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Autore Discussione: La terza banca tedesca coinvolta per 1,5 miliardi di euro  (Letto 4496 volte)
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« inserito:: Agosto 13, 2007, 12:53:36 am »

12/8/2007 (11:34)

Il Virus dei mutui contagia la Germania

La terza banca tedesca coinvolta per 1,5 miliardi di euro

FRANCESCO MANACORDA


MILANO
I danni della crisi dei mutui «subprime» americani cominciano a essere quantificati anche in Europa. Ieri è stata la banca tedesca WestLb - il terzo istituto pubblico del paese - sulla quale da giorni si rincorrevano voci di problemi, a esporre pubblicamente la sua situazione: 1,25 miliardi di euro della banca sono stati investiti in strumenti finanziari collegati al mercato dei «subprime». Ma nonostante l’entità della cifra investita in questo settore, un portavoce della WestLb ha detto che «siamo relativamente tranquilli rispetto alla valutazione a lungo termine dei nostri strumenti finanziari per la loro alta qualità».

L’87% delle obbligazioni legate ai «subprime» in mano alla banca ha infatti un rating pari o superiore alla AA, un gradino sotto la valutazione di massima affidabilità data dall’etichetta AAA. Affidarsi al rating per garantire la bontà dei propri investimenti rischia però di essere illusorio: proprio in questi giorni, mentre negli Usa infuria la tempesta sui crediti di cattiva qualità, anche l’operato delle agenzie di rating come Moody’s o Standard & Poor’s - quelle appunto che assegnano i voti alle emissioni obbligazionarie, certificandone la qualità per tutti i potenziali acquirenti - è finito nel mirino.

Come è ovvio, il fatto che 1,25 miliardi siano investiti in strumenti legati ai «subprime» non significa affatto che siano automaticamente persi, ma è quasi certo che il 30 agosto - quando annuncerà i suoi risultati semestrali - WestLb sarà costretta ad annunciare accantonamenti straordinari per coprire eventuali rischi su quel fronte. Le cifre che arrivano dalla banca tedesca saranno probabilmente seguite nei prossimi giorni da altre dichiarazioni dello stesso genere da parte di grandi banche e società d’investimento americane ed europee. Anche in Italia c’è chi sta facendo i conti per capire esattamente - operazione non facile, vista la complessità di alcuni strumenti finanziari - quanto e come il rischio «subprime» possa essere diffuso nei propri investimenti o nei portafogli dei sottoscrittori di fondi. Fino ad ora, comunque, dalle grandi banche italiane è arrivato un messaggio assai rassicurante, secondo cui l’esposizione al mercato dei «subprime» è trascurabile o addirittura nulla. E anche la Banca d’Italia è convinta che per quel che riguarda il mercato e gli istituti italiani «non ci sono motivi di allarme».

Dunque, le vendite in piazza Affari che negli ultimi giorni si sono abbattute specialmente sui titoli bancari (nella settimana Unicredit ha perso il 3,49% e Capitalia, legata al titolo milanese dal rapporto di concambio fissato per la fusione, ha ceduto il 3,04%) sarebbero dettate più da timori irrazionali che da elementi di fatto. Dopo la chiusura in perdita assai moderata di Wall Street, venerdì notte, tutti gli occhi sono puntati adesso sulla mattinata di domani, quando la Borsa di Tokyo darà il primo segnale della tendenza dei mercati. Negli Stati Uniti il blocco al calo dei titoli di venerdì è stato innescato dalla previsione che il governo interverrà in qualche modo per evitare che la crisi dei mutui si avviti su se stessa. Banche centrali e altre istituzioni finanziarie restano comunque in stretto coordinamento tra di loro e pronte a intervenire, come hanno fatto questa settimana, con una mossa che ha pochi precedenti in quanto a entità: solo in Europa la Bce ha immesso oltre 150 miliardi di denaro fresco in due giorni per evitare il rischio di una crisi di liquidità innescata proprio dalla sfiducia delle banche sul fatto che altri istituiti siano in grado di ripagare i prestiti che ottengono. Resta il fatto che il movimento complessivo sulle Borse internazionali fa tremare molti.

Solo sulle piazze europee sono stati «bruciati» nelle ultime due sedute della settimana 428 miliardi di euro di capitalizzazione: per intendersi si tratta di più della metà della capitalizzazione complessiva di piazza Affari.

Secondo l’Adusbef, in Italia, nell’ultimo mese sarebbero imputabili alla crisi dei «subprime» perdite per 130 miliardi di euro, 74 legati al calo della capitalizzazione di Borsa e altri 56 miliardi relativi «alle perdite su obbligazioni (eccetto i titoli di Stato che si sono rivalutati), fondi comuni e fondi pensione». Un calcolo suggestivo anche se è fin troppo facile obiettare che è impossibile attribuire con certezza alla crisi dei mutui americani qualsiasi movimento al ribasso dei mercati finanziari.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:31:55 pm »

7/10/2008
 
E Profumo inciampò nel mercato
 
  
 
FRANCESCO MANACORDA
 
«Mistakes», errori. Alle otto e 28 di ieri mattina, arrivato alla decima pagina della sua presentazione agli analisti, Alessandro Profumo pronuncia la parola finora tabù.

Ci è assolutamente chiaro che abbiamo fatto alcuni errori nel valutare lo scenario di mercato». Così il resto della giornata - mentre il titolo prima crolla fragorosamente sotto il peso dei 6,6 miliardi di un aumento di capitale negato fino all’ultimo e poi contiene le perdite mentre attorno s’inabissano i listini di tutto il mondo - assume i contorni di un’inedita seduta di autocritica bancaria. Un’immagine che cozza davvero con l’iconografia classica del banchiere che non deve mai chiedere scusa. E dunque, «col senno di poi forse sarebbe stato meglio aspettare», per alcune acquisizioni che spaziano dall’esotico Kazakistan alla casalinga Capitalia, pagate alle valutazioni massime. E dunque, «abbiamo sottovalutato la lunghezza e la profondità della crisi».

Autocritica, ma niente dimissioni. I grandi soci si sono ben guardati dal chiederle, convinti che in questa fase di bufera globale una mossa del genere avrebbe solamente peggiorato la situazione della banca. Profumo non le ha offerte, anche se nella riunione tesa di venerdì pomeriggio con i vertici delle Fondazioni ha fatto intendere che il suo mandato - come del resto ogni volta che nei suoi tredici anni di guida si è trovato a una svolta fondamentale - era a disposizione. Così ieri l’amministratore delegato della più grande banca italiana ha archiviato con sicurezza la questione. «E’ un rumor che è circolato, ma non riesco a capirne il motivo. Io credo che sia molto importante che continui a lavorare ancora per la mia gente».

Profumo, in scadenza con l’assemblea di aprile, allo stato delle cose ritiene quindi che rimarrà alla guida del più grande gruppo bancario italiano. Ma difficilmente sarà nella stessa posizione di prima, anche prescindendo dagli scossoni che giorno dopo giorno cambiano in peggio lo scenario dei mercati. Ogni filo della rete che in queste settantadue frenetiche ore ha contribuito a rafforzare la posizione di Unicredit è infatti un filo che sostiene Profumo, ma finisce anche per ostacolarlo nella sua strategia che è sempre stata diversa, quando addirittura non opposta, a quella della maggior parte del sistema bancario italiano. C’è il premier Silvio Berlusconi che benedice prima, durante e dopo l’aumento di capitale della banca. C’è un azionista di spicco come Fabrizio Palenzona, massima espressione del mondo delle Fondazioni, che fa sapere di essersi recato appositamente da Gianni Letta a perorare la causa del gruppo e del suo management. C’è, come è ovvio, la preoccupazione della stessa Bankitalia per le sorti della maggiore banca del sistema e adesso il sollievo di via Nazionale per la ricapitalizzazione dell’istituto. E poi c’è Mediobanca - di nuovo in cerca di un ruolo come crocevia di ogni interesse nazionale - che garantisce l’aumento di capitale.

Un’operazione di mercato e non «di sistema», si sostiene in Piazzetta Cuccia. Ma i nomi dei partecipanti al consorzio che garantisce l’operazione - in primis Generali e Fonsai - rimandano proprio alle logiche «di sistema», così come non appare casuale che ieri Profumo abbia chiarito - dopo mesi passati a flirtare con l’idea di un’uscita - che la quota del suo gruppo in Mediobanca è invece «strategica».

Il dato di fatto resta comunque che mentre i mercati scuotevano senza pietà l’Unicredit, mani italianissime - quanto amorevoli o interessate si vedrà - si precipitavano a soccorrere la più estera delle nostre banche e il più esterofilo dei banchieri. Così che adesso Profumo rischia di trovarsi addosso - tutt’altro che entusiasta - l’etichetta di banchiere sotto tutela. Della politica o di quei «poteri forti» e consociativi che ha sempre cordialmente detestato. Sarà così? Lui, che ama parlar chiaro, ha già spiegato a chi ha avuto occasione di parlargli in queste ore che la politica non ha mai messo e non metterà mai piede nelle stanze di Unicredit. Forse ci riuscirà, continuando a inondare i notabili democristiani di provincia che rappresentano i suoi principali azionisti, con le presentazioni in PowerPoint in inglese, anche se una penuria di dividendi potrebbe incrinare il tacito patto che funziona da oltre un decennio. Ma anche lui sa che il terreno di gioco - il «playground», direbbe forse - dei grandi istituti internazionali in cui ha sempre voluto far correre la sua banca, somiglia ormai un cumulo di macerie, dove amici e concorrenti si aggirano zoppicanti e choccati. E la sicurezza, volenti o nolenti, si trova nel cortile di casa.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Dicembre 29, 2010, 10:57:55 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:37:37 pm »

Federico Rampini


Una speranza dall'Australia


L'Australia farà da apri-pista per una riduzione generalizzata del costo del denaro? E' l'unico raggio di speranza questa mattina per i mercati asiatici. La banca centrale australiana infatti ha abbassato di un punto intero i suoi tassi direttivi. C'è chi scommette - fusi orari aiutando - che la mossa dell'Australia sarà la prima di una serie di azioni concertate fra tutte le banche centrali del mondo, per ridare fiducia ai mercati con un'ondata di tagli dei tassi d'interesse.

Non è solo il dollaro americano la moneta-rifugio che sta attirando i capitali mondiali in questa crisi. A contendergli questo ruolo c'è lo yen giapponese, in netta ripresa da settimane, che ieri in una sola seduta ha messo a segno un rialzo del 5,7% rispetto all'euro e del 4,2% verso il dollaro. Era dal 1998 che non si registrava un rafforzamento così rapido dello yen. Il servizio studi della banca Nomura ha sottolineato la stretta correlazione che si è verificata di recente tra le turbolenze finanziarie globali e i rialzi dello yen. Nonostante che il Giappone sia entrato ufficialmente in recessione prima di tutte le altre nazioni industrializzate, molti economisti lo giudicano meno esposto e vulnerabile alla crisi finanziaria. Le sue banche, reduci dalla lunga "cura dimagrante" degli anni Novanta, finora hanno mostrato meno fragilità delle concorrenti europee e americane.

In piena controtendenza rispetto alle Borse occidentali, Shanghai ha deciso proprio in questi giorni di autorizzare per la prima volta le vendite allo scoperto. Le autorità di mercato cinesi non sembrano intimorite dalla possibilità che l'introduzione del nuovo tipo di operazione possa accentuare le pressioni al ribasso. Nelle Borse americane ed europee sono stati imposti di recente dei limiti alle vendite allo scoperto (soprattutto contro i cosiddetti "naked short selling": puntate ribassiste compiute senza possedere le azioni né prenderle a prestito), nella speranza di arginare i crolli dei listini. Le restrizioni a Wall Street e in Europa si sono dimostrate però del tutto inefficaci: i crac delle Borse in questo lunedì nero sono avvenuti nonostante l'esistenza dei limiti.

Un'altra mossa controcorrente è quella compiuta dalla banca centrale indiana. L'autorità monetaria di New Delhi ha annunciato una riduzione del quoziente di riserva obbligatoria in vigore per le banche (abbassato di mezzo punto, a quota 8,5%). Mentre in Occidente le autorità monetarie stanno aumentando i requisiti di capitalizzazione delle banche - per rafforzarne la solidità patrimoniale e la solvibilità - l'India ha preso questa decisione di segno opposto per aumentare la capacità di erogazione di credito da parte delle sue banche commerciali, in una fase di rallentamento della crescita economica. La manovra di riduzione della riserva obbligatoria dovrebbe espandere il credito di circa 200 miliardi di rupie (4,2 miliardi di dollari).

(7 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 05, 2010, 12:14:34 pm »

5/2/2010

Gli stati meno sicuri delle imprese
   
FRANCESCO MANACORDA


Se ieri il presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet voleva mandare un messaggio rassicurante ai mercati, non sembra aver avuto successo. La sua ammissione che «in molti Paesi dell’area euro si registrano squilibri di bilancio ampi e rapidamente crescenti» acuisce non tanto le tensioni per la situazione greca - dove il deficit di bilancio è schizzato sopra il 13%, ma già si preannuncia un piano di rientro per il 2012 - quanto le paure su Spagna e Portogallo. Mentre l’euro torna ai livelli di sette mesi fa sul dollaro si scatenano le vendite sui mercati azionari europei e salgono rapidamente i Credit Default Swaps, in pratica le assicurazioni sul rischio di fallimento, per i titoli pubblici di quei Paesi.

Il segno vero del cambiamento lo danno ieri proprio questi strumenti: per la prima volta nella storia assicurarsi sul debito pubblico della zona euro è più caro che ottenere la stessa garanzia sui debiti delle aziende americane con i rating migliori.

Il «rischio sovrano» che finora era balenato flebilmente agli occhi dell’Europa, con casi remoti come quello dell’Islanda o addirittura esotici come Dubai, assume forme più concrete e preoccupanti. Tra i «maialini» - gli Stati mediterranei amabilmente ribattezzati «Pigs»: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna - proprio l’Italia è quella che al momento pare meglio messa: sebbene il suo rapporto debito/Pil sia il più alto in assoluto, vanta anche un livello di disoccupazione inferiore a quello degli altri Stati mediterranei e una struttura delle medie imprese che, sebbene a macchia di leopardo, permette di evitare tensioni come quelle sperimentate dai vicini.

Ora la domanda non più impronunciabile è se le virtù taumaturgiche dell’euro riusciranno ad avere la meglio sulle scarsissime virtù mostrate da alcuni dei suoi componenti o se viceversa il contagio rischia di allargarsi. «Credo che venga sottovalutata la solidità dell’eurozona», è stato ieri il commento di Trichet a chi poneva la questione. E in generale, per il presidente della Bce, il caso dell’uscita di uno o più Paesi dall’euro, semplicemente «non si pone». Ma la questione è aperta, anche perché - ricordarlo è banale ma vero - quell’eurozona è parzialmente acefala: c’è una Banca centrale, ma non esiste un governo dell’economia comune né tantomeno un fisco europeo. Così, se da Bruxelles e Francoforte si spiega che la disciplina di Maastricht basterà a riportare in riga i riottosi, alla periferia del Continente si scatenano i distinguo, anche per esorcizzare il possibile contagio. Paragonare Madrid ad Atene, spiega Don Emilio Botin - il massimo banchiere iberico, che guida il colosso Santander - «è come paragonare il Real Madrid all’Alcoyano», degnissimo club della provincia di Alicante che però gioca in terza serie.

Probabile che sia così, ma certe distinzioni, specie dall’altra parte dell’Oceano dove si muovono le masse di capitali che fanno il mercato anche in Europa, sono meno nette. Anche alla luce, va detto, di un deficit spagnolo che arriva all’11,4% del Pil e di un esercito di disoccupati che sfiora il 20%. Così già ieri il non euroentusiasta Wall Street Journal faceva notare che in Europa a rischio non sono solo i titoli pubblici, spiegando che nelle pieghe dei pur buoni risultati di una multinazionale come Vodafone si vede la caduta della spesa in Grecia. Conclusione degli americani: «Il rischio sovrano è qui per restare».

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 29, 2010, 10:47:00 am »

29/12/2010

La fuga da Piazza Affari

FRANCESCO MANACORDA

Ma la Borsa è la vita?
O, per essere più precisi, è una parte importante della vita economica e finanziaria di un Paese? Se la risposta è positiva, allora la deludente perfomance di Piazza Affari nel 2010 e più in generale la scarsa attrazione che la Borsa esercita sulle aziende italiane è anche il sintomo di qualche serio problema del sistema di forze, regole e relazioni che è alla base di quel mercato finanziario.

La grande scottatura finanziaria che nel 2008 ha colpito milioni di risparmiatori in tutto il mondo, sta guarendo velocemente; in alcuni casi, a giudicare dal mini rally di fine anno, forse troppo velocemente. Con i tassi bassi che tengono zavorrati gli interessi dei titoli di Stato - a meno di non voler rischiare sui quei debiti sovrani che offrono di più proprio per la dose di azzardo supplementare che comportano - il ritorno sui mercati borsistici è parso nell’ultimo anno un percorso praticabile, anche se con le dovute cautele, a milioni di risparmiatori.

Sono risparmiatori che su molte piazze hanno riportato guadagni tutt’altro che disprezzabili.
Non in Italia, però, dove nel corso dell’anno il più rappresentativo indice di Borsa ha perso quasi il 12% mentre in parallelo le uscite dal listino hanno battuto, come nel 2009 e nel 2008, l’arrivo di aziende che scelgono la quotazione.

Le difficoltà del mercato azionario nel nostro Paese non sono certo una novità assoluta. Per quel che riguarda le aziende, la propensione a indebitarsi con le banche è sempre stata superiore a quella di un ricorso al mercato che può punire attraverso le quotazioni chi sfugge alla disciplina finanziaria. Se invece si considerano gli investitori, le dimensioni generalmente medio-piccole delle imprese italiane comportano che sono pochi i campioni nazionali che entrano nei portafogli dei grandi fondi d’investimento. E certo non contribuisce ad attrarre capitali in Italia un sistema finanziario ancora opaco, dove i diritti delle minoranze sono spesso scavalcati senza problemi e le piramidi societarie, che consentono di controllare gruppi interi con un impegno finanziario esiguo da parte degli azionisti cosiddetti di maggioranza, restano diffuse.

L’aggravante oggi sta però nel tempo trascorso da quel 2007 in cui le banche azioniste di Borsa italiana decisero la fusione con il London Stock Exchange. All’epoca, quell’operazione era stata celebrata come un passo avanti per una Borsa che sfuggiva al controllo di mani italiane ma in compenso diventava più globale in un mondo che di quella dimensione faceva il suo imperativo.

A tre anni di distanza è facile vedere come la globalizzazione sia avanzata, ma Piazza Affari non l’abbia seguita.

Se adesso una matricola di gran lusso come Prada dovesse decidere per la quotazione, la scelta di Hong Kong al posto dell’Italia - questa è la scelta più probabile - assumerebbe un valore non solo simbolico. Di fronte a un’azienda che rappresenta e vende in tutto il mondo prodotti che rappresentano l’eccellenza italiana, si specchierebbe l’immagine di un’altra azienda che anche attraverso una fusione tutt’altro che indolore non è evidentemente riuscita a raggiungere un livello di eccellenza. Certo, Prada deve ancora decidere e l’allarme può sembrare prematuro. Ma tale non è. Anche perché già da mesi le banche d’affari prospettano anche a qualche altra azienda italiana con marchi notissimi in tutto il mondo, l’opzione di Borsa asiatica contrapposta a quella tricolore.

Forse, allora, proprio questa potrebbe essere l’occasione perché le grandi banche italiane - che assieme restano il principale azionista del London Stock Exchange, ma che dal 2007 in poi hanno praticato quello sport nazionale che è la corsa in ordine sparso - uniscano le forze per contare di più. Non certo per impedire a qualsiasi azienda di quotarsi dove ritiene più conveniente, ma almeno perché la Borsa torni a essere - per quanto le compete - un motore di sviluppo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8238&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 09, 2011, 03:08:07 pm »

9/4/2011

Il ritorno dei soci forti

FRANCESCO MANACORDA

Un presidente cacciato dalla maggiore compagnia assicurativa del Paese. La più grande banca italiana che chiede ai soci cinque miliardi di fondi per continuare a crescere. Un grande gruppo alimentare che diventa oggetto di scontro italo-francese, attirando le tardive attenzioni della politica e della finanza di casa nostra.

C’è un filo rosso che unisce le tre vicende più significative delle recenti cronache finanziarie? Se esiste si può identificare, sebbene con modalità diverse, nel ritorno degli azionisti a un ruolo centrale e in alcuni casi dalla spinta - espressa dalla politica, ma anche da quei particolari azionisti che sono le fondazioni bancarie - a una presenza rafforzata sui territori di riferimento.

Sull’asse Milano-Roma-Trieste si muovono i grandi soci per spingere fuori Cesare Geronzi, reo di essersi messo di traverso al manager - l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto - cui meno di un anno fa gli stessi azionisti hanno deciso di dare pieni poteri. Nell’operazione si salda un’asse che vede, accanto al peso massimo Mediobanca, anche gruppi imprenditoriali e finanziari come i De Agostini, i veneti di Ferak, il ceco Petr Kellner - meno schierato il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone - non più disposti ad accettare che qualcun altro decida al posto loro, come evidenzia anche, parlando di Rcs, Diego Della Valle. Il contributo attivo dei consiglieri indipendenti, espressioni dell’azionariato di minoranza delle Generali, pare assicurare che non si tratti di un semplice regolamento di conti tra «poteri forti».

Paradossalmente un copione non troppo dissimile da quello andato in scena nel settembre scorso in Unicredit, quando - per motivi mai del tutto chiariti - i soci della banca decisero che Alessandro Profumo era un ostacolo alle loro strategie. Accostare le figure di Profumo e Geronzi non è certo possibile e non farebbe piacere a nessuno dei due, eppure è un fatto che entrambi siano caduti per mano dei loro azionisti ed entrambi - ecco che spunta il territorio - abbiano subito critiche di carattere locale: il «romano» Geronzi che snatura la triestinità del Leone, il globalizzato Profumo che non apre abbastanza i rubinetti del credito delle microimprese del Nord-Est, care alla Lega.

Se Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa-Sanpaolo, può chiedere cinque miliardi al mercato senza suscitare reazioni isteriche, anzi incassando una sostanziale promozione, è anche perché i suoi grandi soci - in primis le Fondazioni azioniste di Milano e Torino - si sono già fatte carico di stendere una rete di sicurezza. Con il loro sostanziale assenso preventivo all’aumento assicurano la disponibilità a farsi carico del peso non lieve dell’operazione; in cambio hanno l’impegno della banca a restituire quei soldi nei prossimi tre anni sotto forma di dividendi, contando così di rispettare i loro impegni verso i territori di riferimento.

Anche il caso Parmalat offre una dimostrazione, sebbene «a contrario», del ritorno dei soci forti. Gestita in orgogliosa solitudine dal risanatore Enrico Bondi - e tornata appunto sotto i riflettori della finanza con quasi un miliardo e mezzo di cassa accumulata grazie alle transazioni con le banche che assistevano la società all’epoca del crac di Tanzi - Parmalat si è scoperta all’improvviso senza soci forti e stabili. Quelli che poi si sono materializzati si chiamano Lactalis, sono francesi e, sostiene il governo, sventolano la bandiera sbagliata. E il rimedio che adesso la politica e un gruppo di banche stanno studiando - anche qui in nome di un interesse al territorio che assume però questa volta i contorni del protezionismo economico - passa proprio per la creazione, in gran parte artificiale, di un nucleo di azionisti da contrapporre a quelli francesi.

In periodi di risorse - anche finanziarie - scarse, come questo, i soci tornano insomma a pesare e a loro volta subiscono il peso del loro ruolo. Il caso delle fondazioni bancarie, che sui loro territori giocano sempre più spesso un ruolo non solo sussidiario ma di vera e propria surroga al settore pubblico in debito d’ossigeno, è esemplare. E così, nel grande gioco della finanza globale, dei capitali senza passaporto che si muovono da New York alla Cina, ci scopriamo anche un po’ più «locali».

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 13, 2011, 11:07:20 am »

13/9/2011

Piazza Affari è l'ora dell'angoscia

FRANCESCO MANACORDA

In luglio dominava la preoccupazione; in agosto, sull’onda della manovra straordinaria, era spuntata la timida speranza che qualcosa cambiasse davvero. Adesso, invece, è l’ora dell’angoscia.

Nella City milanese, tra gli uomini che ogni giorno guidano la finanza e l’economia di casa nostra, il rientro dalle ferie è stato amaro: i timori di qualche settimana fa hanno lasciato il posto a un sentimento più profondo e palpabile.

Lo alimenta la sensazione di essere dentro una caduta senza freni, senza fondo e senza fine come quella di Piazza Affari, che solo nell’ultimo mese ha perso quasi il 12%, in un semestre poco meno del 40%. Lo rafforza ieri il giudizio senza sfumature che arriva dall’asta dei Bot dove i rendimenti schizzano oltre il 4%.

Lo conferma lo «spread» tra i Btp italiani e i Bund tedeschi - la sirena d’allarme che in questi mesi tutti abbiamo imparato a conoscere e temere -, tornato vicino al livello di assoluto pericolo dei 400 punti.

E’ vero - si spiegano da mesi l’uno con l’altro i protagonisti dell’economia che la tempesta è globale e tocca anche l’economia reale degli Usa; è vero che la crisi dei debiti sovrani si sta trasformando in una crisi del sistema bancario europeo; ed è vero anche che, sebbene l’Europa stia esponendo al mondo il suo peccato originale di un deficit politico, l’Italia non può fare la fine della Grecia perché ha un sistema assai più robusto e conti pubblici più in ordine. Eppure proprio l’innesto su questa crisi globale di un deficit di credibilità italiana che appare ormai conclamato - e acuito, invece che sopito, dal balletto estivo delle manovre a ripetizione - rischia di presentare al nostro Paese un conto tra i più salati, vanificando anche parte degli effetti della manovra. Un esempio? Il solo aumento dei tassi dei Bot annuali di ieri, circa un punto su 7,5 miliardi, costerà 75 milioni di euro l’anno di maggiori interessi, mentre il contributo di solidarietà del 3% previsto dalla manovra sui redditi sopra i 300 mila euro dovrebbe portare nel 2012 appena 35 milioni nelle casse pubbliche.

Le grandi banche italiane franano in Borsa, pur essendo probabilmente più sane, e con bilanci più leggibili, delle loro omologhe francesi e tedesche perché i mercati temono quel debito sovrano tricolore che sta nelle loro casse. L’economia reale non vede ancora una crisi galoppante, ma i primi segnali che il 2011 sarà un anno molto diverso da quello che l’industria si aspettava ci sono tutti. Segnali certificati proprio ieri dal primo calo anno su anno - dopo diciannove mesi in crescita - della produzione industriale. Rallenta l’export verso mercati tradizionalmente forti come Usa e Germania; s’incominciano ad avvertire tensioni sul costo del denaro; un settore portante come quello delle costruzioni ha subìto uno stop evidente, assicurano gli operatori. Le misure per la crescita devono ancora venire, mentre la manovra in arrivo avrà di sicuro qualche ricaduta recessiva. I bilanci di quest’anno - per tutti - si faranno soprattutto tagliando i costi, non certo puntando ad aumentare i ricavi. Nel mondo finanziario chi può permetterselo farà altre drastiche pulizie di bilancio, in attesa di un periodo che si annuncia tutt’altro che tranquillo.

Tante sicurezze sono saltate: il banchiere che lo scorso inverno spiegava allegro di aver investito una piccola parte del suo considerevole patrimonio in titoli di Stato greci, «perché danno rendimenti fantastici e figuriamoci se faranno mai default», adesso s’interroga sulla saggezza delle sue scelte e per sicurezza sta alla larga anche da quelli italiani. Chi prima delle ferie d’agosto aveva tentato il colpo con qualche acquisto in Borsa, pensando di aver già visto il peggio, ha dovuto ricredersi e prendere atto delle perdite. Nelle grandi banche d’affari e negli studi legali - dove pure i periodi di crisi davano in passato ottime opportunità di business - i telefoni squillano assai meno di un paio di mesi fa. Gli investitori stranieri non si fanno più vivi con la stessa frequenza: preferiscono aspettare per capire meglio che fine farà l’Italia nella tempesta globale.

Anche i nostri produttori e uomini della finanza, disorientati dalle crisi, cercano di capire dove, come e quando se ne uscirà. Se guardano al quadro globale sperano quasi che il morbo che ha colpito Grecia, Italia e Spagna si propaghi al più presto alle banche francesi e tedesche - e a Parigi già ieri se ne è avuta più di un’avvisaglia - convinti che solo così i due azionisti di maggioranza dell’Europa si decideranno a muoversi, colmando il vuoto politico che affligge l’Unione. Se guardano all’Italia chiedono un cambio di passo: che sia un governo tecnico o di solidarietà nazionale in fondo per loro poco importa. Quel che conta è provare a chiudere almeno quel deficit di credibilità che aggrava il peso della crisi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9191
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