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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 82075 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Ottobre 29, 2009, 10:24:43 am »

29/10/2009

Il pareggio malattia del Paese
   
LUIGI LA SPINA

Escort contro trans; arbitro monsignor Della Casa; risultato: pareggio. Tremonti contro Berlusconi; arbitro Bossi; risultato: pareggio. Le banche contro Tremonti; arbitro Guzzetti, risultato: pareggio.

Bisogna ammetterlo. Tranne la Gelmini che, con lombarda ostinazione, continua a sfornare progetti di riforma, in Italia spira una gran voglia di raggiungere quell’esito perfetto di una partita di calcio che teorizzava un famoso allenatore del secolo scorso, Annibale Frossi. Con l’alibi di un pericoloso fraintendimento: quello di chi scambia la necessità di una tregua tra eserciti sempre in armi con la convinzione che sia meglio non fare nulla, perché, come diceva il grande Eduardo, «ha da passà ’a nuttata» e, poi, tutto tornerà come prima. Sì, tutto come prima, compresa la vecchia Dc resuscitata in un grande (?) centro, la vecchia socialdemocrazia risorta in un nuovo (?) Ulivo e con il riaffacciarsi di quella formidabile fantasia politologica d’antan che trova nella «cabina di regia» un classico esempio.

Eppure, come dimostrano due interessanti libri usciti da poco, quello di Salvatore Rossi, intitolato «Controtempo», e quello dell’americano Jeff Israeli, «Stai a vedere che ho un figlio italiano», dopo la crisi non è vero che si potrà tornare al nostro recente passato. Meglio, se mai potremmo tornarci, sarà un disastro. Perché si accentuerebbe il distacco tra la nostra economia e quella degli altri Paesi continentali, come è avvenuto negli ultimi quindici anni. Perché diverrebbe asfissiante la conservazione classista della nostra società, con l’esito di una vera e propria fuga all’estero dei migliori giovani del nostro Paese. Perché sarebbe insostenibile l’onere di garantire le pensioni a un numero crescente di anziani da parte di un numero sempre più ridotto di occupati.

In Italia, un’apparente frenetica lotta politica, spumeggiante di gossip sulle abitudini sessuali dei leader, di guerre giudiziarie tra il capo del governo e i magistrati, di litigi tra banchieri e industriali, nasconde un sostanziale immobilismo. Una inazione che, in realtà, fa comodo a (quasi) tutti, perché assicura la protezione dei veri padroni della società italiana, le corporazioni. Quelle che garantiscono il posto di medico ai figli dei medici, quello di notaio al figlio del notaio, quello di giornalista al figlio del giornalista. Ma anche il sistema che trasmette, di generazione in generazione, il volante del taxi, la titolarità dell’ombrellone sulle nostre spiagge, il banco della farmacia e, persino, la cattedra universitaria.

Ben venga, perciò, un clima di maggior serenità tra i due schieramenti auspicato dopo l’elezione popolare di Bersani alla segreteria del Pd e lo spostamento dell’attenzione politica dai problemi erotici a quelli lavorativi, come indicato dallo stesso Bersani nel discorso sulla sedia dello stabilimento di Prato. Ma l’effetto della prima «P», quella del pareggio, non si deve trasformare nella tentazione di una seconda, esiziale «P», quella del passato.

Perché non proporre, almeno, quel minimo nucleo di riforme, nel campo del lavoro e del welfare, sul quale i nostri più importanti economisti sono tutti d’accordo, dall’innalzamento dell’età pensionabile allo sblocco dei finanziamenti per gli enti locali «virtuosi»? Si potrebbe verificare, in concreto, chi sta dalla parte dell’innovazione e chi sta dietro le comode barriere della conservazione. Se la maggioranza, invece, tornerà alla disputa tra coloro che vogliono tagliare le tasse oggi e quelli che vogliono farlo domani, se l’opposizione continuerà a dividersi tra chi preferisce l’alleanza con Di Pietro e chi quella con Casini, avremo un solo risultato, quello dello «zero a zero». I tifosi avranno sventolato inutilmente le loro bandiere, la buon’anima di Annibale Frossi si consolerà nella tomba, ma gli spettatori avrebbero preferito magari un altro pareggio, quello con tanti gol.

da lastampa.it
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« Risposta #46 inserito:: Novembre 11, 2009, 10:20:34 am »

11/11/2009

Il premier salvato solo a metà
   
LUIGI LA SPINA


L’apparenza accontenta tutti.

Berlusconi può tirare un sospiro di sollievo: salteranno i due processi per i quali rischia una condanna, quello sui diritti tv Mediaset, in cui è imputato per reati societari, e quello contro l’avvocato Mills, nel quale è accusato di corruzione in atti giudiziari.

Fini si è opposto con successo alla proposta dei legali del premier sulla «prescrizione breve», cioè una vera e propria amnistia, mascherata sotto un altro nome. I cittadini, finalmente, possono sperare che si riesca ad affrontare il vero male della giustizia italiana, la lentezza dei processi.

Il faticoso compromesso tra i due cofondatori del «Popolo della libertà» raggiunto a Palazzo Chigi, in realtà, non costituisce per Berlusconi una garanzia contro le iniziative dei magistrati nei suoi confronti. Non assicura la fine delle tensioni tra il presidente del Consiglio e quello della Camera. Soprattutto, sarà da verificare se il disegno di legge annunciato ieri mattina riuscirà a raggiungere l’obiettivo di realizzare nel nostro Paese una vera giustizia per tutti, cioè quella che consente sia di sapere, in tempi ragionevoli, da che parte stia la ragione e da che parte stia il torto, sia di poter distinguere l’innocente dal colpevole.

Il capo del governo voleva un accordo che sostanzialmente gli consentisse di ottenere gli stessi risultati concreti che gli assicurava quel «lodo Alfano» bocciato dalla Corte Costituzionale, cioè l’immunità fino alla fine del mandato a Palazzo Chigi. L’intesa con Fini, se si tramuterà in legge, lo salverà dal rischio di una imminente condanna in tribunale, ma i più brevi termini di prescrizione non possono escludere, per il futuro, che sia indagato e processato per altre imputazioni. Nell’accordo con il presidente della Camera, inoltre, non figurano norme che possano eliminare o ridurre l’obbligo, da parte Mediaset, di versare a De Benedetti i famosi 750 milioni di risarcimento per la causa Mondadori.

Anche per Fini non si può parlare di vittoria piena. E’ vero che ha ottenuto l’annullamento della «prescrizione breve», ma, nella sostanza, ha dovuto accogliere la tesi di Berlusconi sul suo diritto a non essere giudicato dalla magistratura italiana per i due processi che erano ormai avviati a raggiungere il traguardo della sentenza, sia pure di primo grado.

Non ci possono essere dubbi, invece, sulla necessità di una riforma che metta fine allo scandalo dei tempi della nostra giustizia. C’è modo e modo, però, per risolvere il problema. Uno, sbrigativo e cinico, costituisce una specie di resa dello Stato davanti al principio che qualunque reato debba essere perseguito e che ogni colpevole debba essere punito. Ridurre la prescrizione, senza prima assicurare gli strumenti giuridici, finanziari, organizzativi, tecnologici necessari per garantire il rispetto dei tempi assegnati per la celebrazione dei processi equivale a distinguere la criminalità in due categorie. Alla prima, quella che compie i reati più gravi, sarebbe riservato il giudizio della magistratura della Repubblica. Alla seconda, quella che si esercita in misfatti «minori», si assegnerebbe, di fatto, la promessa di una sostanziale impunità. Con un indubbio sollievo per l’affollamento carcerario, con un altrettanto indubbio sollievo per gli addetti agli uffici giudiziari, ma con un sicuro minor sollievo per i cittadini onesti.

Solo la lettura attenta del disegno di legge che la maggioranza si propone di presentare alle Camere potrà far capire se la soluzione del problema «tempi della giustizia» sarà affidata, nella pratica, alla rassegnazione di fronte alla realtà. Oppure, si troveranno le risorse e la volontà di una vera rivoluzione in campo giudiziario su almeno tre punti.

Il primo riguarda i magistrati che dovranno essere più preparati, dal punto di vista giuridico e culturale, e costretti a una verifica del loro impegno di lavoro, ancora troppo legato solo alla coscienza individuale. La seconda questione concerne i legami con la politica: l’apparentamento in una corrente sindacale, legata a un partito, spesso aiuta il giudice a ottenere incarichi di potere e di prestigio che i meriti professionali non gli consentirebbero, invece, di occupare. Il terzo punto, infine, si può affrontare solo con le forbici: ci vuole un taglio energico alle leggi e alle procedure. Con le attuali norme, non basterebbero un impossibile raddoppio dei finanziamenti per la giustizia e una irrealizzabile moltiplicazione di giudici e tribunali su tutto il territorio nazionale per rispettare i termini di prescrizione dei processi, peraltro ragionevoli, che sono stati auspicati.

da lastampa.it
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« Risposta #47 inserito:: Novembre 13, 2009, 11:51:00 am »

13/11/2009

Uniti per il mondo globale
   
LUIGI LA SPINA


L’ultimo esempio è stata la reazione all’annuncio dell’alleanza tra il Politecnico di Torino e quello di Milano. Tutte le volte che si parla di una intesa tra le due grandi capitali del Nord-Ovest, i torinesi esprimono istintivamente un sentimento di timore, i milanesi un moto di sufficienza. Sono atteggiamenti sbagliati, ma comprensibili, se appena si conosce, almeno superficialmente, la storia di queste due città e si dà un’occhiata alla carta geografica. Rischiano, però, di non far cogliere, con anacronistici pregiudizi, sterili rivalse campanilistiche, lamenti, anche fondati, ma ora assolutamente inutili, tutte le opportunità, meglio, tutte le necessità che i cittadini di questa macroregione devono sfruttare per competere nel mondo del nuovo secolo.

Nei prossimi decenni, la partita della sopravvivenza economica e sociale nel primo girone dei paesi sviluppati non si giocherà certo nel confronto tra l’ombra della Mole e quella della Madonnina. Ma in un contesto almeno europeo, dove è impossibile pensare che due città, peraltro con strutture industriali e commerciali complementari, distanti tra loro poco più di 100 chilometri, possano pretendere di misurarsi, divise, contro i colossi di aree continentali fortemente avanzate, anche dal punto di vista tecnologico, come quelle che ci sono in Germania, intorno a Stoccarda, in Olanda, intorno a Rotterdam o nelle Fiandre, intorno ad Anversa.

Se si considera che 50 minuti, quanto ci vorrà tra un mese per andare in treno tra Torino e Milano, costituiscono la media del tempo impiegato dai pendolari europei per raggiungere i centri cittadini, si capisce che i parametri di giudizio si debbano riferire obbligatoriamente allo sviluppo dell’intera regione Nord-Ovest. Non basterà, perciò, un allargamento dello sguardo socioeconomico, ma si dovrà compiere una vera piccola rivoluzione culturale e caratteriale negli abitanti di questa area.

I torinesi dovranno cancellare quel nascosto senso di inferiorità rispetto a Milano che impedisce di credere di più in loro stessi e nella competitività di Torino. Una città con valori naturalistici, culturali, ma anche con capacità progettuali, artistiche, competenze industriali, insomma, con un tale capitale umano, come lo definiscono gli economisti, da non dover temere alcun confronto. Basta, quindi, con il solito ritornello torinese sugli «scippi» meneghini a danno della città della Mole, un atteggiamento tutto rivolto alla nostalgia del passato. Ma basta anche con la provinciale rivendicazione della cosiddetta «città laboratorio». I milanesi, invece, si dovranno accorgere che un certo borioso sentimento di autosufficienza non li aiuterà a conquistare un roseo futuro. Ma, osservando la loro città, molti se ne sono già accorti.

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« Risposta #48 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:15:09 am »

2/12/2009 - IL CASO

L'anomalia dell'avvocato onorevole
   
LUIGI LA SPINA


Sono ubiqui, stakanovisti, onniscienti, presenzialisti. Volteggiano instancabili da un’aula del Parlamento a quella di un tribunale, dall’orecchio di un potente all’occhio di una telecamera.

Suggeriscono nuove leggi, ma sono abilissimi a sfruttare quelle vecchie.

Vivono (bene) sui conflitti degli altri, ma amano soprattutto il proprio, quello di interesse. Ma come fanno, direbbe Lucio Dalla, a rimanere avvocati queste star del palcoscenico pubblico d’Italia? L’ultimo, e un po’ sgradevole caso, è quello del legale di fiducia del premier, Niccolò Ghedini. Parlamentare dal 2001, l’avvocato di Berlusconi ha difeso «Tributi Italia», la società privata di riscossione delle tasse con debiti per quasi 90 milioni di euro nei confronti di 135 amministrazioni comunali che rischiano, per questo motivo, il dissesto finanziario. Un incarico evidentemente assunto senza alcun dubbio sull’opportunità, per usare un eufemismo, di un ruolo che lo pone contro gli interessi di istituzioni fondamentali dell’articolazione del nostro Stato e, in ultima analisi, contro gli interessi di un ministero della Repubblica, quello dell’Economia.

Poiché la rappresentanza degli avvocati in Parlamento costituisce la lobby più numerosa e potente e l’incompatibililtà delle due funzioni non è prescritta per legge, la disinvoltura di Ghedini è stata preceduta e seguita da analoghi comportamenti che hanno coinvolto tanti suoi colleghi. Alternativamente vestiti sia con la toga dell’avvocato sia col laticlavio parlamentare. Dai famosi casi di altri legali di Berlusconi, come Previti e Pecorella, a difensori di sinistra, come Guido Calvi o Giuliano Pisapia. Tutti avvocati che, quando sono entrati in Parlamento, non hanno cessato la loro attività professionale.

Certo non si può pretendere, in tempi di ferro e per di più piuttosto arrugginito come questo, la stessa sensibilità istituzionale e morale che dimostrò, tra gli altri, Enrico De Nicola, futuro primo presidente della Repubblica italiana, il quale, prima di entrare alla Camera, chiuse il suo studio napoletano. Ma al di là del caso, non isolato, di un parlamentare, rappresentante quindi dell’interesse generale, lautamente incaricato di difendere un interesse privato in conflitto con quello pubblico, c’è, poi, una indebita pressione psicologica e professionale esercitata da un avvocato che possiede anche una carica politica.

L’esempio più recente è quello della bravissima Giulia Bongiorno. Presidente della commissione Giustizia della Camera e consigliere di fiducia di Gianfranco Fini, si è esibita, lunedì scorso a Perugia, in uno straordinario show oratorio in difesa di un imputato al processo per l’assassinio di Meredith, Raffaele Sollecito. In apparenza, una causa dove il confine tra interesse pubblico e privato sembra lontano e i due campi ben separati. Ma come non valutare la differenza di potere e la capacità d’influenza, in quell’aula, tra magistrati e legali senza altri ruoli e un avvocato che, sia pure in via teorica, può esercitare i poteri, diretti e indiretti, di un presidente della commissione Giustizia? Siamo assolutamente sicuri che la Bongiorno si è avvalsa e si avvarrà solo della sua abilità professionale, ma il problema di quel doppio incarico esula dal caso personale e specifico per toccare una questione che dovrebbe trovare una regola valida per tutti: l’incompatibilità tra seggio parlamentare e studio legale, tra il ruolo di legislatore e quello di operatore del diritto che le leggi le deve applicare.

E’ vero che questa norma potrebbe ridurre considerevolmente gli introiti economici per i politici-avvocati. Ma gli stipendi, alla Camera e al Senato, assicurano, comunque, una dignitosa esistenza e, poi, nessuno è stato costretto, in catene, a quel sacrificio.

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« Risposta #49 inserito:: Dicembre 17, 2009, 09:32:36 am »

17/12/2009


Il Paese con due destre e due sinistre
   
LUIGI LA SPINA


Il luogo comune è talmente diffuso da essere ripetuto come un dogma indiscutibile: l’Italia, sia nella sua classe politica sia nella sua società civile, è un Paese spaccato in due, esasperato in un conflitto profondo. L’aggressione al presidente del Consiglio e le reazioni successive, sui siti Internet, sui muri delle università e in Parlamento dimostrano che questo scontro non solo è diventato, nel volto emblematico di Berlusconi, perfino sanguinoso, ma talmente irriducibile da rendere inutili e ipocriti gli appelli alla moderazione.

Può sembrare persino provocatorio, in questi giorni, sostenere una tesi opposta e affermare che, nonostante le apparenze, questa rappresentazione è falsa. Davanti ai problemi di come affrontare e, poi, uscire al più presto dalla crisi economica, di come riformare le istituzioni per ottenere una giustizia più affidabile, un fisco più giusto e di come garantire ai giovani un futuro meno incerto, la grande maggioranza dei cittadini sa benissimo quali riforme andrebbero varate.

Ma, cosa che potrebbe sorprendere di più, anche la grande maggioranza dei nostri parlamentari lo sa benissimo e le differenze di opinione non sono così gravi da impedire che le Camere possano trovare un’intesa.

In Italia, infatti, non è vero che ci siano due schieramenti in una lotta all’ultimo sangue tra di loro. Questo scontro binario, sia nel Paese sia in Parlamento, riguarda solo il giudizio su Berlusconi. Il vero confronto politico è tra due destre e due sinistre e la sorte della nostra nazione sarà affidata all’esito di questa partita a quattro. Al di là delle questioni personali e delle dispute giornalistiche, nel centrodestra, tra la concezione di Fini e quella dei pasdaran di Berlusconi non sono possibili mediazioni. Così, si va acuendo l’impossibilità di una alleanza, nell’opposizione, tra il gruppo egemonizzato da Di Pietro, con l’appoggio dell’estremismo antiberlusconiano movimentista, e l’asse Bersani-Casini-Rutelli. Ecco perché sul merito delle questioni che davvero interessano gli italiani, quelle che non riguardano le fortune politico-aziendal-processuali del premier, alle Camere esiste una maggioranza trasversale di posizioni che sostanzialmente condivide l’analisi sui difetti del nostro sistema politico, economico e sociale. Ma condivide anche le terapie per cominciare a modificarlo, anche perché quasi tutti gli esperti internazionali che guardano ai problemi italiani suggeriscono le stesse fondamentali ricette.

Nei giorni scorsi, proprio a Torino, promossa dall’Ispi e dal centro Einaudi, si è svolta una riunione tra i più autorevoli studiosi continentali che è ha tracciato un quadro significativo e allarmante della posizione europea e italiana nel contesto della crisi internazionale. Le relazioni sulle tendenze dell’economia, della demografia, dei movimenti immigratori e sociali, e sulla forza delle istituzioni per guidare tali processi, hanno convenuto sul timore che il «sistema Europa» non sia in grado di reggere il confronto con il resto del mondo nei prossimi 20-40 anni. All’interno del nostro continente, poi, se si guardano i dati su un lungo periodo, quello che va dagli inizi degli Anni 90, la posizione dell’Italia registra un costante declino. In competitività delle nostre industrie sui mercati mondiali, in investimenti sulla ricerca e sull’innovazione, in infrastrutture, in mobilità sociale.

La maggioranza dei cittadini italiani, quella che non agita bandiere e bastoni nelle piazze, che non urla slogan pro o contro Berlusconi via Internet, che fatica a vivere con lo stipendio o con la cassa integrazione, che si batte per tenere aperto un negozio, un ufficio, una piccola o media azienda è tutt’altro che spaccata nel giudizio sulle vere riforme da approvare. Anche il Parlamento sarebbe sostanzialmente d’accordo a vararle, ma sia il paese sia la nostra classe politica sono prigionieri. In ostaggio di due minoranze fanatiche ed estremiste che costringono l’Italia all’impotenza.

da lastampa.it
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« Risposta #50 inserito:: Gennaio 10, 2010, 10:43:53 am »

10/1/2010

Pd, partito a vocazione confusa
   
LUIGI LA SPINA


A questo punto, la domanda è una sola: il Pd è un partito ingovernato o è un partito ingovernabile?

L’intervista alla Bindi su «La Stampa» di ieri è solo l’ultima testimonianza di una serie di contraddizioni, confusioni, incertezze veramente sbalorditive per un gruppo dirigente che, tra l’altro, si ritiene la classe politica più professionale e sperimentata d’Italia.

Non si può pensare, perciò, che sia l’ingenuità e l’inesperienza degli uomini, di volta in volta alla guida di quel partito, il motivo di una costante incapacità di tenere una linea politica coerente e credibile. La conclusione obbligata, allora, anche se amara per tutto il sistema democratico del nostro Paese che avrebbe sempre bisogno di una potenziale alternativa di governo, è che il Pd è ingovernabile perché non ha una identità comune, cioè, non è un partito.

Cominciamo dall’inizio. Il candidato alla prima segreteria, Walter Veltroni, al Lingotto di Torino, nel giugno 2007, pronuncia un discorso molto apprezzato, promettendo l’azzeramento di tutti gli spezzoni eredi dei partiti della prima Repubblica e la fusione in una classe dirigente nuova, costruita essenzialmente dalla partecipazione di quella società civile che crede in un moderno progetto riformista.
Lancia l’idea, forse velleitaria e discutibile, ma affascinante, di un partito a vocazione maggioritaria, cioè che non debba subire i condizionamenti decisivi degli alleati nel governo del Paese. La sua pratica, però, contraddice subito le sue intenzioni: costruisce un’assemblea costituente fatta proprio di spezzoni dei vecchi partiti e presenta alle elezioni una coalizione che esclude un pezzo importante del riformismo italiano, il Partito radicale, e include un partito che non ne fa parte, quello di Di Pietro.

Il risultato di questa azzardata sfida a Berlusconi è una sconfitta, ma non solo onorevole: è quasi una mezza vittoria, infatti, perché raggiunge per il suo partito una percentuale di voti insperata e sulla quale si potrebbe costruire un futuro promettente.
Invece, pochi mesi dopo, è costretto alle dimissioni.

Arriva alla segreteria provvisoria Dario Franceschini, per un breve interregno contrassegnato da un accentuato antiberlusconismo.
Ma il congresso, nell’ottobre 2009, elegge il suo competitore interno, Pier Luigi Bersani, e l’alleata di corrente, Rosy Bindi, diventa presidente. Il nuovo leader ripudia il partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, stabilisce la necessità di alleanze con esponenti del centro moderato e la regola, quando nello schieramento di centrosinistra ci fossero le condizioni di candidati alternativi su programmi diversi, di risolvere i contrasti con il metodo delle primarie.

Passano solo due mesi e la confusione, nel Pd, è assoluta. In Puglia si verifica il caso più classico dell’opportunità di primarie: due candidati, con due ipotesi di alleanze diverse. Ma Bersani stabilisce di non farle, perché l’eventuale vittoria di Vendola non consentirebbe l’accordo con Casini. La scelta, discutibile come tutte le scelte, potrebbe essere comprensibile se con il leader dell’Udc ci fosse un accordo generale, in quasi tutt’Italia. Ma non è così, perché quel partito è libero, ad esempio, di allearsi con la Lega in Lombardia e con la Polverini nel Lazio.

Il presidente del partito, Bindi, alla vigilia della decisione finale in Puglia, allora, formula al suo segretario queste ragionevoli obiezioni, ma cade in una contraddizione clamorosa: è d’accordo con un’alleanza del suo partito con Casini, pur prevedendo che, alle prossime elezioni politiche, sarà proprio lui l’avversario, il candidato del centrodestra, l’erede di Berlusconi.

Il vero problema del Pd non è, in questa situazione, la percentuale del consenso elettorale e neanche il numero di Regioni attualmente governate dal centrosinistra che resisteranno al prevedibile tsunami berlusconian-leghista nel voto di fine marzo. In Europa, il confronto numerico tra le forze riformiste e quelle moderate e conservatrici non trova l’Italia in un drammatico svantaggio, anzi. Si tratta, invece, di metter fine al marasma di contraddizioni politiche, di giravolte nelle alleanze, di lotte tra gruppi e dirigenti che si odiano e di prendere atto che la convivenza tra una cultura di governo e la testimonianza di antiberlusconismo è fallita.

L’Italia ha bisogno di un’opposizione tale da non perpetuare, nella seconda repubblica, il vizio fondamentale della prima: l’impossibilità di un ricambio a Palazzo Chigi. Con il rischio di una situazione peggiore, perché, una volta, tra Dc e Pci, almeno, c’era il riconoscimento di una comune partecipazione alla costruzione dello Stato repubblicano e la condivisione delle sue regole. Un patrimonio sul quale, oggi, non possiamo neppure contare con certezza.

da lastampa.it
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« Risposta #51 inserito:: Gennaio 21, 2010, 12:13:46 pm »

21/1/2010

Lo strano caso del partito del premier
   
LUIGI LA SPINA

La mappa delle candidature per il voto amministrativo di marzo è diventata, ormai, la più efficace rappresentazione della vera forza dei partiti in Italia. Una sciagurata legge elettorale per la Camera e per il Senato, infatti, ha trasformato i parlamentari in personaggi nominati dalle segreterie romane, rompendo la dipendenza dal territorio nel quale formalmente si presentano.

Ecco perché la battaglia di questi giorni per scegliere gli aspiranti alla carica di presidente di Regione o di sindaco, nei Comuni dove sono previste elezioni abbinate, finisce per svelare una radiografia politica del nostro Paese assai illuminante.

Se, per questa volta, si limita l’osservazione allo schieramento di centrodestra, balza subito agli occhi la persistenza, dopo quasi vent’anni, della straordinaria anomalia nel rapporto tra la leadership di Berlusconi e il suo partito. La decisione di candidare Renato Brunetta a sindaco di Venezia, uno dei ministri più popolari del governo, ma anche uno dei rappresentanti più vicini all’anima originaria di Forza Italia, quella radicalmente liberista e populista, sembra costituire l’eccezione che conferma la regola di una estrema debolezza del partito di Berlusconi nel radicamento territoriale italiano. Con un contrasto clamoroso tra il consenso e il potere del presidente del Consiglio nel governo del Paese e la capacità di imporre in Regioni e Comuni la leadership degli uomini più a lui vicini.

Le candidature nelle regioni più rappresentative del Nord confermano questa opinione: la cessione alla Lega del Piemonte e del Veneto costituisce un segnale, sia d’immagine sia di concreto potere, fortissimo. Anche perché l’ennesima presenza di Roberto Formigoni alla conferma sulla poltrona più importante del Pirellone di Milano rafforza l’impressione di una posizione autonoma dell’attuale «governatore» lombardo, forte di un sistema di potere e di una ideologia politica sostanzialmente lontani dal nucleo fondante di Forza Italia.

Quando si allarga lo sguardo verso il Centro e il Sud, la sensazione non cambia: nel Lazio, la regione più importante dell’Italia di mezzo, la candidata, Renata Polverini, è stata indicata da An e dal suo grande sponsor Gianfranco Fini, così come riconducibile ad An è Giuseppe Scopelliti che corre per la presidenza della Regione Calabria. Anche in Campania, Stefano Caldoro, arriva a Forza Italia piuttosto tardi, solo dopo una lunga e importante militanza tra i socialisti. Infine, se si arriva alla Sicilia, il caso Lombardo acuisce l’impressione di una grande difficoltà del partito di Berlusconi nel rappresentare, sul territorio, l’equivalente forza del suo leader in campo nazionale.

E’ vero che questa anomalia conferma tutti gli stereotipi che hanno sempre accompagnato «la discesa in campo» di Berlusconi, dalle famose accuse sul «partito di plastica», sul partito proprietario e personale. Soprattutto conferma la debolezza nel reclutamento del ceto dirigente e nella capacità di affermazione politica sul territorio. Tutti problemi irrisolti e finora mascherati dalla prorompente e pervasiva personalità del suo leader. Ma la radiografia territoriale di questo partito dimostra l’inanità di tutto lo sforzo dei tanti aspiranti eredi di Berlusconi. Si rassegnino pure. Il premier ha sicuramente tanti, forse persino troppi, futuri eredi del suo patrimonio personale. Ma il suo patrimonio politico non ci sarà: neanche lui potrebbe assegnarlo. Perché anche lui sa che non si potrà trasmettere a nessuno. E, quindi, non esiste.

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« Risposta #52 inserito:: Febbraio 01, 2010, 10:38:16 am »

1/2/2010

La seconda generazione
   
LUIGI LA SPINA


E’ troppo pretendere di sottrarre i due episodi di violenza accaduti a Torino allo sfruttamento della campagna elettorale.

Eppure, sarebbe davvero necessario evitare, almeno questa volta, il solito rimbalzo polemico di accuse, destinato alla consueta sorte: l’assoluta inutilità a prevenire queste tragedie.

Non esiste, innanzi tutto, una specifica e particolare situazione di criminalità giovanile a Torino rispetto a quanto avviene in tutt’Italia e, in particolare, nelle grandi città. La coincidenza temporale di due agguati è suggestiva, ma le circostanze, le nazionalità degli aggressori e delle vittime, le cause, meglio sarebbe dire i pretesti, per lo scatenamento di una violenza così spropositata e sproporzionata sono tali da richiedere un’analisi distinta. Per non rischiare di aggiungere confusione intellettuale, giustificazionismi sociologici, generico moralismo di fronte al pericolo di un aggravamento del clima di intolleranza che indubbiamente sta montando nella nostra società e, in particolare, tra i nostri ragazzi.

L’accoltellamento del giovane romeno da parte di una banda di connazionali in un giardinetto della periferia torinese squarcia il muro di omertà, di sottovalutazione, di indifferenza sul problema della difficile integrazione dei figli di immigrati. Lasciati soli, in quartieri ghetto, dove i genitori spariscono per tutto il giorno e magari per parte della notte, alla ricerca di lavori che consentano di avere più soldi possibili da inviare anche ai parenti rimasti nei paesi d’origine. Ragazzi divisi tra la voglia di omologarsi alle abitudini dei coetanei italiani e il rifugio nelle apparenti sicurezze della tracotanza bullistica dei connazionali.

È facile, per chi non vive in certi quartieri di Torino, considerare il clima di intimidazione che si respira quotidianamente in alcune strade e in alcune piazze come l’inevitabile prezzo di una faticosa integrazione. Più complicata è l’esistenza di chi è costretto a schivarne costantemente i pericoli e non può accettare l’implicito invito alla rassegnazione che lo condanna o alla paura o alla rivolta. Senza un intervento che affianchi alla repressione della piccola e grande criminalità, un piano di recupero educativo, sociale e culturale di questi giovani della seconda generazione immigratoria, le tensioni saranno inevitabilmente crescenti.

Persino più allarmante è il caso del diciannovenne massacrato, in un paese della cintura torinese, da un coetaneo accecato dalla gelosia. Il contrasto tra le motivazioni del litigio e la gravità della violenta reazione contrassegna, in realtà, un costume di rapporti sociali che riguarda una convivenza civile sempre di più esasperata da tensioni incontrollabili. L’esperienza quotidiana di tutti noi, sui luoghi di lavoro, di studio, persino di divertimento registra, con amarezza e stupore, comportamenti assurdi, frutti di un vero e proprio accecamento della ragione. Una violenza che nei giovani si traduce in conseguenze più gravi solo per la loro maggiore esuberanza fisica, ma che, nelle intenzioni aggressive, accomuna tutte le età.

Torino non è certo la capitale della violenza, neppure quella giovanile. Ma sarebbe bello che da Torino cominciasse una rivolta morale per non sopportare più l’offesa, anche verbale, contro qualsiasi persona, di qualsiasi colore. Si può esercitare in tanti modi. Anche cambiando un canale tv.

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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 13, 2010, 05:32:54 pm »

10/2/2010

Un messaggio con due destinatari
   
LUIGI LA SPINA


Alla fine, il muro del silenzio è franato ed è dovuto intervenire addirittura il Papa, con un duro richiamo all’ordine, per cercare di por fine al logoramento dell’immagine della Chiesa a seguito del «caso Boffo».

La tradizionale tattica della prudenza con la quale, per secoli, il Vaticano è riuscito a soffocare, con il manto del silenzio, il fuoco degli scandali tra le sue mura, delle rivelazioni imbarazzanti sulle lotte tra poteri ecclesiastici, ma anche quello degli attacchi esterni contro la sua autorevolezza e credibilità si era ormai rivelata impotente. Così, la nota della Segreteria di Stato che esplicitamente richiama l’approvazione di Benedetto XVI sul testo, una precisazione che, in tempi normali, sarebbe inutile perché ovvia, ha un duplice obiettivo: uno rivolto al mondo laico, l’altro a quello cattolico.

Al primo si offre la rappresentazione di una Santa Sede unita nel difendere l’onore dei principali collaboratori del Papa, a cominciare dal segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone e dal direttore dell’«Osservatore Romano», Giovanni Maria Vian, accusati di essere rispettivamente ispiratore e mandante della campagna di stampa con cui Feltri ha costretto Boffo alle dimissioni. Una difesa alla quale, poche ore dopo, la presidenza della Conferenza episcopale italiana si associava, avallando quindi la tesi di un perfetto allineamento del cardinal Angelo Bagnasco rispetto alla segreteria di Stato.

All’interno del mondo cattolico, il messaggio vuol essere altrettanto chiaro, ma molto severo. Benedetto XVI ha inteso dare un solenne «alt» alla perdurante lotta, sotterranea ma durissima, tra l’ala vicina all’ex capo dei vescovi italiani, Camillo Ruini e quella che sostiene il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Uno scontro di potere senza il quale non si potrebbe capire come mai si sia riacceso, dopo mesi di tregua, il caso delle dimissioni di Boffo dall’Avvenire per la campagna di stampa del Giornale nei suoi confronti. Un avvertimento inequivocabile: nessuna si illuda che i contrasti si possano limitare ad arrecare danni solamente agli avversari della fazione contrapposta, perché colpiscono, invece, l’intera immagine della Chiesa e arrivano fino alla figura del Papa.

L’invito a serrare i ranghi avviene in un momento molto delicato, perché sono imminenti scelte importanti nella struttura della Curia vaticana e dell’episcopato italiano. Sono in scadenza, tra gli altri, il prefetto dei vescovi, Giovan Battista Re, il presidente del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, Walter Kasper. Ma anche i capi di due diocesi come quella di Milano e di Torino. Così come si dovrà nominare il presidente della Fondazione Toniolo, l’influente organismo che condiziona anche la scelta di confermare per un altro mandato l’attuale rettore dell’Università cattolica, Lorenzo Ornaghi o di indicarne un altro.

Come è normale in tutte le istituzioni, la decisione per incarichi prestigiosi suscita una fibrillazione di candidature che non agevola la serenità interna, poiché i malumori degli esclusi sono sempre numericamente superiori alla soddisfazione dei prescelti. Ecco perché il protrarsi di una battaglia di logoramento tra gruppi rivali, a suon di ripicche, vendette, maldicenze, potrebbe non esaurirsi nei seguiti del caso Boffo, ma trovare, in un prossimo futuro, ulteriore e ancor più insidioso alimento. Di qui anche le ripetute, clamorose, pubbliche condanne di Benedetto XVI per il dilagare del vizio di «carrierismo» all’interno del mondo ecclesiastico.

La mossa di far intervenire direttamente il Papa, attraverso la nota «approvata» della segreteria di Stato vaticana, potrebbe riuscire, effettivamente, a interrompere il fiume di indiscrezioni, vere o false che siano, sui retroscena dall’«affaire Feltri-Boffo». Ma la discesa in campo di Benedetto XVI documenta anche la gravità del rischio di un deterioramento dell’immagine della Chiesa. L’«esposizione» del Papa sullo scenario mediatico di una vicenda dai contorni sgradevoli e non del tutto chiari indica la necessità di ricorrere alla più alta autorità, in una istanza difensiva ultima e definitiva. Se così non fosse, non ci sarebbe altro riparo.

da lastampa.it
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« Risposta #54 inserito:: Febbraio 18, 2010, 02:57:36 pm »

18/2/2010

Chi serve lo Stato non ha amici
   
LUIGI LA SPINA

La ripetitività degli scandali che si abbattono sull’Italia può alimentare due sbagliate reazioni dell’opinione pubblica: l’assuefazione, cinica e rassegnata, a un virus corruttivo che sembra dilagare nella società italiana e l’abitudine a confondere le accuse con i sospetti, le maldicenze con le sentenze, i reati con i peccati, le fantasie complottistiche con le prove dibattimentali.

Un gran polverone dove il destino di queste indagini giudiziarie è segnato. Chi è schierato politicamente con gli imputati è deciso ad assolverli, pur contro ogni evidenza. Chi sta dalla parte opposta ha già emesso una condanna, preventiva e inappellabile. Una divisione in due partiti, però, molto provvisoria: sarà presto l’oblio a riunificarla, nell’attesa della prossima inchiesta. Ecco perché, in queste circostanze, è assolutamente necessaria la ricerca delle differenze, la pazienza nel separare le situazioni, la chiarezza nell’individuare le responsabilità.

Ogni grande scandalo nazionale, pur nella similitudine della caccia al ladro di turno, si contrassegna per una locuzione, sintetica ma espressiva, che lo distingue. All’epoca di «Mani pulite» fu la cosiddetta «dazione ambientale», una tassa impropria riferita al rapporto imprenditori-partiti. Quella tangente, controllata ferreamente dalle percentuali del Cencelli spartitorio, che alimentava il finanziamento illegale della politica. Oggi, l’etichetta che ha colpito l’immaginazione degli italiani è la parola «gelatina», con la quale i magistrati dell’accusa hanno definito la collusione vischiosa di amicizie, favori, complicità, tra funzionari statali e aspiranti agli appalti dell’amministrazione pubblica.

E’ questo, dunque, il punto sul quale bisogna concentrare l’attenzione dei cittadini. Anche perché, almeno finora, non sono emerse nell’inchiesta sulla Protezione civile prove di corruzioni milionarie, ma le accuse imputano favori ai familiari, compiacenti assunzioni più o meno precarie, ospitalità gratuite, elargizioni di auto e, magari, di ragazze ben disposte. Le intercettazioni rivelate sui giornali, poi, aldilà dei sospetti di reati, tutti da dimostrare, illuminano, però, un costume sul quale non bisogna aspettare i giudizi dei tribunali perché sia evidente una constatazione: è scomparsa nelle classi dirigenti dell’amministrazione pubblica qualsiasi consapevolezza degli obblighi di comportamento che gravano sui cosiddetti «servitori dello Stato».

E’ bella questa espressione con la quale, con orgoglio ottocentesco, si è autodefinito Guido Bertolaso. Peccato che il capo della Protezione civile sembra sottovaluti quanto contrasti con l’atteggiamento di confidenza e di amicizia da lui dimostrato nei confronti di imprenditori che il suo dipartimento aveva la facoltà di premiare o punire. Con l’aggravante dell’assoluta discrezionalità, giustificate o no che fossero le emergenze dichiarate per quei lavori. Peccato che la stessa, e forse maggiore, insensibilità l’abbiano manifestata i suoi collaboratori, pronti a un attivismo ambiguo e collusivo, invece di esercitare il distacco, l’imparzialità, la discrezione al limite dell’estraneità, che competono all’arbitro, detentore del potere di far arricchire chi da una sua scelta dipende.

La confusione, nel costume italiano, tra interessi personali e interessi dello Stato, della sua credibilità e della sua efficienza, non solo determina le conseguenze denunciate ieri dal procuratore della Corte dei Conti per il boom di denunce e per i danni erariali connessi ai reati amministrativi e penali. Ma alimenta una più generale «corruzione mentale» fra tutti i poteri dello Stato.

E’ quella «corruzione mentale» di cui sembra afflitto il pm di Bari, Lorenzo Nicastro, che grida alla «discriminazione» se qualcuno gli fa osservare quanto sia sbagliata la sua candidatura come avversario politico proprio di un suo indagato. La stessa sindrome che colpisce un giudice costituzionale, già presidente dell’Antitrust, Giuseppe Tesauro, quando è costretto ad ammettere di essere socio in affari con un imprenditore, più o meno chiacchierato che sia. Una insensibilità dimostrata anche da due suoi colleghi della Consulta, Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, quando, alla vigilia della decisione sul lodo Alfano, parteciparono a una cena con Berlusconi e con lo stesso ministro della Giustizia.

E’ giusto che i pm di Firenze si offendano se il presidente del Consiglio li invita a «vergognarsi» per aver indagato il vertice della Protezione civile, ma otterrebbero maggiore solidarietà se tanti loro colleghi evitassero di dimenticare che i giudici non solo devono essere imparziali, ma anche «apparire» tali. La riservatezza, il senso d’opportunità, l’estraneità ad amicizie potenzialmente in conflitto rispetto agli obblighi della funzione, per un dipendente statale, di qualsiasi livello e a qualsiasi ordine appartenga, non sono manifestazioni di ipocrisia o di moralismo bigotto e passatista. Sono sacrifici, magari anche limiti a quella manifestazione del pensiero che è costituzionalmente garantita a tutti i cittadini, ma che si esercita nelle forme e nei modi consentiti a chi riveste un ruolo così delicato. Possono essere anche «discriminazioni», come le chiama il pm Nicastro, a cui si dovrebbero assoggettare volentieri coloro che, senza alcuna costrizione, scelgono una carriera nell’amministrazione pubblica.

Il prossimo anno si festeggeranno i 150 anni dello Stato italiano. Invece dei soliti riti celebrativi e delle solite polemiche retrospettive sulle virtù degli Stati borbonici e le crudeltà repressive dei piemontesi, ecco un bel tema di riflessione e di discussione pubblica.
Anche perché la corruzione va colpita in sede giudiziaria, ma va combattuta prima di tutto nella testa dei cittadini. Specie se sono «servitori dello Stato».

da lastampa.it
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« Risposta #55 inserito:: Febbraio 24, 2010, 05:37:53 pm »

24/2/2010
Capro espiatorio
   
LUIGI LA SPINA

I simboli, anche in Spagna, contano. Ma le trappole mentali delle loro suggestioni rischiano di trasformare la realtà nel mito. Per crearlo e, poi, per distruggerlo. Sempre nel regno dell’immaginario.

Il più recente esempio di questo tradimento della verità si sta consumando, in Europa, sulla figura di Zapatero. Una sinistra continentale, alla disperata ricerca di modelli e di ricette, aveva assurdamente cercato di esportare la declinazione iberica del socialismo fuori dei suoi confini. Davanti all’obsolescenza della socialdemocrazia classica di stampo tedesco, alle delusioni delle «terze vie» laburiste e anche italiane, l’esperienza del leader spagnolo era stata frettolosamente innalzata come la moderna versione di un sogno dal quale non ci si voleva risvegliare. Così, quando la crisi internazionale ha travolto anche la fragile economia di quel Paese, all’impossibile illusione è sopravvenuta la facile deprecazione. Ed è caduto, tra ironie postume e ingenerose accuse, l’ultimo mito della sinistra europea, fabbricato dalla fantasia e sfasciato dall’ipocrisia di chi, di volta in volta, cerca un capro espiatorio fuori di sé. Per non guardarsi dentro.

Le manifestazioni dei sindacati, ieri sera a Madrid e a Barcellona, contro il governo Zapatero segnalano, certamente con una evidenza simbolica, l’allarme per un possibile sfaldamento di quella «tenuta» sociale che, finora, ha impedito conseguenze drammatiche di fronte a una situazione economica preoccupante. Bastano pochi numeri per illustrarla. La Spagna è passata, in pochissimo tempo, da un attivo di bilancio a un deficit dell’11,5 per cento. La disoccupazione, almeno quella ufficiale, è salita dall’8 al 18 per cento. Il debito pubblico è cresciuto dal 40 al 55 per cento del Pil. Il motore del boom spagnolo, fondato sull’asse finanza-edilizia-turismo, alimentato da 5 milioni di immigrati che fornivano mano d’opera a basso costo, si è fermato.

Zapatero, prima ha tentato di fronteggiare la situazione con generici appelli alla «confianza», cioè alla fiducia. Poi, ha cercato di tranquillizzare i mercati internazionali, prospettando una riforma delle pensioni. Un messaggio-annuncio al quale i sindacati, piuttosto deboli in Spagna, non potevano che decidere di rispondere con una manifestazione-annuncio di protesta.

Dietro la vetrina di questi effetti simbolici di una vera e profonda crisi della Spagna, sta una realtà amara. Zapatero non ha mai avuto un modello di sviluppo economico originale, perché ha lasciato semplicemente correre quello che aveva impostato Aznar. E quando si è bloccato, ha cercato solamente di limitare i danni sulle classi più povere. Il crollo della sua credibilità non si è accompagnato a una apprezzabile crescita dell’opposizione. E’ la classe politica spagnola, nel suo complesso, a mostrare i limiti di un rinnovamento mancato, sia in casa socialista sia in quella popolare. La Spagna soffre di più in Europa, perché non ha la capacità industriale di Paesi come la Germania o la Francia. Ma non può contare neanche sull’ingente capitale privato detenuto dai risparmiatori italiani.

La sinistra europea può continuare, come Diogene, la sua ricerca dell’uomo. Quello «socialista», naturalmente. Può crocefiggere, ora, Zapatero, che non era il nuovo eroe del «sol dell’avvenire», ma non può diventare, ora, neanche lo zimbello del comodo sarcasmo progressista. Sempre in attesa di far fuori il prossimo candidato al dileggio universale, quello che sta dall’altra parte dell’Atlantico.

da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Marzo 08, 2010, 08:53:20 am »

8/3/2010

L'ultimo referendum
   
LUIGI LA SPINA

E’ stato Napolitano a individuare subito il vero punto debole del centrosinistra sul pasticcio delle liste. Il Presidente della Repubblica, infatti, nella sua risposta alle lettere di due cittadini, ha osservato come l’opposizione fosse contraria al decreto, ma non avesse avanzato alcuna altra soluzione, «meno esente da vizi e dubbi», per eliminare un rischio che gli stessi Bersani e Di Pietro volevano evitare: quello di «vincere per abbandono dal campo dell’avversario».

Così il gioco di rimessa, la tattica attendista di limitarsi a denunciare lo scandalo di cambiare le regole del gioco mentre la partita è cominciata, senza proporre un compromesso per salvare un’esigenza alla quale si dice pur di tenere, potrebbero agevolare l’offensiva della destra. Un attacco, cominciato da alcuni giorni e inasprito ieri dallo stesso Berlusconi, che mira, con un capovolgimento delle responsabilità per l’accaduto, a indirizzare la campagna elettorale sulla rappresentazione preferita dal Cavaliere, quella della vittima. Con la contrapposta immagine di una sinistra ipocrita, formalista, amante dei cavilli e degli intoppi burocratici, istigatrice e complice di magistrati faziosi.

Ecco perché la vicenda delle liste potrebbe rivelarsi un imprevedibile boomerang per chi si aspettava di guadagnare consensi, sull’onda di una presunta indignazione popolare anche di una parte dei simpatizzanti del centrodestra, e, invece, rischia di perderli per la trasformazione improvvisa del vero tema di queste elezioni.

La consultazione amministrativa regionale sembra ormai ricalcare, in Italia, il significato che hanno le elezioni di mid-term negli Stati Uniti: quello di un giudizio sull’operato del governo a metà legislatura. Può essere deplorevole che il parere dei cittadini non si concentri soprattutto sull’operato dei governatori regionali uscenti, quando si ripresentano, o sulle promesse dei nuovi aspiranti a quella poltrona. Ma che, in queste elezioni, gli orientamenti di politica nazionale prevalgano nelle scelte degli elettori è un fatto ormai consolidato.

Fu così nel 2005, quando la delusione per i risultati governativi, dovuti al mancato abbassamento delle tasse e alle divisioni tra Berlusconi e l’asse Fini-Casini, punirono il centrodestra, al potere a Roma, con una sconfitta che consegnò all’opposizione 12 delle 14 Regioni in palio. Fu addirittura riconosciuto ufficialmente come il vero verdetto di questa consultazione, quando D’Alema, in modo inopinato, si dimise dalla presidenza del Consiglio per il risultato negativo delle elezioni regionali del 2000.

Anche questa volta, come un po’ tutti i sondaggi confermano, la soddisfazione degli italiani per il governo sta diminuendo, sia per il perdurare degli effetti della crisi economica, sia per l’ondata di scandali che hanno coinvolto personaggi del centrodestra, sia per le divisioni nell’ambito del neonato e ancora molto fragile Pdl. Ma il clima elettorale, in queste ultime tre settimane prima del voto, potrebbe improvvisamente mutare e la consultazione cambiare «natura»: da un giudizio prevalentemente dedicato ai risultati del governo al solito, ennesimo referendum su Berlusconi.

Le avvisaglie ci sono tutte e riguardano gli atteggiamenti di entrambi i poli. A sinistra, la vicenda del «decreto interpretativo» ha spezzato la precaria ma comunque inedita unità che, negli ultimi mesi, sembrava aver cancellato i contrasti che portarono alla caduta di Prodi e alla sconfitta di Veltroni. Il Pd è tornato a soffrire in mezzo all’opposta necessità di non lasciare a Di Pietro il monopolio della protesta e di non farsi coinvolgere nell’attacco a Napolitano. Mentre l’Udc di Casini si è distaccata subito dalla manifestazione di piazza prevista per sabato prossimo. A destra, l’effetto è speculare: Fini, seppur con toni diversi, si è dovuto riallineare sulla posizione del premier e anche Bossi che, con le prime valutazioni espresse dal suo ministro, Maroni, sembrava voler sostenere l’impossibilità di un decreto per sanare il famigerato «pasticcio», si è dovuto acconciare all’approvazione del provvedimento.

Berlusconi, con l’indubbia capacità di saper condurre le campagne elettorali sui temi che preferisce, ha colto immediatamente l’occasione e, ieri, intervenendo a sostegno del suo candidato in Campania, ha rilanciato lo slogan della «scelta di campo», sul fronte del collaudato motto «o con me o contro di me». Una massima che, da sempre, costringe gli alleati a rinunciare alle ambizioni di una certa autonomia e gli avversari ad unirsi nell’antiberlusconismo più scontato. Tra tre settimane, il voto per le regionali sarà l’ultima consultazione importante prima della fine della legislatura, prevista nel 2013. Forse sarà anche l’ultimo referendum su Berlusconi.

da lastampa.it
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« Risposta #57 inserito:: Marzo 10, 2010, 09:24:43 am »

10/3/2010

L'ora della responsabilità
   
LUIGI LA SPINA

E’ comprensibile la delusione di Berlusconi per il verdetto dei giudici che ha escluso la lista del Pdl dalla competizione regionale a Roma.

Ed è certamente un danno per la libera espressione democratica di tanti cittadini che si riconoscono in quel partito non poter manifestare il loro voto per la lista a cui andrebbe la loro preferenza. Meno comprensibile, però, è definire, come ha fatto il presidente del Consiglio nel video con il quale ha proclamato una grande manifestazione di protesta, «un sopruso», una sentenza che prende atto della mancata presentazione di quella lista nei tempi e nei modi prescritti dalla legge. Poiché non si può dimenticare che i responsabili di quel grave danno inferto agli elettori del Pdl nella provincia di Roma sono proprio quei funzionari del «Partito della Libertà» che hanno combinato «il pasticcio», come l’ha definito il presidente Napolitano. Né che è stata la stessa magistratura, senza adottare neanche il cosiddetto «decreto interpretativo», a riammettere la lista Pdl in Lombardia, dove evidentemente le irregolarità non erano così gravi e manifeste.

Lo sconcerto dei simpatizzanti del centrodestra per questa vicenda è certamente tale da far temere a Berlusconi una disaffezione che potrebbe indurre una parte di loro a disertare le urne. Ecco perché, com’era prevedibile, il premier ha deciso di lanciare una campagna di mobilitazione dei suoi elettori, all’insegna dell’emotività politica, di un presunto «scontro di civiltà» di cui il Paese non ha proprio alcun bisogno. In un momento di forti tensioni, non solo politiche ma anche sociali per una crisi economica i cui effetti non sono certo scomparsi, è necessario da parte di tutti il massimo senso di responsabilità. Nei comportamenti, ma anche nelle parole.

da lastampa.it
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« Risposta #58 inserito:: Marzo 10, 2010, 05:53:34 pm »

10/3/2010

L'ora della responsabilità
   
LUIGI LA SPINA

E’ comprensibile la delusione di Berlusconi per il verdetto dei giudici che ha escluso la lista del Pdl dalla competizione regionale a Roma.

Ed è certamente un danno per la libera espressione democratica di tanti cittadini che si riconoscono in quel partito non poter manifestare il loro voto per la lista a cui andrebbe la loro preferenza. Meno comprensibile, però, è definire, come ha fatto il presidente del Consiglio nel video con il quale ha proclamato una grande manifestazione di protesta, «un sopruso», una sentenza che prende atto della mancata presentazione di quella lista nei tempi e nei modi prescritti dalla legge. Poiché non si può dimenticare che i responsabili di quel grave danno inferto agli elettori del Pdl nella provincia di Roma sono proprio quei funzionari del «Partito della Libertà» che hanno combinato «il pasticcio», come l’ha definito il presidente Napolitano. Né che è stata la stessa magistratura, senza adottare neanche il cosiddetto «decreto interpretativo», a riammettere la lista Pdl in Lombardia, dove evidentemente le irregolarità non erano così gravi e manifeste.

Lo sconcerto dei simpatizzanti del centrodestra per questa vicenda è certamente tale da far temere a Berlusconi una disaffezione che potrebbe indurre una parte di loro a disertare le urne. Ecco perché, com’era prevedibile, il premier ha deciso di lanciare una campagna di mobilitazione dei suoi elettori, all’insegna dell’emotività politica, di un presunto «scontro di civiltà» di cui il Paese non ha proprio alcun bisogno. In un momento di forti tensioni, non solo politiche ma anche sociali per una crisi economica i cui effetti non sono certo scomparsi, è necessario da parte di tutti il massimo senso di responsabilità. Nei comportamenti, ma anche nelle parole.

da lastampa.it
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« Risposta #59 inserito:: Marzo 25, 2010, 11:01:00 am »

25/3/2010

Bipolarismo il tempo è già scaduto
   
LUIGI LA SPINA

La campagna elettorale più assurda degli ultimi anni si va concludendo con la polemica più lontana dagli argomenti che riguardano i poteri e le funzioni delle Regioni, l’ente per il quale, domenica e lunedì, gli italiani dovranno andare a votare. Non bastavano i magistrati, la Protezione civile, gli arresti di presunti corrotti dalle grazie delle escort e, dulcis in fundo, il cancro e l’aborto.

Ci voleva anche il tema delle riforme costituzionali per appassionare i cittadini e per indurli a affollare le urne. Come se i nuovi consiglieri regionali non dovessero badare alla sanità, all’occupazione, ai trasporti, ma dovessero cambiare i supremi principi della nostra democrazia.

Poiché le regole dell’americano «pensare positivo» impongono, però, di cercare l’utilità anche dove, a prima vista, se ne vede assai poca, proviamo a individuarne le tracce anche nel «botta e risposta» tra Berlusconi e D’Alema apparso nelle interviste successive alla Stampa. In entrambe, pare si possa cogliere, infatti, una comune considerazione negativa sugli effetti del bipolarismo nel nostro Paese. Almeno, come è stato interpretato e realizzato negli ultimi 15 anni in Italia.

È curioso come due leader appartenenti ai due maggiori partiti delle opposte coalizioni, i teorici beneficiari di un sistema che dovrebbe esaltare il potere delle loro formazioni politiche a scapito delle più piccole, sembrino insoddisfatti e caldeggino modifiche di una condizione che, invece, dovrebbe avvantaggiarli. Escludendo eccessi di altruismo, non previsti in politica, si deve propendere per la maturata consapevolezza di una scarsa efficacia dei risultati governativi di questi anni. Sia quelli a guida del centrosinistra sia quelli retti dal centrodestra.

Così, Berlusconi punta al presidenzialismo per rafforzare e consolidare una sua maggioranza, ampia numericamente, ma percorsa da insofferenze personali e manovre correntizie per una successione la cui ombra si allunga indefinitivamente. D’Alema, invece, vuole una nuova legge elettorale che modifichi l’attuale bipolarismo allentando un sistema troppo bloccato. Due ricette molto diverse, naturalmente, ma che cercano di rimuovere gli ostacoli che, finora, hanno fatto dei loro partiti giganti fragili.

Le proposte di modifica dell’attuale bipolarismo, non bisogna dimenticarlo, cadono in quel clima di curioso revisionismo per la cosiddetta prima Repubblica che, da un po’ di tempo, si va diffondendo nel nostro Paese. Sindrome tipica, forse, di senescenza nostalgica della nostra classe dirigente, ma anche di una certa delusione per tante speranze di rinnovamento che, occorre ammetterlo, non si sono avverate con la cosiddetta seconda.

In attesa di assistere all’esito della sempre più rinviata successione di Berlusconi alla leadership del centrodestra, l’esplicita bocciatura dell’attuale bipolarismo, mai espressa con tale chiarezza e forza, da parte di D’Alema, merita un particolare approfondimento. Bocciata la pretesa «vocazione maggioritaria» del Pd, vagheggiata da Veltroni, l’ex presidente del Consiglio pare rendersi conto di una strettoia politica che, con l’attuale sistema, potrebbe condannare il suo partito e il centrosinistra a una perpetua opposizione. Un altro «fattore K», per usare la storica definizione del compianto Alberto Ronchey, che innalzerebbe tra questo schieramento e il governo un nuovo Muro, dopo quello caduto a Berlino.

Se il partito democratico rinnovasse l’esperienza dell’Unione, potrebbe vincere solo con una improbabile rottura nel centrodestra e, comunque, non riuscirebbe ad ottenere quella coesione interna necessaria per governare. Se rifiutasse l’alleanza con la sinistra radicale, non arriverebbe mai alla maggioranza dei consensi di un Paese che, dalla fondazione della Repubblica, esprime una prevalenza di orientamenti elettorali moderati e conservatori.

L’alternanza è stata, dunque, una breve parentesi nella confusa fase seguita al crollo della seconda Repubblica? È possibile che, senza una modifica dell’attuale sistema elettorale e partitico bipolare, la risposta debba essere affermativa. Ecco perché la via d’uscita al nuovo probabile blocco della democrazia italiana potrebbe consistere in un taglio delle ali estreme nei due schieramenti. Con una alternanza «centripeta» tra due forze politiche, condizionata dall’appoggio di un terzo partito, «autorizzato» ad allearsi, secondo le circostanze, con l’uno o con l’altro dei due maggiori.

È inutile che la sinistra guardi all’amato «doppio turno» alla francese. Proprio perché sarebbe l’unico metodo elettorale con cui potrebbe vincere, non l’avrà mai. Se coltiva sogni di successo, forse è meglio che faccia un corso accelerato di tedesco.

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