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Autore Discussione: IRENE TINAGLI  (Letto 32723 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Marzo 30, 2012, 05:55:35 pm »

30/3/2012

La distanza tra Roma e Madrid

IRENE TINAGLI

Sciopero generale ieri a Madrid: i sindacati si ribellano alla riforma del lavoro e manifestano tutto il loro dissenso. Il governo tuttavia, forte anche del plauso della Commissione Europea e degli osservatori internazionali, dichiara di non avere intenzione di fare alcun passo indietro. La Spagna come l’Italia? Solo in apparenza.

La riforma spagnola per certi versi è più radicale di quella italiana eppure, grazie alla forte maggioranza parlamentare uscita dalle urne, Rajoy si è potuto permettere un percorso meno mediato e con meno intoppi. La situazione italiana è molto diversa. Nonostante Monti dichiari che i cittadini appoggiano la sua riforma, il suo consenso ha una natura molto diversa da quello di Rajoy. Senza togliere niente all’efficacia dell’azione del governo Monti, buona parte del suo consenso vive di luce riflessa e inversa: è la grande debolezza dei partiti a dargli molta forza. Ma per quanto deboli siano, sono pur sempre i partiti che fanno o disfano le maggioranze parlamentari che devono approvare le sue riforme. E da qui le mediazioni, i tavoli, le soluzioni intermedie, gli aggiustamenti.

Non è un caso se le prime riforme di Monti, avvenute in un momento di crisi totale dei partiti, sono quelle approvate più rapidamente, mentre le successive hanno vissuto maggiori «battaglie». Questo processo di mediazione chiaramente può essere visto sia come una opportunità – perché consente di raggiungere soluzioni più bilanciate - che come un problema – gli effetti potrebbero risultarne attenuati o troppo dilazionati.

Ma a ben vedere le differenze tra gli atteggiamenti e le misure dei due governi non derivano soltanto dall’avere una solida maggioranza parlamentare, ma anche da una serie di idee e questioni più squisitamente politiche e per certi versi ideologiche che cominciano ad emergere nel caso spagnolo.

E’ inevitabile infatti che molte delle iniziative prese dal governo di Rajoy in qualche modo lascino trasparire l’impronta politica del partito che le ha elaborate. L’obiettivo non è solo rimettere a posto il deficit, ma anche rispondere alle aspettative del proprio elettorato, sia in economia, con pesanti tagli al sistema di Welfare creato dai socialisti che i popolari hanno sempre considerato eccessivo, sia in altri ambiti non economici.

Non è un caso se il governo spagnolo ha iniziato ad affrontare temi di ben altra natura, come, per esempio, la questione dell’aborto, un tema su cui i popolari non hanno mai digerito la riforma di Zapatero del 2010. Proprio l’altro ieri il ministro della Giustizia Gallardon ha annunciato una nuova legge sull’aborto, dichiarando che le leggi attuali spingono le donne ad interrompere la gravidanza, e sostenendo che «la libertà» di diventare madri è ciò che rende le donne autenticamente donne.

Ecco, in queste circostante viene fuori fino in fondo la differenza tra un governo politico e un governo tecnico. Nessun ministro dell' attuale governo italiano si sarebbe mai sognato di esprimere giudizi di questa natura su un tema così delicato. E per quanto le dichiarazioni del ministro Gallardon possano scuotere e sconcertare (soprattutto i milioni di donne che ormai sono abituate a scegliere in totale libertà cosa le definisca «donne», senza che glielo debba dire un ministro), è normale che un governo politico cerchi di portare avanti una sua idea di società, di diritti civili, di etica, di rapporto Stato-cittadini.

Il governo tecnico, come lo stesso Monti ha ricordato in alcune occasioni, non può entrare in materie di questo genere. Non perché non abbia idee in proposito - sicuramente sia Monti che molti suoi ministri avranno loro idee in materia di unioni civili o di interruzione di gravidanza -, ma perché non rientra nel loro mandato implicito. Non è un caso se da qualche mese a questa parte in Italia non si parla quasi più di matrimoni gay, omofobia, testamento biologico, fecondazione assistita e altri temi che invece negli anni scorsi hanno segnato anche molto animatamente il dibattito pubblico. Tutti temi rimasti sostanzialmente aperti, congelati nel clima di emergenza economica in cui ci siamo ritrovati. Ma questo vuoto non potrà durare in eterno. Un Paese non può andare avanti a lungo senza affrontare questioni importanti che influenzano la vita quotidiana dei cittadini anche al di là dell’economia. Da questo punto di vista ciò che preoccupa non è tanto che il governo tecnico non entri in questi argomenti, ma che pure i partiti sembrano essersene scordati. Sempre più anestetizzati dalla rapidità d’iniziativa con cui il governo Monti si sta muovendo sui temi economici, i partiti sembrano aver perso anche la capacità di pensare e proporre la loro idea di società e di Paese nel suo complesso. Sarà bene che si risveglino presto da questo torpore e che si facciano trovare pronti all’appuntamento elettorale, perché molti italiani aspettano delle risposte e delle strategie, e non solo sull’articolo 18.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9942
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« Risposta #61 inserito:: Aprile 04, 2012, 05:05:26 pm »

4/4/2012

I giovani siano imprenditori di se stessi

IRENE TINAGLI

Inventarsi un lavoro. Più la disoccupazione giovanile aumenta, più i ragazzi se lo sentono dire. Ma come possono fare? E come possiamo aiutarli a inventare nuovi lavori?

Si dice loro di ripensare gli studi, scegliere più accuratamente, definire percorsi di formazione più allineati con l’evoluzione dell’economia. Ma è difficile prevedere quali competenze saranno richieste da qui a cinque o dieci anni, spesso non lo sanno nemmeno le aziende. Ieri magari avevano bisogno di un addetto stampa, oggi di un graphic designer, o di un social media manager. Ieri di un commercialista, oggi di un avvocato specializzato in diritto cinese o proprietà intellettuale. Non è facile programmare carriere in questo scenario, e non è facile per un governo «creare posti di lavoro» secondo politiche industriali vecchio stile, quelle che tanti politici oggi invocano, a suon di sussidi e incentivi.
Il modo migliore e più sano è dare ai cittadini più imprenditoriali, e in particolare ai giovani, i saperi, le competenze e le condizioni necessarie a fare nuove imprese ad alto potenziale di crescita. In questo modo non solo inventeranno il proprio lavoro, ma anche quello di molti altri. Gli studi della Kauffman Foundation hanno dimostrato che negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni la quasi totalità di nuovi posti di lavoro è stata generata da aziende nei loro primi anni di vita, aziende «nuove». Per questo il tema su come stimolare la creazione di nuove imprese è sempre più importante, e si discute spesso delle «condizioni» per farlo: semplificare la burocrazia, abbassare i costi di fare impresa, attrarre e stimolare il capitale di rischio, investire in infrastrutture digitali e nuove tecnologie. Tutte cose su cui è fondamentale agire presto, perché si tratta di condizioni fondamentali senza le quali non si va da nessuna parte.

Ma c’è qualcos’altro, altrettanto importante, di cui si però si parla molto meno: l’educazione alla curiosità, al rischio,
all’imprenditorialità. Tutti i sondaggi condotti tra i giovani italiani mostrano bassi livelli di propensione al rischio e all’imprenditoria. Anche se molti ragazzi hanno minori aspettative rispetto al posto fisso e anche se aumenta, per esempio, la disponibilità a viaggiare e spostarsi, tuttavia la voglia di fare impresa resta molto bassa. Uno dei sondaggi più recenti, condotto nel febbraio scorso da Termometropolitico in collaborazione con La Stampa su ottomila italiani sotto i trentacinque anni, ha fatto emergere come il 24% degli intervistati accetterebbe «qualsiasi lavoro, anche pagato male, basta che sia sicuro e a tempo indeterminato e senza alcun rischio».
Per contro solo il 16% preferisce «fare sacrifici per qualche anno per mettere soldi da parte e iniziare una sua attività indipendente».
Un dato sorprendentemente basso. Per fare un confronto, in un’indagine condotta dalla Gallup Organization assieme alla Fondazione «Operation Hope» e resa nota pochi giorni fa, il 77% dei giovani intervistati dichiara di voler essere «boss di se stesso», il 45% di voler fare la propria impresa, e il 42% si dice convinto che inventerà qualcosa che cambierà il mondo.
Non solo, ma il 91% sostiene di non avere paura ad assumersi dei rischi, anche se possono portare a sbagliare e fallire, e l’85% dice di «non mollare mai» quando desidera raggiungere un obiettivo.

Altro che accontentarsi!

Naturalmente i due sondaggi sono stati fatti con criteri e campioni diversi ed è difficile fare un confronto puntuale, ma le differenze di atteggiamento che emergono sono così enormi che non possono non suscitare alcune riflessioni. La prima è che, evidentemente, certe predisposizioni imprenditoriali hanno radici lontane e profonde, e sono legate ai contesti in cui si formano i giovani, ben prima che arrivino alla laurea. E non possiamo pensare di iniettargliela da un giorno all’altro, magari quando hanno già completato gli studi, e quando si sono già immaginati un futuro lineare e tranquillo che tutti, dai genitori a tanti politici, gli hanno prefigurato come orizzonte desiderabile ed esigibile. È normale che tanti giovani cresciuti in contesti di questo genere non abbiano voglia di fare gli imprenditori. Non ci si improvvisa pionieri. Ma nemmeno ci si nasce. Diciamo che ci si «cresce», grazie al contesto, alle competenze, agli esempi e al clima che ci girano attorno.

Ed è questa la seconda riflessione da fare: su cosa e come supportare questi processi senza aspettare che sia troppo tardi. Sempre dal sondaggio Gallup emerge come il 54% dei ragazzi tra la quinta elementare e l’ultimo anno di superiori abbia imparato a scuola le basi su come gestire i propri risparmi, aprire un conto, prendere un prestito e così via, e come il 50% riceva corsi e informazioni a scuola su come creare un business. Certamente imparare questi aspetti da ragazzini non implica che poi si decida di metterle in pratica, ma aiuta per lo meno a sentirsi più sicuri e meno sprovveduti quando si voglia cimentarsi con «inventarsi il proprio lavoro» o fare una nuova impresa. Si è più stimolati a pensare a nuove idee, a pensare che sì, si può fare qualcosa di nuovo, qualcosa di utile, qualcosa che forse, chissà, cambierà il mondo.

Perché per accontentarsi c’è sempre tempo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9960
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« Risposta #62 inserito:: Aprile 12, 2012, 03:44:15 pm »

12/4/2012

Il Politecnico parlerà inglese un passo importante per il paese

IRENE TINAGLI

Gli ingegneri italiani sono sempre stati un gran vanto per il nostro Paese, una tradizione che ha trainato la rinascita industriale del dopoguerra e che ha dato una forte identità a molte nostre aziende, marchi e prodotti. Una tradizione spesso sbandierata con orgoglio per contraddire le teorie più pessimiste sul potenziale del nostro Paese.

Confesso di averlo fatto anch’io quando vivevo negli Stati Uniti. Ricordo una discussione con alcuni accademici e imprenditori americani e italiani «emigranti», il tema era il declino della formazione universitaria italiana, e come controargomento portai ad esempio le nostre facoltà d’ingegneria e i Politecnici, che da sempre sfornano ingegneri di primissima qualità. Mi sentii ribattere che probabilmente erano molto bravi, ma non parlavano una parola d’inglese. Questo accadeva poco meno di 15 fa. Molte cose sono accadute da allora. Il mondo ha attraversato trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali che all’epoca sarebbero state impensabili. Anche gli ingegneri italiani, ormai, parlano l’inglese. L’iniziativa del Politecnico di Milano sancisce il completamento di un percorso di «ammodernamento» che probabilmente sarà seguito presto da altre facoltà. Un cambiamento che non solo darà un bel contributo a tutti i nostri ingegneri che vogliano misurarsi con mercati e opportunità a livello internazionale, ma che renderà l’Italia un Paese più attraente per tutti gli studenti stranieri che vogliano approfittare della eccellente qualità della formazione ingegneristica del nostro Paese. Tutto questo agevolerà quel processo di scambio culturale e di apertura internazionale fondamentale per l’innovazione e la competitività di un paese.

C’è solo un piccolo, tenue rammarico. Imparare a conversare in una nuova lingua non cancella mai la capacità di conversare nella lingua madre. Ma quando si imparano concetti tecnici, specifici, che sono totalmente nuovi, li si imparano nella lingua con cui vengono presentati per la prima volta. E non viene automatico tradurli nella lingua madre come può accadere con parole consuete come buongiorno o buonasera. Anzi. Chiunque abbia esperienze di studio e specializzazione all’estero sa quanto tempo e fatica richieda «ritradurre» in italiano termini ed espressioni apprese per la prima volta in una lingua straniera. Questo significa che la strada del cambio linguistico per le nuove generazione di ingegneri italiani potrebbe essere senza ritorno. Non sarà banale per ragazzi formatisi in lingua inglese tornare a progettare in italiano.

Non è un dramma, ed è più lungimirante una scelta di questo genere di quella fatta, per esempio, da quelle università catalane che impongono esami in una lingua che non parla più nessuno. Ma è comunque un piccolo pezzo della nostra tradizione che ci lasceremo alle spalle.

E ogni grande tradizione deve sapersi adattare e cambiare pelle se vuole continuare a vivere nella realtà del suo tempo e non solo nei musei e nei libri di storia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9988
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« Risposta #63 inserito:: Aprile 25, 2012, 04:12:45 pm »

25/4/2012

L'efficienza è l'unica via d'uscita

IRENE TINAGLI

Di fronte agli ultimi dati dell’Istat sulla frenata dei salari si può reagire in due modi. Si può incolpare la crisi, o l’austerità di Monti e invocare nuove contrattazioni più generose o altre forme di supporto al reddito.
Oppure si può cercare di fare un ragionamento più approfondito per capire le radici del problema e quali soluzioni possano funzionare o no.

La questione dei salari in Italia, e del parallelo rapporto con i consumi (anch’essi stagnanti) è un problema reale e profondo, ma non c’entra tanto con la crisi né con l’austerità.
Ha radici più lontane, che hanno iniziato a manifestare i propri effetti prima della crisi. Già nel 2006 i dati dell’Eurostat mostravano come l’Italia avesse salari medi annuali inferiori del 20-30% rispetto a Paesi come Francia o Germania.

E nel 2007 l’allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in una relazione presentata alla società italiana degli economisti, lanciò un allarme sulla stagnazione di consumi e salari che affliggeva l’Italia già da alcuni anni. Il vero problema, come indicava Draghi e come ha ribadito un paio di giorni fa l’attuale governatore Visco, risiede nella produttività. Proprio la Banca d’Italia in uno studio sui primi dieci anni di Unione Monetaria (1998-2008) ha mostrato come la produttività sia aumentata del 18% in Francia, del 22% in Germania e del 3% in Italia.

Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro.

Affrontare il nodo della produttività è complesso, e un’analisi completa richiede più spazio di quanto conceda un editoriale. Ma è importante almeno ricordare che parlare di produttività significa parlare non solo di investimenti e nuove fabbriche, ma anche di servizi avanzati, istruzione della forza lavoro (di cui non si parla mai, come se fossimo tutti geni naturali quando invece siamo una delle forze lavoro meno qualificate d’Occidente), e un sistema di regole di mercato e di amministrazioni pubbliche trasparenti, snelle e funzionali.

La funzionalità ed efficienza del sistema in cui operano imprese e lavoratori è fondamentale, ed è data dalla semplicità e dai costi della burocrazia e dall’amministrazione pubblica, dalla qualità dei servizi che produce, così come dalla fluidità di certi mercati, perché più sono protetti e rigidi, più sono inclini a sprechi e inefficienze. Ed è ovviamente legata anche alla dinamicità del lavoro, intesa non solo come flessibilità in entrata ed uscita, quanto come flessibilità nell’organizzazione del lavoro, che è cosa diversa, perché implica poter cambiare rapidamente orari, turni, mansioni e riqualificazioni all’interno dell’azienda, cose complicate con l’attuale struttura della contrattazione.

Tutti questi cambiamenti hanno fatto e continuano a far paura, e l’incapacità di gestirli se non in modo confuso e spesso pasticciato ha portato alla situazione attuale. Il paradosso è che non di rado molte associazioni di categoria, aziende o persino cittadini, preferiscono ridurre un po’ la propria ricchezza pur di non essere costretti a cambiare modo di produzione, lavoro, studio o formazione. In pratica è come se negli anni passati fossimo stati testimoni di una sorta di scambio implicito tra mancanza di riforme complete da un lato e minori redditi dall’altra.

Prendiamo l’esempio della pubblica amministrazione: è vero, come giustamente ricorda il segretario Cgil Camusso, che questo settore ha gli stipendi bloccati da anni (ed è uno dei fattori che traina al ribasso i dati Istat), ma è anche vero che, in Italia come in Spagna o in Grecia, questi blocchi sono la conseguenza di una incapacità di riformarli e renderli più efficienti rispetto ai servizi che erogano.

Non potendo fare riforme che consentano di risparmiare risorse e migliorare l’efficienza legando i costi all’impegno e ai risultati (riforme sistematicamente vanificate da veti, proteste o da miseri accordicchi che le neutralizzano), l’unico modo per contenere la spesa è bloccare i salari. E’ un metodo sbagliato, ingiusto e inefficiente. Ma a quanto pare è l’unico fino ad oggi accettabile dalle varie «parti» in gioco. E nel settore privato sono emersi comportamenti e soluzioni diverse ma similmente distorte e distorsive ogni volta che si è provato a parlare di liberalizzazioni, riconversioni e così via. Anzi, piuttosto che investire in riforme e risorse per rendere i nostri mercati più aperti a nuovi settori, nuove tecnologie, e a tutto quello che poteva aiutare una riconversione del sistema produttivo, abbiamo speso miliardi per evitare tale riconversione e tenere in vita aziende stracotte e non competitive.

Il problema è che tutte queste mancate riforme alimentano ulteriori inefficienze «di sistema» che a loro volta si traducono in maggiori tasse, maggiori costi di produzione, e in prezzi più alti e/o prodotti e servizi più scadenti. Quindi non basta invocare controlli sui prezzi o rinegoziazioni centralizzate dei salari per risolvere la questione, perché non sono variabili «indipendenti» regolabili dall’alto, ma sono legate alla nostra capacità di cambiare il nostro modo di studiare, lavorare, produrre e gestire la macchina statale. Può sembrare una sfida impossibile, ma non lo è.

Molti Paesi hanno saputo superare crisi e debolezze, basta pensare alla recessione svedese di inizio Anni Novanta, con raddoppio del debito e decuplicazione del deficit, o alla stagnazione del Pil della Germania nei dieci anni dal 1995 al 2005. Paesi che ce l’hanno fatta con riforme profonde e spesso pesanti, ma motivate da un unico imperativo: il bisogno di cambiare per poter rinascere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10030
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« Risposta #64 inserito:: Aprile 28, 2012, 10:45:34 am »

28/4/2012

Il Paese delle piccole città

IRENE TINAGLI

È un’interessante fotografia del nostro Paese quella che sta emergendo dai primi risultati del Censimento 2011. Interessante non solo per ciò che cambia, ma anche (e forse ancora di più) per ciò che invece resta uguale a se stesso, magari anche in controtendenza con quel che avviene nel resto del mondo.

È questo il caso della distribuzione geografica della popolazione sul territorio, che resta molto frammentata. Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti.

Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale).

Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne. Come indica il documento Istat, nei sei Comuni più grandi (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova) negli ultimi decenni si è assistito a un lento ma progressivo decremento di popolazione, un decremento che sembra confermato dai dati preliminari (con l’interessante eccezione di Torino e Roma).

Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee. Città che negli Anni Settanta e Ottanta avevano visto forti contrazioni di popolazione, frutto di un declino e un processo di trasformazione economica e produttiva che aveva colpito sia di qua che di là dall’Oceano. Una crisi pesante soprattutto per quelle città che fino a quel momento erano state le più prospere e industriose: New York, Chicago, Detroit, Pittsburgh, ma anche Amsterdam, Berlino, Oslo, Stoccolma, per non parlare di luoghi come Manchester o Liverpool (in quegli anni Liverpool perdeva qualcosa come il 4-5% di popolazione all’anno). Poi, negli Anni Novanta, fu chiara l’inversione di tendenza. E recentemente sono tornate a crescere quasi tutte. Persino Detroit e Pittsburgh, che per oltre trent’anni hanno registrato perdite, stanno invertendo tendenza. Stando ai dati delle Nazioni Unite, Oslo negli ultimi anni cresce a ritmi di quasi il 2% annuo, Stoccolma dell’1,7%, Madrid quasi del 3%, Barcellona dell’1,5%, e molte altre segnano aumenti costanti anche se più contenuti.

Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione. Non è un caso se oggi città come New York, Londra, Stoccolma o Oslo hanno percentuali di professionisti e «lavoratori creativi» che vanno dal 40 al 50% della forza lavoro. Questi due fenomeni hanno ridisegnato e continuano ad influenzare profondamente la geografia economica e sociale non solo dei Paesi emergenti ma anche di quelli industrializzati, con conseguenze importanti sulla loro capacità di produrre innovazione, attrarre talenti ed investimenti internazionali, nonché di sfruttare sinergie ed economie di scala che consentono di realizzare una miglior efficienza energetica e minor impatto ambientale (numerosi studi recenti mostrano un impatto ambientale pro capite significativamente minore nelle grandi città che nelle piccole).

Di fronte a queste dinamiche internazionali, le tendenze che si stanno registrando in Italia non possono che sollevare riflessioni ed interrogativi. Non si tratta né di mettere sotto accusa né di difendere incondizionatamente la nostra struttura territoriale, ma semplicemente di analizzare in modo serio tutte le caratteristiche e le implicazioni di una realtà urbana che è al tempo stesso conseguenza e concausa di importanti dinamiche economiche e sociali del Paese. Per troppo tempo abbiamo trascurato le problematiche e le potenzialità delle nostre città e della peculiare «geografia economica» che ci caratterizza, con riflessioni superficiali o ideologiche, dati approssimativi e politiche urbane scarse se non inesistenti. Forse è il caso, almeno su questo, di invertire tendenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10040
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« Risposta #65 inserito:: Maggio 13, 2012, 05:59:16 pm »

13/5/2012

Indignados la protesta non basta

IRENE TINAGLI

Indignati un anno dopo. Impossibile resistere alla tentazione di un bilancio. Chiedevano un cambiamento nei partiti, più trasparenza, partecipazione, un nuovo ordine economico e politico, nazionale e internazionale, nuovi strumenti per far fronte alla crisi.

Cosa hanno ottenuto? Senz’altro un cambio di governo, con la tremenda disfatta dei socialisti e l’avvento dei popolari. Ma è un cambio che sarebbe accaduto comunque.

Mentre di cambiamenti all’interno dei partiti non se n’è vista neanche l’ombra. Gli uomini che si sono sfidati alle elezioni spagnole dell’autunno scorso erano due rappresentanti della politica che più tradizionale non si può. Le loro proposte erano altrettanto scontate e ciò che si è visto col nuovo governo era più che prevedibile: aumenti di tasse, tagli pesanti ovunque: istruzione, sanità, infrastrutture, regioni.

L’unica eredità del movimento 15-M è stato il contagio internazionale. Su quel fronte i risultati sono stati notevoli: da Roma a Londra, da Atene a New York, da Parigi a Mosca. Non c’è stata capitale del mondo che non sia stata investita da questa ondata di protesta.

Eppure, anche fuori dalla Spagna cosa abbiamo visto? In Francia si sono fronteggiati due candidati tutt’altro che nuovi, e il Presidente in carica è stato battuto, tutto sommato, da un uomo di partito che fa politica da decenni. In Russia si è appena varata la Terza Presidenza di Putin, e in Usa il Presidente in carica si trova di fronte Romney, un politico di lungo corso, ultrasessantenne, figlio di un altro politico anche lui ex governatore del Michigan.

Solo in Grecia e in Italia la scossa è stata più forte per i partiti tradizionali, ma col risultato di una frammentazione che appare già ingestibile in Grecia e che fa intravedere rischi analoghi per l’Italia nel 2013. Le uniche vere «novità» sono state il boom di Alba Dorata in Grecia, un partito che si ispira al nazismo e al fascismo di ottanta anni fa, del Fronte Nazionale di Marine Le Pen in Francia, un partito fondato quarant’anni fa dal padre dell’attuale leader, e del Movimento 5 Stelle in Italia, movimento creato da un comico ultrasessantenne che fu introdotto al grande pubblico da Pippo Baudo 35 anni fa e che da oltre vent’anni si è riconvertito alla critica politica.

Insomma, si può dire che, se sul fronte del movimento e dei media internazionali gli indignados hanno avuto un discreto successo, sul fronte del nuovo ordine economico e politico c’è ancora molta strada da fare. E la sensazione è che la protesta, per quanto giusta, bella, pacifica e innovativa, da sola non basti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10096
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« Risposta #66 inserito:: Maggio 15, 2012, 11:28:53 am »

15/5/2012

Abusi su minori serve un'opera di monitoraggio

IRENE TINAGLI

Episodio increscioso», «caso sconcertante», così vengono tipicamente definiti i casi di abusi su minori, come eventi casuali, imprevedibili e insondabili. Come il caso della tredicenne violentata pochi giorni fa a Milano da un insospettabile imprenditore trentenne. «Che caso strano, chi l’avrebbe mai detto?». E invece casi come questi capitano a decine, che si sommano alle centinaia di altri abusi, di ogni genere, perpetrati su bambini anche piccolissimi. Troppo piccoli per parlare, per far notizia. Piccoli che arrivano negli ospedali pieni di lividi, ematomi, bruciature, spesso quando è troppo tardi. Violenze che maturano lentamente e inesorabilmente nel silenzio più totale, nell’indifferenza più o meno colpevole di vicini, parenti e persino dei genitori stessi. Che non vedono, o fanno finta di non vedere, come la mamma della ragazza disabile stuprata dal fratello per sette lunghi anni in Calabria e venuta alla luce solo un paio di mesi fa.

È difficile quantificare il fenomeno, perché, incredibilmente, nel nostro Paese non esiste un monitoraggio sistematico a livello nazionale. Esistono sporadiche indagini locali, i rapporti curati da Telefono Azzurro ed Eurispes (l’ultimo disponibile è di tre anni fa, e riporta le segnalazioni al numero 114) e pochissimo altro. Sulla pagina web dell’Osservatorio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza istituito nel 1997 si legge solo un post del 2008 in cui si elencano le sue funzioni, idem per il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. L’ultima relazione sulla condizione dell’infanzia dell’Osservatorio disponibile online è del 2008-2009, e, pur toccando molti temi interessanti, non riporta alcun dato o analisi sul fenomeno dei maltrattamenti, violenze e abusi, probabilmente per mancanza o frammentazione delle fonti. Eppure il fenomeno esiste, eccome. I dati riportati in un rapporto Eurispes indicano che nei soli 4 anni tra il 1997 e il 2000 gli abusi su minori denunciati alle autorità sono aumentati del 90%. Due bambini al giorno sono oggetto di abusi sessuali, senza contare tutti gli altri tipi di maltrattamenti e violenza domestica che non sfociano in denunce e al massimo si esauriscono al pronto soccorso come finte cadute e sbadatezze. Dati internazionali più accurati dei nostri mostrano la gravità di un fenomeno che non accenna ad arretrare, ma anche anzi appare in preoccupante aumento, con conseguenze spesso fatali. Negli Stati Uniti, dove esiste un monitoraggio più sistematico, nel 2010 oltre cinque bambini al giorno sono morti a causa di maltrattamenti, quasi il doppio rispetto al 1998. L’80% di questi bambini aveva meno di 4 anni. In Italia il monitoraggio sistematico non c’è, ma chi segue le cronache locali non può non vedere quanto di frequente questi «episodi» capitino anche da noi. Perché non ne parliamo? Perché non affrontiamo questo fenomeno non come casi isolati e imprevedibili ma come un problema sociale da affrontare con seri interventi di prevenzione, informazione e cura? Perché i recenti suicidi legati alla crisi monopolizzano testate e trasmissioni per settimane intere, mobilitano comitati, manifestazioni e fiaccolate, mentre centinaia di bambini picchiati, maltrattati, violentati ogni giorno non fanno muovere un dito?

Forse perché preferiamo parlare di quelle vittime che ci consentono di identificare un nemico comune: il governo, i politici, Equitalia. Mentre la violenza sui minori, che è spesso domestica, ci costringe a guardarci dentro, a scavare dentro la nostra società, le nostre famiglie. Non è forse un caso se gli episodi di violenze e abusi su minori che raggiungono e scuotono di più l’opinione pubblica sono quelle in cui il nemico diventa visibile, ovvero casi in cui sono coinvolti stranieri, parroci o maestri. Perché in quei casi il problema non è più tanto l’abuso che matura in seno alla società o alla famiglia, ma diventa un altro: l’immigrazione, il declino della scuola o della chiesa. Eppure secondo le stime il 60-70% degli abusi avviene in contesti domestici e familiari. E non si creda che avvengano solo in situazioni di grande povertà ed emarginazione, o che riguardino solo genitori vittime di alcol e droga. Non è così. Come raccontano i pediatri che lavorano nei centri specializzati, abusi e violenze avvengono anche in famiglie benestanti, magari di manager e professionisti vittime non dell’alcol ma probabilmente di ritmi stressanti, solitudine, assenza di servizi, impreparazione di fronte a situazioni difficili e ingestibili. Casi insospettatibili che però si riversano indistintamente su minori indifesi. Per queste centinaia di piccole vittime mute non esistono appelli o petizioni, eppure sarebbe della massima urgenza intervenire, perché gli abusi su minori segnano vite intere, condannando non solo i percorsi individuali di chi ne ha sofferto, ma ripercuotendosi sulla società che li circonda, perché implicano problemi e difficoltà che si trascinano nel tempo aumentando la probabilità di ulteriore emarginazione e altri abusi.

Come si può intervenire? Innanzitutto cominciando a fare una vera e seria opera di monitoraggio, come da anni ci sollecita a fare il Comitato Onu per i diritti dell’infanzia. In secondo luogo rafforzando la rete di assistenza, i centri specializzati, che in Italia sono ancora molto pochi. E infine facendo una seria opera di formazione, sensibilizzazione e informazione, soprattutto presso le scuole e le famiglie. Formazione per far riconoscere i segni, per capire quando è il caso di intervenire, e anche per sensibilizzare le famiglie affinché sappiano vedere e rompere il muro d’omertà che troppo spesso le blocca e le chiude, e sappiano chiedere aiuto prima che si arrivi al peggio.

La famiglia è una grande risorsa, una fonte di solidarietà e supporto, ma può anche diventare una trappola in cui si infrangono sogni e speranze di bambini e adolescenti schiacciati dagli abusi e dall’indifferenza, bambini che non avranno mai una possibilità di riscatto. L’Italia più indifesa è proprio lì.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10103
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« Risposta #67 inserito:: Luglio 17, 2012, 05:20:39 pm »

16/7/2012

Partiti congelati da una dittatura generazionale


IRENE TINAGLI

Qualche mese fa, con l’epilogo del governo Berlusconi e la rinuncia di maggioranza e opposizione a nuove elezioni, tutti pensammo che un’epoca si stesse chiudendo. Pensavamo che quella scelta fosse il preludio di una grande fase di riorganizzazione e rinnovamento politico: nuova legge elettorale, nuovi leader, nuovi programmi, nuova fase politica. Qualcuno parlava addirittura di una terza repubblica alle porte. Ma finora non è stato così. E basta vedere come i partiti hanno usato questi mesi e come si stanno muovendo oggi, per capire che non accadrà nemmeno nel tempo che ci resta da qui alla primavera 2013. Berlusconi ha appena annunciato che si ricandiderà come leader del Pdl, mentre il partito democratico sta di nuovo temporeggiando sul tema primarie. Alla vigilia dell’assemblea nazionale del Pd di venerdì in cui il tema è esploso in maniera più virulenta, Franceschini aveva dichiarato che le modalità per identificare il candidato premier sono ancora da decidere e che, se proprio si dovessero fare le primarie, Bersani sarebbe «il» candidato del Pd (come se eventuali altri membri del Pd che decidessero di presentarsi alle primarie fossero i candidati di qualche altro partito).

Non importa se poi Berlusconi cambierà di nuovo idea o se il Pd farà davvero le primarie aperte dentro al partito: quello che colpisce di queste dichiarazioni è il tono e il messaggio che lanciano. E’ il modo con cui questa classe dirigente, che ci accompagna da decenni e che ci ha portato sull’orlo del disastro economico e sociale, si ripresenta di fronte ai cittadini col piglio di chi è il padrone assoluto della vita politica del Paese, e che quindi si riserva il diritto di decidere se, quando e come un rinnovamento sarà concesso.

Una spocchia che denuncia non solo una visione della politica ma anche del rapporto intergenerazionale e dei processi di rinnovamento completamente distorta. Una mentalità perfettamente sintetizzata dal segretario del Pd Pierluigi Bersani quando qualche mese fa, replicando a distanza al sindaco di Firenze Matteo Renzi, dichiarò che il partito era apertissimo ai giovani, purché si mettessero «a servizio». Un’immagine terribile, che evoca i giovani come materiale ad uso e consumo dei dirigenti e delle logiche di partito. Berlusconi, che ama definirsi uomo di fatti più che di parole, non ha fatto dichiarazioni del genere ma ha semplicemente agito seguendo questa stessa logica quando ha indicato Alfano come suo successore, per poi buttarlo in un angolo pochi mesi dopo e riproporsi egli stesso in prima linea. E non danno esempi migliori le alte dirigenze di partiti più piccoli come la Lega Nord o l’IdV.

Al di là delle ripercussioni che questa situazione politica ha sulla nostra immagine e credibilità internazionale, non va sottovalutato l’effetto che esso ha al nostro interno. Atteggiamenti e dichiarazioni di questo genere, infatti, non solo mortificano i cittadini e la loro voglia di cambiamento, ma anche tutte le migliaia di persone giovani e meno giovani che da anni si battono con passione all’interno dei partiti per un loro rinnovamento, per un ricambio di idee e di persone vero e profondo.

Fino a un paio di anni fa si diceva che la colpa era delle giovani leve, che non erano abbastanza critiche, indipendenti, che non avevano il coraggio di sfidare i propri leader, di discutere, di proporre, di lanciare messaggi chiari. Ma negli ultimi anni di giovani indipendenti e determinati abbiamo cominciato a vederne, in entrambi gli schieramenti.
Le elezioni amministrative, per esempio, sono state occasioni in cui alcune di queste figure «rinnovatrici», più o meno giovani, hanno saputo mettersi in gioco ed affermarsi con successo. Ciascuno di questi successi avrebbe dovuto lanciare un segnale chiarissimo ai vertici nazionali dei partiti. E invece niente.

Ma se nemmeno dissentire e proporre, se nemmeno costruirsi un profilo autonomo e di valore nelle amministrazioni locali o nelle professioni serve per legittimarsi nelle dinamiche partitiche, cosa devono fare i giovani e i rinnovatori di ogni età per poter cambiare davvero qualcosa?

E’ davvero difficile dare una risposta a questo interrogativo. Ma di fronte alla situazione attuale sembrerebbe che l’unica alternativa per rompere l’arroganza di chi si crede ancora il padrone del pollaio, sia uscire dal recinto e provare a costruire qualcosa di nuovo con quello che il mondo fuori dai vecchi partiti ha da offrire: nuove esigenze, idee e risorse. Un percorso difficile, che richiederà a questi rinnovatori di smettere i panni dei ribelli rompiscatole e di indossare quelli dei leader a tutto tondo, con i rischi e le responsabilità che cio’ comporta. Un percorso che potrebbe anche non portare i risultati sperati, ma che almeno darà agli italiani quello che oggi non hanno: una scelta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10336
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« Risposta #68 inserito:: Agosto 22, 2012, 10:06:36 pm »

22/8/2012

Decrescita, un'illusione romantica

IRENE TINAGLI

Molti governi europei oggi cercano ricette per stimolare la crescita: ma è davvero necessario tornare a crescere? Secondo alcuni no. Le teorie anti-crescita, che affondano le loro radici nei movimenti anti-industriali dell’Ottocento e che sono state riportate in auge dall’economista francese Serge Latouche, stanno ispirando molte persone ad invocare una sana decrescita. I sostenitori di queste tesi affermano che ripensando il nostro sistema dei consumi sia possibile vivere felici senza che aumenti il Pil.

Quello che dovremmo fare, come ci ricorda anche Guido Ceronetti nel suo articolo su La Stampa di domenica scorsa, è separare i bisogni essenziali da quelli che non lo sono e i beni prodotti per soddisfare bisogni reali da quelli fatti solo per generare profitto, ovvero i «commerci». Se le persone, per esempio, anziché produrre beni inutili volti al commercio e al profitto fine a se stesso, producessero semplicemente quello che serve loro per sostentarsi, sarebbero meno dipendenti dai cicli economici, dai debiti e dall’ansia di accumulare ricchezza. E i Paesi starebbero in piedi senza bisogno di far crescere il Pil a tutti i costi.

Questa prospettiva è molto affascinante e per certi versi romantica, se non fosse che la distinzione tra beni volti alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali non è così netta come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è). A meno di ridurre i beni essenziali al mero consumo alimentare, molti bisogni fondamentali non si soddisfano solo con l’autosussistenza. Se per beni essenziali si considerano infatti anche l’istruzione, le scuole e la sanità pubblica, i vaccini e le medicine, i trasporti e così via, allora tutto cambia.

Perché tutti questi beni e servizi non si mantengono con l’economia di sussistenza, soprattutto in Paesi, come l’Italia, che non hanno materie prime da esportare. Si costruiscono invece con i proventi delle attività commerciali e industriali e le relative entrate fiscali; risorse che consentono, appunto, di finanziare servizi pubblici e di supportare ricerca scientifica, innovazione e progresso. Deve essere chiaro, quindi, che decrescere non significa solo diminuire le ricchezze individuali e fare a meno di qualche accessorio come il cellulare o l’iPad, ma significa allo stesso tempo diminuire le risorse che lo Stato ha a disposizione per tutte le azioni di redistribuzione, assistenza e investimento per il futuro.

E’ chiaro: la decrescita non danneggia tutti nello stesso modo e quindi non spaventa tutti nello stesso modo. La scarsa crescita non è mai stata un gran danno per l’aristocrazia terriera o quelle classi che possono contare su rendite fisse e sostituire i servizi pubblici con servizi privati, ma è un disastro per gli operai, i commercianti e la classe media, che più delle altre hanno bisogno di servizi pubblici. Certo: possiamo dire a tutte queste persone che tornino a coltivare la terra e a badare da soli ai propri figli, insegnandogli a leggere a casa e curando le loro malattie con le erbe del giardino. In fondo era così fino a non molto tempo fa, prima dell’industrializzazione e delle rivoluzioni tecnologiche dell’ultimo secolo e mezzo. Ma erano altri tempi, difficilmente invidiabili: tempi in cui davvero c’era poco altro a cui ambire al di là della sussistenza, in cui il bisogno di crescere, studiare e viaggiare era privilegio di pochi, e in cui i progressi della medicina e della scienza erano scarsi e lenti.

Basta pensare che l’aspettativa di vita è rimasta quasi invariata dai tempi dei Romani fino agli inizi del Novecento. E’ stato con l’aumento dei commerci, dei grandi progressi economici, industriali e scientifici dell’ultimo secolo, che si è più che raddoppiata. Anche la storia recente ci offre numerosi esempi del ruolo della crescita. E’ stato grazie all’apertura e alla crescita economica che la Cina ha potuto, nei soli vent’anni tra il 1981 e il 2001, dimezzare la povertà nel Paese. E’ stato con la crescita economica che il Brasile si è potuto permettere programmi sociali che hanno strappato all’emarginazione milioni di famiglie. E persino nel miracolo cubano degli Anni Sessanta l’alfabetizzazione e le infrastrutture sanitarie furono sostenute da alti tassi di crescita. Una crescita fittizia, pompata dagli aiuti della Russia, e che infatti crollò miseramente alla fine degli Anni Ottanta. Tra il 1989 e il 1993 il Pil subì una contrazione del 35%. Ma la decrescita non fu affatto felice. La crisi di fame e povertà che colpì la popolazione cubana fu atroce. Solo con l’apertura al turismo, ai capitali esteri e ad alcune forme di commercio e di piccole iniziative imprenditoriali (e con una forte repressione del dissenso che nel frattempo andava aumentando), Cuba è riuscita a resistere finché non è arrivata la cooperazione con il Venezuela di Chavez e poi con la Cina.

Perché pure i Paesi d’ispirazione socialista, forse anche più degli altri, si sono accorti dell’importanza della crescita economica. Come disse Deng Xiaoping: «La povertà non è socialismo». Quello su cui molti Paesi dovrebbero riflettere oggi, e la vera sfida che hanno davanti, non è tanto come eliminare o ridurre la crescita, ma su quali basi costruirla e con quali criteri utilizzarla e ridistribuirla. Perché non tutte le crescite sono egualmente sostenibili nel tempo, e non tutte sono gestite e distribuite nello stesso modo. Questo è il vero nodo attorno al quale si gioca il nostro futuro. Pagine...

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« Risposta #69 inserito:: Settembre 06, 2012, 04:16:02 pm »

5/9/2012

Dalla seconda Italia una domanda di fiducia

IRENE TINAGLI

Piccoli grandi focolai di protesta che con la ripresa autunnale cominciano a farsi sentire ci dicono che siamo sempre più di fronte a due Italie distinte.

C’è l’Italia della ritrovata autorevolezza internazionale, dei colloqui con Obama, Merkel, e della fiducia riconquistata del Fondo Monetario Internazionale o della Bce.

Quell’Italia, insomma, che sta cercando di affrontare temi spinosi come il debito pubblico, lo spread, e la fiducia dei mercati.

Ma c’è anche l’Italia delle migliaia di ragazzi che si stanno cimentando con i test universitari senza capire se e a cosa serviranno in futuro, di altrettante migliaia che la laurea l’hanno presa ma che stanno ancora aspettando un concorso o una qualsiasi altra opportunità per progettare qualcosa che vada oltre i tre mesi. Per non parlare del milione e mezzo di giovani che hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi, o di quelli che il lavoro ancora ce l’hanno, ma le cui aziende appaiono intrappolate in un tunnel senza via d’uscita.

Per questa seconda Italia parole come riduzione dello spread e del debito o spending review non bastano a recuperare fiducia e speranza nel futuro. Per queste persone le aperture di credito sul fronte internazionale sbiadiscono di fronte alle chiusure dei negozi che vedono ogni giorno, alla riduzione degli orari e delle risorse per asili, scuole e università, o alla crisi delle stesse aziende in cui lavorano. L’economia sempre più risicata del quotidiano sta sfibrando anche i cittadini più fiduciosi e pazienti, soprattutto tra le fasce più giovani, perché fa affievolire la loro fiducia nel futuro, la capacità di immaginare cosa potranno fare e costruire di qui a due, tre, cinque anni.

Progetti di vita che sfumano non solo per le condizioni individuali, ma anche perché c’è la sensazione che a mancare sia un progetto veramente nuovo di Paese, che non può reggersi solo su obbligazioni e tassi d’interesse, ma su scuola, ricerca, servizi, cultura. Un Paese che ambisce a migliorarsi ha bisogno di farlo su tutti i fronti: economico, sociale, culturale, perché solo così è in grado di coinvolgere e motivare tutti i cittadini lungo il percorso di cambiamento e crescita.

E invece per il momento la svolta sociale e culturale del Paese, il ridisegno profondo del suo futuro, stentano a vedersi. Non perché in questo governo non ci siano personalità in grado di delineare le linee guida e le azioni necessarie per un tale ridisegno, anzi. Ma perché alla fine l’orizzonte temporale e la forza politica di questo governo sono troppo limitati per poter dare solidità e sbocchi a tali buone intenzioni.

E’ evidente ormai che questo governo riesce a compattare i partiti che lo sostengono solo sulle emergenze macroeconomiche ed internazionali più impellenti, quelle che i partiti non erano e non sono in grado di affrontare da soli. Ma su tutto il resto – scuola, università, merito, accesso al mondo lavoro, liberalizzazione delle professioni e di altri settori dell’economia - ogni tentativo del governo ha subito il fuoco amico e nemico di quasi tutti i partiti politici, lasciando sul campo brandelli di annunci e retromarce che altro non fanno che aumentare la confusione dei cittadini.

Ma quello che forse scoraggia più di ogni altra cosa non è tanto la consapevolezza dei limiti dell’attuale governo, da cui in fondo molti non si aspettavano più di una gestione dell’emergenza nei pochi mesi disponibili, ma la totale assenza di un progetto organico ed innovativo nelle proposte dei partiti politici in campo.

Mancano pochi mesi alle elezioni e tutto quello che il dibattito politico è stato in grado di offrirci sono insulti, litigi e schermaglie, lotte più o meno velate per poltrone, leadership e candidature. Non una traccia di piattaforma economica e sociale, non un progetto credibile, coerente e realizzabile che possa ridare speranza soprattutto alle generazioni più giovani. Solo qualche rivendicazione per assecondare le esplosioni di disagio contingente, puntando il dito contro questo o quel nemico, invocando improbabili aiuti e sussidi statali - gli stessi che ci hanno portato alla situazione attuale. Ma nessun partito che abbia ammesso gli errori passati ed elaborato proposte nuove. Questa situazione non fa che aumentare la distanza tra le due Italie, ed è uno scollamento molto pericoloso perché rischia di sminuire e far rimettere in discussione anche i risultati ottenuti in questi mesi sul fronte macroeconomico ed internazionale. E’ quindi urgente riallineare al più presto il programma di risanamento economico con un progetto di profondo rinnovamento sociale, culturale e politico che torni a far sentire i cittadini protagonisti e non vittime impotenti di un passaggio difficile ma cruciale per la crescita del Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10491
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« Risposta #70 inserito:: Novembre 15, 2012, 04:43:59 pm »

Editoriali
15/11/2012

Le nuove tecnologie disegnano un futuro migliore

Irene Tinagli


Siamo ormai abituati a pensare alle nostre aziende che portano le loro fabbriche in Asia, rassegnandoci all’idea che la nostra manifattura sia destinata a morire. Ma che significa se il più grande produttore asiatico di prodotti elettronici comincia ad aprire stabilimenti in Occidente? E’ questo quello che sta accadendo. Foxconn, l’azienda cinese con base a Taiwan che per conto di numerose aziende «occidentali» produce milioni di prodotti elettronici venduti in tutto il mondo, già da qualche tempo sta rivolgendo il suo sguardo ad Occidente. Ha già stabilimenti in Messico, in Brasile, e persino in Europa, in Ungheria, Slovacchia e nella Repubblica Ceca. Ma qualche giorno fa ha fatto scalpore la notizia, non ancora ufficiale, che Foxconn stia valutando alcune città americane per la creazione di un nuovo stabilimento produttivo negli Stati Uniti. E questo ha destato sorpresa, visto che gli Stati Uniti sono pur sempre uno dei Paesi con il reddito procapite e con i salari medi tra i più alti del mondo. I primi commentatori hanno ipotizzato che questo potrebbe essere un modo per essere più vicini ad Apple, che con la produzione dell’iPhone è diventato uno dei loro clienti più rilevanti, riducendo costi di trasporto e velocizzando il ciclo degli ordini, oppure un modo per aggirare le polemiche sul lavoro minorile che ha spinto Apple ad avviare ispezioni nelle fabbriche asiatiche di Foxconn. Eppure dalle prime indiscrezioni pare che lo stabilimento americano della Foxconn non produrrà nessun iPhone. Troppo complessa la loro produzione per ricostruire tutta la catena di assemblaggio in nuovi stabilimenti. Sembra invece che si tratti della produzione di tv a schermo piatto, in stabilimenti altamente automatizzati. Quindi i motivi di questo interesse verso gli Stati Uniti potrebbero essere legati a ciò che numerose analisi e commentatori americani sostengono gia da mesi: l’accelerazione della ricerca tecnologica degli ultimi anni, che ha portato sviluppi straordinari nella robotica, nell’automazione e nell’unione tra scienze computazionali e ingegneristiche, tra software e meccanica, tra informazioni digitali e prodotti materiali, che potrebbe portare a produzioni più efficienti e altamente innovative. 

 

Un esempio degli sviluppi di questa ricerca e delle sue implicazioni per la manifattura sono le cosiddette stampanti tridimensionali («3d»), macchine che ricevono «istruzioni» direttamente da un computer sulla base di un modello digitale disegnato dal progettista e che costruiscono l’oggetto disegnato, dall’inizio alla fine, senza passaggi di mano o assemblaggi, senza interferenza umana, semplicemente modellando e “stratificando” il materiale con cui viene costruito l’oggetto. Si chiama «manifattura additiva», e per la verità non è un’invenzione di adesso. Macchine di questo genere esistono da oltre due decenni, ma è solo negli ultimi anni che sono riuscite a raggiungere dimensioni, semplicità di funzionamento e costi accessibili a chiunque. Ed è questo il progresso che sta alimentando tanto entusiasmo ed ottimismo negli analisti, sia per il potenziale impatto che questa evoluzione può avere sulla produzione artigianale e sui tassi di imprenditorialità e di innovazione (chiunque potrà diventare un produttore, con costi fissi quasi nulli), sia, in prospettiva futura, sull’organizzazione di tutta la produzione industriale su scala globale. 

 

L’Economist pochi mesi fa l’ha definita la terza rivoluzione industriale, dedicandogli un intero numero speciale. E moltissime altre riviste, da Forbes a Businessweek, ormai da oltre un anno dedicano articoli su articoli al fenomeno delle stampanti «3d», non solo ai suoi aspetti «tecnici», ma, soprattutto, alla sua più affascinante possibile implicazione economica: la rinascita e il ritorno della manifattura industrializzata negli Stati Uniti. Infatti, grazie al forte abbattimento di costi collegati a queste nuove tecnologie, molte produzioni potrebbero tornare nel Paese che per decenni è stato leader indiscusso della manifattura industrializzata e che oggi ha un chiaro vantaggio competitivo sul fronte della manifattura additiva e sulle nuove frontiere dell’automazione. Ma il potenziale impatto di queste tecnologie e la possibilità di trarne vantaggio non riguarda solo gli Stati Uniti, ma molti altri Paesi, inclusi quelli emergenti, come il Brasile - dove nella primavera scorsa ha aperto la prima catena franchising di stampanti tridimensionali - e quelli in cui la manifattura ha vissuto in anni recenti le maggiori difficoltà. L’Italia per esempio potrebbe trarre grandi vantaggi da queste nuove tecnologie, mettendo a frutto alcuni dei suoi tradizionali punti forti: il design, la capacità di progettazione, la piccola imprenditorialità diffusa ed artigiana. Eppure, nonostante l’elevato potenziale di rinnovamento che queste nuove tecnologie potrebbero avere per il nostro sistema produttivo, sono ancora poche le persone che, nel nostro Paese, vi stanno prestando la dovuta attenzione. I nostri dibattiti pubblici e politici sono ancora monopolizzati dalle discussioni su vecchie modalità produttive, sulle catene di montaggio, le miniere, gli altiforni. Argomenti più che legittimi, ma che impediscono di vedere come certe nuove tecnologie potrebbero aprire un nuovo futuro per il Paese e per i suoi lavoratori e ci condannano a guardare sempre al passato. Dovremmo imparare a scrollarci di dosso questo senso di smarrimento, impotenza e ineluttabilità che ci paralizza quando pensiamo al domani, e capire che il futuro, alla fine, è di chi comincia a costruirlo oggi.

da - http://lastampa.it/2012/11/15/cultura/opinioni/editoriali/le-nuove-tecnologie-disegnano-un-futuro-migliore-XqgjZ9AA8nL33FIyhNbxbI/pagina.html
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