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Autore Discussione: FRANCO GARELLI Università senza veleni  (Letto 2428 volte)
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« inserito:: Novembre 05, 2008, 08:27:41 am »

5/11/2008
 
Università senza veleni
 
FRANCO GARELLI

 
Vorrei contribuire a svelenire il clima che si è creato sull’università italiana, a seguito del muro contro muro che si è alzato dopo i provvedimenti del governo. Per la verità qualche crepa «comunicativa» si è aperta tra le parti, con l’ammissione di esponenti della maggioranza che su riforme così importanti è bene ascoltare il Paese e l’opposizione. Il confronto può partire proprio dalle anticipazioni sul piano per l’università che il ministro Gelmini sta per varare, al fine di valutarne la capacità di rimedio dei mali del nostro più alto livello di istruzione.

Tali linee guida prevedono per l’università rigidi criteri di bilancio (richiesti a tutti dalla crisi della finanza pubblica), che vietano agli atenei di spendere per il personale più del 90% delle risorse e mirano a ridurre la disseminazione della presenza universitaria sul territorio nazionale. In Italia vi sono 94 atenei, che si articolano in 320 sedi distaccate, tre volte tanto il numero delle Province. La logica del campanile o dell’Italia dei mille Comuni sembra avere permeato anche lo sviluppo universitario, con l’evidente moltiplicazione di sedi con pochi iscritti e dispersione di risorse (327 facoltà hanno meno di 15 studenti, 37 corsi di laurea hanno un solo studente ecc.). Rivedere le situazioni anomale è d’obbligo, contrastando sia la domanda locale di sedi universitarie, sia la tendenza dei governi degli ultimi 7-8 anni (quindi anche quelli del centro-destra) che ha permesso la presenza diffusa dell’università sul territorio. È penalizzando gli atenei dalla finanza allegra e riducendo l’eccesso di sedi che si possono premiare le università che risultano più virtuose, per bilancio, efficienza, produttività scientifica, qualità dell’offerta formativa. Anch’esse devono comunque eliminare gli sprechi e i corsi inutili o fantasma.

Altro punto chiave del piano Gelmini è la revisione delle procedure concorsuali, oggetto di molte critiche pubbliche anche improprie. Le università in questi anni hanno bandito molti concorsi locali, seguendo le modalità previste dalla legge. In previsione c’è il ritorno a concorsi nazionali, con la creazione di una quota d’idonei (per ogni disciplina) da cui i singoli atenei potranno attingere per il loro fabbisogno formativo. Questo criterio più generale di reclutamento non può che essere visto con favore, anche se si scontra con l’attuale vincolo di poter fare un bando o un’assunzione di personale ogni cinque pensionamenti. Le università possono sopportare per qualche tempo questa cura dimagrante, a patto che i criteri restrittivi non si estendano ai giovani ricercatori e che il reclutamento risponda a effettive esigenze di merito e di progetti formativi innovativi, che non premino lo status quo o gli interessi consolidati. Sono auspicabili anche maggiori verifiche nelle carriere universitarie, per evitare che alcuni vivano di rendite di posizione. Tra i punti più controversi del progetto Gelmini vi è la possibilità per gli Atenei di trasformarsi in fondazioni private. In mancanza di precise regole e paletti, molti temono che con questa operazione il governo intenda depotenziare l’università pubblica e favorire quella privata. Qui si tratta di dire parole definitive, sia rassicurando circa le finalità pubbliche di questi enti, sia sottolineando la potenzialità di una formula giuridica che rende più agile il ruolo delle università, permette di patrimonializzare i beni posseduti, offre maggior libertà d’investimenti e progetti.

Molti altri punti caldi dell’università d’oggi non sono affrontati dal piano Gelmini. Tra questi, la decisione se abolire o no il titolo legale dei corsi di studi (scelta che penalizzerebbe le università meno qualificate a vantaggio delle altre); la questione del debole investimento pubblico nella ricerca (e della non separazione delle carriere di ricerca da quelle di didattica), per cui molte facoltà (soprattutto «scientifiche») utilizzano la leva del fabbisogno didattico anche per garantirsi un’adeguata copertura di ruoli di ricerca; la difficoltà di qualificare il target formativo dell’università italiana, che risulta in genere di buon livello medio, ma carente di poli di eccellenza o di formazione avanzata. Gelmini lancia l’accusa che non c’è un ateneo italiano nella classifica dei primi 150 del mondo, ma dimentica che quelli che primeggiano (soprattutto negli Usa) possono contare su budget per la ricerca e sistemi organizzativi impensabili per le nostre università, chiamate a celebrare le nozze con i fichi secchi. Ciò nonostante i nostri studenti Erasmus o i laureati che vanno all’estero si difendono e sono apprezzati. Anche il rientro dei cervelli di cui tanto si parla non attesta il buon livello di formazione di base fornita dalle nostre (bistrattate) università?

Il piano Gelmini non affronta tali questioni strutturali, perché mira a un processo di razionalizzazione più limitato. Accettiamo per realismo questa impostazione, convinti che molti problemi possono essere avviati a soluzione e che nelle università vi sono competenze e risorse (conoscitive e progettuali) utili e disponibili alla causa. Ciò che non si può ammettere è che l’università assurga al male dei mali della società (come se altri ambienti fossero immacolati), secondo stereotipi che alimentano il clima di sfiducia, depotenziano l’impegno dei più che vi lavorano seriamente e tarpano le ali alla presenza pubblica dei giovani.
 
da lastampa.it
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