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Autore Discussione: Paul KRUGMAN. Nobel per l'economia  (Letto 7050 volte)
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« inserito:: Ottobre 13, 2008, 04:57:53 pm »

13/10/2008 (13:6) - IL RICONOSCIMENTO

Paul Krugman Nobel per l'economia
 
L’accademia reale svedese incorona il saggista americano nemico di Bush


STOCCOLMA


Il premio Nobel per l’economia a Krugman, annunciato dall’accademia Reale delle Scienze svedese, è stato attribuito per «i lavori sugli scambi commerciali».

Krugman, americano, 55 anni docente di Economia e affari internazionali all’Università di Princeton, è noto nel mondo accademico per i suoi studi riguardanti la teoria del commercio. Ed in particolare per i modelli in base ai quali i paesi potrebbero guadagnare dall’imposizione di barriere protezionistiche. Noto anche per i suoi libri di testo sulle crisi valutarie e sull’economia internazionale, Krugman è stato critico della New Economy degli anni novanta del XX secolo, dei regimi di cambio fisso dei paesi insulari asiatici e della Thailandia prima della crisi del 1997, dell’affidamento ai governi per difendere i cambi fissi sul quale si sono basati investitori (quali i gestori di capitali a lungo termine) prima della crisi debitoria russa del 1998. Il suo testo Economia internazionale: Teoria e Politica (scritto insieme a Maurice Obstbeld) è un libro di testo molto diffuso riguardante, appunto, l’economia internazionale. Nel 1991 ha ottenuto il prestigioso riconoscimento denominato John Bates Clark Medal dall’Associazione americana per l’economia. La filosofia economica di Krugman può essere descritta come neo-keynesiana.

Pochi mesi dopo gli attentati contro New York e Washington dell’undici settembre 2001, nei giorni in cui falliva il gigante americano dell’energia Enron, prima delle vittime della finanza creativa operata dai suoi dirigenti, Paul Krugman aveva previsto in un editoriale pubblicato sul New York Times che il secondo evento sarebbe stato più determinante del primo, in termini di conseguenze sulla storia degli Stati Uniti. Una previsione che scatenò non poche polemiche allora e che per alcuni anni fu rinfacciata all’economista come totalmente errata ma che ora, in numerosi blog, si sollecita l’opinione pubblica a rileggere, come probabilmente deve aver fatto l’Accademia reale svedese. «Devo confessare di essere rimasto sorpreso e anche un poco scioccato per la velocità con cui il ricordo degli scandali come il collasso di Enron o Worldcom sono scomparsi dall’attenzione del pubblico», aveva dichiarato Krugman alla fine del 2002.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 14, 2008, 10:16:23 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 13, 2008, 05:02:57 pm »

Repubblica — 23 settembre 2008   sezione: CULTURA

Se la finanza è spazzatura


PAUL KRUGMAN

Gli scettici hanno ribattezzato il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari prospettato da Henry Paulson e destinato a sanare il sistema finanziario statunitense "cash for trash" (liquidi in cambio di spazzatura). Altri definiscono l' intervento proposto "Autorizzazione all' uso della forza finanziaria", sulla falsariga dell' "Autorizzazione all' uso della forza militare", il famigerato provvedimento che ha dato il via libera all' Amministrazione Bush per l' invasione dell' Iraq. C' è qualcosa di esatto in questa allusione. Tutti concordano sul fatto che è necessario fare qualcosa di incisivo, ma Paulson pretende di ottenere poteri straordinari per sé - e per il suo successore - per utilizzare il denaro dei contribuenti per un progetto che, per come la vedo io, non ha senso. Cerchiamo perciò di riflettere sulla situazione per conto nostro. Vi propongo una riflessione personale in quattro fasi sull' attuale crisi finanziaria: 1. Lo scoppio della bolla immobiliare ha portato a un' impennata di insolvenze e pignoramenti di beni ipotecati che a sua volta ha comportato un repentino crollo dei titoli garantiti da prestiti ipotecari, asset il cui valore in definitiva dipende interamente dai pagamenti dei mutui; 2. Queste perdite finanziarie hanno lasciato molti istituti finanziari a corto di capitale, inadeguato a far fronte ai loro debiti. Questa circostanza è particolarmente grave perché negli anni della bolla moltissime persone hanno contratto debiti; 3. Poiché gli istituti finanziari si sono ritrovati con capitali troppo esigui rispetto al loro indebitamento, non sono stati capaci o disposti a fornire il credito di cui l' economia ha bisogno; 4. Gli istituti finanziari hanno cercato di onorare in contanti il loro debito vendendo asset vari, tra i quali i famosi titoli garantiti da prestiti ipotecari, ma ciò conduce al ribasso dei prezzi degli asset e peggiora la loro posizione finanziaria. Questo circolo vizioso è denominato da alcuni "il paradosso del deleveraging". Il piano Paulson prospetta che il governo federale rilevi un corrispettivo di asset problematici pari a un valore di 700 miliardi di dollari, in buona maggioranza titoli garantiti da prestiti ipotecari. In che modo ciò può risolvere la crisi? Beh, potrebbe - e dico solo potrebbe - spezzare il circolo vizioso del deleveraging, il quarto punto del mio sintetico schema. Ma anche questo non è così scontato: i prezzi di molti asset, non soltanto quelli che il Tesoro si ripromette di acquisire, sono sotto pressione. Anche se il circolo vizioso è limitato, il sistema finanziario sarà in ogni caso impedito dalla ristrettezza di capitali. Per meglio dire, sarà ostacolato da capitali inadeguati se il governo federale non pagherà cifre esorbitanti per gli asset che è disposto a rilevare, distribuendo così agli istituti finanziari - e ai loro azionisti e dirigenti - un' inattesa quanto provvida manna dal cielo a discapito dei contribuenti. Ho già fatto presente che questo piano non è affatto di mio gradimento? La logica della crisi parrebbe suggerire un intervento in coincidenza della seconda fase, non della quarta: il sistema finanziario necessita di più capitali. Se il governo fornirà capitali agli istituti finanziari, dovrebbe assicurare ciò a cui hanno diritto coloro che forniranno i capitali - una partecipazione di proprietà, per esempio, così che tutti gli utili acquisiti se il piano di salvataggio dovesse funzionare in primo luogo non finiranno nelle tasche di coloro che hanno combinato questo grande pasticcio. Questo è quanto si è fatto con la crisi dei risparmi e dei prestiti: la Fed assunse il controllo delle banche che andavano male, non soltanto dei loro asset che andavano male. Lo si è fatto anche nel caso di Fannie e Freddie. (A proposito: questa operazione di salvataggio ha conseguito ciò che si riprometteva di conseguire. Da quando è subentrata la Fed i tassi di interesse sui mutui sono scesi parecchio). Si aggiunga a ciò il fatto che Paulson pretende altresì di avere un' autorità assoluta, oltre all' immunità in caso di controlli effettuati "da qualsiasi tribunale o agenzia amministrativa", e tutto ciò mi pare contribuisca a farne una proposta inaccettabile. Sono consapevole che il Congresso è sottoposto a enormi pressioni per approvare nei prossimi giorni il piano di Paulson, aggiungendo di suo al massimo qualche modesto ritocco che lo renda nel complesso un po' meno pregiudizievole. In sostanza, dopo aver trascorso un anno e mezzo a rassicurare tutti che tutto era sotto controllo, adesso l' Amministrazione Bush sostiene che il cielo ci sta cascando addosso e che per salvare il mondo dobbiamo fare esattamente quello che ci dice adesso. In questo preciso, precisissimo, istante. Vorrei invece esortare il Congresso a prendersi una piccola pausa. A fare un respiro profondo e a cimentarsi in una rielaborazione ponderata della struttura dell' intera operazione, trasformandola in un progetto in grado di occuparsi seriamente del problema reale. Il Congresso non si lasci dunque indurre ad approvare questo progetto in tutta fretta: se il piano dovesse essere approvato nella sua forma attuale, come pure in una ad essa alquanto simile, in un futuro non troppo lontano potremmo ritrovarci tutti a rammaricarcene profondamente. © New York Times 2008 (Traduzione di Anna Bissanti)

Joseph E. Stiglitz La globalizzazione e i suoi oppositori Einaudi 2006 I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell' economia Einaudi 2005 Bernard Rosier Le teorie delle crisi economiche Bonanno 2003 Albert O. Hirschman Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato Bompiani 2002 Lorenzo Bini Smaghi Chi ci salva dalla prossima crisi finanziaria? Il Mulino 2000 Edward Chancellor Un mondo di bolle Carocci 2000 Karl Polanyi La grande trasformazione Einaudi 2000 Annie Goldmann Gli anni ruggenti (1919-1929) Giunti 1994 Charles P. Kindleberger Storia delle crisi finanziarie Laterza 1991 -




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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 14, 2008, 08:36:55 am »

Crisi finanziaria: Nobel Krugman, "Crisi terrificante, ma l'Europa ha saputo reagire"


13 ott 17:28 Economia



PRINCETON - L'economista americano Paul Krugman, neo vincitore del premio Nobel per l'economia, si e' detto "terrorizzato" dalla crisi finanziaria in atto che gli ricorda la Grande Depressione del '29.

Lo riferisce la France Press. D'altro canto il professore sostiene di essere "molto contento" del modo in cui l'Europa ha risposto alla crisi con le misure annunciate dopo il vertice dell'Eurogruppo. (Agr)

da corriere.it

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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 14, 2008, 10:17:40 am »

ECONOMIA    L'INTERVENTO

Gli errori di Washington

di PAUL KRUGMAN



IL PRIMO ministro britannico Gordon Brown ha salvato il sistema finanziario mondiale?
La domanda forse è prematura: non conosciamo le modalità precise di intervento del piano di salvataggio in Europa né di quello negli Stati Uniti, e non abbiamo nemmeno la più pallida idea se funzioneranno davvero. Sappiamo però che Brown e Alistair Darling, il Cancelliere dello Scacchiere, hanno delineato il modello di intervento di salvataggio mondiale e le altre nazioni ricche lo stanno adottando.

E' una svolta a dir poco inattesa. Il governo britannico dopotutto è un partner di recente acquisizione per ciò che concerne gli affari economici mondiali. Londra è sì uno dei centri finanziari più importanti al mondo, ma l'economia britannica è di gran lunga più piccola di quella statunitense, e la Banca di Inghilterra non ha nemmeno lontanamente l'influenza della Fed o della Bce.

Non ci si aspetterebbe di vedere la Gran Bretagna assumere un ruolo leader. Il governo Brown ha mostrato di aver riflettuto con chiarezza e di voler agire sollecitamente in base alle conclusioni raggiunte. Nessun altro Paese, tantomeno il nostro, ha saputo abbinare chiarezza e determinazione con analogo successo.

Come fare per attenuare la crisi? Gli aiuti ai proprietari di case, per quanto auspicabili, non servono a precludere forti perdite per i cattivi prestiti, e in ogni caso avranno effetto troppo lentamente per risultare utili nell'attuale panico. L'intervento più naturale è affrontare il problema dell'inadeguatezza di capitali facendo sì che i governi forniscano agli istituti più capitali in cambio di una quota di proprietà.

Questa temporanea seminazionalizzazione è la soluzione alla crisi caldeggiata da molti economisti. Secondo alcune fonti questa era la formula segretamente preferita da Bernanke, presidente della Fed. Eppure, quando Paulson ha annunciato il programma di salvataggio ha respinto questo ovvio iter dichiarando: "Ciò è quanto si fa quando si fallisce".

Egli al contrario ha esortato il governo ad acquistare pessimi titoli garantiti da prestiti ipotecari, basandosi sulla teoria che... beh, non è mai stato molto chiaro a quale teoria facesse riferimento. Nel frattempo il governo britannico è andato direttamente al nocciolo del problema e lo ha affrontato con strabiliante velocità.

Mercoledì i collaboratori di Brown hanno annunciato un piano mirante a iniettare ingenti capitali nelle banche britanniche, sostenuto dalle garanzie sul debito bancario, che dovrebbe consentire alle banche di ripristinare il sistema di prestito reciproco di denaro, parte critica del meccanismo finanziario. A distanza di cinque giorni dall'annuncio arriva il primo grosso impegno di finanziamento, e le più importanti economie d'Europa si dicono pronte a seguire l'esempio della Gran Bretagna iniettando centinaia di miliardi nelle banche e a garantirne i debiti.

Guarda un po', dopo aver sprecato parecchie settimane preziose, anche Paulson adesso ha cambiato idea: sta meditando di comperare partecipazioni azionarie invece di nocivi titoli garantiti da prestiti ipotecari, anche se risulta che si stia muovendo con una lentezza esasperante.

Questa politica economica pare ispirata da una chiara visione di ciò che occorre fare. Il che ci porta inevitabilmente a formulare la seguente domanda: perché mai questa chiara visione è dovuta arrivare da Londra, invece che da Washington? È difficile eludere la sensazione che la reazione iniziale di Paulson sia stata distorta dall'ideologia. Non dimentichiamo che Paulson lavora per un'Amministrazione la cui filosofia di governo potrebbe essere sintetizzata in questi termini: "Il privato è bene, il pubblico è male".

Da tutto il ramo esecutivo sono stati allontanati i professionisti esperti e competenti e può anche darsi che al Tesoro non sia rimasto nessuno con la levatura e il background necessari a dire a Paulson che ciò che stava facendo non aveva senso. Per buona sorte dell'economia mondiale, Gordon Brown e il suo staff hanno preso una decisione sensata e opportuna. Forse ci hanno indicato come uscire da questa crisi.


Traduzione di Anna Bissanti
Copyright The New York Times
(14 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 16, 2008, 09:08:37 am »

16/10/2008
 
Krugman nobel giornalista
 
ALBERTO BISIN
 
Paul Krugman ha vinto il Nobel per l’economia. I fisici, i chimici, gli scienziati non amano che si chiami quello per l’economia «premio Nobel». Per rimarcare la differenza tra l’economia e le scienze preferiscono lo si chiami per esteso: «premio della Banca di Svezia alle scienze economiche in onore di Alfred Nobel». Molti infatti conoscono Krugman per i libri divulgativi e gli editoriali sul New York Times e si conforteranno nell’opinione che il passo tra un economista e un giornalista economico sia assai breve. In realtà Krugman, prima di passare al giornalismo, è stato per anni alla frontiera della ricerca economica. È noto per l’intelligenza condita da una certa dose di arroganza e per la semplicità e l’eleganza dei suoi modelli matematici. Ha contribuito in modo determinante a vari filoni di ricerca economica. Ciononostante anch’io faccio fatica a non vedere, nel Nobel di quest’anno, una componente dovuta al successo dell’attività pubblicistica di Krugman. Proverò a spiegarmi.

La motivazione ufficiale del Nobel indica la sua analisi teorica delle determinanti dei «flussi del commercio internazionale» e le sue ricerche sulla «localizzazione dell’attività economica», cioè ad esempio sulle determinanti delle concentrazioni urbane. I contributi di Krugman allo studio del commercio internazionale hanno dato origine a quella che gli economisti chiamano «nuova teoria del commercio internazionale» (new trade theory), un insieme di modelli che spiegano gli scambi internazionali in parte attraverso un nuovo fattore: le economie di scala, cioè costi unitari decrescenti al crescere della quantità prodotta. Questa «nuova teoria» permette di meglio comprendere il commercio tra imprese dello stesso settore industriale (ad esempio, magliette di cotone per vestiti di sartoria) e il commercio di prodotti intermedi (come componenti per macchine industriali). Per quanto le ricerche empiriche più recenti non sembrino supportare l’importanza delle economie di scala nella spiegazione dei flussi degli scambi, i modelli utilizzati e sviluppati dalla «nuova teoria» hanno trovato applicazione in altre aree dell’analisi economica. Krugman stesso ha utilizzato questi modelli per studiare la localizzazione dell’attività produttiva tra città e all’interno delle città. Elhanan Helpman, che con Krugman è uno dei fondatori della «nuova teoria del commercio internazionale», li ha invece applicati allo studio della teoria della crescita.

Il giudizio degli accademici sulla «nuova teoria del commercio internazionale» naturalmente varia. Pochi dubitano però che meriti il Nobel, almeno per il notevole impatto sulla ricerca successiva. Nessun bisogno di fare ricorso all’enorme successo dei libri divulgativi di Krugman o dei suoi editoriali. La questione piuttosto è: perché a Krugman da solo? Negli ultimi anni il Nobel per l’economia è stato attribuito a più persone, unendo contributi diversi e distanti anche temporalmente (l’anno scorso sono stati premiati Leonid Hurwicz per i contributi a partire dagli Anni 60, ed Eric Maskin e Roger Myerson per ricerche molto più recenti). In particolare, il contributo di Helpman alla «nuova teoria del commercio internazionale» è paragonabile a quello di Krugman (e il libro che sistematizza la teoria, a cui è dovuto molto del suo successo, è scritto da entrambi). Infine, la sua applicazione alla teoria della crescita di Helpman è probabilmente di rilevanza e impatto maggiore di quella di Krugman alla geografia economica.

Ed è qui che intervengono, a mio parere, la fama planetaria di Krugman come divulgatore e opinionista, la sua posizione di critico duro dell’amministrazione repubblicana, il suo successo nel prevedere il crollo dei valori immobiliari che ha causato in parte la crisi finanziaria di questi giorni, nello spiegare l’attribuzione del Nobel di quest’anno. Senza di questo è difficile comprendere l’esclusione di Helpman (e forse anche di Avinash Dixit, senza i cui modelli di concorrenza monopolistica la «nuova teoria» non esisterebbe). Gli accademici tendono a non apprezzare chi «lascia» la professione per qualcosa di più lucrativo in termini di danaro o fama. Si può chiamare invidia o intregrità, a seconda dei punti di vista. Il giudizio di molti economisti su Paul Krugman certamente risente di questo. A me spiace per Helpman e per quello che gli scienziati veri diranno, ancora a più gran voce, di noi economisti. Lascerei volentieri al premio Nobel per la pace il monopolio delle scelte motivate dall’attualità e dalla politica.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 21, 2010, 07:42:53 am »

IL COMMENTO

I predatori in mocassini

di PAUL KRUGMAN

Lo scorso ottobre ho visto una vignetta di Mike Peters raffigurante uno studente al quale l'insegnante chiede di creare una frase usando "sacks", terza persona singolare del verbo "sack" (letteralmente insaccare), utilizzato di norma in caso di saccheggi e razzie. E lo studente risponde: "Goldman Sachs".

Ed ecco che la settimana scorsa la Sec (Securities and Exchange Commission) ha accusato i dipendenti di Goldman che amano indossare mocassini di Gucci di dedicarsi a quello che potremmo definirsi un saccheggio da colletti bianchi.

Utilizzo di proposito il termine "saccheggio" nel senso indicato dagli economisti George Akerlof e Paul Romer in un saggio del 1993 intitolato "Looting: The Economic Underworld of Bankruptcy for Profit". In quel saggio, scritto durante i postumi della crisi dei risparmi e dei prestiti degli anni di Reagan, si sostiene che molte delle perdite subite nella crisi erano l'esito di frodi bell'e buone e attuate di proposito.

Possiamo affermare la stessa cosa dell'attuale crisi finanziaria? Buona parte del dibattito sul ruolo che eventuali frodi hanno avuto nella crisi si è concentrata su due forme di inganno: i prestiti predatori e una rappresentazione edulcorata e scorretta dei rischi a essi associati. Chiaramente, alcuni soggetti che si sono avvalsi di mutui e prestiti sono stati abbagliati a sottoscriverne di complicati e onerosi, senza essere messi in grado di comprenderli, processo facilitato dai regolatori federali dell'Amministrazione Bush che hanno clamorosamente fallito sia nel porre freno ai prestiti illeciti sia nell'evitare che gli stati varassero iniziative per conto proprio. In buona parte, inoltre, gli erogatori di subprime non si sono tenuti stretti i mutui o i prestiti fatti, ma li hanno rivenduti agli investitori, in alcuni casi nella piena consapevolezza che le probabilità di incorrere in futuro in onerose perdite sarebbero state molto superiori rispetto a quanto si rendessero conto i sottoscrittori del prestito (o coloro che comperavano i titoli derivanti da operazioni di cartolarizzazione dei mutui).

Adesso però assistiamo ad accuse precise per una terza forma di frode. Sapevamo da qualche tempo che Goldman Sachs e altri istituti commerciavano titoli sostenuti da ipoteche speculando su di essi, cercando di trarne profitto e scommettendo che quei titoli avrebbero perso valore. Pur essendo giustamente riprovevole, tale prassi tuttavia non era illegale. Adesso però la Sec sta accusando Goldman di aver creato e commercializzato titoli concepiti appositamente per svalutarsi, così che i loro clienti più importanti potessero guadagnarci sopra. Ed è questo che io chiamerei predatorio.

Oltretutto, Goldman non è l'unico istituto finanziario ad essere accusato di truffa. Secondo ProPublica - il sito Web di giornalismo investigativo insignito del Pulitzer - numerose banche hanno contribuito a studiare a tavolino investimenti destinati a fallire per conto dell'hedge fund Magnetar, che ci stava speculando scommettendoci sopra.

Quale ruolo pertanto riveste questa frode nella crisi finanziaria? A provocare la crisi non sono stati né il prestito predatorio né la vendita di mutui ipotecari con falsi pretesti. Di sicuro, in ogni caso, l'hanno aggravata, sia contribuendo a gonfiare la bolla immobiliare, sia creando un bel po' di asset che era scontato che si sarebbero trasformati in asset tossici non appena scoppiata la bolla.

Per quanto riguarda la presunta creazione di investimenti destinati in partenza a fallire, questi possono aver ingigantito le perdite per le banche che erano già sul versante dei perdenti, acuendo la crisi del settore bancario che ha trasformato lo scoppio della bolla immobiliare in una catastrofe che ha travolto l'economia intera.
La domanda più ovvia da porsi è se la riforma finanziaria del tipo di quella allo studio oggi avrebbe potuto evitare alcune o tutte le frodi che paiono essersi moltiplicate negli ultimi decenni. E la risposta è sì.
Infatti, da una parte un ufficio indipendente per la tutela dei consumatori avrebbe potuto contribuire a frenare il prestito predatorio. Un'altra clausola, prevista nel disegno di legge presentato al Senato, in funzione della quale i prestatori potrebbero trattenere il 5 per cento del valore dei prestiti erogati, avrebbe sicuramente limitato considerevolmente la prassi consistente nel confezionare prestiti disonesti da rivendere tempestivamente a investitori poco cauti.

Meno chiaro è capire se la riforma dei derivati - che impone più che altro di vendere e comperare apertamente e in modo trasparente altri strumenti finanziari quali i credit default swap, per esempio le azioni e le obbligazioni - avrebbe evitato i presunti abusi commessi da Goldman (quantunque probabilmente avrebbe precluso alla compagnia di assicurazione Aig di perdere la ragione e di esigere un salvataggio federale in extremis). Ciò che possiamo dire è che la bozza finale della riforma finanziaria avrebbe fatto bene a prevedere clausole e formule in grado di scongiurare questo tipo di saccheggio, in particolare fermando la creazione di "Cdo sintetici", sorta di cocktail di credit default swap che permettono agli investitori di scommettere grosse poste su asset che nemmeno possiedono.

La lezione più importante che si dovrebbe trarre dalle accuse contro Goldman, in ogni caso, non riguarda la bozza finale della riforma, bensì la necessità urgente di cambiare Wall Street. A dar retta ai lobbisti dell'industria finanziaria e ai politici repubblicani che bazzicano con loro si sarebbe indotti a credere che tutto andrà benone fintanto che il governo federale promette di non effettuare più salvataggi in extremis. Ma questo è assolutamente sbagliato e non soltanto perché una promessa simile non sarebbe attendibile, ma anche per il fatto che buona parte del settore finanziario è diventato un racket, un match negativo nel quale un esiguo numero di persone riceve stipendi astronomici per indurre in errore e sfruttare consumatori e clienti. Se non sapremo arginare il diffondersi di queste pratiche, il racket non potrà che continuare.

© 2010 The New York Times
Traduzione di Anna Bissanti

© Riproduzione riservata (20 aprile 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 09, 2010, 06:04:59 pm »

Potesse la Grecia fare la svalutazione...

di Paul Krugman

8 maggio 2010

C'è ancora qualcosa da dire sulla crisi del debito greca? Secondo me, sì. Molti osservatori sottolineano che difficilmente la Grecia riuscirà ad applicare le misure di risanamento prescritte dal piano di salvataggio. Come dice senza giri di parole Charles Wyplosz, del Graduate Institute of International Studies di Ginevra, «il piano non funzionerà».
È il caso di osservare, però, che anche una ristrutturazione del debito non sarebbe granché utile per alleviare il fardello che pesa sul governo di Atene.

Per capire perché, immaginiamo che cosa succederebbe se la Grecia smettesse semplicemente di pagare il suo debito. A quel punto, tutto quello che dovrebbe fare sarebbe tenere a zero il disavanzo primario: in altre parole, dovrebbe incassare, attraverso le tasse, tanto quanto spende (dove per spesa si intende tutto quello che non sono gli interessi sul debito).
Ma ricordiamo che la Grecia in questo momento presenta un disavanzo primario enorme, pari complessivamente, nel 2009, all'8,5 per cento del prodotto interno lordo. Perciò, anche se il Governo greco dichiarasse la totale insolvenza sul suo debito, sarebbe comunque tenuto a imporre misure di austerità.
Ne consegue, dunque, che una ristrutturazione del debito servirebbe a poco, a meno di non pensare (cosa che sembra inverosimile) che ottenendo il condono del debito esistente il Paese ellenico sia in grado di accedere a nuovi e consistenti prestiti. L'unica strada per alleviare in modo significativo le pene della Grecia sarebbe quella di trovare un modo per limitare i costi dell'austerità di bilancio, e in questo senso la ristrutturazione non sarebbe utile.

Sarebbe utile invece una svalutazione. Ma uno studio (ormai diventato un classico) realizzato nel 2007 da Barry Eichengreen di Berkeley, che ha fortemente influenzato le mie opinioni sull'euro, descrive in dettaglio i motivi che rendono pericolosa una svalutazione. Eichengreen sostiene che qualsiasi tentativo di lasciare la zona euro esige tempo e preparazione, e che nel periodo di transizione vi sarebbero assalti agli sportelli dagli effetti devastanti.
In questi giorni, tuttavia, sto riconsiderando la faccenda. Più nello specifico, mi sembra probabile che la Grecia sia destinata a precipitare in una crisi politica interna, oltre che economica. La sua situazione attuale è simile a quella dell'Argentina nel 2001. Allora, l'Argentina aveva introdotto un piano di convertibilità (che nelle intenzioni avrebbe dovuto ancorare in via permanente il peso al dollaro) che sembrava irreversibile per le stesse ragioni per cui oggi sembra irreversibile l'euro. Le autorità temevano che per abrogare quel provvedimento sarebbe stato necessario un prolungato dibattito legislativo, e che un dibattito del genere avrebbe innescato devastanti assalti agli sportelli. Vi ricorda qualcosa?

Ma alla fine del 2001, l'economia argentina era allo sfascio. Il governo impose misure d'emergenza nel tentativo di contenere la situazione, fra cui una serie di restrizioni sui prelievi bancari. La conseguenza fu che la tesi contraria all'abrogazione del cambio fisso con il dollaro perse di validità, e nel 2002 l'Argentina passò a un tasso di cambio fluttuante.
È davvero impossibile che qualcosa di simile possa succedere in Grecia? E se accadesse, non si rischierebbe di mettere in discussione l'appartenenza alla zona euro anche di altri Paesi?
Questo dramma è ancora lontano dalla conclusione.

Backstory/Per approfondire- Europa al salvataggio

Il 2 maggio, l'Unione Europea ha approvato il pacchetto di aiuti da 110 miliardi di euro che punta a impedire il default greco. Gli Stati membri della zona euro hanno accettato di contribuire con 80 miliardi di euro, mentre il resto verrà dal Fondo monetario internazionale.
Il Governo tedesco, che aveva manifestato grande riluttanza ad accorrere in aiuto della Grecia, ha accettato di mettere a disposizione 22 miliardi di euro. In una dichiarazione al parlamento, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto che il piano di salvataggio rappresenta «niente di meno che il futuro dell'Europa e il futuro della Germania in Europa», aggiungendo che la Germania aveva «una responsabilità speciale per l'Europa e oggi l'eserciterà».

In cambio, la Grecia ha accettato di applicare una serie di rigide misure di austerità, che includono l'obbligo di ridurre il disavanzo nell'ordine dell'11 per cento del prodotto interno lordo, l'aumento delle tasse, la stabilizzazione del debito pubblico e drastici tagli al settore pubblico, compresi tagli alle pensioni e l'eliminazione delle gratifiche per i dipendenti pubblici.
I tagli hanno scatenato la rabbia in tutta la Grecia, dove un cittadino su tre lavora per lo Stato. Il 4 maggio, i dipendenti pubblici, inclusi gli insegnanti e il personale ospedaliero, sono scesi in sciopero, e da quel momento sono seguiti altri scioperi e manifestazioni. Il 5 maggio, i disordini sono sfociati in tragedia con la morte di tre persone ad Atene a seguito dell'incendio appiccato a una banca dai manifestanti.

Le turbolenze politiche hanno prodotto ripercussioni sui mercati finanziari, unitamente alla paura degli investitori di un allargamento del contagio ad altri Paesi della zona euro, in particolare la Spagna e il Portogallo. Il 5 maggio, l'euro ha toccato il livello minimo sul dollaro negli ultimi 12 mesi, attestandosi a 1,2886 dollari.

© 2010 NYT – distribuito da The NYT Syndicate

(Traduzione di Fabio Galimberti)

8 maggio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Mondo/2010/krugman/aggiornamenti/default-debito-svalutazione-grecia-argentina.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 16, 2010, 10:20:15 pm »

Forse l'unica via sono proprio i dazi

Paul Krugman

Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2010 alle ore 06:39.


I miei fedeli lettori sanno che sto diventando sempre più insofferente nei confronti delle Persone Molto Assennate, che con parole sagge spiegano perché non si deve intervenire per contrastare il devastante tasso di disoccupazione americano.
Le Persone Molto Assennate ora hanno cominciato a far sentire la loro voce sul disegno di legge Levin (così chiamato dal deputato democratico Sander M. Levin) che autorizzerebbe l'applicazione di dazi compensativi sulle merci cinesi in risposta al rifiuto di Pechino di lasciar rivalutare la propria moneta. Inevitabilmente, queste persone sostengono che non dovremmo fare nulla per contrastare questa scandalosa e dannosa manipolazione valutaria che è alla base del vantaggio commerciale della Cina, e che agli americani sta costando posti di lavoro.

L'editoriale del 23 settembre pubblicato sul Financial Times, un giornale solitamente giudizioso, è un esempio calzante: sembra molto ragionevole, se non avete letto e riflettuto sull'argomento con attenzione.

«Applicare dazi alle merci importate dalla Cina non è una risposta efficace. È una misura inutilmente provocatoria considerando che la Cina ha dato segnali di voler venire incontro alle richieste americane - anche se a passo di lumaca - attraverso la diplomazia», scrivono i giornalisti. «Da quando Lawrence Summers, il principale consigliere di Obama per l'economia, è andato a Pechino due settimane fa, il renminbi è salito di quasi un punto percentuale, circa la metà dell'incremento complessivo da giugno".

Sul serio? Pensano davvero che la diplomazia abbia funzionato?
I piccoli aggiustamenti che la Cina effettua (e successivamente cancella) prima di eventi come le riunioni del G20 e a ridosso del voto sul disegno di legge Levin (passato alla Camera con un'ampia maggioranza) non è un segnale che la diplomazia sta funzionando. Pechino fa soltanto dei gesti formali, mirati a prevenire un intervento americano.
L'editoriale del Financial Times prosegue: «I dazi sulle importazioni intaccherebbero appena le eccedenze cinesi, che sono frutto principalmente dei bassi salari e dell'elevato tasso di risparmio».

Santo cielo. Se il vantaggio della Cina è dovuto ai salari bassi, un modo per alzare questi salari in dollari è aumentare il valore del renminbi. E perché i salari sono importanti, ma i dazi no? La tesi che sia sufficiente una discussione matura sul riequilibrio globale è molto ragionevole - se avete vissuto in una grotta negli ultimi tre-quattro anni. È un mucchio di tempo che gli Stati Uniti ragionano, ragionano e ragionano, e non è cambiato ancora nulla.
Chiaramente, il governo cinese non intende agire: non per ragioni d'interesse nazionale, ma per l'influenza politica delle industrie esportatrici cinesi. La Cina non cambierà atteggiamento, a meno di non fornirgli un incentivo in più, come la prospettiva di dazi compensativi.
La legge Levin rappresenta un passo avanti verso un mondo più equilibrato, non il contrario.

(Traduzione di Fabio Galimberti)
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 21, 2013, 07:08:09 pm »

 Paul Krugman contro i bocconiani Alesina e Ardagna: "Colpa loro se l'Europa ha puntato tutto sull'austerity"

Pubblicato: 20/05/2013 09:32 CEST  |  Aggiornato: 20/05/2013 10:08 CEST


Le politiche europee di austerity che hanno aggravato la crisi? In gran parte colpa dei "ragazzi della Bocconi", almeno dal punto di vista della teoria economica. Parola di Paul Krugman, economista americano e premio Nobel, che da anni sta portando avanti una battaglia contro l'idea che politiche restrittive possano portare alla fuoriuscita dalla recessione. La novità è che stavolta punta l'indice contro l'università milanese, fucina - a suo dire - di economisti rei di aver dato una errata base teorica alla Bce, ai governi e alle istituzione europee. Fa anche due nomi precisi: Alberto Alesina e Silvia Ardagna, entrambi partiti dalla Bocconi per poi passare ad Harvard.

Krugman ha appena scritto una recensione ragionata di tre libri per The New York Review of Book, in cui spiega come le politiche di austerity degli ultimi anni siano servite a poco o niente per creare crescita e occupazione. Uno dei tre volumi è quello di un accademico della Brown University, Mark Blyth, in cui si dice senza mezzi termini che a fare da cornice teorica al mantra del rigore dei conti pubblici è un paper del 2009 di due Bocconi boys, Alesina e Ardagna. I due economisti italiani infatti sostengono nello studio le virtù della cosiddetta "austerità espansiva": la riduzione della spesa pubblica porterebbe ad un aumento del Pil. Ciò sarebbe dovuto al fatto che la tenuta dei conti aumenterebbe la fiducia di mercati e investitori nel paese sotto austerity, e quindi di conseguenza provocherebbe un incremento degli investimenti e dei consumi. Una sorta di nonsenso assoluto per chi si è formato sui libri di Keynes, come Blyth e Krugman.

La cosa peggiore - secondo Blyth e Krugman - però non è tanto il paper in sé ma il fatto che sia stato presentato in pompa magna all'Ecofin nel 2010 e che nello stesso anno sia cominciato a circolare nei centri decisionali della Bce e della Commissione europea. Tanto che l'allora presidente della banca centrale, Jean-Claude Trichet, si affretta a dichiarare: "l'idea che le misure di austerità possa portare alla stagnazione è scorretta. In queste circostanze, tutto ciò che aiuta ad aumentare la fiducia dei nuclei familiari, delle aziende e degli investitori nella sostenibilità delle finanze pubbliche è un aspetto positivo per la crescita e la creazione dell'occupazione. Credo fermamente che le politiche che ispirino la fiducia aiuteranno e non danneggeranno la ripresa economica, perché la fiducia è il fattore chiave in questo momento".

Un'impostazione applicata nei fatti negli anni successivi e che, secondo Krugman, non ha portato da nessuna parte. Sicuramente non ha fatto uscire l'Europa dalla recessione e non ha portato crescita né nuovi posti di lavoro. E parte della responsabilità sarebbe sulle spalle di Alesina e Ardagna, assieme ad altri due economisti, autori di un altro studio molto famoso. In quel momento era infatti già uscito l'altro paper simbolo dell'austerità, scritto da Rogoff e Rheinardt, che aveva indicato nel 90% del Prodotto interno lordo la soglia massima di debito pubblico che un'economia avrebbe potuto sostenere. Insomma, una manovra a tenaglia da parte di due coppie di teorici dell'austerità di cui l'Europa e l'Italia stanno pagando ancora il prezzo, secondo il premio Nobel americano.

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/05/20/paul-krugman-contro-i-boc_n_3304823.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 04, 2013, 09:15:18 am »

Sempre in attesa dell'iperinflazione

di Paul Krugman
3 agosto 2013


Sempre in attesa dell'iperinflazione

Come ultimamente ci hanno ricordato diversi commentatori, non si fa che parlare di alta inflazione – anzi di iperinflazione – da quando la Federal Reserve ha iniziato a lottare contro la Grande Recessione. E il fatto che tale iperinflazione non si sia verificata non ha minimamente scalfito la convinzione, da parte di alcuni suoi profeti, di essere nel giusto e che, nonostante tutto, coloro a cui i fatti hanno dato ragione abbiano torto.

Mi chiedo in che misura questo atteggiamento sia rinforzato, oltre che dalle solite stravaganze, tendenze di destra e simili, dal fatto che gli economisti amino – adorino! – tirare in ballo l'inflazione galoppante, semplicemente perché è tanto facile da spiegare: basta mettere in moto la zecca per colmare il deficit e via.
Ma sta diventando un'argomentazione terribilmente stantia.
Non solo la prevista alta inflazione non è comparsa qui in America, ma è sparita quasi ovunque.

Ho fatto un rapido calcolo usando il database del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, che riporta i dati a partire dal 1980. Anno dopo anno, quanti paesi hanno avuto in ogni specifico anno un'inflazione a tre cifre?
Guardiamo il grafico. Fondamentalmente notiamo un'onda di iperinflazione provocata dal caos conseguente alla disgregazione dell'impero sovietico, simile a quella verificatasi dopo la prima guerra mondiale; passata tale ondata l'iperinflazione si trova esclusivamente in Zimbabwe.
Persino l'inflazione a due cifre è diventata piuttosto rara, come mostra il secondo grafico. C'è stato un breve picco intorno al 2008, a ben vedere causato soprattutto dal fatto che i piccoli paesi esportatori di materie prime sono stati spinti dalla crisi a grandi svalutazioni, responsabili di impennate irripetibili nei prezzi al consumo. Ma poi l'inflazione ha ripreso a calare.

Penso che possiamo trarne un paio di lezioni. Una è che i manuali di economia probabilmente parlano troppo di inflazione alta, che costituisce un utile scenario pedagogico ma non è un problema reale nel mondo di oggi. Un'altra è che l'inflazione elevata non si verifica perché i governanti di un paese hanno le mani bucate, ignorano la storia dell'imperatore Diocleziano o cose simili: è sempre associata a una grave disgregazione politica e sociale. Per ribaltare Milton Friedman, l'alta inflazione non è mai, da nessuna parte, solo un fenomeno monetario.

La nuova età delle ferrovie
Mi sorprende che l'econoblogosfera non abbia ancora fatto troppo caso all'interessante articolo di Keith Bradsher sul New York Times in merito alla rinascita della Via della Seta, oggi non più percorsa da cammelli che trasportano seta cinese ma da grandi treni merci carichi di prodotti elettronici cinesi.
Eppure, per chi è interessato alla globalizzazione, la cosa dovrebbe apparire molto importante. La tecnologia dei trasporti è un fattore incisivo, cruciale: il trasporto in container ha rivoluzionato il mondo.
E la riscoperta dei treni è una vicenda interessante. Negli Stati Uniti le linee merci, usate al minimo negli anni '70, da allora hanno visto sempre crescere la quota di tonnellate/miglio trasportate, attualmente intorno al 40%. Oggi iniziano a giocare un ruolo nel trasporto internazionale a lunga distanza.

Ovviamente è tutta una questione di tempo e denaro. Il trasporto aereo è costoso, soprattutto in quella che sembra – nonostante il fracking – un'epoca di costante alto costo del carburante. Anche il trasporto su camion è costoso, benché in misura minore, e in ogni caso non è realistico per le lunghe rotte commerciali internazionali. Le spedizioni via mare sono economiche ma lente. Così si apre una nicchia importante per le ferrovie, una nicchia che probabilmente non è ancora stata pienamente sfruttata, dato che per un pezzo ci si è semplicemente dimenticati di un mezzo tecnologico che sembrava ormai fuori moda.
Tutti a bordo!

Traduzione di Elisa Comito


©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2013-08-03/sempre-attesa-iperinflazione-160810.shtml?uuid=AbHxZ2JI
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 21, 2014, 05:42:43 pm »

Vi spiego perché la crisi dell’Eurozona non è finita

Di Paul Krugman
19 ottobre 2014

Chiunque studi l'economia monetaria internazionale conosce bene la Legge di Dornbusch: «La crisi ci mette molto più tempo ad arrivare di quanto pensavate, e poi si svolge molto più in fretta di quanto avreste pensato» (lo disse in un'intervista, nel 1997, il compianto economista tedesco Rudi Dornbusch). E con l'ultima crisi dell'euro è successo esattamente questo. Fino a poco tempo fa gli austeriani che dettano la politica macroeconomica della zona euro andavano in giro tutti tronfi a cantar vittoria per una modesta risalita della crescita. Poi l'inflazione è precipitata e l'economia dell'Eurozona ha cominciato a incepparsi, e tutti, cosa probabilmente più importante, sono andati a riguardarsi i fondamentali e si sono resi conto che la situazione rimaneva molto seria.

Anche nell'estate del 2012 la situazione sembrava grave, e Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, riuscì a evitare che il vecchio continente precipitasse nel baratro. E forse riuscirà a farlo di nuovo, ma adesso il compito appare molto più difficile. Nel 2012 il problema erano gli interessi molto alti sui titoli di Stato dei Paesi della periferia dell'euro, che in realtà, come adesso sappiamo, crescevano più per questioni di liquidità che per problemi di solvibilità. In altre parole, i mercati temevano in sostanza che la Spagna o l'Italia potessero dichiarare entro breve tempo lo stato di insolvenza perché sarebbero rimaste letteralmente senza soldi, e queste paure minacciavano di trasformare lo scenario del default nella classica profezia che si autorealizza. Ma per disinnescare quella crisi bastò che Mario Draghi promettesse che la Bce avrebbe fatto whatever it takes (tutto il necessario). Una volta sgombrato il campo dalla prospettiva di una carenza di liquidità, il panico rientrò quasi subito. Attualmente gli interessi dei titoli di Stato di Spagna e Italia sono bassi, rispetto ai livelli storici.
 
 Ma quello che sta succedendo adesso è ben diverso. È una crisi al rallentatore e coinvolge tutta la zona euro, che sta scivolando verso una trappola deflattiva. Draghi può cercare di imprimere una spinta attraverso politiche di allentamento quantitativo, ma non è affatto scontato che possano servire allo scopo, anche nelle circostanze migliori. E in realtà la politica limita pesantemente i suoi margini di azione. Un'altra cosa che mi colpisce è la quantità di confusione intellettuale che ancora c'è in giro. La Germania continua testardamente a voler vedere tutta la crisi come l'effetto di una gestione irresponsabile dei conti pubblici, e questo non solo esclude la possibilità di stimoli di bilancio efficaci, ma azzoppa l'allentamento quantitativo perché Berlino vede l'idea di comprare titoli di Stato come un anatema.

E un'altra cosa incredibile è il fatto che la logica della trappola della liquidità, dopo sei anni – sei anni! – di tassi di interesse quasi a zero, continui a non essere compresa. Ho letto recentemente, e non è neanche l'esempio peggiore, un editoriale sul Financial Times di Reza Moghadam, vicepresidente della Morgan Stanley, che scrive che «i salari e il costo del lavoro in generale sono semplicemente troppo alti, anche per gli standard dei Paesi ricchi e tanto più rispetto ai concorrenti dei mercati emergenti».




Santo cielo! Se è la concorrenza esterna che vi preoccupa allora bisognerebbe svalutare l'euro, non tagliare i salari. E tagliare i salari in un'economia incastrata in una trappola della liquidità quasi sicuramente aggraverebbe la recessione. Com'è possibile che ci sia ancora qualcuno che non lo capisce?

L'Europa ha sorpreso molte persone, me compreso, con la sua capacità di resistenza. E penso che la Bce di Draghi sia diventata un importante elemento di forza. Ma faccio sempre più fatica (e come me altri con cui ho parlato) a capire come andrà a finire tutta la faccenda (o meglio a capire come farà a finire in modo non catastrofico).

Se trovate implausibile una storia in cui Marine Le Pen porterà la Francia fuori dall'euro e dall'Unione Europea, ditemi qual è il vostro scenario alternativo.

(Traduzione di Fabio Galimberti)
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2014-10-18/pensavate-che-crisi-eurozona-fosse-finita-vi-eravate-sbagliati-e-vi-spiego-perche--193122.shtml?uuid=AB4HFY4B
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