rinuncino a prendere atto del problema e a darsi da fare per risolverlo. Così è con le donne, ahimè. Tutte insorgono, attrici e politiche, damine e ministre, su base locale e sessuale, ma nessuna dice che lo specchio dell’Islam più integralista e arretrato riflette una tendenza ancora operante anche nel primo mondo: discriminare le donne con l’alibi della religione. Anche cattolica. Basta prestare ascolto a Benedetto sedicesimo, che le donne le vuole al servizio della specie, senza diritto di interrompere una gravidanza indesiderata come di farsi aiutare dalla scienza per ottenere una gravidanza desiderata e impossibile per vie naturali.

Le grandi religioni monoteiste non amano le donne. Gli interpreti integralisti di tutte le grandi religioni monoteiste non amano l’amore. Sono, gli integralisti, quei personaggi così certi di essere nel giusto e così bisognosi di coltivare questa certezza, che, di regola, finiscono di essere chiusi all’altro da sé, nemici di chiunque sia diverso, intransigenti, sordi per scelta e volontariamente ciechi, sepolti nella loro presunzione di innocenza, immodificabili. Una battaglia collettiva, bipartisan e cattomusulmana, contro gli integralismi, farebbe un gran bene a tutto il nostro paese, da Bolzano a Siracusa. Una battaglia contro quelli che picchiavano le donne e non le picchiano più, ma vorrebbero picchiarle ancora. Contro quelli che continuano a picchiare le donne ma non lo dicono più. Contro quelli che picchiano quelli che picchiano le donne, pur di picchiare qualcuno.


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Pubblicato il: 13.07.07
Modificato il: 13.07.07 alle ore 7.49  
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Titolo: Lidia RAVERA - Lo scatto della paura (Ancora Oliviero Toscani per riflettere).
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2007, 04:29:30 pm
Lo scatto della paura

Lidia Ravera


Due grandi occhi azzurri, lineamenti regolari, un naso delicato, la fronte alta, i capelli biondi, la bocca ben disegnata, il collo fermo della piena giovinezza: è il viso di una ragazza molto bella, quello che fissa l’obiettivo, ma il corpo su cui sembra appoggiato è il corpo di una vecchia emaciata, di un’internata nei campi di sterminio, una di quelle per cui la liberazione è arrivata troppo tardi. I seni sono due piccole sacche vuote, le gambe non hanno muscoli, i glutei non hanno carne, il pube è glabro, il ventre magro, le mani e i piedi sproporzionati.

L’immagine è sconvolgente per questo: è la bellezza orribile, un ossimoro. Per un attimo, quello in cui Oliviero Toscani scatta la fotografia, la ragazza (una modella, che sa come si sta in posa) prova ancora a sedurre.

Subito dopo, è evidente nello sguardo sbigottito e già assente, nello stato di avanzato impoverimento della persona, subito dopo prevarrà il brutto, il malato, il decrepito. E sarà finita. L’ho vista, come tanti, in una doppia pagina centrale, su La Repubblica, l’ennesima opera «provoc-artistica» del noto fotografo. Sono rimasta ferma a guardarla, smettendo di leggere il giornale. L’ho guardata a lungo e mentre la guardavo, il fastidio , il disagio di avere sotto gli occhi una nudità deforme, diminuiva, mentre prevaleva l’ammirazione per la precisione chirurgica dell’aggressione alle nostre coscienze. «No, anorexia», lo slogan scritto grande. «No-lita», il marchio, che richiama l’eccitante adolescente «Lolita» e la umilia con la «no» di nonna.

Ho pensato a Giovanna Melandri e alla sua campagna contro la taglia 38. Ho pensato a una «pubblicità progresso» particolarmente azzeccata. Ho pensato: «bravo governo, soldi ben spesi», se è il ministero dello sport e delle politiche giovanili che l’ha commissionata a Oliviero Toscani (che fosse lui l’autore materiale dello scatto non avevo dubbi, riconosci i suoi ritratti come riconosci un Van Gogh).

Ho pensato: l’unica immagine che può scoraggiare le ragazze dal progetto di praticare la denutrizione per essere belle è mostrare una ragazza che la denutrizione ha reso brutta. Come dire: non è questa la strada, sorelle. Non fatelo. Ho pensato: vale più di qualsiasi reprimenda materna, di qualsiasi moralismo sul prevalere del progetto-bellezza a scapito di qualsiasi altro piano di studi per il futuro. Il messaggio è: non fatelo perché non funziona. Non è elegante, non è elevato, ma non importa. Insomma, ero contenta. E sono rimasta contenta anche quando ho scoperto, guardando il giornale da vicino, una scritta piccolina, sul lato sinistro: Gruppo Flash&Partners spa. Con tanto di numero telefonico, oltre all’immancabile sito.wwwnolita.it.

Ho pensato: dunque non è il Ministero, è un’iniziativa privata, un’azienda che lavora nell’ambito della moda e che, dopo avere venduto per una vita i suoi prodotti mediante esibizione di anoressiche vestite, ne spoglia una... perché? Perchè pensa di venderli meglio? Perché l’ufficio furboni ha consigliato qualcosa di forte? Certo, siamo talmente bersagliati da immagini che per colpire la nostra attenzione assuefatta occorre aumentare la dose del dolore , dell’orrore, del grottesco. Che cosa venderà la Flash&Partners? Jeans o abiti da cerimonia? Felpe o falpalà? È una mascalzonata farsi conoscere dando pubblicità alla malattia? È cinismo usare una sacrosanta campagna contro i disordini alimentari per veicolare il proprio marchio?

Tutte domande lecite. Resta il fatto che l’immagine è efficace, perché fa spavento. Non importa se i modaioli fingono di avere i sensi di colpa, perché sono le loro supermagre mannequin ad aver dato il cattivo esempio alle ragazze, e invece ne hanno così pochi che, dopo aver fatto il danno, lo esibiscono pure. Non importa se hanno appeso per trent’anni i loro costosi stracci su corpi femminili ridotti a ossute grucce, boicottando pane e carboidrati, latte formaggio e torte alla panna, riducendo centinaia di citrulle in fin di vita, spingendo le loro madri a liposucchiarsi, perché per le donne non c’è rispetto, non c’è rispetto per la loro persona, devono sempre assomigliare a qualcun’altra, a qualcos’altro... non importa. Importa soltanto il risultato. Strappare una ragazza al suo delirio. Mostrarle che cosa rischia. Farle paura.

Pubblicato il: 25.09.07
Modificato il: 25.09.07 alle ore 9.21   
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Titolo: LIDIA RAVERA... Divorzio all’Eliseo, dalla parte di Cecilia
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2007, 06:37:32 pm
Divorzio all’Eliseo, dalla parte di Cecilia
Lidia Ravera


Nella fotografia che li ritrae insieme (lei che lo guarda ironica ma affettuosa come la madre di un discolo sorprendente, lui di profilo, intento a ridersela da solo) Cecilia e Nicolas Sarkozy, hanno due facce veramente simpatiche.

Si vede che non si amano, ma in quel modo solido e sereno in cui non ci si ama a cinquant’anni, essendo marito e moglie.

Si vede anche che, entrambi, possono permettersi il lusso di qualche giro di tango fuori dalla coppia: sono “grandi borghesi”, e vivono in Francia.

Un paese che guarda con commossa tolleranza alle trasgressioni dei potenti (valga per tutte la storia di Mitterand e delle sue irregolarità coniugali). Nei giorni bollenti della campagna elettorale, nel momento in cui il povero Sarko doveva vedersela con una signora già abbastanza impegnativa (Sègoléne), Cecilia c’era e non c’era. Brindava e spariva, insomma: faceva casino. E’ stato chiaro da subito che non aveva intenzione di mettersi in posa, un passo dietro il marito, sorriso di circostanza, cappellino, tailleurino, sguardo compito, sguardo ammirato, bimbo (l’unico piccolo e figlio di entrambi) strigliato, ben pettinato, in un trionfo di "moglitudine" e maternità. E’ piuttosto il tipo dell’amazzone patinata, Cecilia. Alta, mora, sicura di sé fino alla tracotanza, attraente come era impensabile fino a trent’ anni fa, fra quelle della sua fascia anagrafica. E già questa è una bella conquista: oggi, una signora in età da essere moglie di un Presidente della Repubblica (non anziano come i nostri, ma neppure ragazzino), è ancora una donna desiderabile e desiderata, ma soprattutto una che desidera, che si innamora, che se ne va a New York perché lì c’è un uomo che le piace di più. E pazienza se non è il numero uno di Francia, avrà altre doti. Una che è capace di rinunciare alla posizione di First lady, procedendo dritta per la sua strada, quella del divorzio. La mia prima reazione è di riconoscenza: grazie Cecilia per l’inconsapevole contributo alla nostra lotta sotterranea per la riqualificazione dell’immagine della cinquantenne: né nonna né moglie né zitella, libera forte e bella, se vogliamo girarla in slogan. La seconda, più seria e meno personale, è una riflessione sul rapporto delle donne col potere: spesso se ne infischiano allegramente. La domanda è: perché è un potere collaterale e le donne sono pronte per conquistarsi quell’altro, quello vero, vedi Hillary Clinton, oppure proprio perché non sono interessate? Per esempio: Cecilia, dopo aver attivamente collaborato per vent’anni alla scalata politica del marito, avrebbe potuto tenersi il suo amante americano, così come Sarko si sarà senz’altro conservato la sua presunta innamorata còrsa, e godersi il ruolo di primadonna della Repubblica Francese. Nicolas, che si è permesso di esecrare i sessantottini perché hanno contestato la famiglia come valore assoluto, gliene sarebbe stato grato. Invece no. Con selvaggia coerenza, ha portato a termine il suo progetto di divorzio. Intendeva dire: "se con tuo marito non funziona più, non è un suo scatto di carriera, anche clamoroso, che può salvare la situazione. Possono farlo anche Papa, ma con me ha chiuso"? Oppure è il ruolo di complemento, quello che ha deciso di snobbare? C’è da chiedersi se i francesi si offenderanno per questo rifiuto: ci sarà una flessione di credibilità per il Sarkozy uomo di destra, che predica l’unità della famiglia e non riesce a tenere insieme la sua, oppure, proprio vestendo la malinconia dell’abbandonato e maledicendo l’emancipazione femminile, riuscirà ad aumentare il suo fascino mediatico? Personalmente propendo per la seconda ipotesi. Il gusto degli elettori è formato sullo schema della "soap opera". Lì c’è sempre una linea narrativa "pubblica" con gli intrighi del danaro e del potere e una sottostoria "privata" con gli amori le separazioni le riconciliazioni le gravidanze indesiderate e i ricatti sessuali. I protagonisti devono essere belli e ricchi, potenti e dolenti. Se hanno, come i Sarkozy, cinque figli, (due dell’uno, due dell’altra e l’ultimo prodotto insieme) tutti rigorosamente biondi e ancora più belli dei genitori, è garantita una lunga e felice serialità.

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Pubblicato il: 19.10.07
Modificato il: 19.10.07 alle ore 8.50   
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Titolo: LIDIA RAVERA... Picchiano il diverso? Questione di clima
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2007, 06:56:55 pm
Picchiano il diverso? Questione di clima

Lidia Ravera


«Dopo avergli gridato “sei marocchino” i compagni l’hanno pestato, colpendolo alla testa e procurandogli ferite alle mani». L’ho letto su La Repubblica, in prima pagina. Bullismo fra quattordicenni, così è stato rubricato. Non sono d’accordo. I giovani aggressori sono dei criminali, non dei monellacci. Dei criminali giovani, d’accordo. Quindi, forse, recuperabili. Forse.

L’età non li giustifica, l’età, semmai, impone un mea culpa collettivo. A quindici anni la vita non ti ha ancora incattivito, non sei ancora rabbioso, sconfitto, in bilico fra aggressività e rassegnazione, non hai ancora bisogno di aver qualcuno sotto di te, qualcuno da vessare per sentirti meno peggio.

A quindici anni hai tanto di quel futuro che puoi ancora sperare qualsiasi cosa per te stesso. Non puoi essere ancora carico d’odio. Come può succedere, allora, che si aggredisca in gruppo un compagno d’origine straniera? Come si può isolare un altro essere umano, perseguitarlo, usargli violenza prima di essere diventati infelici? È l’aria che si respira, è la cultura che si assorbe, è il luogo comune che si impone, che condiziona. È colpa delle parole degli adulti. È, per dirla, uno dei tanti danni collaterali di un cortocircuito nefasto fra criminalità e immigrazione. Per essere proprio chiara, farò un esempio: il disgraziato che ha assassinato Giovanna Reggiani, rumeno, sta alla dolcissima badante di mio padre, Floricica Varvarica, rumena, come Totò Riina (siciliano) sta a Paolo Borsellino (siciliano).

Ci sono quelli buoni e quelli cattivi, fra i siciliani come fra i rumeni, fra i piemontesi, fra gli albanesi, fra i maghrebini fra i nostri concittadini... Il ragazzo che ha picchiato a morte una donna sola, è rumeno, d’accordo, ma è rumena anche l’ottima persona che ha chiamto la polizia, l’ambulanza, che ha denunciato, che ha prestato soccorso, che ha permesso di inchiodare l’assassino alle sue responsabilità. Perché nessuno le dà una medaglia? Non è da tutti rischiare per aiutare, farsi carico invece di tirar via, zitti, per non avere rogne. È veramente pericolosa questa crociata, questa caccia all’immigrato. È pericoloso questo clima di sospetto. Pesa su tutta la brava gente che è venuta qui ad aiutare, a lavorare, a curare i nostri vecchi, a badare i nostri bambini, a pulire le nostre case. Floricica Varvarica, che è diventata una delle mie migliori amiche, mi ha raccontato che alcuni bravi ragazzi, suoi compatrioti, sono stati licenziati dal posto di lavoro, senza motivo. Così, perché erano rumeni.

Vi sembra giusto? Vi sembra giusto minimizzare quando una banda di adolescenti discrimina un compagno di origine marocchina, in una scuola del centro, in una via piena di turisti, vicino a san Pietro, neanche in una periferia deprivata.

Io ho paura di questi ragazzi che agiscono in branco, che stabiliscono chi è il capo e chi sono le vittime, che infieriscono sui non conformi. Se a 14 anni sono così, come saranno a 40, quando io sarò una vecchietta dal passo incerto? Ho paura. Ho paura di una generazione che cresce respirando odio e individualismo, discriminazione e angoscia. Però non propongo un pogrom contro i quattordicenni. Ce n’è di buoni, le mele marce sono una minoranza. E io lo so.

Non si può generalizzare. Come per i rumeni. È così difficile? No, non credo.

Quello che invece è difficile è non farsi venire un attacco di irritazione quando si legge, sul Corriere della sera, un colonnino sullo stile di vita della signorina Britney Spears. Dunque: guadagna 737 mila dollari al mese. Spende 16 mila dollari di vestiti, 102 mila dollari in divertimenti (ma che fa? Tutte le volte che va al cinema si affitta tutta la sala?), 4758 in ristoranti. A fronte di : «zero spese culturali e 500 dollari di beneficenza». Ah, il capitalismo...

Pubblicato il: 08.11.07
Modificato il: 08.11.07 alle ore 15.06   
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Titolo: LIDIA RAVERA - Perugia, quei bravi ragazzi
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2007, 11:15:48 pm
Perugia, quei bravi ragazzi

Lidia Ravera


Belli, giovani e benestanti. Di scolarizzazione medio alta. Nel decòr di una delle più preziose città d’arte d’Europa (cioè del mondo, visto che le città d’arte stanno quasi tutte in Europa), Perugia. Benedetti da un vita allegra e gratificante: musica, amici, libertà, studio, soldi, nessuna responsabilità, le famiglie (lontane) che, senza pesare con la loro presenza, rendono possibile la bella vita. Si può tirar tardi, si può fare sesso, si può tirare il sesso oltre i limiti del, già probabilmente consumato fino alla noia, rapporto tra «fidanzatini». Le orgette, gli scambi. Le ammucchiate. La studentessa della porta accanto non ci sta?

Meglio, capace che è anche più divertente. La metti sotto, le fai il mazzo, «niente sesso siamo inglesi» non era il titolo di una commedia? Un po’ di violenza è un eccitante mai provato. Meglio se fa la riottosa, c’è più gusto. Poi qualcosa va storto. E la studentessa della porta accanto muore.

Una specie di «caso Montesi» senza adulti di potere, orizzontale, fra principianti? È uno scenario possibile, per la morte di Meredith. Come è possibile anche l’altro, più classico, che piacerebbe ai leghisti: Patrik Lumumba, di anni 37 secondo alcune fonti, secondo altri 47, congolese e musicista, anche lui d’alto lignaggio (esistono, anche fra i neri), nonché gerente di un locale alla moda: con la sua brutta faccia schiacciata (giudico dalle fotografie) e i capelli annodati di ricci vuole fare sesso con la bella ragazza inglese. Lei non vuole. Lui, in un impeto di rabbia al testosterone, la prende a coltellate.

È una reazione, di questi tempi, sciagurata e conosciuta. Fidanzati che non vogliono essere mollati, ex mariti, innamorati respinti, stupratori a vari titolo convinti di essere ben accolti... non siamo ancora arrivati al getto di acido solforico in faccia come in Pakistan, in Nepal o in Bangladesh, ma certo l’epilogo di sangue è diventato sempre più frequente, anche nel nostro civilizzato paese. Il terzo scenario, quello che vede presunto assassino protagonista (pare che a colpire sia stata una mano maschile) un laureando in ingegneria decisamente bello, decisamente ricco (basta guardarlo) e fidanzato con una specie di Sharon Stone bambina, è una vera ghiottoneria mediatica, in quanto, per i più, sorprendente.

Possibile che, avendo tutto quel ben di Dio, si voglia altro? Possibile che si diventi anche cattivi? A guardare la fotografia dei due fidanzati, Amanda Knox (un nome da top model) e Raffaele Sollecito (un nome da romanzo sulla provincia meridionale), lei di profilo, lui di tre quarti, mentre la macchina della polizia li porta in Questura, quasi sprezzanti nel freddo sguardo assorto dei quattro occhi azzurri, c’è di che interrogarsi sulle nostre adulte fantasie di felicità, sulle nostre nostalgie.

Nessuna condizione, nessun privilegio ci mette al riparo dalla violenza, dalla sopraffazione. Non c’è spiegazione sociologica che valga per tutti. Non ci sono colpevoli collettivi, categorie di comodo che disinneschino la sensazione brutta di un degradarsi progressivo delle relazioni fra donne e uomini, fra ragazze e ragazzi. Non si può dire «i rumeni sono violenti» o «gli albanesi sono cattivi». Non si può dire: «togliamoci dai piedi i Rom». Cioè, si può, ma è inutile. Non ci libererà dal male.

Una seducente studentessa nata e cresciuta a Washington non è l’immagine che ci viene in mente quando sentiamo la parola «extracomunitario», è una straniera di qualità, di quelle coccolate dalla nostra esterofilia. Una turista dai paesi ricchi. Una che ci onora con la sua augusta presenza. Che sia, come già Erika de Nardo (la graziosa biondina sedicenne colpevole d’aver assassinato sua madre e suo fratello nel 2001), una piccola amorale che mente come respira, non ridurrà il suo appeal. Ha inanellato bugie per quattro giorni? Non importa, ci sarà sempre un sito che raccoglie per lei lettere di innamorati: perché è bella, perché è bionda, perché è giovane. Nella nostra società l’immagine è tutto. Ha preso il posto del sacro, della fatica, del sacrificio, del talento, della bontà. L’immagine, e il sangue. Quando i due ingredienti si mescolano l’attenzione si fa spasmodica. Corrono fiumi di parole, si ricostruisce, si analizza, si commenta, si chiosa. Anche se c’è ben poco da dire. Nei primi sei mesi del 2007 le donne uccise in Italia sono state 57. Quasi dieci al mese. Nei primi sei mesi del 2007, 141 donne sono state vittime di tentato omicidio, 10 383 di lesioni, 1805 di stupro o abuso sessuale. Dovremmo parlare di questo, dovremmo cercare di capire quale disordine profondo, quale terremoto inconscio, produce questo fall out di dolore, questa aggressività fra consanguinei, fra amanti, fra coniugi, fra compagni. Dovremmo cercare di capire perché, a trent’anni dalle lotte femministe che ci hanno conquistato il diritto di esistere emotivamente, di desiderare invece che essere soltanto oggetto di desiderio, ancora oggi, una ragazza, come ai tempi di Maria Goretti, successivamente ordinata santa, non può dire di no, non può opporre un rifiuto a chi vuole servirsi del suo corpo.

Che cosa ci sta succedendo?


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Pubblicato il: 09.11.07
Modificato il: 09.11.07 alle ore 13.16   
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Titolo: Lidia Ravera - Una ciclica ossessione
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2008, 11:03:57 pm
Una ciclica ossessione

Lidia Ravera


Dispiace dirlo, pare esagerato o indelicato, ma l’avversione verso la legge che sancisce per le donne il diritto di decidere se il proprio corpo e la propria psiche (anima?) sono pronti per il difficile compito di dare la vita e poi crescere ed educare un essere umano, è diventata una forma ossessiva, un tormentone di centrodestra che da trent’anni, come una malattia nervosa, minaccia l’equilibrio della nostra società. A ogni cambio di stagione politica qualcuno la estrae, la legge 194, dal panierino delle nostre, non poi così numerose, conquiste di civiltà e prova a buttarla nella grande discarica dei nostri fallimenti.

Proprio là dove giacciono buone regole per accedere alla procreazione assistita, ovvie estensioni dei diritti civili a omosessuali e coppie di fatto, licenza di non essere sottoposti ad accanimento terapeutico, permesso di porre fine alla propria vita qualora condizioni disperate rendano questa decisione necessaria.

Come mai? Che cos’ha di così terribile il principio tanto semplice che sta alla base della legge per l’interruzione di gravidanza? Proviamo a ripeterlo per la milionesima volta: le donne e soltanto le donne, in quanto tocca a loro prestare carne e sangue alla procreazione, possono valutare se portare a termine o no una gravidanza. Lo faranno con coscienza, cercheranno in tutti i modi di non doversi avvalere del diritto d’aborto, ma devono sapere che possono farlo. Non sono macchine, sono persone. Non sono proprietà né della Chiesa né dello Stato, sono libere cittadine, le donne. Sanno bene che saranno loro e i loro figli a pagare per tutta la vita un errore di valutazione.

Il mondo è pieno di infelici, ne volete degli altri? Volete altri neonati avvolti nel cellophan e abbandonati a morire di freddo nei cassonetti dell’immondizia? No, naturalmente. Voi volete delle belle famiglie, coese e responsabili, dove circolino affetto e cura. Le volete voi, cari avversari della nostra buona legge 194, ma le vogliamo anche noi. Noi: femministe, progressisti laici e cattolici, democratici illuminati dalla ragione e non da preconcetti e/o supersitizioni.

Che cos’è, allora, che ci divide? La diversa valutazione dell’età del feto, il fatto che per noi sia materia grezza e per voi «bambino non nato»? Oppure la diversa valutazione della madre: il fatto che per noi sia una persona e per voi un divino strumento in cui Domineddio soffia quando gli pare i suoi ordini? Forse tutte e due le cose. O forse nessuna delle due e l’anima dei bambini, come l’autodeterminazione della mamme, viene tirata in ballo soltanto quando serve, per il cinico gioco della politica.

Quando Giuliano Ferrara, materialista pentito, assimila la pena di morte, barbarico residuo di culture precivili, all’interruzione di gravidanza, il sospetto dell’uso strumentale di un dilemma etico si rafforza. Quando Papa Ratzinger definisce l’aborto «un delitto abominevole» si sente risuonare sinistra l’antica crudeltà della Chiesa, quella che metteva certe donne al rogo con l’accusa di stregoneria, che torturava e ammazzava in nome dell’amore di Cristo chiunque le si opponesse, chiunque credesse ad altro o avesse l’umiltà di non credere a niente di non dimostrabile, o osasse coltivare l’intelligenza del dubbio.

Delitto abominevole: che insulto per le donne che non ce l’hanno fatta a prendersi la responsabilità d’essere madri! Le troppo giovani, le troppo fragili, le malate, le instabili, le abbandonate, le troppo povere. Ma non si prova vergogna a chiamarle assassine? È veramente difficile, con tutta la buona volontà, mantenere aperto un dialogo con i cattolici, quando il loro Pastore Massimo si esprime con frasi così dure. È difficile e forse c’è chi non lo vuole veramente. Non lo vuole Ratzinger che continua a rifilare le sue scomuniche “urbi et orbi” come se tutta la società italiana facesse parte della sua Ecclesia. Non lo vuole Ruini, non lo vuole Giuliano Ferrara, il neofita entusiasta. Non lo vogliono quelli che non rispettano la libertà di coscienza e pretendono di imporre la loro fede come se fosse l’unica visione del mondo accettabile. Non lo vuole chi ritorna, ciclicamente, instancabilmente, a mettere in discussione tutte le battaglie vinte trent’anni fa (quando ancora avevamo la forza di vincere qualche battaglia) nel tentativo di adeguare l’Italia ad altri «Paesi avanzati», dove si può divorziare, procreare con l’aiuto della scienza o non procreare con il permesso dello Stato, sposarsi anche se si è pastori d’anime, pagare le tasse per il bene di tutti, sostenere i più deboli con le tasse dei più ricchi, farsi una famiglia anche se ci si ama fra persone dello stesso sesso e così via.

Cari lettori de l’Unità, e cari anche voi che leggete l’Unità solo per criticarla, confesso che questo ritorno di crociata antiabortista, mi ha messo addosso una certa tristezza e, oltre alla tristezza, anche una gran paura.

Ho paura per il Partito Democratico, quel coraggioso tentativo di mettere insieme, per una volta, cattolici e laici, credenti e non credenti, quelli del Vangelo e quelli dell’utopia di una società libera ed egualitaria. Ho paura che non ce la facciano. Scusate: che non ce la «facciamo». Noi, laici di buona volontà e loro, cattolici capaci di rispettare la libertà di tutti.

Pubblicato il: 03.01.08
Modificato il: 03.01.08 alle ore 8.12   
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Titolo: LIDIA RAVERA - Se fosse capitato a Ségolène
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2008, 06:41:18 pm
Se fosse capitato a Ségolène

Lidia Ravera


Affascinanti, slanciati,occhiali scuri e abbigliamento sportivo, sembrano usciti vincitori da un opportuno patteggiamento col diavolo, Nicolas Sarkozy e Carla Bruni, nella fotografia che occupa la prima pagina di Le Journal de Dimanche. Lei, a quarant’anni, sembra una ragazza e lui, a cinquantaquattro, un quarantenne di quelli eterni, appena appena appannati di grigio, uno di quelli che riescono a dimostrare quarant’anni fino a un passo dalla sepoltura. Al modello «forever young» mancava un bambino (il drappello di ventenni biondi generosamente offerti da Cecilia e il ragazzino prodotto insieme, seppur anch’essi avvenenti, non bastavano) ed ecco che Carla fornisce il piccolo Aurelien, e Nicolas, nella foto, se lo carica sulle spalle, con le mani gli tiene i piedini, forte come un toro, dolce come si portano i patrigni nelle favole moderne.

Mezza Francia è deliziata dall’immagine del Presidente con la fidanzata. L’altra metà è scandalizzata dalla rapidità con cui si è consolato della perdita della precedente Madame Sarkò.

E magari è scandalizzata anche dalla fama di mangiatrice di uomini che accompagna la futura Madame Sarko. Tutte e due le metà dei francesi sono unite nell’inevitabile invidia: sono, i due promessi sposi, l’incarnazione del modello eterosessuale dominante. Il più ovvio. Quello cui tutti, sapendolo o inconsciamente, non possiamo fare a meno di aspirare. Lei è bella, piena di grazia, canta come un angelo ed è famosa quanto basta perché tutti sappiano che è bella e piena di grazia. Lui è forte, determinato, ricco e potente. Un uomo di successo. La fiaba è una sorta di sequel di Cenerentola: anche se la nostra bella non è mai stata povera, neanche da bambina, il più piazzato è certamente lui. Una ex-mannequin neo-chanteuse conta, comunque, meno di un Presidente. Quindi lo schema del sogno eterosessuale è rispettato: lei conferisce valore a lui nella misura in cui accende il desiderio degli altri uomini. Lui premia il valore di lei, mettendole a disposizione il suo regno. Si sposeranno, pare, a febbraio. La mamma di lei benedice le nozze dalle pagine di quotidiani e settimanali, le vacanze e i weekend dimostrano che l’uomo di potere non trascura le gioie private.

Tutto perfetto. Auguri e figli maschi... Sì, proprio figli maschi, perché nascere maschi, ancora oggi, anche qui in occidente, continua ad essere una bella botta di fortuna. Provate per un attimo a immaginare, sempre restando in tema di presidenti francesi, che Sarko avesse perso le elezioni e le avesse vinte, invece, Ségolène Royal, anche lei di bell’aspetto, anche lei cinquantenne, anche lei madre, anche lei non proprio perfettamente felice col marito. Ci siete? La vedete passeggiare da padrona per i saloni dell’Eliseo? Bene. Ora immaginate che Francois Holland, scocciato dall’idea di fare il «first lady», abbia deciso di divorziare due giorni dopo il trionfo della moglie. Verosimile no? Agli uomini le posizioni vicarie sembrano, in genere, piuttosto imbarazzanti (perfino quando hanno parecchio da farsi perdonare come Bill Clinton), non hanno la libidine dell’accompagno. Quindi: immaginate Ségolène neopresidente e neodivorziata, un po’ triste, un po’ smarrita e immaginate che, con sospetta rapidità, un grandissimo pubblicitario amico suo (magari lo stesso, Jacques Séguela, che ha fatto la campagna elettorale di Mitterand e ha fatto incontrare Carla Bruni a Sarko), le abbia appena presentato un bellissimo esemplare della nostra razza, un italiano di fascino, chennesò... Kim Rossi Stuart... Raul Bova... immaginate che Ségolène lo corteggi e lui si lasci corteggiare. Li vedete? Lei è più vecchia, ma è una bella donna. Lui la ammira. Insieme sono una bella coppia.

Eppure... eppure, la fotografia di loro due, Ségolène e Kim, Segolene e Raul, non piace. Lei non è invidiata, perché la bellezza di lui, a lei, non conferisce valore. Lui non è invidiato, perché il potere di lei annulla il suo, e lui è maschio, e i maschi devono essere più potenti delle donne. Di lei si direbbe: se l’è comprato, guarda lì, che schifo, una donna di cinquant’anni che si piglia su un bell’ometto. Di lui si direbbe: ma che uomo è? Vuole vivere all’ombra di una donna Presidente della Repubblica. Ma ce l’ha una dignità? Ma ce l’ha le palle?

Esagero? No, siate onesti, ho ragione. L’uomo «con le palle» è quello che acchiappa Carla Bruni, non quello che acchiappa la prima donna Presidente della Repubblica, anche se un o una Presidente della Repubblica conta più di una/un cantante, di una/un fotomodello, di un attore o di un attrice. Del resto, basta la recente polemica sulle rughe della povera Hillary Clinton a dare la misura di quanto, per le donne, qualunque sia il risultato delle loro ambizioni, sia cambiato, a livello profondo, ben poco. L’immaginario collettivo vuole il Principe Maschio e Cenerentola Femmina. L’«ordinary people» continua a considerare un uomo che ha molte donne, invidiabile. Una donna che ha molti uomini un po’ puttana. E ciò che rende l’uomo più forte anche in amore, il potere, alle donne continua a costare caro. Ségolène non c’è l’ha fatta, per quanto ci sia andata vicino. Hillary, se ce la farà, dovrà tenersi ben stretto il marito, si innamorasse chennesò... di Brad Pitt, il poveretto verrebbe retrocesso a «stagista» nonostante la carriera hollywoodiana.

È un fatto: il potere, per noi donne, non è eroticamente utile. Sarà per questo che, in fondo, continua ad essere piuttosto limitato il numero di quelle che provano a conquistarlo?

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Pubblicato il: 08.01.08
Modificato il: 08.01.08 alle ore 8.44   
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Titolo: LIDIA RAVERA Quando l'orrore cancella la politica
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2008, 04:38:29 pm
Quando l'orrore cancella la politica

Lidia Ravera


«Ecco, i resti dei fratellini nelle bare qui a fianco. Sono praticamente in stato di mummificazione. La loro, quasi sicuramente, è stata una morte orribile. Ecco: potete sentire la folla che applaude al passaggio del carro funebre, in segno di rispetto. In segno di partecipazione...». Il cronista, la mano stretta attorno al microfono, appare mesto, le facce rotonde dei ragazzini del paese di Gravina in Puglia premono per entrare nell’inquadratura. Forse conoscevano Ciccio e Tore, forse provano un senso di smarrimento e di pena, ma sono , in qualche modo, contenti di essere lì, di essere in televisione. La gente che passa per caso accanto ai luoghi dove succede una disgrazia diventa, se la disgrazia è eccezionale, comparsa in un telefilm dagli ascolti debordanti. Prime time, roba forte.

Ho appena finito di registrare una punta di fastidio (perché battono le mani? Non sarebbe più consono tacere e andare a casa?) che mi piomba addosso la seconda notizia del telegiornale: «Una mamma e le sue tre figlie, una ragazza di 15 anni sono morte travolte da un’auto che procedeva a folle velocità». Stavano alla fermata dell’autobus, a Fiumicino. No, non un autobus qualunque, uno scuolabus. Ci sono feriti gravi, fra la folla inerme. Quattro in “codice rosso”. Le immagini mostrano lamiere contorte, lenzuoli a coprire corpi e sangue. I carabinieri, i necrofori, il personale delle ambulanze, si muovono lentamente. I passanti, con un senso di scampato pericolo, entrano e escono dall’inquadratura, indolenti. Il servizio è breve, il fatto è successo da poco.

Il servizio seguente, invece, è accurato, è la puntata più recente di una telenovela che va avanti da un pezzo: il delitto di Erba.

È il giorno della deposizione dell'unico scampato alla strage, Mario Frigerio, un uomo magro dall’andatura incerta, che si appoggia ad una stampella. Il cronista riporta la sua testimonianza: «Non me la dimenticherò mai quella faccia finchè vivrò», ha detto. Poi si è rivolto al suo assassino: «È inutile che mi guardi disgraziato».

Terribile. È finita? No. C’è ancora un’altra notizia: sono stati ritrovati alle porte di Montecatini i corpi senza vita di una madre e di una figlia. La madre era una poliziotta di 49 anni. Ha sparato prima alla figlia e poi a sé stessa. La figlia aveva 9 anni. Pare che l’omicidio suicidio sia «nato dal dissidio con l’ex coniuge». Le immagini mostrano una macchina, una periferia. C’è poco da vedere. Ma le parole pesano.

Mi accorgo che ho subìto il notiziario, fino a questo punto, quasi dieci minuti, in stato di apnea. Trattenevo il fiato. Una valanga di dolore allo stato puro. Bambini morti in fondo a un pozzo, vite stroncate nella situazione più quotidiana, bambine ammazzate dalla mamma, famiglie sgozzate dai vicini di casa. Come quinta notizia, per fortuna, ritorna la politica: con sollievo mi accorgo che posso ricominciare, dolcemente, ad annoiarmi. È davvero strano ritrovarla in fondo al telegiornale in tempi di campagna elettorale. In genere è lei, la protagonista dei tiggì. «E ora veniamo alla politica», dice il conduttore. E senti, nettissimo, un senso di straniamento. La notizia riguarda il vertice del centro-destra. «Il partito della libertà è arrivato al dunque» notifica il cronista. Ah sì? E quale sarebbe “il dunque”? Ma le candidature, ca va sans dire! Quanti di Alleanza Nazionale, quanti della Mussolini, quanti della Lega e quanti di Forza Italia, saranno messi in lista in modo da essere eletti? Probabilmente è in corso uno scannamento collettivo (nel nostro Paese, nel nostro Palazzo, nessuno fa niente per niente). Ma il sangue non scorre, rosso e visibile, come nel teatro di un’incidente stradale.

La notizia seguente è di nuovo “politica”: Veltroni presenta il prefetto Serra, supercandidato nel Pd. Dichiara che Laici e Cattolici possono convivere. Senza morti e feriti, semmai qualche contusione mentale o morale. Finisce l’anomalo telegiornale del 26 febbraio, a meno di due mesi dal prossimo confronto elettorale. Spengo il televisore frastornata. Che cosa sta succedendo? L’irruzione della cronaca nera ha scansato la centralità dei soliti maneggi e magheggi. È apparsa particolarmente fatua la vita quotidiana dei partiti, dopo tutto quel dolore, tutta quella disperazione. La temperatura emotiva, salita alle stelle con la scoperta dei resti di due bambini, è ridiscesa violentemente quando di nuovo siamo stati ragguagliati sullo stato di salte dei due principali contendenti e sulle chances di tutti gli altri. Ce la farà Mastella a piazzarsi dopo che quasi tutte le porte gli sono state sbattute in faccia? Che cosa riceverà in dono Gianfranco Fini per essere tornato all’ovile scodinzolando? Improvvisamente, tutto questo tessuto di dichiarazioni e confutazioni, appare per quello che è: parole. Di questo vive la politica. Parole. La politica vive di parole. Ma non sono le parole durevoli della letteratura che raccontano storie e scavano dentro la vita, sono le parole effimere, le invenzioni lessicali di comodo, il gergo autoreferenziale degli addetti al governo.

A schermo spento, mi accorgo che stavano proprio bene, le ultimissime sulla sfida elettorale, giù giù in fondo al tiggì, penso che dovrebbe essere sempre così. Prima la vita dei cittadini, i problemi reali, la descrizione delle condizioni di lavoro, i grandi e piccoli temi che coinvolgono le donne e gli uomini di questo e di altri Paesi, poi la politica, se ha da proporre qualcosa per risolvere, migliorare, rilanciare, riformare, rivoluzionare lo stato di cose presente. Un telegiornale che informa e non deforma, che dà la parola a tutti quelli che hanno qualcosa da segnalare, anche se non sono portavoce o voce solista, del rutilante mondo della politica. Non sarebbe male, sarebbe una bella novità.

Sarebbe una bella novità ascoltare, in televisione, voci di gente che non parla per professione, che chiede invece di promettere, che spiega e racconta invece di promuovere se stesso o il proprio schieramento, perpetuamente in ansia, sempre costretto ad esibire la certezza della vittoria. Invece, per mandare i maneggi elettorali in seconda posizione, bisogna, evidentemente, finire morti ammazzati, farsi scannare in massa, farsi vittime. Possibile che siamo protagonisti del tele-giornale soltanto nel settore della cronaca nera?

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Pubblicato il: 27.02.08
Modificato il: 27.02.08 alle ore 9.25   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Il vitellone di Arcore
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2008, 12:17:03 am
Il vitellone di Arcore

Lidia Ravera


È più forte di lui, non si trattiene, è come il cane davanti all’osso, il mulo con la carota, il toro col drappo rosso, Silvio Berlusconi, messo a contatto con qualsiasi esemplare di genere femminile, di qualsiasi tipo, attiva i motori di virilità e deve dire la sua: se l’esemplare è di bell’aspetto e giovane età, ci prova, allude al fatto che potrebbe provarci (e ovviamente riuscirci) o al fatto di aver già consumato l’atto, con viva soddisfazione della cliente e del fornitore (cioè lui).

Se l’esemplare è di bell’aspetto ma di età più avanzata, cavallerescamente, allude al fatto che una bottarella la si potrebbe ancora dare prima che la signora scompaia nel viale del tramonto, e chi, se non lui, può compiere quest’azione positiva? Se, infine, ahimè, l’esemplare è di aspetto non conforme alle regole estetiche dell’acchiappa-maschi, o per personalità sua o per qualche disarmonia aut dismisura nella relazione fra i primitivi oggetti del desiderio (tette e culo), oppure, e qui la situazione è più grave, per sorpassati limiti d’età, il nostro Silvio non può fare a meno di alludere al fatto che lui, a quella, una bottarella non gliela darebbe proprio mai, neanche per sogno. L’elenco delle battute sarebbe lungo e comunque incompleto, perché ogni giorno porta seco nuove occasioni di incontro con femmine di tutte le categorie e la geometrica potenza del machismo berlusconiano si dispiega in tutta la sua forza. Con questa nuova moda, poi, di aumentare la rappresentanza rosa in Parlamento, tocca anche amarle e candidarle se sono tue, sopportarle e attaccarle se sono candidate per quegli altri.

A Berlusconi non piace attaccare le donne, perché qualsiasi relazione di parola, se non prelude all’atto di sdraiarle, gli pare una bizzarria o una perdita di tempo. Però adesso deve, perché Veltroni ne ha infilate un sacco e, mannaggia, anche giovani e carine, finchè ci hanno “un’età”, come la Rosy Bindi o la Finocchiaro, okay, puoi anche far finta che siano uomini, e prenderle a zuccate, ma alla ventisettenne precaria capolista nel Lazio, con tutti quei capelli e tutte quelle belle cosine, che cosa si fa? La si invita sul panfilo a “parliamo parliamone”? Le si offre la conduzione di un telegiornale? No, quello no, perché alla ragazza un buon lavoro già gliel’hanno dato, meglio prendere su una precaria ancora precaria e farla tirar dentro in qualche lista da uno dei miei (ormai le liste elettorali sono quello che una volta erano le boutique, “le apro un negozietto di intimo”), o farla sposare a Piersilvio che, se non si sposa, poi pensano che è frocio e che figura ci faccio io, dovessero mai credere che è una malattia ereditaria. Eh già, perché questa è la vera ossessione del povero Berlusconi, che qualcuno possa pensare in calo, non la sua popolarità o la fiducia degli italiani nella sua politica, ma la sua potenza fallica, la capacità del suo arnese di introdursi nei corpi delle donne come nel corpo elettorale e mimare all’infinito la fiaba della conquista del territorio. Io non perdo un colpo, è il sottotesto di ogni esternazione. L’ansia di dimostrare la sua sempiterna virilità (anche dopo i 70, anche con la prostata incasinata) è, presumibilmente, alla base della sua scelta, ormai vecchia di quasi vent’anni, di “scendere in campo” e di quella, più attuale, di restarci, vincendo nuovamente vecchie battaglie. La crescita esponenziale delle battutacce è sintomo, probabilmente, di una accresciuta insicurezza di fondo che, ben lungi dal provocare la nostra prevedibile indignazione, ci trova intenerite e solidali. Dev’essere successo qualcosa di simile anche a Veronica che, dopo aver rintuzzato le uscite triviali del consorte con una certa puntualità nel passato anche recente, nel presente tace con sobrietà, come se il ruggito del leone, inflazionato e stanco, non mettesse più a repentaglio nulla, neppure la sua dignità di donna.

Del resto, a quanti invece ancora si impennano, perché il candidato premier del Pdl non riesce a unirsi al coro dei benintezionati in materia di uguaglianza di genere, vorrei ricordare che, ancora una volta, ha ragione lui, se la ragione è, come spesso in politica, del più furbo: Silvio Berlusconi dà voce, con le sue scontate facezie, al maschio medio nazionale della sua generazione, quello che aveva vent’anni negli anni Cinquanta e che oggi è in pensione ma vota e, nella stragarande maggioranza, non si è nemmeno accorto che ormai le donne, pregi e difetti, appartengono alla categoria delle persone. Per lui, per loro, esse sono sempre collocate in una delle tre “emme”: moglie mamma mignotta. La prima “emme” va sopportata anche se dopo un po’ non ti piace più, la seconda va venerata perché ha prodotto te e la terza è quella che serve per sopportare la prima, in quanto la prima è la più utile. In questo brodo primordiale, Silvio Berlusconi continua a tenere a bagnomaria il suo elettorato, di tanto in tanto lo scalda con qualche frizzo, ma sempre lo mette a suo agio con la sua stessa medietà, gli consente di rispecchiarsi e assolversi, di sentirsi forte anche se non intelligente, vincente anche se non moderno, sessualmente potente anche se vecchio solo e sottoposto al tormento dell’offerta massiccia di carni femminili esposte che costituisce lo stile Mediaset (e per contagio da tempo anche lo stile Rai).

Non è un risultato da poco, per un politico.

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Pubblicato il: 20.03.08
Modificato il: 20.03.08 alle ore 13.29   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Violenza sulle donne: l'uso politico della paura
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2008, 03:18:25 pm
Violenza sulle donne: l'uso politico della paura

Lidia Ravera


Un’altra ragazza vittima della violenza di un disgraziato. Uno che voleva imporre il suo sesso, uno che voleva fare male. Ioan Rus, detto «il fantasma» perché non si sa bene dove abitava e di che cosa viveva. Ioan Rus, una faccia da foto segnaletica, violenta e vagamente ebete. Ioan Rus, con sostanziosi precedenti penali, tre volte condannato e incarcerato nel suo Paese, la Romania. E la ragazza? Anche lei straniera, di colore, di buona famiglia, una che frequenta un master in economia, che è venuta a Roma per studiare, non per cercare di sopravvivere. La scena: la solita stazione buia, la solita periferia occupata da poveri, senza sovrastrutture adeguate a renderla davvero abitabile, una sorta di Zeta-erre-i (zona a rischio illimitato). Le chiacchiere del giorno dopo: le solite. La sicurezza, i rumeni, gli immigrati.

Le cifre: «Il 35% dei reati in Italia sono stati commessi da cittadini stranieri», «nei primi mesi del 2007 sono stati arrestati 32.468 cittadini rumeni». Moltiplicatore di chiacchiere: il ballottaggio per l’elezione del sindaco di Roma. Alemanno usa la vicenda per attaccare Veltroni, predecessore e sponsor di Rutelli: «dobbiamo liberarci dei cretini al comando». Rutelli replica, ricordando che Berlusconi “sanò” 141 mila rumeni. Chi sono, allora, «i cretini al comando?». Il centro sinistra aveva proposto un braccialetto luminoso, le ragazze lo tengono al polso e serve per chiamare soccorso. Alemanno difende le ragazze dalla “umiliazione” di dover indossare questa manetta salvavita ed è un vero peccato, perché a me, invece, sembra una buona idea, quantomeno un’idea nella linea giusta, che è quella di difendere le donne, non di bruciare in piazza i rumeni. I rumeni: sono la comunità straniera più numerosa, oggi, in Italia. Sono una società nella società. La crescita numerica porta con sé una maggiore percentuale di crimini, una maggiore necessità di prevenzione. Nella povertà, nel degrado, nell'isolamento culturale e sociale, più facilmente le personalità più fragili vengono contaminate dalla violenza. È vero per i rumeni, per i senegalesi, per gli egiziani, per i polacchi... è vero anche per gli italiani.

I rumeni non sono peggio degli altri: molti sono qui da tanti anni, lavorano duro, se ne hanno l’opportunità , lavorano come noi italiani non ci sognamo più di lavorare dai tempi difficili del dopoguerra. Le femmine allevano i nostri figli, curano i nostri vecchi, puliscono le nostre case, lavano i nostri panni, i maschi costruiscono ristrutturano dipingono le nostre case, curano i terrazzi, i giardini. Sono gente brava e operosa, con una sapienza manuale e uno spirito di servizio ormai molto difficili da trovare fra gli italiani. Non oso neppure pensare a che cosa sarebbero le nostre vite senza l’aiuto dei rumeni e delle rumene. Perché dobbiamo sempre minacciarli di espulsione? Non si possono più espellere gli stranieri. Noi abbiamo bisogno di loro e loro hanno bisogno di noi. Il mondo ormai va così, nessuno può arroccarsi nel Paese dove è nato e chiudere le porte. L’Italia, piaccia o no alla Lega, è, ormai, un Paese multietnico. La brutta storia da cui prende spunto questa riflessione è una storia multietnica. La vittima è una ragazza africana, che è venuta da noi a studiare. Il colpevole è un uomo dell’Europa dell’est, che è venuto da noi perché a casa sua non riusciva a vivere. Una era una brava ragazza, l'altro un mascalzone. E mascalzoni ce ne sono parecchi. La violenza contro le donne è in crescita esponenziale. È colpa dei rumeni? O è colpa di una subcultura diffusa che alle donne manca continuamente di rispetto. Le continue, reiterate, ossessive esposizioni di corpi femminili a scopo commerciale. Il mercato delle vacche che, a cadenza fissa, affiora da intercettazioni e scandali fra vip, quello scambio di favori che passa attraverso la fornitura di sesso, di carni femminili, di povertà morali e fioriture giovanili. Le labbra, le pance, le tette che ci si parano davanti come un arredo urbano, dalle fiancate degli autobus, dai cartelloni, dalle edicole... e, per contro, il silenzio femminile, lo scarso ascolto, la scarsa presenza di parole femminili autorevoli in televisione, in politica. La fissazione del sesso che ha sostituito, per puro consumismo, la repressione di cinquant’anni fa, sempre senza offrire alle donne una vera dignità, una parità sostanziale, che potrebbe, forse, incominciare a disarmare tante mani protese a prendersi con la forza quello che una ragazza non vuole dare…tutto questo non viene mai considerato. Una studentessa si prende una coltellata nel fianco, patisce l’angoscia della violenza carnale e il dibattito, indignazioni più proponimenti, verte tutto sulla necessità di cacciare i rumeni, come se bastasse per consentire alle ragazze la tranquillità di rincasare tardi, di attraversare una strada buia, di muoversi liberamente, come è suo diritto, in una città come Roma, capitale di un paese civile.Gli italiani hanno paura, si sentono minacciati dalle povertà con cui un' immigrazione sempre più massiccia ci impone di convivere. La paura viene strumentalizzata da chi vuole una società arroccata in difesa, armata, orientata al rifiuto dell'altro, intollerante e non solidale. Io credo che la paura vada rispettata: spesso sono i più socialmente deboli fra gli italiani, quelli che ne soffrono. Mi piacerebbe però che la paura diventasse il carburante per mettere in moto la macchina del welfare, delle infrastrutture, a sostegno di chi vuole una società più giusta, dove, magari chiedendo ai più ricchi e ai più forti di rinunciare a qualcosa, i più deboli fra gli italiani e i migranti, venissero aiutati a trovare un posto sicuro per vivere.

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Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 9.37   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Meno male che c’è il Primo Maggio
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 11:30:48 pm
Meno male che c’è il Primo Maggio

Lidia Ravera


Mai Primo Maggio è caduto in un momento meno adatto a far festa, a celebrare e celebrarsi, a far sventolare le bandiere rosse, squillare le trombe e scorrere la retorica sulle magnifiche sorti dei lavoratori. Con il ritmo assunto, negli ultimi anni, dagli incidenti sul lavoro, si potrebbe gemellare con il 2 novembre, il Primo Maggio. Tre al giorno, è la media. Tre operai morti ogni 24 ore. Infatti è dedicato a loro, a quelli che rischiano la pelle per 1000 euro al mese, il tradizionale concerto di Piazza San Giovanni. Che cosa diranno, dal palco, fra un cantante e una band, che cosa dirà il segretario della Cgil, che cosa potrà promettere?

La destra è al governo del Paese e, da pochi giorni, anche della Capitale. La destra, non un centrodestra, non una sinistra moderata, non una rinata democrazia cristiana, no, una coalizione di partiti di destra.

Si farà carico del problema delle morti bianche? Molte delle vittime sono immigrati, spesso precari, indeboliti dal non conoscere le regole, dall’essere gli ultimi arrivati.

A trionfare, quindici giorni fa, alle elezioni politiche nazionali, è stato un partito, la Lega, che sull’immigrazione ha elaborato soltanto un progetto: buttarli fuori, il più presto possibile, il più possibile radicalmente. Non farne entrare altri. Lo festeggeranno, il Primo Maggio, quelli, fra gli operai, che hanno votato Lega? Oppure opteranno per un sobrio raduno padano, a bere ampolle di acqua benedetta da Federico Barbarossa?

Mai il Primo Maggio è stata una festa così poco scontata, così lontana dalla riposante ritualità.

Viene da chiedersi, come per le occasioni mondane, chi ci sarà: quelli che ci sono sempre andati per abitudine e continuano per scaramanzia?

Quelli che siccome era diventata un abitudine non ci andavano più? O, magari, quelli che non ci sono mai andati e che, quest’anno, decideranno di andarci, per l’insopprimibile desiderio di rispondere, da una piazza gremita, allo sconcerto di questo lungo “day after”.

Piazza San Giovanni faticherà a contenerci tutti.

Lì per lì, la botta ci ha tramortiti, riuscivamo a scambiarci soltanto messaggi di incredulità. Di perdere il primo incontro, quello nazionale, i più accorti se lo aspettavano. Di perdere anche quello simbolico, romano, dopo 15 anni di buon lavoro amministrativo, se lo aspettavano soltanto militanti e simpatizzanti della corrente Cassandra, i compagni del bicchiere mezzo vuoto, gente che se tutti fanno il coro non canta, se si aprono le danze e si promettono poltrone, resta seduta sul suo strapuntino, a sorseggiare meditabonda l’amaro calice dell’autocritica. Io ho inoltrato regolare domanda per essere ammessa, in questa énclave di realisti, voglio imparare a prevedere le sconfitte, eventualmente ad evitarle, e, nel caso siano inevitabili, a farle fruttare in termini di consapevolezza degli errori, coscienza dei ritardi e percezione dell’ipotetico protrarsi di illusioni datate. Non so se passerò l’esame, ma intanto mi applico con zelo. Per esempio ho incominciato ad ascoltare con molta umiltà quelli che hanno vent’anni e trent’anni. Non “i giovani” comparsi, per decisione unanime delle segreterie, nelle liste dei Partiti politici, che sbandierano la loro età come se fosse un diploma di eccellenza, no, non loro. Io ho incominciato ad ascoltare i giovani che vivono vite reali, precarie ma appassionate, che danno vita a giornali on line (come il bellissimo «Crak»), che si riuniscono e discutono e leggono Latouche e si interrogano sulla necessità della decrescita e sull’equilibrio ecologico e sulla povertà d’acqua nel pianeta, che lavorano a un progetto di televisione libera, che si sbattono per aprire nuovi canali di circolazione delle idee e dell’informazione... sono questi i giovani che hanno qualcosa da dire. Sono, e ancora si sentono, “di sinistra”, ma non sanno neppure che cos’è l’ideologia. Non si riconoscono nei partiti ma non si riconoscono nemmeno nel vaffa-day. Infatti sono andati a votare. Hanno votato Veltroni e hanno votato Rutelli, controvoglia ma disciplinatamente. «Qui non si tratta di tapparsi il naso, noi stavamo proprio in apnea», mi ha detto uno di loro. Ma è lo stesso che mi ha telefonato in preda alla disperazione per la vittoria di Alemanno. Beh, ho detto, tanto a voi Rutelli non piaceva. Li per lì non ha risposto, poi ci ha ripensato: «Adesso sarà tutto più difficile, ma bisogna farlo lo stesso, bisogna che ci diamo una mossa». Non ho indagato oltre, ma, per la prima volta in quindici giorni, ho percepito un alito di vento tiepido, un po’ di ottimismo. Forse il tanto implorato ricambio generazionale doveva passare proprio per l’amara radicalità di questa sconfitta. Dovevamo percepire, con dolore, la fine dell’epoca in cui siamo cresciuti, veder scomparire le varie rifondazioni comuniste, veder barcollare le nuove formazioni, ancora incerte nelle loro identità moderne. Dovevamo sentir dire a un leader politico “è una sconfitta” e a un giovanotto sconosciuto “è il momento di fare qualcosa” per farci tornare la voglia di festeggiare il “Primo Maggio”, di andarci, tutti insieme, non per partecipare al gran gala del sindacato, ma per guardarci in faccia, per contarci, per mettere in comune, sia la tristezza che la determinazione, sia la pazienza che l’ironia. Come ogni “buon rivoluzionario” deve saper fare, soprattutto in assenza di rivoluzioni.

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Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.13   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Marcelletti, quando il medico è onnipotente
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2008, 06:38:23 pm
Marcelletti, quando il medico è onnipotente

Lidia Ravera


Concussione, truffa, peculato: in Italia non è un novità. Pare che fra chi possiede un qualche potere sia maledettamente frequente, la tentazione di usarlo, per incrementare ulteriormente il proprio capitale. Anche la detenzione di materiale pedopornografico, imputazione ancora non del tutto chiarita, allude a un vizio ormai abbastanza diffuso: l’estetica deviata del consumismo che vede belli soltanto i minorenni, più la certezza di poter prevalere, necessità tipica dei vigliacchi. Il professor Marcelletti Carlo, quindi, non sarebbe che uno dei tanti, e la sua vicenda l’ennesima deprimente conferma dell’immoralità diffusa che avvelena il nostro Paese.

Ci sono due dati che, tuttavia, accrescono il tasso medio di sconcerto, fanno lievitare l’indignazione abituale verso qualche scomoda domanda. Il primo dato riguarda il potere particolare che Marcelletti esercitava: era un cardiochirurgo, specializzato nella cura dei bambini, spesso molto piccoli. Sempre molto malati. Era ai loro genitori, assediati dall’angoscia, disposti a tutto pur di veder tornare il sorriso sul volto dei loro figli, di vederli di nuovo giocare con gli altri, di strappare, per loro, il lungo futuro cui avevano diritto, era a padri e madri affranti, che il professore spillava tremila o cinquemila euro. Prometteva “comfort particolari”, illudeva che il loro bambini non sarebbero stati “trattati come tutti”. E come vengono trattati quelli che non possono comprarsi un privilegio nella sanità Pubblica Italiana? Male. Sono costretti a lunghe attese. E chi ha un figlio cardiopatico una lunga attesa non se la può proprio permettere. Non è questione di fretta, non salta la vacanza o il ponte di carnevale... è questione di vita o di morte. Chi di noi, noi che abbiamo figli, direbbe “no, guardi, io quei cinquemila euro non glieli do”. Nessuno. Chiunque si venderebbe casa e se non ce l’ha andrebbe a chiedere prestiti agli strozzini, a umiliarsi con i parenti e gli amici, a rubare. E gli darebbe quei maledetti soldi.

Per fortuna non va sempre così: mio figlio, a 32 giorni di vita, fu ricoverato al Policlinico Umberto Primo, per una grave forma di polmonite, il virus che l’aveva colpito si chiamava “sinciziale”, quell’anno, il 1979, ne erano già morti alcuni bambini. Avevo poco più di vent’anni ed ero terrorizzata. L’incubo durò soltanto nove giorni. Mio figlio fu ricoverato subito, gratuitamente, e guarito. Se mi avessero chiesto dei soldi, sarei stata capace di tutto per procurarmeli e li avrei consegnati a chiunque. A una “onlus” nobilmente intestata alla cardiopatia pediatrica, ma anche, direttamente, nelle tasche del medico che me li avesse proposti come soluzione ai disservizi della pubblica sanità.

E con ciò arriviamo al secondo fattore di sconcerto di questa storia italiana: il fatto, incontrovertibile, che i genitori dei piccoli pazienti del professor Marcelletti, pur vittime di un odioso ricatto, difendono il loro ricattatore. Rifiutano di accusare. Minimizzano. Sperano che non se ne parli più, che il polverone si posi e l’indagato torni, sereno e con la mano ferma come prima, a operare. Se chiedesse loro altro danaro, ormai apertamente per le sue vacanze e le sue cene di lusso, glielo darebbero. A costo di vendersi un rene. Vogliono, le madri e i padri di bambini malati, che i loro bambini guariscano. E non c’è spazio per altro. Né giudizi morali né calcoli economici.

Sarebbe lo stesso se Carlo Marcelletti curasse gli adulti? Se fosse un endrocrinologo, un bravo internista, un otorino, un gastroenterologo? No, non proprio lo stesso. Ma, secondo me, non sarebbe poi molto diverso. Viviamo immersi in una cultura dell’immanenza. Siamo, chi più chi meno, tutti convinti di avere una vita sola, questa che corre via, giorno dopo giorno, anno dopo anno, usurando i nostro organi e assottigliando la nostra pelle. La nostra unica religione è il benessere. Vogliamo godere e quindi dobbiamo star bene. La malattia è diventata, rapidamente, il più temibile dei nemici. Una mattina ti svegli con un dolore al petto e addio viaggi, vacanze, carriera, cene luculliane, illusioni di giovinezza, fitness e eros. Nessuno è più disposto a vedere nella sofferenza la strada che porta al paradiso, nessuno se ne frega più granchè del Paradiso. Non di quello promesso come eterno riposo dopo la morte. Vogliamo tutti vivere, il più a lungo possibile, essendo, nei limiti del possibile, al nostro meglio.

Ecco che, allora, una delle malattie più diffuse diventa l’ipocondria, seguita a ruota dalla frenesia analgesica (una sorta di orrore del dolore, fino alla dipendenza da farmaci e droghe dell’oblio). Ed ecco che il medico, dispensatore di soluzioni al problema dell’ammalarsi/usurarsi/invecchiare, diventa l’unico “padre nostro”, quello che, da solo, può “liberarci dal male”. Non è uno e trino. Ma di certo è onnisciente. E, se può strappare nostro figlio dalle grinfie della morte, non ce ne importa niente se è disonesto.

Del resto, i cinquemila euro richiesti come incoraggiamento ad operare per il bene degli umani, non potrebbero essere l’offerta votiva, l’obolo che, nella superstizione popolare, rende il Dio benevolo verso di noi, poveri mortali?
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Pubblicato il: 08.05.08
Modificato il: 08.05.08 alle ore 11.43   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Strani «eroi» di quartiere
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2008, 04:29:21 pm
Strani «eroi» di quartiere

Lidia Ravera


«Er Che Guevara der Pigneto» ha i capelli bianchi, tatuaggi sulla pelle e rapine sulla fedina penale, ha un passato da orfanello e un presente da precario, conserva gelosamente ed espone con piacere tutta la mitologia di chi si nutre di fumetti o di B-movie violenti. Concetti tipo: io so’ bbono e caro ma quanno m’incazzo sfascio tutto. Io per mia madre, mia sorella, mia figlia, mia nonna, la mia donna, il mio quartiere sono capace di fare qualunque cosa, anche la peggiore. Sottotesto: e faccio benissimo a farlo (anche se poi mette in guardia dall’imitarlo), in quanto esercito il punto primo del diritto selvaggio applicato.

Cioè: menare e sfasciare chi, a suo insindacabile giudizio, si comporta male è come pisciare ai quattro angoli del proprio territorio, delimitandolo.

Nel territorio detto «il Pigneto», «Ernesto», al secolo Dario Chianelli, ci è nato, ci è vissuto e ci morirà, nessuno deve pestargli i piedi, perché quelle quattro strade, quei bar, quelle botteghe sono casa sua. Quelli che sono arrivati dopo, sono degli ospiti. E gli ospiti devono comportarsi bene, sono in casa di Dario, perché tutti lo conoscono, perché chi lo conosce lo rispetta, perché chi non lo conosce ancora imparerà a conoscerlo e a rispettarlo, cioè ad aver paura di lui.

Perché lui è buono e caro ma i senegalesi, i bengalesi, i marocchini, i tunisini devono rigare dritto. Come tutti gli altri.

Perché lui può «rubare per fame» e non lavorare («E che uno nato il 1° maggio po’ lavora’?») e restare un santo, ma loro se rubano un portafoglio lui li gonfia. Perché nel quartiere suo non si deve rubare, ci vuole «rispetto». C’è quasi da invidiarlo il Che Guevara del Pigneto per le sue incrollabili certezze, in un momento in cui noi, nutriti da altri film e da altre letture, abbiamo il cuore pesante e la testa piena di dubbi. C’è da invidiare lui e i «pischelli» che gli ronzano attorno perché l’ignoranza e il bisogno di scaricare la rabbia per una vita grama, conferisce loro un’identità collettiva, un sentimento comune, una sorta di epos delle loro loro giornate sgangherate.

C’è da invidiarli perché si sentono eroi del cartone animato che hanno in testa. Per questo rifiutano di etichettare come razzista la spedizione punitiva contro il negozio del nemico. «Razzista» è un aggettivo che non sta nel linguaggio del fumetto. Devi essere proprio un naziskin per accettarlo e gloriartene. Ne ho sentiti tanti (anche certi politici che hanno sempre qualcosa di verde addosso) e tanti ne posso immaginare che, appena finito di dare fuoco a una ipotetica Moschea , già dichiarano al telegiornale che loro rispettano tutti, ma quando è troppo è troppo: questi sono barbari, addirittura pregano col sedere per aria! Fascista io? Ma per carità… Solo perché ho sfasciato il negozio di un bengalese che non mi ha fatto ritrovare il portafiglio di una mia amica? Ma per carità: il nonno della mia ex moglie era socialista, il mio tatuaggio preferito è Che Guevara… come fate a dire che sono fascista? Soltanto perchè mi vendico personalmente dei torti subiti invece di rivolgermi alla giustizia? Solo perchè esercito la violenza e la sopraffazione, mi vendico da me senza disturbare «le guardie», solo perché non credo nelle istituzioni? Solo perché faccio la voce grossa e impongo il rispetto con la forza? Sì, solo per quello. Basta e avanza.

Esistono comportamenti «fascisti» , e chiunque abbia qualche consuetudine con la storia può documentarsi in merito. Non è un’attenuante che le squadracce del presente non abbiano alibi ideologici. È un’aggravante. Se nel ventennio poteva esserci qualche povero gonzo che davvero credeva in Mussolini e si comportava male di conseguenza, oggi, che nessuno crede più in niente e se ne vanta, non ci sono giustificazioni, per assalti, aggressioni, incendi e persecuzioni.

È la nuda e pura responsabilità individuale. È un atto criminale, punto e basta. E, personalmente, riterrei opportuno un giudizio severo anche nei confronti di un eventuale manipolo di giovanotti «di sinistra» , se andassero a randellare in giro questo o quello, a scopo di ritorsione.

Quando, nei tardi anni settanta, alcune teste marce di «Prima Linea» (terroristi e di sinistra) decisero di andare a gambizzare e intimidire a colpi di pistola , qui a Roma, sospetti spacciatori di quartiere, per salvaguardare la peggio gioventù e per continuare a scrivere col sangue la loro stupida epopea, ricordo bene, benchè fossi una ragazzetta, la vergogna che provai per loro e la repulsione, per il fatto che si conclamavano «comunisti». Oggi il comunismo è defunto e la parola «sinistra» è stata pensionata a forza.

Che Guevara, pace all’anima sua, abita stabilmente sulle T-shirt di chiunque, pochi sanno qualcosa del suo pensiero e delle sue azioni, ma molti conoscono la sua barba e la sua motocicletta.

Oggi, forse, se vogliamo provare e tracciare un discrimine fra «noi» e «loro», fra i buoni e i cattivi, è meglio ripartire dai fondamentali, è meglio metter giù, nero su bianco, pochi princìpi, da condividere e, soprattutto, da mettere in pratica. Uno potrebbe essere, se i cattolici mi consentono questa incursione nel loro territorio, questo: «Non fate agli altri quello che non vorresti fosse fatto a voi».

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Pubblicato il: 31.05.08
Modificato il: 31.05.08 alle ore 15.17   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Brava Bonino, ci hai pizzicati
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:29:44 pm
Brava Bonino, ci hai pizzicati

Lidia Ravera


Dunque Emma Bonino, che non è arrivata alla politica dal concorso di miss Gambe né dall´onorata carriera di valletta, ha un innamorato. E questo innamorato non è Marco Panella (ma va?). E inoltre la Bonino, non per offendere, ha pure 60 anni, eppure... La notizia piccante era su tutti i quotidiani più autorevoli che, come capita sempre più spesso, l´avevano pescata dal rotocalco Diva e Donna (il secondo più gettonato è Chi Diva e donna a concedere un´intervista sul tema della fame nel mondo in occasione della conferenza mondiale della Fao, la competente Emma avrebbe deciso di inserire un po´ di gossip sentimentale per dimostrare la fatuità del giornalismo italiano. Una cosa tipo: scommettete che se rivelo cifre terribili sulla quantità di bambini morti per fame, critico e propongo e analizzo, non una parola sarà ripresa, se invece faccio un accenno alla mia vita privata, sui cui non ho mai intrattenuto né l´Italia né l´Europa e meno ancora il Terzo Mondo, tutti daranno spazio a quello e soltanto a quello? Naturalmente ha avuto ragione, dimostrando tre piccole verità, ormai ovvie, ma non per questo meno gravi. Primo: i giornali "seri" imitano quelli popolari in una corsa al ribasso che caratterizza il cosiddetto "libero mercato" in modo uniforme (per qualche copia in più, per qualche spettatore in più, per qualche indice di gradimento in più peggiora tutto, dalla televisione alla letteratura, dalla stampa allo spettacolo). Secondo: della terribile sperequazione fra chi è satollo e chi crepa di fame non frega niente a nessuno (almeno finché la fame degli altri non minaccerà molto da vicino le nostre tavole imbandite). Terzo: gli esseri umani di sesso femminile, indipendentemente dalla loro competenza, dal loro valore, dal loro impegno e dalla loro posizione nella piramide sociale, devono sempre e comunque rendere conto della loro situazione sentimentale, della loro avvenenza o mancata avvenenza, della loro età e dei loro rapporti con l´altro sesso. Se riescono a innamorarsi e far innamorare, quello sì che è un risultato. Tutto il resto è roba da maschi o sublimazione, puoi anche diventare Presidenta della Repubblica, ma come femmina sei fallimentare.

Uffa, è l´unico commento che mi sento di aggiungere. Se, invece, Emma Bonino si è davvero lasciata andare ad una allegra confidenza e, scocciata dal polverone suscitato, ha deciso di inventarsi, a posteriori, la provocazione, allora, come si dice: chapeau! Complimenti! È la più spiritosa e intelligente di tutte le ritrattazioni. Dovrebbe brevettarla.

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Pubblicato il: 26.06.08
Modificato il: 26.06.08 alle ore 12.13   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Sessualità matura tra luci e ombre
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 09:56:16 am
CRONACA

Prima nascosto, oggi ostentato

Sessualità matura tra luci e ombre

di NATALIA ASPESI


 Sino a mezzo secolo fa nessuno avrebbe osato importunare gli anziani chiedendo quante volte la settimana e con che soddisfazione, tanto pareva ovvio che il sesso fosse un ingombro giovanile a cui molto prima dei 50 ci si sottraeva volentieri per dedicarsi alle più alte cose dello spirito. Si citavano come bizzarrie, cose da artista, certi fenomeni come Picasso, che ultraottantenne faceva perdere la testa a poco avvedute signore, mentre nel 1950, in "Viale del tramonto" Gloria Swanson, a 53 anni, era diventata l'esempio della disgustosa ingordigia sessuale di una donna ormai decrepita. I binomi sesso e giovinezza, o ancora meglio, sesso e procreazione, secondo i dettami religiosi soprattutto cattolici, avevano convinto che era naturale l'esclusione dalla pratica erotica delle persone oltre l'età fertile, per non parlare di Freud che aveva peggiorato il tutto descrivendo piccini rovinati per sempre dalla famosa "scena primaria" dei genitori copulanti, anche giovanissimi.

Il silenzio su una vita sessuale canuta riguardava soprattutto le donne, che del resto per secoli neanche ci arrivavano oltre la cinquantina, morendo spesso dopo qualche parto e arrivando raramente addirittura al decimo. Sino agli inizi del secolo scorso per gli uomini si chiudeva un occhio, quando dopo ogni vedovanza sceglievano spose sempre più giovani, ma anche per loro c'era un limite, oltre il quale non c'era che la castità. Apparente, ovvio, perché della realtà erotica loro ma anche di irreprensibili dame, mai nessuno avrebbe osato parlare; chissà quante belle storie i vecchi del passato si sono portati nella tomba! Adesso invece è ovvio che tutti siano desiderosi di raccontare le loro vigorose prestazioni: anche perché non si parla d'altro, e le università di Goteborg o di Tubinga o di Ottawa non hanno di meglio da fare che studiare i vecchi scoponi, e gli spot televisivi reclamizzano il gelato con il deliquio di una delirante fellatio e i profumi con un giovane in mutande che si distende su una signora in abito da sera mentre una voce da seduzione orgasmica balbetta in francese; e il mercato della terza e quarta età non lancia solo colle per dentiere e scivoli per le scale ma anche festose crociere dette "azzurre" e intimo civettuolo se pur giustamente coprente. Insomma, come i giovani sono costretti dalla pressione consumistica a portare l'orecchino e a ciondolare all'happy hour, i vecchi non si sentono solo in dovere di fare l'amore (cosa che hanno sempre fatto, di nascosto) ma di parlarne e di esibirlo. Diciamo però che non sono sempre rose e fiori. Le vistose e ottimistiche cifre che ci vengono da Svezia, Finlandia, Canada, Inghilterra, Stati Uniti segnalano fortunatamente che c'è una bella differenza tra vecchi in coppia e vecchi soli.

Le coppie anziane che ancora si amano oppure appena si sopportano, lo fanno con soccorrevole abitudine, spesso anche solo come "remedium concupiscientiae", o per nostalgia, magari anche per imperituro amore; però si conoscono anche dei lui ma soprattutto delle lei che si rifiutano energicamente a qualsiasi bisogna e allora sia i lui che le lei tempestano di lettere le poste del cuore per esprimere la loro desolazione. E per esempio la maggior parte delle ultrasessantenni che improvvisamente piantano il marito (più spesso cacciandolo di casa) lo fanno per sottrarsi al tran-tran del dovere coniugale diventato insopportabile. La situazione dei single è più complicata, anche prima di entrare nella quarta età. Pare che spasimando sia gli uomini che le donne ritornati soli per ritrovare un facsimile dell'anima gemella, anche tra i 40 e i 50 anni abbiano poi in realtà grande difficoltà ad abbinarsi. Gli uomini hanno la scorciatoia delle prostitute a meno che abbiano la fortuna dell'incontro fatidico con l'ukraina, la rumena o la russa, che li prendono a scatola chiusa accogliendoli in paradisi mai conosciuti.

Le signore, quasi sempre con figli, si addestrano ancora giovani a farne a meno o a fruirne saltuariamente con antichi spasimanti o conoscenti momentaneamente distratti. Più dolorosa è la situazione delle donne mature che certe che per essere una buona moglie basta saper fare il ragù, si ritrovano oltre i sessanta con un marito che ha perso la testa per una signora assatanata, non necessariamente molto più giovane, ma che sa sostituire il domestico ragù con ben altre leccornie. Però capita anche che improvvisamente le donne rimaste sole e ormai rinunciatarie da anni, pensionate e nonne se non bisnonne, si sentano rivivere e si mettano a chattare indefessamente, scoprendo la generosità fisica anche gratuita di bravi ragazzi avventurosi ma anche la parsimonia sentimentale di loro coetanei: quasi sempre, consigliano le signore, da evitare come la peste, dopo qualche accoppiamento di poca soddisfazione.

C'è però un problema nei quattro sondaggio degli autorevoli ricercatori svedesi: il primo è avvenuto nel 1970-71, l'ultimo è di questi anni. C'è un dubbio: ammesso che la ricerca prosegua e arrivi mettiamo al 2058, di quale vita sessuale potranno parlare i vecchi di allora, quelli che oggi hanno meno di trent'anni e risultano essere già adesso i maggiori consumatori di Viagra e persino della vecchia papaverina?

(10 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: LIDIA RAVERA. La bella piazza e le voci stonate
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 05:15:46 pm
La bella piazza e le voci stonate

Lidia Ravera


Leggo sul Corriere della Sera: «La piazza che doveva segnare l’apoteosi dell’opposizione di Antonio Di Pietro gli ha regalato un brutto autogol». Leggo ancora: «Finisce con Furio Colombo, veemente, che contesta Grillo e chiede una standing ovation per Napolitano... e con Mara Carfagna che querela Sabina Guzzanti». Potrei leggere ancora ma preferisco smettere. Mi viene il sospetto di non essere stata presente, dalle ore 18 alle ore 21 e 30, alla stessa manifestazione di cui parlano i giornali. Certo, ci sono alcune bizzarre somiglianze... anche nella Piazza Navona dove ero io c’erano le opere del Bernini e del Borromini e c’erano Sabina Guzzanti e Antonio di Pietro.
E Antonio di Pietro aveva portato le sue bandiere, il che, per uno che “aderisce” è un po’ troppo. E Sabina Guzzanti era stranamente stridula e sboccata, mentre in genere è saggia e divertente. C’era Beppe Grillo che, come era prevedibile, ha mandato tutti affanculo, che è un messaggio totalmente inutile oltrechè dannoso. Però c’era anche molto altro. C’erano migliaia di persone, senza “logo” né bandiera.

Immobili, in piedi, parossisticamente attente, per tre ore e mezza. C’era Rita Borsellino, in collegamento e c'era Pancho Pardi, c’era Ascanio Celestini e c’era Moni Ovadia e c'era Paolo Flores D’Arcais che, con il semplice elenco di tutti i reati che resterebbero impuniti se il trucco blocca-processi dovesse essere messo in opera, ha fatto correre a tutti i presenti in piazza, me inclusa, un brivido nella schiena. Era la stessa manifestazione di cui parlano i giornali, o era un’altra? Mi sono persa e sono finita in una piazza Navona duplicata appositamente per confondere l'opposizione, magari dal nuovo sindaco Alemanno? Oppure abbiamo vissuto la stessa piazza da due punti di vista un po’ diversi. Io vi racconto il mio, visto che tutti gli altri, da pulpiti ben più potenti, vi racconteranno, l’altro.
Io ero sotto il palco, e ascoltavo la descrizione del nuovo round di un lungo “incontro” dal titolo: Silvio Berlusconi contro le regole democratiche. Tutti gli interventi vertevano, ciascuno con il suo timbro, su questo tema. Erano discorsi nuovi ed erano discorsi vecchi. Mi tornava in mente la manifestazione organizzata da Nando dalla Chiesa nel 2003, stessa piazza stesso mare di folla, sotto lo striscione: «La legge è uguale per tutti». Anche allora c’erano migliaia di persone, sul palco c’erano anche Fassino, D’Alema e Rutelli. Poi, a un certo punto, Nanni Moretti saltò su dalla platea e disse: «Con questi qui non vinceremo mai». E la piazza esplose in un applauso addolorato quanto liberatorio.
È successo anche ieri. Applausi e fischi hanno sottolineato ogni affondo contro l’opposizione di governo. Era inevitabile. Cioè: si sarebbe potuto evitare soltanto appoggiando la manifestazione, sfottendo meno, partecipando anche senza partecipare, perché gli obbiettivi erano (sono) comuni. Perchè, vedete, nessuno si diverte a urlare, se si parlasse tutti insieme con voce chiara e forte, non ci sarebbe alcun bisogno di sgolarsi. E l’efficacia sarebbe maggiore. È così difficile da capire? Ma certo... io sono stata ad una manifestazione diversa, non ero alla “manifestazione di Di Pietro”. E tanto meno a quella di Beppe Grillo. Ero ad una manifestazione auto-organizzata, promossa da una rivista cui collaboro volentieri, Micromega, e da due uomini che stimo: Pancho Pardi e Furio Colombo, due politici recenti, espressione della società civile, un ex professore universitario e un ex direttore di giornale (questo). Peccato essersi persa quell’altra, manifestazione, pare che si siano divertiti un sacco, fra un insulto e un fescennino... E, a proposito di divertimento, se vi volete consolare, procedete nella pagine de la Repubblica fino a «Hippy-chic: lusso e privilegi anni ‘70», ove si legge: «la crisi non sfiora neppure da lontano l’universo miliardario dei ricchissimi».
Ad avvisarci è «una delle 50 donne più potenti del pianeta». Angela Merkel? Hillary Clinton? No, Frida Giannini, direttore creativo di Gucci. «Mai come in questa stagione - sorride - si è visto tanto lusso, chi ha grandi possibilià economiche entra nei nostri 200 negozi e compra proprio quello che costa di più» . Cioè: caftani fluttuanti, fantasia di conchiglie ricamate, capricciosi disegni rococò. Come la «ricca e privilegiata dama hippy-chic anni ‘70». Ma dov’era, la dama hippy chic, negli anni Settanta? Io non l’ho vista. Forse, anche all’epoca, avevo sbagliato piazza.
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Pubblicato il: 10.07.08
Modificato il: 10.07.08 alle ore 9.35   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Il pericoloso giovane di Rifondazione
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2008, 06:37:42 pm
Il pericoloso giovane di Rifondazione

Lidia Ravera


Se non l'avessi letto sulla prima pagina del quotidiano "La Repubblica" non ci avrei creduto.

E dire che non sono mai stata un'ottimista: ho sempre pensato che mi toccava vivere in un paese premoderno, un tantino feudale, facile al razzismo, rassegnato al malaffare e moderatamente orientato a destra… però che si arrivasse a questo punto, no, non me l'aspettavo. Cito il titolo: "Sedicenne tolto alla madre perché milita in Rifondazione". A tutta prima equivoco e penso che la "colpevole di comunismo" sia la madre e già mi innervosisco: anch'io sono stata, finché ho potuto, comunista, ed ero, vi assicuro, un'ottima madre. Niente gulag, tanta discussione, niente Keghebè, libertà vigilata dal buon senso, rispetto reciproco, valori condivisi, patti chiari ed educazione all'esercizio della critica. Perché a questa signora di Rifondazione levano la tutela dei figli? Ero pronta ad armare una volante rosa (ma anche un po' rossa) e marciare su Catania, dove è avvenuto il fatto, quando ho letto anche l'occhiello. "Il giudice lo affida al padre: tra le motivazioni anche quelle politiche". Dunque "il comunista", mi dico, è il ragazzino. Leggo tutto l'articolo e scopro che è stata prodotta come prova a carico dell'irresponsabilità materna "La tessera d'iscrizione a un gruppo di estremisti". Il gruppo di estremisti dove "è diffuso l'uso di sostanze alcooliche e psicotrope" (come in tutte le discoteche del mondo, anzi, sicuramente meno) si chiama "Tienanmen". Se lo ricordano quelli del Tribunale di Catania che cosa è stato "Piazza Tienanmen"? La piazza in cui centinaia di migliaia di studenti sono scesi a manifestare per strappare un po' di democrazia alla Cina comunista. Sono stati massacrati i protagonisti di quella rivoluzione civile che ha smascherato le derive totalitarie del comunismo e solo un genitore tonto o disinformato può non essere fiero che suo figlio frequenti un circolo intitolato agli eroi di piazza Tienanmen. E poi: un ragazzo di 16 anni che, in questa Italia di tifoserie armate e solitudini elettroniche, si interessa di politica, suona il basso e la chitarra e ha una "passione per il teatro" a me pare il massimo che si può desiderare in fatto di figli. La signora Agata (medico ospedaliero) può essere fiera di sé, anche perché, pur lavorando, ne ha cresciuti tre, di ragazzi. E speriamo che la sentenza venga ridiscussa. Resta una triste sensazione: a trent'anni dalla fine della Guerra Fredda, si continua ad agitare il babau comunista, fingendo di non sapere che un adolescente innamorato dell'idea comunista è solo un ragazzo più sensibile degli altri al tema della sperequazione economica, dell'ineguaglianza. I giovani migliori, come sempre, stanno nei gruppi del volontariato cattolico e nei centri sociali permeati di cultura antagonista, a sognare la bontà o la rivoluzione. È triste che, mentre i ragazzi cattolici hanno un sacco di padri potenti e plaudenti, i ragazzi di sinistra, ormai, sono soli… e possono perfino essere tolti alla propria madre. Che brutto periodo, quello che stiamo attraversando! Come si fa a uscirne? Da che parte si comincia? Tornando a scuola e restando a scuola tutta la vita, sembrano pensare al Comune di Genova, dove propongono per i dipendenti: "una pagella, ogni anno. E chi non prende almeno sette può dire addio all'incentivo" ("La Stampa"). Si tratta di una delle inziative tese a valorizzare gli impiegati scrupolosi e ad emarginare i fannulloni. In linea di massima, sarebbe anche giusto e, come Massimo Gramellini (sempre su "La Stampa"), anch'io "saluto con entusiasmo l'ondata di meritocrazia che sta per infrangersi sulle aride spiagge del Moloch pubblico" però, purtroppo, in un Paese permeato dalla cultura del raccomandazione, dello scambio di favori, dell'appartenenza familistica, di partito o di clan, è inevitabile una domanda: siamo sicuri che i premi li riceveranno davvero i migliori, e non, come da copione, quelli che è più utile premiare?

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Pubblicato il: 21.08.08
Modificato il: 21.08.08 alle ore 9.09   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Dove la migliore vince davvero
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:35:22 pm
Dove la migliore vince davvero

Lidia Ravera


L´Italia, paese martoriato da un vastissimo campionario di crisi (da quella economica a quella politica passando per quella della voglia di lavorare e dei valori condivisi), si sta, tutto sommato, facendo onore sul palcoscenico mondiale dello sport.

Dal televisore, sempre acceso ma muto, vedo giubilare o, brevemente, disperarsi, le belle facce pulite e i corpi magnificamente espressivi degli atleti e delle atlete. È uno spettacolo consolante. È consolante vedere la Pellegrini (oro nei 200 stile libero) che si bacia la medaglia. La Vezzali (oro nel fioretto) che guarda il suo bambino mentre le manda baci immortalati dalle telecamere. La Quintavalle che nessuno se l´aspettava (oro nel judo), nemmeno lei. La Cainero (oro nel tiro a volo) che vuole dividere il premio coi compagni della squadra. È consolante che le ragazze d´Italia abbiano conquistato 4 medaglie d´oro e i maschietti 3. Corrado Sannucci su "La Repubblica" parlava di "un ribaltamento epocale". Ora le percentuali si sono riequilibrate: su 25 medaglie, 10 le hanno conquistate le donne e 15 gli uomini. Ma le donne hanno un oro in più. Come dire: l´eccellenza è femmina, e l´equilibrio di genere è rispettato. Metà donne e metà uomini, sul podio. Come dovrebbe essere ovunque: in Parlamento, al Governo, ai vertici delle aziende, degli enti pubblici, delle televisioni e dei giornali. Come potrebbe essere se il merito valesse anche quando in gioco sono la competenza professionale, la qualità intellettuale, il talento artistico, la creatività, l´intuizione scientifica, la preparazione culturale.

Purtroppo non è così. Nella vita vera, fuori dalla simulazione di realtà che contraddistingue i giochi tutti, anche quelli olimpici, le ragazze non godono il privilegio di una gara pulita, dove ciascuno parte senza vantaggi pregressi e può contare solo su sé stesso e le regole sono uguali per tutti e se bari sei squalificato e se sei più forte, se hai lavorato più duro, se sei più dotata, vinci. Ma se non vinci, va bene lo stesso, perché ha vinto una più brava di te. E allora non c´è umiliazione, c´è ammirazione. Non ha vinto una che è andata a letto con l´onorevole Porcello, col Potente Arrapato di turno e ne ha tratto gli ovvii vantaggi. Ha vinto una che è più veloce di te e tu devi soltanto ricominciare ad allenarti, e la prossima volta andrà meglio. È questo il bello del sport. Ed è per questo che milioni di italiani restano inchiodati allo schermo televisivo per ore a godersi mondiali, europei, campionati nazionali, olimpiadi, incontri di boxe, di biliardo, gare di golf, maratone… e tutto lo sport che passa il palinsesto e che è parecchio, ogni anno di più. Davanti allo spettacolo dello sport si ridiventa bambini perché si può di nuovo credere alla più bella delle fandonie: "vince il migliore". Nella ruvida realtà non è così. Vince il più furbo, quello che ha capito come si gioca: allineati e coperti, obbedienti, al servizio di chi conta, senza recare disturbo, meglio se un tantino mediocri, abili nell´uniformarsi, come camaleonti, al colore dominante.

Se si ha un corpo di donna, poi, l´affare si complica: finchè si è giovani è d´obbligo offrirlo, innanzitutto, al desiderio maschile. Meglio se qualificato a imprimere una svolta decisiva alla carriera di Bella Ragazza (consultare l´elenco delle intercettazioni telefoniche per credere). Quando non si è più giovani, poiché è sul corpo-oggetto-di-desiderio che si viene discriminate, si può anche scomparire, dato che abbastanza raramente, le "nate in un corpo di donna", riescono a raggiungere, usando altri attributi, posizioni di rilievo nel nostro paese (in altri paesi europei la situazione è meno avvilente, per esempio la Spagna, o la Scandinavia).

Alle Olimpiadi, femmine e maschi non gareggiano insieme, perché i maschi hanno gambe più lunghe, muscoli diversi, un´altra conformazione. Ma le medaglie hanno lo stesso peso. È una sorta di rispetto della differenza sessuale. Ciascun genere ha i suoi record. Alle Olimpiadi essere una donna non è un handicap, essere un uomo non è un vantaggio. Per eccellere ci vuole talento, volontà, sacrificio. E l´umiltà di sottoporsi, ogni volta, per ogni prestazione, ad un esame. Quest´anno, per la prima volta, le ragazze stanno andando meglio dei ragazzi. A Londra, nel 2012, questa tendenza sarà confermata. Non ho dubbi. Sono più abituate a soffrire, le femmine della specie, a impegnarsi, a investire 100 per avere 10, a sgobbare. E, quando i giochi sono puliti, è come avere in mano una carta in più.

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Pubblicato il: 23.08.08
Modificato il: 23.08.08 alle ore 10.53   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Il diritto di scegliere
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2008, 11:03:59 pm
Il diritto di scegliere

Lidia Ravera


Una coppia milanese va dal giudice e chiede di poter dare, al proprio bambino appena nato, il cognome della madre. Il giudice rifiuta. Un secondo giudice ratifica il rifiuto. I figli devono portare il nome del padre. Perché? Perché si è sempre fatto così, da tempo immemorabile. La coppia non cede e ricorre in Cassazione. E la Suprema Corte acconsente. C’è una carta dei diritti dell’Unione Europea che vieta «ogni discriminazione fondata sul sesso» e, soprattutto, c’è il buon senso comune che considera il patronimico «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non più in sintonia con l’evoluzione della società».

E soprattutto c’è anche il fatto, incontrovertibile, che i padri non sono più quelli di una volta. Quelli che, per intenderci, mantenevano la famiglia per tutta la vita, al servizio di matrimoni indissolubili contratti con fanciulle totalmente dedite alla procreazione e alla cura del nido, condannate innocenti a scontare un perpetuo stato di minorità. Il cognome dell’uomo veniva, all’epoca e fino a ieri, assunto dalla donna che, le piacesse o no, perdeva il suo, in una spoliazione simbolica per la quale non nutriamo alcuna nostalgia. Il cognome dell’uomo veniva imposto al bambino come un marchio di proprietà. I bambini erano messi al mondo dalle donne e educati dalla assoluta autorità degli uomini. Oggi non è più così. Le donne, è vero, continuano a mettere al mondo i bambini, poiché soltanto nel loro corpo si nasconde il dispositivo che consente la procreazione, però, sempre più spesso, si trovano anche a educarli, mantenerli, crescerli, concedere o negare permessi, reprimere o premiare eccetera eccetera. I matrimoni, non più indissolubili, si dissolvono con una certa frequenza. Gli uomini vanno, fanno altri figli con altre donne, o trovano donne che non vogliono figli o ne hanno già e sono disposte a fermarsi. Possono continuare a frequentare i bambini nati dal loro seme o sparire, possono contribuire al mantenimento e imboscarsi. Del resto: finchè una donna non li avverte, gli uomini non hanno alcuna possibilità di scoprirlo, che sono sul punto di diventare padri.

La paternità è una scelta culturale, la maternità è un fatto fisico. Possono fare il padre o non farlo più, gli uomini. Le donne restano sempre lì, accanto ai loro figli, restano madri. Per vocazione, per natura, per istinto, per convenzione, per tradizione... non so, comunque non scappano, non mollano. Le madri sono madri per sempre, non esistono le ex madri, come non esistono gli ex assassini: se hai dato la vita, se hai tolto la vita farai sempre i conti con quello che hai fatto. Nel bene, nel male. Dolorosamente, felicemente, nel profondo. Quindi: era ora, certo che era ora, si è insistito anche troppo a lungo, nell’imporre il nome del padre a bambini che possono perderlo da un momento all’altro, il padre, e allora il nome si svuota come il carapace di un granchio abbandonato sulla battigia. Naturalmente, se è la donna a chiederlo, se ci tiene, se, magari, si sente più protetta, va bene anche il “patronimico”. Diciamo che il passo avanti, anche in questo caso come nel caso dell’interruzione di gravidanza, è aver sancito il diritto di scegliere.

Peccato che le leggi non si fanno in Corte di Cassazione.

Ratificherà, il governo di centrodestra (il nostro centrodestra, non un centrodestra qualsiasi) con una opportuna modifica del diritto di famiglia, la saggia decisione dei giudici? Non credo. No, non perché dal Governo non mi aspetto niente di buono, ma perché il diritto di dare ai figli il proprio nome è anche un segno di rispetto verso le donne, un riconoscimento del loro essere cittadine a pieno titolo. E questo centrodestra, finora, di rispetto per le donne, ne ha dimostrato davvero poco.

Va da sé, come sempre, che sarei ben felice di sbagliarmi.

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Pubblicato il: 24.09.08
Modificato il: 24.09.08 alle ore 8.15   
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Titolo: LIDIA RAVERA. La lezione di Obama e le donne
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 12:07:37 pm
La lezione di Obama e le donne


Lidia Ravera


Fra i molti meriti di Barak Obama, con quella bella faccia di colore, con quel nome così lontano da ogni tradizione wasp, c'è anche questo: ci ha fatte svegliare di buon umore, noi femmine della specie. Come tutti i democratici, certo, come tutte le persone per bene che aborrono il razzismo. Ma con un valore aggiunto: l'effetto tetto di cristallo. Ha dato un bella zuccata, Obama, al limite invisibile che vuole al potere sempre lo stesso animale: maschio e bianco, di razza dominante. Così ci siamo svegliate sentendo il dolce tintinnio dell'esplosione, frammenti di vetro dappertutto. Brillavano come pietre preziose. Yes, we can, ci siamo dette.

Possiamo. Anche noi. Noi donne. In fondo, la dinamica del razzismo è la stessa dell'antifemminismo: il bianco ha sempre discriminato il nero (anche) perché sessualmente più dotato, no? E ha sempre tenuto le donne lontano dal potere perché nutre il fondato sospetto che siano, complessivamente, più dotate. Non tutte, ovvio, ma intanto si fa fuori metà del mondo e si riduce, drasticamente, la concorrenza. Per scoraggiarle senza ucciderle, ha costruito una cultura della disistima per cui ogni donna è diventata la peggior nemica di se stessa e delle sue simili. Così ha fatto con i neri, che, rabbiosi e rassegnati, non andavano neanche a votare. Questa volta ci sono andati e una ventata di vera novità ha scosso il pantano dell'occidente. Il messaggio è: bisogna osare. Un'amica mi ha detto: ma non sarebbe stata meglio Hillary, per spingerci a osare? No. Hillary era troppo interna al gioco, non veniva "da fuori". Non rompeva gli schemi. E' "il negro" ch è in noi, che deve vincere. La nostra diversità.

Il mondo ha bisogno di altri punti di vista, altre culture, sensibilità diverse, altri stili, altre storie. Abbiamo toccato il fondo. Da oggi si comincia a risalire. E noi, che siamo diverse, dobbiamo prenderci, finalmente, le nostre responsabilità.


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Pubblicato il: 06.11.08
Modificato il: 06.11.08 alle ore 8.18   
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Titolo: LIDIA RAVERA. Difendere la cultura dalla crisi
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 05:04:33 pm
Difendere la cultura dalla crisi

di Lidia Ravera


Il 19 dicembre "Il manifesto" costerà 50 euro. Cioè: chiederà 50 euro, consapevole di chiedere una testimonianza di stima, un gesto d'affetto, una dichiarazione d'amore per la sua storia, la storia di un giornale intelligente, libero da servitù di partito, senza padroni. Un giornale nato dalla ribellione di alcuni autorevoli intellettuali del secolo scorso ad un Partito comunista forte, rigido e filosovietico. Un giornale che è stato anche una forza politica. Un giornale forse un tantino snob, ma certo mai allineato, superficiale o in vendita. Glieli daremo, questi 50 euro?
Certo che sì. Con la certezza che è cosa buona e giusta. E che non risolve il problema. Il Manifesto morirà, come sta morendo "Liberazione". Gli altri, pur boccheggianti, vengono sostenuti, tenuti in vita artificialmente. Non questi. (I motivi sono ovvii, non spreco le poche righe concesse da l'Unità-bonsai, per ricordarli). In realtà:tutti i giornali sono in crisi. Lo sono i libri, il teatro e il cinema e la musica. I prodotti culturali, subiscono la crisi come nessun altro settore. Sono il superfluo, di cui si crede di poter fare a meno. Risultato: un'altra povertà, accanto a quella materiale: la povertà emozionale. Saremo più freddi, più annoiati e più tristi. Alla mercè di una tv sempre più vacua e lottizzata. Eppure, se dici, oggi, che la cultura è necessaria, ti guardano come la vecchia mandarina pallosa, sempre lì a rimpiangere i bei tempi andati. Pane,latte, calcio, cellulari e psicofarmaci…è questo il necessario,oggi! E la felicità no?
Senza leggere, senza stimoli per pensare, senza quel breve cortocircuito di gioia che ti provoca l'arte, nessuna felicità è umanamente possibile.Abbassiamo i prezzi, dei libri dei cinema dei teatri. Sovvenzioniamo la cultura, ma non costringiamo gli italiani a farne a meno.

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11 dicembre 2008     

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Titolo: LIDIA RAVERA. Un partito nuovo con volti vecchi. È possibile?
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 05:37:13 pm
Un partito nuovo con volti vecchi. È possibile?

di Lidia Ravera


L’anno scorso, fra novembre e febbraio, trepidante come una bambina ammessa finalmente a scuola , ho partecipato alla commissione Codice Etico del Partito Democratico. Mi hanno eletta senza consultarmi e, secondo quelli che sono rimasti a Milano, alla prima Assemblea Costituente, fino alla fine (io sono ripartita per Roma alle quattro), senza consultare granché neanche loro. Erano 2000 ottime persone, è stato un peccato. Ma forse non si poteva fare altrimenti. Dalla Presidenza qualcuno ha letto tre liste di nomi. Cento per stendere una "Carta dei Valori", cento per partorire una bozza di Statuto, cento per stilare, appunto, un codice di comportamenti e regole condivise per "Un partito nuovo, non un nuovo partito". Questo lo slogan.

Le prime riunioni erano affollate. C'era un gran felicitarsi l'un l'altro. Noi della Società Civile, quasi inavvertitamente, si sedeva vicini. Moni Ovadia, Giovanni Bachelet, Iacopo Schettini, Gad Lerner… I pezzi da 90 come Violante, venivano, parlavano, andavano via. C'erano molti assessori, consiglieri comunali, qualche sindaco, dirigenti sindacali. Ci si scaldava parecchio. Io prendevo appunti. Volavano parole importanti. Alla presidenza c'erano una donna e un uomo, per democrazia di genere, uno dei proponimenti virtuosi poi disatteso nelle liste elettorali. La donna, Marcella Lucidi, raccoglieva spunti da tutti gli interventi (alcuni davvero interessanti, altri un po' inutili, un po' per marcare il territorio, per dire «ehi, ci sono anch'io») poi tesseva, riunione dopo riunione, il codice da proporre al Partito.

Ricordo alcuni titoli: "requisiti e cause ostative per candidature, incarichi istituzionali e di partito", "rapporto fra politica e interessi privati", "leale collaborazione, correttezza dei comportamenti, rispetto delle regole". Provai anch'io , invitata a dare il mio contributo, per così dire, stilistico, a buttar giù una ipotetica introduzione (se l'Unità fosse ancora big size, ne citerei qualche frase). Non ebbe successo: troppa distanza fra il mio, pur brillante, italiano e la lingua della politica. Non me ne ebbi a male. L'importante erano i concetti. E i concetti c'erano. C'era, soprattutto, la determinazione a frenare le derive della partitocrazia. L'occupazione del potere, le rendite di posizione, l'oblio dello spirito di servizio, l' accoglienza offerta a inquisiti e condannati in nome di una morale"separata", l'accumulo di cariche e così via.

È stato inevitabile, per me, dal caso Ottaviano del Turco in avanti, chiedermi: fare un "partito nuovo" con le stesse persone che stavano in due partiti vecchi è possibile? E se uno dei due, poi, ha raccolto l'eredità di un partito vecchissimo, come la Dc, che si fa? Codice etico retroattivo e fuori dai piedi?

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30 dicembre 2008

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Titolo: LIDIA RAVERA. Fermiamo il capitalismo selvaggio
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2009, 10:24:11 am
Fermiamo il capitalismo selvaggio

di Lidia Ravera


Ha detto Giorgio Napolitano, anche se in altre parole: facciamo silenzio tutti, silenzio per un attimo.
Silenzio e sobrietà. Sarà, il prossimo, un anno duro. Per molti vorrà dire mancare del necessario, per altri vorrà dire mancare del superfluo. Per pochi, questo lo aggiungo io, non vorrà dire niente. Hanno i conti all'estero. Hanno le società nei paradisi fiscali. Un po' di nervosismo in borsa, ma il patrimonio è tale, che la sofferenza sarà minimo. Bene: anche a "quei pochi", ci permettiamo di chiedere un po' di sobrietà.

Meno barche ancorate a farsi ammirare, meno Billionaire, meno tette comprate, meno animali morti sul dorso delle signore,meno vulcani finti, meno gorilla a guardare le spalle di ometti ricchi e inutili, in una coreografia ormai troppo consueta: il ballo del privilegio esibito. Non è una richiesta punitiva, a parte il fastidio estetico, che il geniale "Cafonal" di Roberto D'Agostino illustra con repellente obbiettività, è un' urgenza culturale ( esistono? Sì, esistono). E' un'urgenza culturale perché, per obbedire al Presidente, occorre attuare una piccola rivoluzione nell'immaginario collettivo: prendere di peso il modello "soldi, lusso, potere", così perfettamente evocato dagli stili di vita dei vip, e buttarlo in qualche efficiente discarica, ove possa essere ridotto in poltiglia e incenerito.

E' dagli anni ottanta che, con continuità, ci viene proposta una felicità posticcia, ritagliata sulle misure anguste di una crescita esponenziale dei consumi, oggetti proposti ossessivamente, al solo scopo di far sentire chi li acquista, unico, diverso, superiore. Si tratterebbe, ahimé, di cambiare tendenza, di sostituire il messaggio, di licenziare l'eroe "furbetto" e truffaldino, grande accumulatore di prebende e astuto mercante di carni fresche femminili, a scopo di libidine o in cambio di vantaggi collaterali. Sarebbe il caso di trovare qualche volto nuovo, da offrire all'emulazione delle masse: qualcuno che legge libri ( uno dei passatempi meno costosi), che sa guardare (un tramonto, un quadro, gli occhi di una donna), che ascolta anche le parole degli altri, che è capace di conversare ( altro piacere gratuito), che cerca di migliorare, intellettualmente, moralmente, non soltanto di fare fortuna, non soltanto di fare i soldi.
I soldi, per praticare la sobrietà, sarà il caso di rimetterli al loro posto. Lo slogan potrebbe essere: guadagnare per vivere, non vivere per guadagnare.
Se riusciremo a provare un po' di sano disprezzo per le derive del capitalismo selvaggio e i suoi rumorosi adepti, se riusciremo a ritrovare l'eleganza austera di chi sa spogliarsi degli accessori obbligati dalla moda e godersi l'essenziale, forse, la crisi ci renderà, sì, tutti un po' più poveri. Ma anche un po' più belli.

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03 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Il partito della pietà
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 04:36:24 pm
Il partito della pietà

di Lidia Ravera


Basta un morto per dire: No. Ma anche le proporzioni contano», così scrive Luisa Morgantini, vicepresidente del Parlamento Europeo, in «Gaza, lettera aperta ai politici italiani». Scrive che dal 2002 a oggi, per i razzi degli estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone. E sono certamente troppe. Ma a Gaza, nello stesso periodo, sono state distrutte migliaia di case e uccise più di 3000 persone. Centinaia erano bambini. Facile: sono la maggioranza della popolazione a Gaza. E non tirano razzi. Al di là di qualsiasi ragione o torto di entrambi i contendenti, la sproporzione è evidente.

Una delle tante asimmetrie? E fino a quando dovremo sopportarle, le guerre asimmetriche? A Gaza capita che una donna partorisca in un campo, che il marito le debba tagliare il cordone ombelicale con un sasso, perché le impediscono di raggiungere l'ospedale. Capita che gli scolari debbano camminare un'ora per arrivare a scuola, la via più breve non la possono percorrere. Vita quotidiana di un popolo braccato. A Gerusalemme, una scrittrice mi ha detto: «mandi i tuoi figli a scuola al mattino e non sai se torneranno a casa». Si soffre al di qua e al di là del confine.

Ma i carrarmati sono la soluzione? Molti israeliani pensano che servono solo a perpetuare l'odio e non lo sopportano più. C'è, nello stato democratico di Israele, chi condanna l'aggressività bellica del governo, nonostante la paura con cui convive da decenni. Ci sono soldati che rifiutano di andare a sparare sui vicini di casa, e si lasciano incarcerare per questa nobilissima disobbedienza. C'è, anonimo, timido, eppure in continua espansione, un incorporeo partito transnazionale della pietà. È forse l'unico a cui varrebbe, qualora prendesse corpo, la pena di iscriversi. L'unico partito da votare, in questi anni di confusione e di dolore.

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08 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Restare umani a Gaza
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2009, 06:45:44 pm
Restare umani a Gaza

di Lidia Ravera


Vittorio Arrigoni, volontario a Gaza, nonostante un periodo di detenzione e un foglio di via delle autorità israeliane, conclude i suoi articoli quotidiani, pubblicati su "Il manifesto" e sul blog "Guerrilla Radio", con la stessa frase. "Restate Umani". Che cosa vuol dire restare "umani"? Vuol dire, innanzitutto, non abituarsi al dolore degli altri, non bruciare tutta la propria pietà sulle fotografie dei primi bambini insanguinati, ma continuare a soffrire e a protestare, anche dopo 18 giorni di guerra, anche dopo 970 morti. Vuol dire non prendere partito ciecamente, consolando sé stessi con la convinzione che il torto, il male, l'odio sia tutto dall'altra parte.

È difficile, restare umani, di fronte alla politica delle bombe. Non tutti lo sanno compiere, quest'esercizio.
Non è "restare umani" palleggiarsi le vittime, usare un lutto per giustificare altri lutti. Non lo è nascondere un arsenale sotto un ospedale, ma neppure bombardare l'ospedale perché è un obbiettivo militare e chi se ne frega se è pieno di feriti.
Non è " restare umani", invitare al boicottaggio "dei negozi appartenenti a membri della comunità israeliana", come, secondo Bernard Henry-Levy, è accaduto in Italia (e speriamo che non sia vero).
E non è "restare umani" brandire, come un'arma di distruzione psicologica di massa, il ricordo della Shoah, con tutto il suo irripetibile orrore, per chiudere la bocca a chiunque esprima le sue critiche nei confronti della politica d'Israele, della spietatezza con cui sta trasformando in genocidio una, pur lecita, operazione di polizia contro frange terroriste di Hamas. Quello degli ebrei è un popolo ferito, martoriato. Ha diritto, per sempre, alla nostra pietà. Non alla nostra incondizionata approvazione.

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da unit.it

15/01/2009


Titolo: LIDIA RAVERA. Stuprate e offese
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2009, 09:48:14 pm
Stuprate e offese

di Lidia Ravera


Pare che, alla maggioranza degli italiani, Berlusconi risulti simpatico soprattutto per la sua verve veteromaschilista: mentre calpesta, con metodo, la dignità delle donne, libera, con l’esempio, da qualsiasi senso di colpa o inadeguatezza, da qualsiasi censura o vergogna, ogni maschietto di bassa statura (morale e culturale, ma, già che c’è, anche fisica) in vena di pacche sul culo e commenti sporcaccioni sulle femmine (con particolare accanimento verso quelle che non li prendono in considerazione). Non c’è signora che non abbia subito i suoi commenti, o perché bella e giovane o perché non abbastanza bella e non più giovane.

Ci siamo sforzati di buttarla a ridere, ma adesso non ne abbiamo più voglia: gli agguati a scopo di violenza sono in crescita, incominciamo ad avere davvero paura e Berlusconi, nel commentare la proposta, demagogica, di usare l’esercito per scoraggiare le aggressioni, ha detto: «Dovremmo avere tanti soldati quante sono le belle donne in Italia».

Difficile buttarla a ridere, anche se a chiedercelo è il Presidente del Consiglio. Anzi, proprio perché è Lui a chiedercelo: una battutaccia detta da un Presidente è più pericolosa della stessa battutaccia detta da un pirla qualsiasi. Fine della ricreazione, quindi, che Berlusconi taccia e si scusi. Credeva, il simpaticone, di fare un complimento alle vittime? Voleva invitarle a considerare lo stupro come un omaggio estremo alla loro avvenenza (un militare per ogni bella, le brutte chi se le stupra)?
O, magari, giustificare gli aggressori, sistemandoli nella grande famiglia dei maschietti a cui le belle ragazze danno un po’ alla testa: un’allegra banda di sociopatici di cui, almeno a parole, sembra far parte anche lui. Il Capo del Governo di questo Paese.

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26 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Il Paese dei bravi ragazzi
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2009, 11:38:31 pm
Il Paese dei bravi ragazzi

di Lidia Ravera


Decidono di marinare la scuola, prendono in mezzo una ragazzina di 14 anni, la ubriacano «fino a farle sfiorare il coma etilico». La stuprano, peggio: la deflorano. Puliscono il sangue e tornano a casa. Compagni di banco, compagni di branco. L’edificante storiella salta fuori un mese dopo, perché la vittima vuota il sacco con la sorella, dopo settimane di silenzio e anoressia. Tre adolescenti vengono arrestati. La madre di uno dei tre dichiara: «Mio figlio? È impossibile. Probabilmente lei ci stava».

Complimenti, signora. Difenda sempre suo figlio, sempre e comunque, anche se ammazza qualcuno. Si allinei pronta al più becero maschilismo, quello che vede in ogni donna violentata una puttana potenziale. Non si interroghi mai, per nessun motivo. Si tenga strette le sue modeste certezze, prima fra tutte quella su cui si basa la degenerazione italiana: la famiglia prima di tutto, la famiglia nepotista e amorale, tesa a difendere i suoi membri dal giudizio degli altri. I figli sono sempre dei santi, no? Cattivi sono i figli degli altri. È applicando questa italianissima regola mafiosa che si educano i nuovi mostri. Sono ragazzini incensati e ignorati, che crescono con la certezza della loro automatica innocenza. Mamma li assolve sempre, papà difficilmente si prende il disturbo di inculcare nelle loro fertili teste vuote un paio di principi. Per esempio il rispetto degli altri. E tutti sono “gli altri”: perfino le donne e gli immigrati.

Purtroppo nella moderna famiglia “il prossimo tuo”, quello che dovresti amare “come te stesso”, è un pallido ectoplasma senza identità. O è nella tua banda/famiglia o è nemico. E la tua banda che obbiettivo ha? Sfangare il sabato sera. Per riuscirci bruci vivo un uomo o rovini una ragazza? Pazienza. Grazie alla Gelmini, avrai zero in condotta. Tanto mamma non si arrabbia.

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05 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Eluana, Beppino e il sequestro della volontà
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 05:27:39 pm
Eluana, Beppino e il sequestro della volontà

di Lidia Ravera


In margine al dolore, condiviso da tanti, per i diciassette anni in cui Eluana ha continuato a morire, in margine al malinconico sollievo per la fine dell’esposizione del suo corpo martoriato, mi assalgono pensieri apparentemente scollegati. Per esempio penso: certo il fatto che gli alti prelati, il Sommo Pontefice e i suoi vicari, non abbiano figli, c’entrerà pur qualcosa, influirà, almeno un po’ sulla loro durezza implacabile. Chiunque abbia cresciuto una figlia sa quanto è insopportabile vederla soffrire, veder calpestata la sua dignità, vederla trattata come un corpo, come un simbolo, come un’anima. Una figlia è un pezzo di te.

Se lei soffre tu soffri. Se le mancano di rispetto tu senti vergogna. Se l’hai provato, questo tipo particolare d’amore, non intralci il faticoso cammino di un padre, che ricorda sua figlia ragazza, sua figlia viva, sua figlia com’era prima dell’incidente che l’ha uccisa (perché è l’incidente che l’ha uccisa) e quanto orrore le provocava l’ipotesi di essere mantenuta artificialmente in una sorta di vita meccanica, inerte, inerme.

Poi penso: perché con gli animali siamo naturalmente pietosi, tutti? Perché i cani non hanno l’anima o perché non possono volere? Noi possediamo, pare, sia l’anima che la volontà. L’anima è un privilegio che si paga perdendo il diritto a esercitare la propria volontà. L’anima è di Dio, quindi decide lui. Vogliamo abortire? Non possiamo, perché l’embrione che portiamo dentro ha l’anima anche lui. Vogliamo un figlio e, poichè la natura non ci aiuta, ci deve assistere la scienza. Possiamo attrezzarci per metterlo al mondo? No, perché i figli sono, anch’essi, proprietà di Dio, e la legge divina impone di produrli naturalmente, nel corso di un atto d’amore in età fertile fra marito e moglie. Ogni altra ipotesi è out.

Nostra figlia, nostra madre, una creatura che amiamo è in coma irreversibile. Vogliamo poterla seppellire, poterla piangere. Possiamo? No. Perché nel suo corpo morto, grazie a una miriade di santi tubicini, pulsa l’anima. E l’anima la gestisce il Vaticano. Ho pensato: ma perché quando ci sono di mezzo la vita, la morte o l’amore la Chiesa Cattolica pretende di assumere il comando, promuove a universali le sue regole particolari, impone la sue opinioni a tutti, e non soltanto, come è giusto, ai cattolici? Ho pensato: meno male che, di tanto in tanto, una persona gravemente ammalata (per esempio Welby, per esempio Coscioni) oppure il padre di una persona mantenuta in vita con terapie invasive quanto inutili, mettono a disposizione di tutti noi la loro terribile esperienza, così siamo tutti costretti a riflettere, a prendere posizione. A opporre l’empatia laica alla raggelante normatività cattolica.
Ho pensato che c’è qualcosa di eroico nel trasformare un dolore privato in una battaglia di tutti quando si vorrebbe soltanto fare presto, fare in silenzio. Per questo io lo vorrei ringraziare, Beppino Englaro.

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10 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Il Vangelo secondo Maroni
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2009, 07:03:18 pm
Il Vangelo secondo Maroni

di Lidia Ravera


Il soffio ringhioso di una politica miope e xenofoba che spira nelle osterie padane è stato sdoganato nell’aula del Senato», questo il duro giudizio di Famiglia Cristiana sulla simpatica proposta di vincolare i medici, con apposita legge, a denunciare i propri pazienti, qualora immigrati e clandestini, al fine di poterli prontamente espellere, benchè malati feriti o moribondi, dal nostro accogliente Paese.

Se, per obbiezione di coscienza (sarà prevista anche in questo caso o la stimolano soltanto i diritti del feto?), un eventuale dottor Animabella si rifiuta di indossare la livrea dello spione, ci penseranno apposite ronde di cittadini armati di forconi, a far rispettare il pogrom. I cattolici del noto settimanale si sono, logicamente, ribellati: dar da bere agli assetati, dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, ama il prossimo tuo come te stesso, chiedete e vi sarà dato... i sacri testi parlano chiaro.

I cattolici incastonati nella maggioranza di governo, al contrario, si ricordano della pietà soltanto quando si tratta di impedire gli sforzi umanitari dei poveri laici per porre termine all’idratazione coatta di una donna ridotta a vegetale, o per consentire a una donna non fertile di diventare madre, o per impedire che un bambino nasca non voluto.

Ai cattolici incastonati nella maggioranza di governo i malati interessano soltanto se irreversibilmente in coma e italiani.
Ma la pietà può essere selettiva? Vivere da cattolici prevede una rigorosa disciplina morale. Laddove noi “non credenti” arranchiamo con il solo supporto della nostra coscienza, fra mille dubbi, cercando di far bene, i cattolici hanno addirittura Dio come azionista di maggioranza e Maestro. A Lui devono rendere conto, ma da Lui possono farsi guidare. Perché non lo fanno? Perché non voltano le spalle al ministro Maroni?

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12 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Violenza anche se è Pirelli
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2009, 11:44:25 pm
Violenza anche se è Pirelli

di Lidia Ravera


La fotografia è bella ed è bella la fotomodella: una ragazza di colore dai grandi occhi truccati e terrorizzati. I neri capelli attraversano un viso dai lineamenti inesorabilmente armoniosi. Turgida è la bocca aperta in un grido, tondi i seni nudi che le braccia, artigliate da mani maschili, alzano ed espongono. Tutto perfetto, roba di qualità. Ovvio: l’immagine appare sul Calendario Pirelli, distinta pubblicazione dedicata ai top manager del mondo occidentale e alle legittime necessità di una libido esigente.

Da decenni la “natura morta” su cui si lustrano gli occhi è il corpo svestito di donne viventi. Va bene.

La bellezza è la bellezza, non si censura. In questo caso, però, qualcosa non quadra: la fotomodella, trascinata via con forza, è nella inequivocabile posizione della vittima. La narrazione che sottende l’immagine è, senza alcun dubbio, una delle stazioni del martirio femminile: stupro, violenza carnale.

I responsabili dell’Ufficio delle Relazioni esterne della Pirelli specificano, scocciati, che si tratta della citazione recitata di “un rito buscimano”, che è un frammento e non si può giudicare. Fosse anche, nelle intenzioni, la Vergine Maria alle prese con una versione postmoderna dell’Annunciazione, resta il fatto che è una ragazza sopraffatta e che, dato il contesto, il suo terrore coincide con il massimo dello chic: il calendario Pirelli fa tendenza, da anni fissa i canoni del gusto, laurea le primatiste del fascino, impone modelli. Se stabilisce che la donna nuda non eccita più e ci vuole la donna massacrata, se lancia la moda del “patinato violento”, perché un branco di ragazzetti sfigati non dovrebbe infilare il manico di una vanga fra le gambe di una quattordicenne e fotografarla col telefonino? Ci mancava solo l’estetica dello stupro!


16 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. L'ultima goccia di sinistra
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2009, 06:36:38 pm
L'ultima goccia di sinistra

di Lidia Ravera


Se c’è un’attività in cui la gente di sinistra riesce bene è la mortificazione collettiva. Si critica, ci si critica, si dichiara che davvero, che mai avremmo pensato, detto, creduto, mai, neppure negli incubi, neppure da piccoli, neppure negli anni peggiori... C’è sempre una goccia che fa traboccare l’ipotetico nostro interno vaso. Questa volta è stato il risultato delle elezioni in Sardegna, la goccia. E alla goccia sono seguite le dimissioni di Walter. Lo chiamo per nome perché lo conosco e perché simpatizzo con lui in questo momento difficile.

Lo so che lo sport nazionale è accanirsi su chi prende uno scivolone e si trova, momentaneamente, a terra, cioè in condizioni di non nuocere. Lo so, ma non mi piace. Quindi mi astengo. E poi, diciamoci la verità: un uomo politico che rassegna le dimissioni, in Italia, è “rara avis”. Non si dimettono gli inquisiti, i condannati, gli sputtanati, quelli che nessuno vuole (Villari docet),i noventenni... figuriamoci se si dimettono quelli che pensano di aver fallito, di non essere riusciti a portare a buon fine un’operazione di ingegneria politica non delle più semplici. Bene: Walter l’ha fatto e a lui va tutto il nostro rispetto.

Detto questo, e ridotta al minimo la fase della mortificazione, sarebbe utile ripensare tutto quanto. Per esempio: siamo sicuri che la fusione fra certi cattolici oggettivamente allineati con la destra e gli eredi di una visione del mondo laica e comunista sia possibile? E, ove possibile, che sia desiderabile? È meglio andare avanti per tigna o, umilmente, tornare indietro? Da 16 mesi noi, elettori fedeli e disponibili a tutto, veniamo presi a calci nella coscienza politica, costretti a digerire ondeggiamenti e patteggiamenti, pur di tenere in piedi un partito neonato e già incurabile: non si potrebbe smettere e chiedersi, tanto per fare una domanda di sinistra: «Che fare»?

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19 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. La piazza e la festa
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2009, 12:02:29 am
La piazza e la festa


di Lidia Ravera


Faceva freddo eppure c’era un certo calore, a piazza Farnese, sabato scorso. La folla era così fitta che non si riusciva ad attraversarla. C’era attenzione e un silenzio teso. Gli applausi erano applausi-commento, si applaudivano i concetti, certi passaggi dei discorsi dal palco, che erano discorsi, per l’appunto, non comizi. Si parlava, dal palco, della vita, della morte, della libertà, della laicità, dell’anima, della coscienza. Del dolore, condiviso da tutti i mortali, di dover morire, di veder morire.

Strani argomenti, per una manifestazione di piazza. Strana piazza: neppure una bandiera, partiti assenti o umilmente fusi con la piccola folla. Si manifestava contro il ddl berlusconiano che vorrebbe idratazione e nutrizione coatta per tutti i morenti. Indipendentemente dalla loro volontà e dalla loro disperata condizione.

Contemporaneamente, alla nuova fiera di Roma, l’assemblea costituente del Partito Democratico celebrava l’ultimo atto della sua democrazia sperimentale: far nominare un segretario da 2800 delegati eletti dal popolo degli amici del centrosinistra. Come due anni fa a Milano, quando si acclamò, con una fretta un po’ bulgara, leader massimo Walter Veltroni. Erano un po’ meno, i delegati, questa volta. Ma la fretta c’era di nuovo.

Questa volta per votare Franceschini. Qualcuno, fra i partecipanti alla festa, avrebbe voluto le primarie, invece dell’investimento del vice. Ma per sviluppare uno sforzo muscolare come il coinvolgimento dei cittadini elettori, bisogna essere sani. Scoppiare di salute. Quando le difese sono basse e i tempi difficili, ci vuole una cura ri-costituente. Per esempio, prima del congresso, si potrebbe fare un’altra bella festa e invitare i simpatizzanti a esprimere le loro preferenze. Magari, a ‘sto giro, anche gli antipatizzanti pentiti.

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26 febbraio 2009

da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Alle donne date fiducia
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:03:00 am
Alle donne date fiducia


di Lidia Ravera


"Le donne sono forti nelle avversità, ma sanno vivere anche in tempo di pace. Gli uomini in tempo di pace finiscono ubriachi". L'ha detto una scrittrice vietnamita, ieri l'altro, ad Hanoi, nel corso di un incontro dal titolo: il ruolo delle donne artiste in Vietnam e in Italia. Ieri, insieme alla celebre Madam Ninh, ex parlamentare, già presidente dell’Unione delle donne vietnamite, ex ambasciatrice presso l'Ue, s'è discusso il tema delle donne in politica. "Le donne sono eterni numeri due", ha detto lei, "Di diventare il numero uno, non riescono neanche a desiderarlo. Per poterci arrivare, al vertice della piramide, bisogna lavorare sulla base, aumentare il peso delle donne dal basso”.

La sala era gremita di ragazze, qui l'età media è 26 anni, il 70% della popolazione ne ha meno di 30. Applaudivano. Sono rimaste incredule quando l'interprete ha tradotto le mie poche parole: " voi avete il 27% di donne in Parlamento, da noi siamo sul 17%". Ma non eravate i famosi occidentali, così avanzati, così progrediti? "Ci confondete con gli svedesi: noi siamo ottantatreesimi nel rapporto sulla disparità di genere a livello economico, peggio del Burkina Faso".

Istruttivo, festeggiare l'8 marzo lontano dalle mimose di casa nostra, mai come quest'anno ipocrite, vista l'impennata delle persecuzioni contro le femmine (dall'incremento degli stupri all'innalzamento dell'età della pensione). Nei miseri villaggi del delta del Mekong, è alla madre di famiglia che consegnano il "microcredito", non è molto, 120 dollari. Ma basta per comprare un mucca. E una mucca basta per sconfiggere la povertà. In tutto il mondo, le donne meritano fiducia. Bevono meno, sgobbano di più, non si sono ancora usurate. Dateci un po' di soldi, un po' di potere da gestire e non avremo più bisogno di concessioni e fiori. Più mucche e meno mimose.

05 marzo 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Tessere la vita con i disabili
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:03:56 am
Padri, madri, fratelli e amici.

Tessere la vita con i disabili

di Lidia Ravera


L’amore, questo sentimento di cui si parla molto e si capisce poco, è protagonista assoluto di questo libro duro e, in un suo misterioso modo, esaltante, che nominerò prima dal sottotitolo: «A filo doppio con persone fragili». E poi dal titolo: Amore caro. Si tratta di una non casuale raccolta di lettere, dolorose e lucide, scritte da persone fisicamente «integre», con tutti i parametri vitali nella norma, a persone che, per un incidente sugli sci o perché si sono gettate dalla finestra in preda alla depressione, perché sono nate così o perché qualcuno ha sbagliato qualcosa mentre venivano al mondo, integre non sono, non corrispondono al modello standard, non hanno l’equipaggiamento minimo necessario per percorrere la vita senza farsi notare, senza portare handicap alla partenza, di quelli gravi, che ti impediscono di gareggiare, avendo le stesse chance degli altri.

Sentire l’amore
Sono belle lettere, e sono lettere d’amore. A scriverle sono fratelli, padri, sorelle, amiche, madri. L’amore che raccontano non è, però, quello ovvio dei rapporti fra consanguinei, è quello difficile di chi condivide una barricata ideale (la lotta per il diritto alla vita), una condizione di intelligenza estrema (la costante percezione del limite, della mortalità, senza possibilità di distrarsi troppo, di distrarsi come tutti facciamo) e una gioia incomunicabile, quella di essere intimamente legati a chi ha bisogno di noi, di lavorare tutti i giorni per impedire che quel bisogno sopprima il desiderio, e riuscirci e «sentire l’amore», nella sua primitiva intensità. Basterebbe la forza di queste lettere a consigliare la lettura. Ma si tratta soltanto della metà del libro. C’è l’altra metà. Ci sono le lettere di chi quest’amore lo riceve e lo ricambia, ma senza considerarlo né un atto dovuto, né un ingiudicabile regalo. Lorenzo Amurri, Paula Free Martin, o Barbara Garlaschelli che scrive: «Essere su una sedia a rotelle e avere una disabilità fisica del cento per cento significa aver bisogno sempre di qualcuno che ti aiuti. Significa che chi ti sta vicino si sente addosso la responsabilità della sua vita e della tua».

Non è facile né ricevere né dare, quando la situazione è asimmetrica. E non è facile raccontare.
Come dichiara Giovanni Maria Bellu, che scrive di non voler scrivere, ma scrive, e, in letteratura veritas, smaschera le sue stesse difese stilistiche: «Si trattava soltanto in fondo di metter giù qualche cartella. Sarebbe stato sufficiente individuare una piccola storia attorno alla quale far ruotare un po’ di considerazioni non troppo scontate. Quanto al tono, avrebbe dovuto essere cautamente emotivo, non troppo appassionato, amaramente ironico». Non eseguirà il compitino che si è prescritto, ma, padre di Ludovico, dieci anni, affetto da «disturbo pervasivo dello sviluppo», riuscirà, in poche pagine, a centrare il problema e decretarne, con un coraggio che riesco soltanto a definire poetico, l’irresolvibilità. Il problema, quando si ama una persona non conforme, è: l’imbarazzo del prossimo, l’ottusità della burocrazia, il pietismo peloso. In positivo ci sono: le persone meravigliose, le prodezze di Ludovico, le piccole cose che semplificherebbero la vita. Sull’imbarazzo non c’è niente da fare, così come sulla pietà pelosa.

Lo descrive magnificamente Clara Sereni nel suo Manicomio Primavera (una raccolta di racconti che ho letto vent’anni fa) e non l’ho più dimenticato: con tutte le migliori intenzioni chi non ha un figlio schizofrenico non può capire che cosa vuol dire avere un figlio schizofrenico, può soltanto ammettere la sua ignoranza e offrire in silenzio, per quel che vale, la sua empatia.

I diritti alla Fondazione
Le «piccole cose che semplificherebbero la vita», invece, si possono fare. E una di queste è anche comprare Amore caro. Innanzitutto perché i diritti vanno alla Fondazione «La città del sole» (come l’opera omonima di Tommaso Campanella, «descrizione di un’utopia che cercava di tenere insieme i dettami del cattolicesimo e le speranze di uguaglianza», scrive la Sereni curatrice del volume e presidente dell’Onlus) che si occupa di costruire percorsi di vita possibile per le persone più fragili, al di là degli sforzi di chi li ama e per alleggerire il peso della loro responsabilità assoluta (l’amore, purtroppo, solo nelle favole rende immortali). E poi perché «A filo doppio con persone fragili», in fondo, siamo legati tutti, a partire da noi stessi. Anche se preferiamo non rendercene conto.

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05 marzo 2009
da unita.it


Titolo: Spendete italiani spendete
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2009, 05:10:54 pm
Spendete italiani spendete

di Lidia Ravera


Sui giornali si parla di "una recessione senza precedenti, che in Europa potrebbe causare 6 milioni di disoccupati". Bene: il capo del Governo Italiano invita i cittadini a non leggere i giornali, mentre il capo di uno dei Partiti di Governo invita a favorire i cittadini italiani, quelli che non leggono i giornali, rispetto a quelli stranieri, che se se ne vanno è meglio. La domanda è: come facciamo, anche animati da buona volontà, a essere come ci vorrebbero i nostri leader di maggioranza?

Dobbiamo, per essere ospiti graditi del nostro stesso paese, diventare ignoranti e egoisti. Dobbiamo chiudere gli occhi di fronte all'evidenza di una crisi tanto grave e diffusa che sta mettendo in allarme tutto il pianeta. Dobbiamo rinunciare all'informazione, perché sapere fa male, si campa meglio con la testa ben affondata nella sabbia. Dobbiamo far fuori i più deboli, quelli che nel nostro paese hanno cercato una possibilità di sopravvivenza o di riscatto. In una parola: vivere sgomitando. Fuori lo straniero: l'Italia è stretta, basta appena per noi.

"Vadino" (esortativo di maggioranza) nel Darfur che lì c'è lavoro, possono fare i raccoglitori di lacrime. Noi abbiamo da tener fede alla nostra "mission": spendere, perché se smetti di spendere, si ammoscia il Pil e diventi comunista. Cupo, informato e barboso. "Chi non compra comunista è, è…".

Saltate, italiani. Ridete, restate fessi. Riempirsi di debiti è "in", risparmiare è "out". Ridete, restate nel mercato. Fuori dal mercato abitano soltanto quelli che continuano a leggere il giornale, ma tranquilli: non contano niente. L'Italia siamo noi, che mordiamo la vita come la carne di una ragazza e al diavolo il futuro. Dovesse mancarci il necessario, possiamo sempre riconvertire il superfluo e, quella coscia giovane, mangiarcela cruda.
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12 marzo 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Dalle coppie di fatto alle ronde
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2009, 05:06:45 pm
Dalle coppie di fatto alle ronde


di Lidia Ravera

Non si concludeva niente, ma se ne parlava, dei Pacs, delle coppie di fatto, della possibilità, per gli omosessuali, di sposarsi, adottare bambini, andare a trovare il partner in rianimazione, ereditare contratti d’affitto, anche senza la benedizione del matrimonio, così, soltanto perché due esseri umani si sono amati per vent’anni, nella buona e nella cattiva sorte, ma senza carte bollate. Se ne parlava e, parlandone, si finiva per chiacchierare di diritti civili, di valori condivisi, di solidarietà e d’amore.

Eravamo nell’era del governo Prodi, discutibile, per carità, ma non priva di rapporti con la democrazia. Ora non se ne parla più, di Pacs, nessuna sigla si incarica di ricordarci che la società si evolve e le leggi dovrebbero adeguarsi a tale evoluzione, invece di ignorarla, oppure, addirittura, contrastarla. Oggi, se si parla di omosessuali, è per dare notizia di qualche raid squadristico in qualche gay street, tutti insieme a spaccare le vetrine dei locali frequentati dai non conformi alla nuova regola etero: il maschio vuole la femmina e se la femmina non vuole si può sempre stuprarla.

Oggi, se scopri che tuo figlio è innamorato del suo vicino di banco è meglio che lo mandi a studiare ad Amsterdam. E senza dirlo in giro, perché, nella terza era Berlusconi, il discorso non piace. Ad ogni giro, il nostro ineffabile premier, si sposta un po’ più a destra. Il linguaggio, come è logico, si adegua: niente «Dico» né «Pacs», misteriosi al turista e bruttini sul piano poetico, però progressisti nelle intenzioni e, una volta sviluppati in concetti, utili per vivere tutti un po’ meglio. L’unico «patto» che ci propone questa nuova cultura è quello che ha come collante, la paura. Le parole sono «ronda» e «branco», come escludere è il «topic» del momento. Ma le leggi possono aspettare, i diritti li esercita il più forte. Eventualmente a bastonate.

16 marzo 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Se i giovani prendono partito
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 06:39:49 pm
Se i giovani prendono partito


di Lidia Ravera

La parola d’ordine è: svecchiare. Così un quattordicenne apre un congresso politico. Una trentottenne fa breccia nel cuore stanco del Partito Democratico. Un quarantenne si impone alle primarie ed è candidato sindaco. Tutti applaudono. Tutti approvano. Facce nuove, facce nuove! Parole semplici, parole semplici! Ma che simpatici, ma che carini, ma che spigliati! Giuliano Ferrara dedica ai “giovani” all’assalto del Pd una puntata dell’Elefante su Radio 24. Interviene una rappresentanza dei “nati per ultimi”. Dicono: noi non siamo ex. Né ex-democristiani, né ex-comunisti.

Quanto all’essere o non essere cattolici, è un fatto privato. Non rappresentano, anagraficamente, la maggioranza degli italiani, perché la maggioranza degli italiani ha una certa età (i baby boomers stanno fra i 50 e i 65 anni). Ma la loro aspettativa di vita li rende rassicuranti: dovranno occuparsi delle vere emergenze, perché quando si scioglieranno ghiacci, o i poveri del mondo marceranno sull’occidente per annientarci, saranno ancora su questa terra. È un sollievo, la loro comparsa. Per le anime dei simpatizzanti, ma anche dei “neo-antipatizzanti”. È un sollievo per chi non ha più voglia di sentirsi ripetere che D’Alema “però è tanto intelligente” e Veltroni “però è tanto una brava persona”, per quanto entrambi i giudizi non siano privi di riscontri reali.

Così la fervida immaginazione del democratico incomincia a produrre filmetti dove si vede, al vertice del partito, una ragazza coi capelli lunghi, non bellissima perché quello fa “destra di governo” ma ben insediata nella dura vita delle trentenni normali: precarietà, voglia di maternità, sindrome premestruale, capacità di emozionarsi e di emozionare, flessibilità anche mentale e predisposizione a sperare.

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26 marzo 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. La squadra del premier Letteronze ed ex attrici a Strasburgo
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2009, 10:12:47 pm
La squadra dl cuore del premier Letteronze ed ex attrici a Strasburgo

di Lidia Ravera


Leggo sui giornali: «In campo troniste, veline e letteronze, arrivano i volti nuovi di Silvio». Guardo la fotografia a colori che correda il testo: quattro signorine scollacciate con sorrisi standard, pose sexy, carni in mostra, spalle gambe decolté. Sono ex-attrici di «Incantesimo». Ex star del Grande Fratello, letteronze (mi sembra una parolaccia ma forse no, forse invece è una qualifica pregiata e soltanto io non lo so, non mi aggiorno mai abbastanza).

Leggo, l’articolo di Francesco Bei che parla di una «tre giorni di formazione politica» in cui, insieme ad alcune «deputate collaudate», le giovanotte vengono iniziate ai misteri della politica. Saranno alcune di loro, pare, a rappresentare il nostro Paese al Parlamento europeo, proposte dal partito di maggioranza in quanto «volti giovani, facce nuove». Lo scopo sarebbe di «dare un’immagine rinnovata del Pdl in Europa». Parole di Berlusconi.

Leggo, guardo. Provo a buttarla a ridere, come s’è fatto tante volte, tutte le volte che abbiamo commentato, in pubblico,in privato, la weltanschaung del Presidente del Consiglio: uomini potenti e competitivi, con molti soldi e senza troppi principi a intralciare il meccanismo dell’accumulazione più donne di complemento, ornamentali da esibire, sexy da possedere, giovani da comprare. Donne come oggetti effimeri (quando i requisiti estetici richiesti appassiscono vengono defenestrate) di corteggiamenti narcistici: più te ne ronzano attorno più sei «arrivato». Donne come yacht, come ville miliardarie, come Ferrari Testa Rossa, status symbol di una classe dirigente che non ama i libri, non capisce l’arte, non conosce la musica, ma la F…sì, quella la onora sempre.

Lei, la «sacra sineddoche» (una parte per il tutto), che, unita alla squadra del cuore, popola l’immaginario e il tempo libero di quella nuova borghesia raccogliticcia e senza storia che governa l’Italia. Provo a convincermi che devo buttarla a ridere, che non è grave, questa ennesima «carica delle soubrettes». Mi dico: ma dai, non ti sei fatta due risate il 26 aprile del 2007, quando B. alla cerimonia per la consegna dei Telegatti disse alla signorina Yespica «con te andrei dovunque» ( si discettava, mi pare, di ritirarsi in isole deserte) e, nel giro di pochi indimenticabili minuti, sentenziò «la Carfagna...guardatela, se non fossi già sposato me la sposerei»? Hai riso no? E adesso perché non ridi più, ti è peggiorato il carattere? Che sarà mai se qualche Elena Russo, Evelina Manna o Camilla Ferranti sono state raccomandate, sostenute o imposte da B. e dai suoi... non lo sai che da alcuni millenni le donne possiedono soltanto quella forma (transitoria) di potere lì, il potere della bella ragazza, capace di frullare l’ormone testicolare maschile e promettergli soddisfazione in cambio di solidi vantaggi?

Lo so, ma il problema non è la chimica dell’accoppiamento, o il libero mercato del desiderio. Il problema è che B., invece di sposarsela, la signorina Carfagna l’ha fatta Ministro. Il problema è che , cito da intercettazione telefonica, nello spingere il prodotto Manna Evelina, ha detto: «io sto cercando di avere la maggioranza in senato e …questa Evelina Manna può essere…perché mi è stata richiesta da qualcuno con cui sto trattando». Il problema è che, noi, noi donne, vecchie o giovani, belle o brutte, colte o ignoranti, intelligenti o oche, tristi o giulive siamo stanche di essere valorizzate soltanto come merce di scambio, di esistere soltanto in quanto corpi da calendario, di vederci passare avanti, secondo un copione che pare inevitabile, quelle che ci stanno, quelle che lo fanno, quelle che hanno le misure giuste e l’ opportuna avidità, o presunzione o cinismo o disprezzo per le istituzioni.

Possibile che non ne esista una, una sola, fra le giovanotte di coscia lunga, brave a ballare e a cantare, che, alla proposta di un posto in qualche Parlamento europeo o mondiale, dica, per una volta: «No, grazie»? Alla lunga è avvilente. È avvilente non che le liste elettorali del centro destra pullulino di belle figliole, ma che, costoro, siano state, compattamente, rimorchiate nel retropalco del Gran Varietà televisivo.

Anche Debora Serracchiani è giovane e ha un bel musetto,ma si è messa in luce facendo politica, ha convinto con le sue parole, ha avuto il coraggio di attaccare la dirigenza del Pd, ha in testa un progetto, vuole che questo progetto si affermi. Si rinnova così, l’immagine di un partito. Accettando le critiche, valorizzando le intelligenze femminili, spesso più concrete e meno coinvolte negli opportunismi del potere. Non si rinnova l’immagine di un partito ingaggiando un tot di figuranti di bell’aspetto, come se al Parlamento Europeo dovesse andare in scena una commedia. E il Pdl fosse una compagnia di giro e Silvio Berlusconi l’impresario. O il capocomico.

23 aprile 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Escort, professione pstmoderna di antica tradizione
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2009, 03:48:04 pm
Il calendario del popolo

Escort, professione pstmoderna di antica tradizione

di Lidia Ravera


L’escort è una scorta, un accompagnatore, uno «chaperon». Eventualmente un convoglio (DeAgostini: inglese/italiano).

La scorta, se è di maschi,protegge lo scortato, se è di femmine, lo intrattiene.

La scorta di femmine è, in genere, composta da un elemento solo. A fronte delle sue prestazioni essa riceve una quantità di denaro direttamente proporzionale alla sua avvenenza e professionalità, alla qualità e quantità delle operazioni intraprese al fine di soddisfare ogni esigenza sessuale dello scortato, ghiribizzi e perversioni incluse.
Alcuni pericolosi anarchici, renitenti a qualsiasi modernizzazione dell’antico patrimonio linguistico, si ostinano a ridurre la portata dell’incarico di «scorta», usando parole desuete come prostituta, meretrice. Altri, affiliati al movimento dei moralisti vernacolari, alludono a quella che è, oggi, una delle professioni remunerative, addirittura con «veterologismi» dal significato blandamente peggiorativo, quali mignotta, zòccola, puttana, troia e altro.

La «escort» essendo, nella maggioranza dei casi, oltroché anglofona, accondiscendente, non si lascia condizionare dalla sfumatura aggressiva di tali epiteti.

Lei, alla sua professione, ha dedicato sacrifici e investimenti economici di una certa entità: mastoplastiche additive, extensions di capelli veri, silicone e altre sostanze atte a gonfiare labbra e zigomi, tacchi a spillo, abitini corti e stretti ma neri, lingerie coordinata, ciglia e unghie da applicare sulla dotazione naturale, diete, palestre, personal trainer, «date make» (leggi: fornitore di appuntamenti per così dire amorosi), miniregistratori e bobine perché, non si sa mai, certe volte mille euro mancati possono fruttare una fortuna.
La escort si differenzia dalla prostituta perché ha una mentalità strategica, non si limita a eseguire il compito richiesto, è duttile, e creativa. Non si intestardisce sul danaro come quei soldati semplici della grande armata del sesso mercenario che stanno in piedi a bordo strada e aspettano clienti comuni.

La escort sa chiedere, ed eventualmente pretendere, «fringe benefits» che vanno dalla licenza edilizia alla «visibilità» televisiva, per arrivare fino al Ministero degli Affari Privati e all’Oscar per la migliore rianima-attrice di virilità affaticate.

La professione di «escort» unisce alla moderna sensibilità post-femminista il fascino di una lunga tradizione.

05 agosto 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. La rivoluzione interrotta delle donne
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2009, 04:06:50 pm
La rivoluzione interrotta delle donne

di Lidia Ravera


Ho provato una vera gioia, leggendo la «conversazione» con Nadia Urbinati, ieri, su questo giornale. Quando dice: «c’è, da parte delle persone attorno a noi, una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità collettiva». Ho pensato: ha messo, come si dice, “il dito nella piaga”. E mai frase idiomatica fu più opportuna. Qui si parla proprio di piaghe: indicarle è necessario, anche se sarebbe più elegante voltarsi dall’altra parte. Toccarle fa male. Ma attraverso il dolore, passa l’unica speranza di guarigione.

Dunque diciamolo: è morta la dimensione collettiva. Il “noi” che rafforzava i tanti “io” di cui era composto, latita. Era onnipresente, la prima persona plurale. Ora è scomparsa. Non è mai stata facile da declinare: includere l’Ego degli altri, sistemarlo accanto al proprio, non è mai naturale, tocca smussare angoli, reprimere individualismi, concedere generalizzazioni, perdere qualcosa di sè. Però si può fare, anzi: si deve.

Soltanto una massa di “io” ordinati in un “noi”, che li sovrasta e li protegge e li rappresenta, nel corso della storia, ha saputo abolire lo schiavismo, difendere il lavoro, conquistare diritti uguali per tutti, combattere il fascismo. L’individuo, da solo, può regalare all’umanità soltanto il godimento dell’arte. È necessaria, l’arte, ma non è sufficiente. Non oggi e non qui, in Italia.

Ha ragione la Urbinati quando dice: «Quel che fa questo governo non è ridicolo...è tragico». È tragico usare la paura e la fragilità psichica dei cittadini, aggravate entrambe dalla crisi economica, per disegnare una società che esclude e divide, che radicalizza le differenze e governa col ricatto milioni di solitudini. Poco più di metà degli italiani ha votato qualche anno di fiducia all’attuale Premier e alla sua “weltanschaung”. Poco meno di metà degli italiani ha cercato, votando il centrosinistra, di segnalare il proprio “no”.

Si tratta di milioni di donne e di uomini, dispersi e quindi condannati alla dimensione privata del dissenso: il lamento. Per le donne è una sorta di revival: ve la ricordate la rivolta “da camera” delle nostre madri? Erano donne che avevano vissuto la giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale e che, nell’Italia in rapido sviluppo degli anni sessanta, impigliate nel codice antico dell’esistenza vicaria, stavano maturando un disagio crescente per i ristretti ambiti delle loro vite. Che cosa facevano, mentre le loro figlie scendevano in piazza bruciando le icone della femminilità tradizionale? Si lamentavano. Opponevano un fiero cattivo umore ad un destino che vivevano come immutabile. Era il canto della loro sconfitta, il lamento.

Ci dava ai nervi. Giurammo che noi no, noi non ci saremmo sacrificate. Giurammo che avremmo imposto nuove regole, saremmo state parte attiva, a letto, al lavoro, in casa, in piazza. Lì per lì ci illudemmo di aver vinto. Non era così. La rivoluzione delle donne non è stata né vinta né persa. È stata interrotta.

Interrompere una rivoluzione è pericoloso: non riesci a imporre nuove valori, a radicarli, a estenderli a tutti, come quando vinci. Non vieni travolto dalla restaurazione del vecchio, come quando perdi. Quando lasci una rivoluzione a metà la restaurazione è lenta e strisciante. Incominciano a bombardarti con l’icona della “ragazza tette grandi/ cervello piccolo”, non ci fai caso. Occupa i teleschermi (anche quelli del servizio pubblico) per vent’anni. Spegni la televisione. Diventa protagonista della scena pubblica, corpo in vendita, carriera, oggetto di scambio, trastullo stipendiato di un modello di maschio potente/impotente che era già vecchio quando eri ancora giovane. Ti scansi, spegni l’audio, non vuoi sentire.

Finché ti accorgi che, nel silenzio/assenso generale, si è tornati indietro. Come prima e peggio di prima. Devi di nuovo essere complemento, protesi, utensile del piacere. Madre se proprio ti va, come lato B della carriera. A tua figlia regalerai “Miss Bimbo”, il gioco elettronico che insegna a diventare Velina, Escort o moglie di miliardario. Sei di nuovo povera.

Possiedi, come anticamente i proletari, soltanto il tuo corpo e quello devi far fruttare. E sbrigati: hai meno di 20 anni di tempo. Qualcuno dice che qualche ragazza ha trovato, per lo più all’estero, riconoscimento ai suoi talenti. Qualcun altro rimprovera “le femministe”, queste ormai mansuete streghe in prepensionamento, di tacere. Ma non è vero.

Tutte noi, noi poche, abbiamo, in questi anni, parlato. Sole davanti allo schermo dei nostri computer, come si usa oggi. Abbiamo confezionato tristi arringhe, abbiamo segnalato, puntuali come Cassandre, rischi e degenerazioni. Non è successo niente. Le parole delle donne non pesano un grammo. Per questo bisogna ricominciare daccapo. Portare i nostri corpi in piazza, occupare spazio, farci vedere, farci sentire. Contarci, per ricominciare a contare.

13 agosto 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Due donne accusate di lesa maestà
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2009, 05:27:01 pm
Due donne accusate di lesa maestà

Lidia Ravera


Bionde, più volte madri, ereditiere. Di bell’aspetto, di mezz’età. Sobrie rispetto al ruolo (donne vip), poco smaniose di apparire, rinchiuse in ville gigantesche cintate da parchi smisurati, difese da un’attitudine scarsamente ciarliera, di quelle che ti aiutano a non fare passi falsi e ti guadagnano la fama di «originale», poiché è certamente orginale, in una società dove «è la sensazione del privilegio a rendere felici le persone che contano» (Z. Bauman), non esibirsi in continuazione, per godere dell’invidia degli altri.

L’una  Margherita Agnelli, nel privilegio ci è nata: suo padre, Gianni, era Signore Assoluto dell’unica dinastia plutocratica italiana, il Casato Fiat. L’altra, Veronica Lario, è nata povera ma bella, e il privilegio l’ha conquistato, sposando un «Homo faber», povero ma furbo, e sposandolo quando era già ricco sfondato. Eppure, le due signore, in qualche modo, si rassomigliano e, in un certo senso, stanno subendo lo stesso brutale trattamento.

Margherita, per difendere i diritti ereditari di cinque dei suoi otto figli (quelli del secondo matrimonio), ha accusato il suo defunto padre di aver messo al sicuro, all’estero, una ragguardevole quantità di danaro, fregando in primo luogo tutti noi (leggi: lo Stato) e in secondo luogo lei. Veronica, per difendere i diritti dei suoi tre figli a fronte dei già acquisiti privilegi del fratellastro e della sorellastra, non ha esitato a definire il Cavaliere suo marito: un uomo malato, così come Margherita non ha esitato a ritoccare la memoria dell’Avvocato, suggerendo che era un tantino ladro, poiché questo sono gli evasori fiscali.

Al Palazzo del padre di Margherita il marito di Veronica era invitato per obbligo: senza erre blesa, senza folti capelli bianchi, con le scarpe rialzate e, al fianco, una bellezza troppo forte di seno per essere davvero elegante, non era certo omogeneo. Quelli che non lo gradivano più per snobismo che per altro, ed erano pronti a giurare sul binomio signorilità-onestà, sono sotto schock. I due esemplari della classe dirigente del nostro paese, il selfmade man e il capitalista dinastico, sono stati sottoposti ad un brutale processo di omologazione. E da due donne. Nessuno, ovviamente, le ha ringraziate.

Anzi: a Veronica, «velina ingrata», è stato rinfacciato il suo passato di bellezza in vendita. Margherita, che a seno nudo su un palcoscenico non si è vista mai, è stata demonizzata come le riccone avide e sgabbiate delle «soap». Tutte e due, avendo raggiunto l’età in cui le donne, anche se hanno taciuto a lungo, si sentono libere di parlare, subiscono, nel retrobottega del potere maschile, la stessa diagnosi: isteriche, strambe, matte.

È così che, nei secoli, si sono rimesse in riga le femmine ribelli. Dai processi per stregoneria a quelli, più subdoli, che vedono nel climaterio, fine simbolica della dipendenza reciproca fra i generi (almeno a scopo procreativo), un pericoloso momento di libertà di quella «metà del cielo» con cui tutti hanno ancora una gran paura di fare i conti.

19 agosto 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Avanti sorelle d'Italia
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2009, 10:12:55 am
Avanti sorelle d'Italia

Lidia Ravera.


Ci si chiede, con qualche timore: voteranno le donne alle primarie? Le donne, che hanno avuto diritto di votare in ritardo rispetto agli uomini. Le donne, che hanno decretato il successo della Dc nel primo dopoguerra perché in molte credevano in Dio e della sinistra nei primi anni settanta perché il femminismo dialogava con la sinistra (faticosamente) ma non certo con il centro. Voteranno alle primarie del Pd anche se non c’è una donna fra i candidati? Il messaggio è chiaro: il femminile di segretario, è “segretaria”: una che scrive sotto dettatura, prende gli appuntamenti, risponde al telefono. Le passo il Capo. Eppure voteranno. Presumubilmente voteranno Ignazio Marino, perché, candidato maschio per candidato maschio, almeno Marino si batterà perché le donne possano continuare a scegliere se diventare madri o no, con un legale intervento chirurgico oppure con la RU 486. Perchè possano diventare madri con l’aiuto della scienza. Perché la loro serenità non sia immolata sull’altarino occulto degli scambi di indulgenze con i padroni del “voto cattolico”. Perché l’onorevole Binetti si ricongiunga, finalmente, ai suoi. Che non sono “i nostri”. Se vincerà Marino e si scoprirà che la maggioranza dei suoi sostenitori appartiene al “secondo sesso” sarà un bel segnale. Per esempio che le donne contano. Di nuovo, come quando hanno scoperto, trent’anni fa, che potevano contare. Sarà una prova generale. In vista della sera della prima. Alle prossime elezioni politiche. Quando tutte le donne di sinistra, di centro e anche di destra, tutte le donne che si sono sentite offese, discriminate, ridotte alle deprimenti categorie di “scopabili” e “non scopabili” si riverseranno sulle urne come un’onda in piena e travolgeranno Silvio Berlusconi, liberando il nostro Paese. Avanti, Sorelle d’Italia!

15 ottobre 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Il senso degli italiani per l'Italia
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2009, 10:13:40 am
Il senso degli italiani per l'Italia

di Ldia Ravera.


Questo antiberlusconismo», ha detto Massimo D’Alema, «sconfina in una sorta di sentimento anti-italiano». Poi, logicamente, ci ha ripensato (non ha smentito, perchè quello è un tic del centrodestra) e ha precisato: «C’è un antiberlusconismo che sconfina eccetera eccetera». Verrebbe da chiedersi: qual è? Quale marca di antiberlusconismo è anche anti-italiano? Ma soprattutto: che cos’è l’antiberlusconismo? Una fissazione? Un partito preso? Una malattia contagiosa? Un gioco di società?
Secondo me, l’antiberlusconismo, per esempio, non esiste, è una paranoia di Berlusconi medesimo. Ma anche, e questo è più grave, il tentativo (non certo casuale) di ridurre a tifoseria, a moda, un dissenso politico e una critica morale sulla quale io, personalmente, sarei stufa di perdermi in puntualizzazioni. Il “gossip” , di cui il Presidente del Consiglio giustamente si lamenta, è prodotto e distribuito dai rotocalchi di sua proprietà e dal suo Giornale, fa parte della sottocultura che sta rovinando la qualità della vita nel nostra Paese, non della nostra. Noi (vedete un po’ voi che cosa infilare sotto questo pronome... l’èlite di sinistra che deve andare a morire ammazzata?) noi, dicevo, non siamo pettegoli e non ce ne frega niente dei Vip e dei loro festini coca&sesso. Noi pensiamo che il capo di un governo debba adottare uno stile di vita adeguato alla sua alta carica, mettere gli interessi del Paese in testa alla sua scala di priorità e rispondere alle domande poste dai cittadini e dalla stampa, invece di farfugliare maledizioni. Chi la pensa così è “anti-italiano”? E i “pro-italiani” chi sarebbero? Quelli che si ostinano a fingere che va tutto bene? I deficienti che lo credono davvero? Quelli che, questo Paese magnifico, forte di duemila anni di storia, benedetto da un patrimonio artistico ineguagliabile, ricco di una tradizione culturale sontuosa, e abitato, ancora, da una certa quantità di persone per bene, riescono a guardarlo morire senza fare una piega?
Perché è questo, che sta succedendo: l’Italia si sta trasformando in un pantano. Vischiosa e torbida. Rissosa e vacua. Ferma. Soffocante. Percorsa da uno scontento crescente e senza sbocco, divisa dall’antagonismo e unita dalla rassegnazione. L’Italia è un Paese che sta tornando indietro. E Berlusconi è, se non l’unico, il massimo responsabile di questa involuzione. Contestarlo, criticarlo non è un vuoto esercizio di radicalismo pessimista o, peggio, nostalgia dei beati anni del conflitto. Non è un vezzo esterofilo. È un obbligo patriottico.

25 settembre 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Il voto dei senza tessera
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2009, 10:14:46 am
Il voto dei senza tessera

Lidia Ravera.


A “congressi dei circoli” conclusi, si aprono le danze per i non allineati: simpatizzanti, antipatizzanti con forte motivazione al dialogo, delusi decisi a fare pesare ogni lacrima versata e illusi decisi a collaborare col Partito Democratico, anche soltanto per segnalare certi rischi di frattura, dovuti a una debolezza dello scheletro umano e politico, inevitabile quando non si è più giovani e ci si è già riciclati quattro volte. Se i tesserati hanno espresso il loro gradimento soprattutto per il Bersani, che cosa diranno i non più tesserati, i mai tesserati e i non tesserabili? Il Bersani anche loro? Lo escludo, se non altro per differenziarsi. Il Franceschini, che è sostenuto da due “ex-segretari pesanti” (la definizione è del mitico “Aprile on line”) come Rutelli e Veltroni? Non credo, perché Rutelli ha scritto «A sinistra no. È una strada senza uscita» nel suo libro e Veltroni (che ha scritto «Noi» nel suo, ma non vuol dir niente perché è un romanzo) ha detto che non bisogna rifare un partito socialista. Resta soltanto Ignazio Marino, visto che Grillo, il predicatore incazzato, è stato escluso per indegnità (e paura). Marino ha le carte in regola per accaparrarsi il gradimento dei non tesserati. La prima carta è la laicità: convinzione profonda, prevedibile impegno a non patteggiare coi Padroni delle Anime (né quelli esterni, né i loro infiltrati). La seconda è la sua appartenenza al mondo reale: Marino non si è “formato nel partito”, come ha detto lui stesso e quindi somiglia, ben più degli altri due, al famoso popolo delle primarie. La terza è lo stile, il timbro vocale: l’uno è chiaro e conciso, l’altro pacato e concreto. La domanda è: se verrà incoronato dai non-tesserati che cosa accadrà? Diventerà segretario del partito? Riceverà un incarico di consolazione? Oppure gli tireranno fra i piedi qualche multa non pagata e addio?

01 ottobre 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Par condicio Mr. Lodo
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2009, 09:54:31 pm
Par condicio

Mr. Lodo


di Lidia Ravera

Gira una foto di Angelino Alfano, detto Lodo, piuttosto compromettente. L’hai guardata con una sorta di materno sgomento. Il ministro vi compare aggrappato al suo telefonino: le palpebre calate, le labbra sollevate a mostrare due splendide arcate dentarie strette in una morsa di disappunto. Un ventaglietto di rughe d’impressione (son tempi duri per chi governa sulle carceri) marchia precocemente lo zigomo sinistro e l’impeccabile cravatta porpora a losanghe gialline è scentrata rispetto ai bottoni della camicia. Qualcosa nella postura rigida, nelle sopracciglia stupefatte, nella faticosa ampiezza della fronte corrucciata, segnala il disagio del giovanotto. Benché una morbida peluria occulti appena una pelata di potenza bersaniana, Angelino è nato nel 1970. Secondo gli standard italiani dovrebbe ancora rispondere, da precario, in un call center. E non sempre dicendo: «Sìssignore».

06 novembre 2009
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Se fosse una donna, Daniele Capezzone, sarebbe una «fighetta».
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 04:47:19 pm
Il velino Daniele


Se fosse una donna, Daniele Capezzone, sarebbe una «fighetta».

Una di quelle tipine narcise e nervose, scosse da un tumulto di spasmi somatici. Una bellina e dimenticabile, costretta a stropicciare le palpebre, inarcare le sopracciglia, chiudere gli occhi e subito dopo spalancarli per mimare una qualche attività cerebrale. Nessuno se la filerebbe poiché la donna, se è un po’ mignotta e parecchio petulante, pur se carina, viene emarginata (semmai stuprata ed emarginata).

Essendo uomo, al contrario, ricopre posizioni di prestigio, in qualsiasi campo (anche avverso). Al momento le sue doti più spiccate, agilità e coerenza, gli consentono di portare, non senza una certa atletica libidine, la Voce dell’ultimo partito prescelto, quello delle libertà. Per età, statura (non morale, materiale) e attitudine all’affettività mercenaria (meretricio) potrebbe aspirare ad un posto da “velino”.

11 dicembre 2009

di Lidia Ravera
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. Nudi per paura
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2010, 10:58:28 am
Nudi per paura

Lidia Ravera.


Nel 1969, Dino Risi diresse una gustosa commedia a episodi: «Vedo Nudo». Nell’episodio che dava il nome al film, Nino Manfredi, in preda ad allucinazioni, vedeva i corpi nudi delle donne sotto i loro vestiti. Dopo acconcia terapia, si credeva guarito. Ma, prima dei titoli di coda, vedeva, improvvisamente,un uomo nudo, sotto il completo blu, giacca e cravatta. Sono passati 40 anni e la fantasia delirante è diventata realtà. Saremo tutti nudi davanti al body scanner, tutti noi viaggiatori, noi che non possiamo/vogliamo smettere di frequentare gli aeroporti. Un ulteriore incentivo all’esercizio fisico e alle diete ipocaloriche. Ma, soprattutto, un ulteriore esame di pazienza e maturità. Da dieci anni volare richiede una assidua frequentazione del Buddha. Tocca levarsi stivali, cintura, collane, bretelle, orologio. Regalare forbicine , limette, latte detergente tonico, bagnoschiuma . Regole surreali: come si può costruire una bomba con 75cc di shampoo alla camomilla?Solo perché è un liquido?Si dovrebbe imbarcare anche un piccolo laboratorio chimico… vero o no? Nessuna ha mai osato chiedere, tutti si sono lasciati depredare dei loro effetti personali. Come adesso si lasceranno scannerizzare fin sotto “gli intimi”. I terroristi hanno già vinto. Hanno vinto perché hanno limitato la nostra libertà, ridotto la nostra dignità, scoraggiato la nostra mobilità. Sull’efficacia dell’incrudelirsi dei controlli è lecito nutrire qualche dubbio.Qualsiasi meccanismo di difesa contiene i suoi punti deboli. E poi: chi può impedire a un ragazzotto deciso a morire per Allah di inghiottire tritolo per bocca o di infilarsi capsule di nitroglicerina sottopelle? Che cosa si inventerà allora? Che cosa andrà in scena prossimamente nel teatro della paura? Gastroscopia obbligatoria per tutti quelli che vogliono andare in vacanza a NewYork?

07 gennaio 2010
da unita.it


Titolo: LIDIA RAVERA. L'impedimento
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2010, 09:05:44 am
L'impedimento

Lidia Ravera

«Mamma, che cos’è l’impedimento?». «Quando non puoi fare una cosa, Pierino». «Una cosa bella o una brutta?». «Una cosa che dovresti fare». «Tipo andare a scuola?». «Tipo». «E ce lo posso avere anche oggi?». «Cosa?». «L’impedimento». «Chiudi lo zainetto e sbrigati». «Ma se ti ho detto che ho l’impedimento!». «Te lo do io l’impedimento! Muoviti che è tardi». «Però non è giusto,che solo i grandi possono avere l’impedimento e noi bambini no». «Adesso ti spiego: l’impedimento deve essere vero. Tipo l’altra settimana che avevi la febbre». «E se non hai la febbre e non vuoi andare a scuola lo stesso?». «Allora devi farti fare una legge. Così non andarci diventa legittimo». «Mamma me la compri questa legge?». «No, Pierino, non possiamo permettercela. Solo una persona molto ricca può farsi fare le leggi su misura, noi dobbiamo tenerci quelle di serie». «Però non è giusto!». «Infatti no».

12 marzo 2010
da unita.it


Titolo: Lidia Ravera. - Femminicidio, la violenza sulle donne è un problema degli uomini
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2013, 05:14:53 pm

Lidia Ravera

Scrittrice. Assessore Cultura, Politiche giovanili

Femminicidio, la violenza sulle donne è un problema degli uomini

Pubblicato: 14/10/2013 11:16


Ho sempre considerato asfittico il recinto degli argomenti "da donne". Una vita a farti interpellare sugli asili, la moda, i sentimenti. Al massimo l'aborto e il divorzio (più sul personale che sul politico). E poi ancora la bellezza, le dive, il gossip. Domande epocali, tipo: preferisci l'uomo in boxer o in slip?

La letteratura ridotta a: esiste una scrittura femminile oppure no? La politica ridotta a: ma tu sei d'accordo con le quote rosa o ti offendi perché ti senti panda (l'animaletto, non l'utilitaria)?

Essendo persona nota e quindi "attenzionata dai media" dal lontano 1976 ho masticato risposte per decenni. Da un po' di tempo il più gettonato fra i "temi delle donne" riguarda, purtroppo, un dramma epocale e non un vissuto/verità o una sublime frivolezza: il femminicidio, neologismo doloroso che rimanda a un fenomeno radicato nella storia della relazione fra i sessi.

È di ieri l'altro l'approvazione di un decreto legge che inasprisce le pene per gli stalker, prevede una rigida prevenzione, sostiene finalmente le vittime potenziali, prima che la distrazione del mondo le condanni a morte.

Bene. Non sarà risolutivo, ma è già qualcosa.

La Repubblica, 12 ottobre: va in stampa una pagina (la dodicesima) di soddisfazione politica per il decreto legge, in basso al centro c'è l'ultima notizia: "Savona, non accettava la separazione: uccide la moglie e si spara".

Un titolo tragicamente consueto, ma cerchiamo di non considerarlo normale. Non abituiamoci, come ci abituiamo, dopo aver piagnucolato un po', a tutte le catastrofi ricorrenti (vedi barconi che rovesciano donne uomini e bambini, al largo della Sicilia).

Proviamo a non abituarci, e, come chi non si abitua, proviamo a porci qualche domanda. Per esempio: siamo sicuri che basti una buona legge? Io no. Io credo che i femminicidi/suicidi raccontino, più che la vulnerabilità femminile, la fragilità maschile. La terribile debolezza dei maschi.

Io credo che covi da anni, questa malattia non diagnosticata. Da quando le donne, un trentennio prima della fine del secolo scorso, hanno incominciato a ridefinire il loro ruolo nel teatro delle relazioni. Non più soltanto oggetti di desiderio altrui, costrette ad agghindarsi e apparecchiarsi e, eventualmente, annullarsi, pur di non correre il rischio di non essere scelte.

Non più funzioni di vite altre, addette alla manutenzione dell'eros o della prole, ma titolari del diritto di desiderare e scegliere, di sbagliare e interrompere e riprovare. Come gli uomini. Chi è nato dopo non lo sa, ma c'era un tempo in cui le donne venivano comunemente ritenute inferiori. Socialmente erano accettate in quanto figlie, fidanzate, mogli.

Dall'uomo prendevano cognome e collocazione nella scala sociale, sostentamento e protezione. Se tradivano l'uomo che le aveva collocate sostenute e protette, finivano in galera (abbandono del tetto coniugale), fino al 1963.

Se l'uomo, divenuto marito, le tradiva, abbozzavano, perché rientrava nei diritti collaterali di lui, distrarsi con altre. Abbozzavano perché non avevano, tranne rari casi, altro tetto che quello coniugale, sopra la testa. Il dominio maschile era così indiscusso che le separazioni, i divorzi, erano molto meno frequenti di quanto siano oggi. Per gli uomini non c'era convenienza a rompere il matrimonio, le donne non se lo potevano permettere.

Negli anni che innescarono il grande cambiamento, ero una ragazzina, insieme ad una bella percentuale delle infaticabili donne mature del presente. I nostri boyfriends furono i primi a far le spese della rivoluzione fra i sessi. Di colpo, le fanciulle parlavano, amavano, lasciavano. Non difendevano più la loro verginità, avendo sdoganato (grazie dottor Pinkus!) la sessualità dalla riproduzione. Non si relegavano più al ruolo di prede. Si facevano attive, desideravano, guardavano, giudicavano, ridevano. Ogni relazione amorosa si trasformò, in quegli anni, in una palestra dialettica (leggete il magnifico "Vai pure" di Carla Lonzi, ripubblicato recentemente da Et-al). I maschi "maturi" di oggi, hanno, nella maggior parte, fatto tesoro di quegli scontri verbali e carnali.

A nessuno di loro verrebbe in mente di sparare invece che divorziare. I più giovani, senza l'allenamento di una fidanzata femminista negli anni in cui la fatica era anche divertente, si ritrovano in casa donne non arrese, non subalterne.

In superficie, tocca essere tutti d'accordo sulla parità, le pari opportunità, l'equipollenza e le pari dimensioni dei cervelli. Ma sotto, nel profondo, è annidata ancora la vecchia cultura. Io sono un uomo e lei è mia. Non sarà mai di qualcun altro. Piuttosto la ammazzo. Piuttosto mi ammazzo.

E così via. Il femminicidio, vi assicuro, non è un tema per donne. E non è neanche un problema delle donne. È un problema degli uomini. Sono loro che devono riunirsi in piccoli gruppi, tematizzare la loro angoscia, descrivere la perdita di potere nel privato, che subiscono senza parlarne da decenni. Sono loro che devono commentare e approfondire il fenomeno del femminicidio. La violenza contro le donne, non è un problema nostro. È un problema loro.
 
www.twitter.com/LidiaRavera

da - http://www.huffingtonpost.it/lidia-ravera/femminicidio-la-violenza-sulle-donne-e-un-problema-degli-uomini_b_4095780.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: Lidia Ravera - L'Italia dei nani e ballerine ci ha tolto la voglia di fare
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2013, 11:28:05 am
L'Italia dei nani e ballerine ci ha tolto la voglia di fare
Pubblicato: 02/12/2013 13:57

Corro il rischio di essere sconclusionata, parto da una sensazione pesante. E magari scrivo per alleggerire. Titolo: la cultura del malanimo. Oppure: la moda del disprezzo. Ma anche: il ribollir dell'odio. I giornali rigurgitano bocciature. E sono bocciature umane, gallerie di mostri, non critiche alla politica, a questa o quella posizione.

Quello ha messo in conto ai cittadini un tosaerba, la playstation e sei paia di mutande. Quell'altro era a cena la stessa sera in 5 ristoranti diversi e li abbiamo pagati noi. Un pantagruelico mangione con il dono dell'ubiquità. Quello è tonto, quella non fa niente, quello guadagna troppo. C'è il finto invalido che balla il tango, lo studente finto-povero con piscina e Maserati a casa di mamma e papà, c'è quello che ha comprato la laurea in Albania per il figlio caprone e quella che l'ha regalata alla guardia del corpo (certo il palestrato scolarizzato è più chic).

C'è chi ha una pensione superiore alla somma degli stipendi della maggioranza della popolazione attiva. C'è chi si vota gli stanziamenti e se li consuma. Da quando a Berlusconi s'è applicata la sordina, le algide olgettine, con il loro disincantato sussiego da miss per una notte, sono tornate momentaneamente nell'ombra. Il sesso tace, mentre continua a strepitare il danaro. Un'orgia di scontrini meschini, un gioco sciocco e, più che avido, inelegante.

Certo, non è colpa dei giornalisti. È che il nostro paese si sta sfarinando così, in scivolata libera fra le deiezioni di una banda di irresponsabili. Certo, non sono tutti così. Così sono i peggiori. Ma i peggiori, oggi come oggi, sono quelli che fanno notizia. Si parla soltanto di loro. E gli altri? Pagine su pagine per accendere piccoli fuochi di ludibrio, vortici di derisione. Inevitabilmente, chi ci va di mezzo sono i migliori, anche soltanto i normali. Quando poi, dalle pagine cartacee si passa all'aereo verbo dei social network, la situazione precipita. Come nota giustamente il blog di Eretica, "Oggi il linciaggio si pratica sul web". È lì che trionfa lo "hate speech". Il disaccordo con l'opinione altrui diventa pretesto per insulti e scomuniche. Eretica parla di "tolleranza zero". Dice: il branco si realizza su basi identitarie, si consolida trasformando chiunque dissenta, o esprima opinioni non conformi, in nemico da abbattere. Il mostro, reale o immaginato, serve a fare squadra. Al reprobo si chiede pentimento, gogna, espiazione. Volano i forconi virtuali. Le censure.
Più che un tecnologico sviluppo della democrazia pare un postmoderno ritorno al tempo della caccia alle streghe.

Che cosa ci sta succedendo? È vero, da Mani Pulite in avanti, e sono passati 20 anni, certe mani sembrano sempre più sporche. Abbiamo dovuto leggere troppi resoconti di disonestà, piccole e grandi, appalti truccati e parenti infiltrati, partite comprate e concorsi manomessi. Abbiamo ascoltato storie di mazzette e di meretrici, di menzogne e di cinismo. Ci siamo indignati. Abbiamo disertato le urne e poi votato Beppe Grillo e poi sperato in Matteo Renzi e poi chissà...

Ma questa punizione non ce la meritiamo. Non ci meritiamo quest'aria pesante.
Che ci toglie la voglia di fare e fare bene. Che ci impedisce di ricominciare.
 
Lidia Ravera su Twitter: www.twitter.com/LidiaRavera

Da - http://www.huffingtonpost.it/lidia-ravera/litalia-dei-nani-e-ballerine-ha-assuefatto-la-voglia-di-fare_b_4371157.html?utm_hp_ref=italy