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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 123027 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Dicembre 30, 2009, 05:31:14 pm »

30/12/2009

La sicurezza ha un prezzo troppo alto
   
MICHELE AINIS


L’eredità degli Anni Zero? Un catenaccio chiuso a doppia chiave. Serve a difenderci dal terrorismo islamico, la cui offensiva ha segnato l’intero decennio, dopo il crollo delle Torri gemelle nel 2001. Ma incatenando le nostre società, siamo riusciti a respingere il nemico? A quanto pare no, o almeno è questa la lezione dell’attentato fallito sul cielo di Detroit.

E allora stringiamo ulteriormente il catenaccio, moltiplichiamo ispezioni e controlli, apriamo nuovi fronti (lo Yemen, dopo l’Afghanistan e l’Iraq). Ne va di mezzo l’utopia d’un mondo senza guerre, senza una gioventù spedita in armi verso luoghi esotici e lontani. Ne va di mezzo quell’ultimo grammo di privacy che avevamo conservato, con uno scandaglio elettronico che in aeroporto fruga non solo nel bagaglio a mano, bensì pure dentro il nostro stomaco. Ne va di mezzo l’abitudine a prendere un volo all’ultimo minuto, con un’attesa media di tre ore in ogni scalo. Ne va di mezzo, in breve, la nostra libertà.

Nulla di strano, dalle minacce bisogna pur difendersi. E d’altronde l’umanità - come diceva Freud - ha sempre barattato una vita più libera in cambio d’una vita più sicura. Ma qual è il prezzo del baratto? Perché la sicurezza costa, e costa in quattrini, oltre che in diritti. La guerra in Iraq ha succhiato più di 500 miliardi di dollari alle finanze americane. Questa cifra diventa quasi il doppio tenendo conto dell’Afghanistan, lievita ulteriormente con i 70 milioni appena stanziati per lo Yemen. Dopo l’attentato alle Twin Towers, sempre gli Usa hanno investito 40 miliardi per ristrutturare il loro sistema di sicurezza aerea. Gli altri Paesi non hanno fatto meno. Soldi ben spesi, si dirà. Ma in ogni caso sottratti alle politiche sociali, all’assistenza dei più deboli, degli emarginati. Del resto non c’è spazio per la solidarietà quando nel consorzio civile si diffonde un clima di sospetto, quando l’altro che incontri per strada o in aeroporto è un terrorista potenziale.

C’è un’alternativa alle catene? Per individuarla, dovremmo liberarci da due abbagli collettivi. Primo: il terrorismo non è l’unica minaccia alla nostra sicurezza. Esiste, certo, e va affrontato senza cedimenti; ma se è per questo, esistono pure i morti sul lavoro (in Italia sono mille l’anno) o quelli in incidenti d’auto. Secondo la National Highway Traffic Safety Administration, negli Stati Uniti le vittime superano la cifra di 3 mila al mese, più di quanti perirono nell’incendio delle Torri; eppure nessuno pensa di mettere un limite alla cilindrata delle autovetture, alla velocità massima che ciascun modello può raggiungere. Né laggiù, né su quest’altra sponda dell’oceano. Per quale ragione? Perché evidentemente si è diffusa una nevrosi sulla sicurezza aerea, non su quella autostradale. E allora chiamiamo le cose con il loro vero nome, e magari consultiamo uno psichiatra.

Secondo: non c’è modo d’azzerare completamente il rischio inoculato dalle centrali terroristiche. Possiamo usare tecnologie sofisticate, tuttavia ogni nuovo ritrovato dura quanto un battito di ciglia, sicché i terroristi potranno ben usare a loro volta una contromisura tecnologica. Non suona consolante ma è così, è questa la nostra condizione. La società del rischio, la definiva Ulrich Beck in un libro degli Anni Ottanta. Al punto che il rischio si è trasformato in merce attraverso i futures, i prodotti finanziari «derivati»; con quali conseguenze, lo abbiamo scoperto a nostre spese proprio durante gli Anni Zero. E allora è giusto circoscrivere il perimetro del rischio, è assurdo immaginare una vita senza rischi. Tanto più se per coltivare quest’aspirazione accettassimo l’estremo sacrificio delle nostre libertà. Pensiamoci due volte: la sicurezza senza condizioni è lo spartito su cui suonano i tiranni. E ricordiamoci di Churchill, quando su Londra cadevano le bombe dei nazisti. Lui disse agli inglesi di resistere, ma non gli chiese mai di rinunziare alla propria identità.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 11, 2010, 10:02:00 am »

11/1/2010

"Ius soli" cade il tabù
   
MICHELE AINIS


La prima riforma degli Anni Dieci non ha il timbro della legge, né tantomeno della legge costituzionale. Viaggia su una vettura più dimessa, più modesta: la circolare ministeriale. Quella con cui il ministro Gelmini ha comunicato ai presidi che il tetto del 30% di alunni stranieri nelle classi non riguarda tutti gli stranieri. Non riguarda, più in particolare, gli stranieri nati qui.

Che dunque da oggi sono un po’ meno estranei alla terra su cui hanno spalancato il loro primo sguardo, o meglio sono diventati un po’ italiani. Una novità a ventiquattro carati: è la prima applicazione dello ius soli in un ordinamento che continua ad essere improntato allo ius sanguinis.

Rispetto al fatto nuovo, non è poi così importante interrogarsi sulle ragioni che lo hanno generato. Può darsi che un tetto rigido, senza compromessi né eccezioni, avrebbe svuotato troppe scuole, dato che i figli degli immigrati sono maggioranza in varie aree del Paese. Può darsi che una riforma per via legislativa s’infrangerebbe contro l’altolà di Bossi e della Lega, e quindi meglio scavalcare il Parlamento. O infine può darsi che in Italia le uniche riforme si facciano sottovoce: non abbiamo forse battezzato l’elezione diretta del presidente del Consiglio senza scomodare la Costituzione, limitandoci a cambiare la scheda elettorale?

Ma il fatto nuovo è figlio a propria volta della nuova società in cui siamo immersi mani e piedi. Nel 2007 gli stranieri iscritti nei registri anagrafici sono cresciuti di 460 mila unità, più dell’anno prima, e dell’anno prima ancora. Questi stranieri hanno dato alla luce 64 mila bambini, il 90% in più rispetto al 2001. E tutti loro - i padri e i figli - sono ormai 4 milioni, solo a contare gli immigrati regolari. Sennonché questi immigrati restano stranieri nella loro nuova Patria: nel 2005 gli abbiamo concesso 19.266 cittadinanze, un terzo rispetto alla Spagna, un decimo rispetto alla Germania, un grammo di polvere rispetto alle 154.827 cittadinanze elargite quello stesso anno dalla Francia.

Possiamo allora accompagnare con un viatico questa circolare? Il viatico è al contempo una speranza, quella d’abitare in un Paese dove le riforme siano proclamate a tutto tondo, senza sotterfugi normativi. Dove la legge del 1992 sulla cittadinanza venga corretta per adeguarla ai nuovi tempi: oggi servono 10 anni (ma in realtà non meno di 13), la proposta bipartisan Sarubbi-Granata (pendente dal 30 luglio in Parlamento, e sottoscritta da 50 deputati di ogni gruppo, a eccezione della Lega) dimezza questo termine. E trasforma inoltre la cittadinanza italiana in un diritto, anziché in una graziosa concessione delle autorità amministrative. Con un giuramento e con un esame d’italiano, perché non c’è diritto senza l’adempimento d’un dovere. Ma in un tempo certo e ragionevole, che diventa automatismo per i figli degli immigrati residenti da 5 anni. Non è buonismo: specialmente dopo i fatti di Rosarno, è un esercizio di realismo.

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« Risposta #47 inserito:: Gennaio 14, 2010, 02:32:38 pm »

14/1/2010
 
L'emergenza continua dei decreti
 
MICHELE AINIS
 
Riepilogando: s’annuncia con alti squilli di fanfara un decreto legge che sospende i processi penali per tre mesi. Motivo? C'è una sentenza costituzionale (la n. 333 del 2009) che va applicata senza indugi: insomma un «caso straordinario di necessità e d'urgenza», come vuole l'art. 77 della Costituzione per ammettere la decretazione del governo.

L'opposizione s'inalbera, rumoreggia nell'aula del Senato, minaccia feroci ostruzionismi. A quanto pare s'insospettisce pure il Quirinale, sicché comincia un negoziato che in ultimo dimezza il termine di prescrizione: non più 90 giorni bensì 45. Infine scocca l'ora del Consiglio dei ministri, ma il decreto non c'è più, il governo scopre all'improvviso che non ce n'è bisogno. E così il visconte dimezzato diventa un cavaliere inesistente, se possiamo rubare il titolo a due celebri romanzi di Calvino.

C’è una lezione da studiare dopo questo giro di valzer sui decreti? Sì che c'è: non è affatto vero che ogni accidente di stagione vada curato per decreto. Non era vero in questo caso, non era vero in molte altre occasioni dove è mancato viceversa un gesto di resipiscenza. Però a studiare dovrebbero andarci anche i signori del Palazzo. Possibile che nei giorni scorsi nessuno si sia preso la briga di leggere la sentenza della Corte? Quella decisione non opera l'annullamento della legge (l'art. 517 del codice di procedura penale) oggetto del sindacato di legittimità costituzionale; non apre quindi una lacuna nel nostro ordinamento, rispetto alla quale si rende talvolta necessario rimediare con un tampone normativo. La sentenza 333 s’iscrive piuttosto nella categoria delle sentenze additive, che non tolgono ma aggiungono frammenti di legislazione, e perciò sono autoapplicative, s'impongono insomma da se stesse.

Nella fattispecie, c'era in gioco il diritto per ciascun imputato di richiedere il rito abbreviato dinanzi a contestazioni suppletive e tardive; il codice non contemplava quel diritto, la Consulta lo ha introdotto aggiungendo una frasetta alla norma originaria. Amen: decreto o non decreto, gli imputati ormai possono avvalersene. L'unica giustificazione del decreto avremmo forse potuto rintracciarla nell’esigenza di rendere certo e omogeneo il termine di sospensione processuale, sottraendolo alla discrezionalità dei tribunali; ma è un argomento un po’ tirato per i piedi, sia perché nessuna legge potrà mai elidere del tutto il margine d'apprezzamento giudiziario, sia perché nel caso specifico i giudici devono comunque valutare se ricorrono i presupposti del diritto, concedendo o no la sospensione.

E dunque, pericolo scampato? Magari. Perché alla fine della giostra l'esecutivo non ci ha fatto mancare il nostro decreto legge quotidiano: ieri ne ha approvato uno sulla spesa degli enti locali, insieme a 5 decreti legislativi e a 3 dichiarazioni di stato d'emergenza. Ecco, l'emergenza: nel tessuto costituzionale è il fatto straordinario che autorizza i poteri normativi del governo, nella prassi della seconda Repubblica è diventato un’emergenza pure il raffreddore. Col risultato che fin qui i decreti battezzati dal governo Berlusconi superano 2 milioni di caratteri (li ha contati alla Camera il Comitato per la legislazione), a loro volta dislocati in varie migliaia di commi che rimbalzano sulle Gazzette ufficiali. Da qui una perenne fonte di conflitti e di tensioni, ora con Napolitano e Fini, ora con le regioni, con la Consulta, con l'opposizione in Parlamento. O ne veniamo fuori, oppure questo raffreddore diventerà letale.

michele.ainis@uniroma3.it
 
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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 25, 2010, 09:55:27 am »

25/1/2010

La terza via di Errani e Formigoni
   
MICHELE AINIS

Se ne discute in Rete e non sui giornali; silenzio di tomba nel Palazzo. Perché questa è questione trascurabile?

Al contrario: perché interessa eccome, sia a destra che a sinistra. Tocca infatti la candidatura di Roberto Formigoni (Pdl) sullo scranno più alto della Lombardia, e tocca quella di Vasco Errani (Pd) alla presidenza dell’Emilia-Romagna. Partono entrambi coi favori del pronostico, meglio non piantare grane. Sennonché il primo governa la Lombardia dal 1995, e s’accinge perciò a eguagliare il record di Benito Mussolini; il secondo sta in sella dal 1999. Domanda: ma è giusto che il potere non abbia mai una data di scadenza? Ed è legittima, è conforme alla legge questa dittatura democratica?

In realtà una legge ci sarebbe, la n. 165 del 2004. Vieta tre mandati di fila ai presidenti di Regione scelti direttamente dal corpo elettorale, e vieta quindi l’elezione sia di Formigoni sia di Errani. Ma attenti alle date, in questa storia di orologi falsi e calendari truccati. La riforma costituzionale che introdusse l’elezione diretta dei «governatori» fu battezzata nel 1999; la sua prima applicazione coincise con le regionali del 2000; la codificazione dei nuovi principi elettorali (per l’appunto, con la legge del 2004) subentrò pertanto con cinque anni di ritardo, dopo che il treno era già partito. E allora contano o non contano le elezioni del 2000? Per non farle contare, salvando le poltrone di Errani e Formigoni, qualcuno spende un duplice argomento. In primo luogo, né l’uno né l’altro - quando ottennero il primo suffragio popolare - sapevano d’avere soltanto due cartucce da sparare, sicché va tutelata la loro aspettativa; in secondo luogo, la legge del 2004 è priva d’effetti retroattivi, dato che il diritto si proietta sul futuro, non sui sepolcri del passato.

Ma questi due argomenti sono scritti sulla sabbia. Forse che nel 2000 Errani e Formigoni avrebbero rifiutato l’elezione, se gli fosse stato detto di non poterla più ripetere nel 2010? Forse che in quel caso avrebbero lasciato che vincesse l’avversario? Anche il principio d’irretroattività cade un po’ a sproposito. La nostra Costituzione lo sancisce esclusivamente in materia penale; nelle altre circostanze il legislatore fa come gli pare, e infatti non mancano le leggi che dichiarano d’applicarsi a fatti del passato. Di più: talvolta la retroattività s’accompagna come un vestito su misura al corpo normativo. È il caso delle leggi d’interpretazione autentica, che chiariscono - oggi per ieri - il significato d’una legge preesistente; ma è anche il caso, per esempio, della legge che introduca un’imposta sugli immobili, la quale non risparmierebbe certo i vecchi proprietari. Altrimenti dovremmo pensare che se domani verrà impedito ai ciechi di guidare un aeroplano, il divieto colpirà soltanto i nuovi ciechi.

Insomma, basta un grammo di buon senso. Oppure basta leggere una sentenza della Cassazione (n. 2001 del 2008), che in una fattispecie analoga ha escluso il medesimo giochino per i sindaci. E a proposito del governo dei Comuni: anche qui i politici rubano il mestiere agli azzeccagarbugli. La legge n. 361 del 1957 vieta il doppio incarico di parlamentare e sindaco, quando il primo cittadino amministri più di 20 mila abitanti; per mezzo secolo è stata applicata senza troppi sotterfugi, poi nella XIV legislatura le Camere ne hanno brevettato un’interpretazione folgorante. D’altronde, diceva Giolitti, la legge si interpreta per gli amici e si applica per i nemici. Sicché ormai il divieto vale quando un sindaco si candida in Parlamento, non quando un parlamentare corre per un municipio. Da qui il caso di Brunetta candidato al Comune di Venezia, da qui molti altri casi. Alla faccia del conflitto d’interessi (il sindaco è controllato dal governo che a sua volta egli controlla da parlamentare), e a dispetto del buon Dio, che ci ha elargito solo ventiquattr’ore al giorno per smaltire i nostri doppi incarichi.

C’è una vittima in queste prossime elezioni con il trucco? Sì che c’è, il voto che gli italiani espressero il 2 giugno 1946. Quella volta scelsero la repubblica per liberarsi d’un sovrano a vita, per alternare le facce del potere; ma il potere, a quanto pare, ha una sola faccia, ed è una bella faccia tosta.

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« Risposta #49 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:41:17 pm »

27/1/2010

Se lo Stato laico invade le identità
   
MICHELE AINIS


C’è una domanda che sale subito alle labbra, ora che la Francia s’avvia a vietare il burqa nei principali luoghi pubblici: sarebbe giusto importare ai nostri lidi il medesimo divieto? Sarebbe in sé desiderabile? E c'è un principio costituzionale sul quale possa fondarsi quel divieto? Quest’ultimo profilo chiama in causa la laicità delle nostre istituzioni, che a propria volta la Consulta (nel 1989) ha eretto a principio supremo dell’ordinamento giuridico italiano.

E tuttavia, per una volta almeno, meglio non affidarsi troppo alle parole, sia pure quelle scolpite sulle tavole di bronzo della legge. Nel panorama contemporaneo s'incontrano Costituzioni che si proclamano espressamente laiche (in Francia, in Russia, in Turchia), altre che viceversa s'aprono con l’invocatio dei (in Irlanda, in Grecia, in Svizzera, in Germania), pur essendo - talvolta - più laiche e liberali delle prime. D'altronde nel Regno Unito l’esistenza di una chiesa di Stato non offusca la laicità di quell’ordinamento, mentre la superlaica Francia spende palate di quattrini per finanziare il clero. Il fatto è che la laicità, come la democrazia, si lascia declinare in mille guise. Per misurarla bisogna valutarne le concrete applicazioni, più che le dichiarazioni di principio. Il modello francese è tra i più intransigenti nel vietare i simboli d'appartenenza religiosa, e infatti dal 2004 oltralpe c’è una legge che impedisce d'indossare a scuola non solo il velo islamico, ma pure la kippah o una croce un po’ troppo vistosa. Proviamo allora a soppesare gli argomenti a favore o contro tale soluzione. E proviamo a farlo - giustappunto - laicamente, senza preconcetti ideologici né tanto meno religiosi.

Primo: la sicurezza. Se ti copri fino ai piedi con un vestito afghano, come potrò esser certo che non nascondi sotto il burqa qualche chilo di tritolo? E come farò a identificarti, se del tuo volto posso vedere solo gli occhi? Preoccupazione legittima, ma allora per simmetria dovremmo proibire anche il passamontagna, il casco dei motociclisti, la maschera di Paperino a Carnevale. Dovremmo impedire la circolazione ai signori troppo intabarrati, con questo freddo poi, come si fa. No, non è la sicurezza l’alibi di ferro per importare quel divieto, lo prova il fatto che esso non s’estende ad altri tipi di mascheramento. E del resto consentire il burqa non significa consentire d'incollarlo al corpo con il mastice, se un poliziotto ti chiede di sollevarlo per guardarti dritto in faccia, tu comunque hai l'obbligo di farlo.

Secondo: la tutela delle islamiche rispetto alla prepotenza del gruppo cui appartengono. Difatti il burqa evoca un atto di sottomissione, la condizione della donna come figlia di un dio minore. Vero, due volte vero; ma siamo certi che sia giusto proibirlo anche quando chi l’indossa abbia deciso spontaneamente di vestirsene? Non c’è forse l'ombra di un imperialismo culturale in tale atteggiamento? Non puzza un po’ di Stato etico, non è paternalistica l'idea che i pubblici poteri debbano liberare gli individui dai condizionamenti sociali o familiari? E perché allora non vietare pure il battesimo ai minori, la circoncisione dei bambini ebrei, la prima comunione? No, l'identità - di singolo e di gruppo - è sempre il frutto di una scelta, mai di un’imposizione; è questione culturale, che va aggredita quindi con strumenti culturali, non attraverso il bastone della legge. Sempre ammesso che sia desiderabile forgiare una società omogenea come un plotone militare. Ci aveva provato Mao Tse-tung, ordinando ai cinesi d’indossare tutti la medesima divisa. La nostra idea di laicità è l’opposto, muove dal diritto di vestirci un po’ come ci pare. Un Carnevale che dura tutto l'anno.

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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 11, 2010, 10:34:20 am »

11/2/2010

Nasce il par silentium
   
MICHELE AINIS

Lì per lì, saluti la notizia con un respiro di sollievo: per un mese intero, prima delle elezioni regionali, niente risse fra i politici in tv. Niente liturgie in politichese.

Niente talk show in prima serata dove il ministro di turno s’esibisce come una rockstar. Diciamolo, negli ultimi tempi ne avevamo fatto indigestione. Ma nel caso di specie la quarantena non dipende dalla legge dell’Auditel, bensì da quella sulla par condicio. O meglio dall’ultima paradossale applicazione che ne ha dettato la commissione di Vigilanza sulla Rai.

Per la precisione, i paradossi sono tre. Primo: l’espulsione della politica dai programmi d’informazione politica. Bruno Vespa, Michele Santoro, Giovanni Floris, Lucia Annunziata potranno continuare le rispettive trasmissioni, dedicandole però ai cuori infranti o alla cucina esotica. Forse sarebbe meglio cambiare conduttore, ma questo la commissione parlamentare non lo ha mai deliberato, in Italia non c’è mica la censura.

Secondo: se c’è un momento in cui i nostri connazionali spendono qualche grammo d’interesse verso gli affari del Palazzo, quel momento coincide con una vigilia elettorale. E per dissetarli il Parlamento gli spegne la tv? O in alternativa rimpiazza il dibattito fra i candidati con le vecchie tribune politiche, con una visita guidata al museo delle cere? Se l’obiettivo è d’impinguare il già grasso astensionismo elettorale, coraggio, siamo sulla buona strada.

Terzo: che ne sarà di Matrix, che ne sarà degli altri approfondimenti politici che vanno in onda sulle reti private? Cambiando rete cambia pure lo sceriffo, che nella fattispecie indossa la stella dell’Autorità per le telecomunicazioni. Siccome è improbabile che quest’ultima ripeta virgola per virgola l’editto della Vigilanza Rai (è o non è un’autorità «indipendente»?), alla fine della giostra avremo due regimi, dove nel primo è vietato ciò che nel secondo viene consentito. Ma per viaggiare da un regime all’altro non serve il passaporto, basta il telecomando. Un po’ di zapping e l’editto della Vigilanza Rai avrà l’unico effetto di far precipitare gli ascolti della Rai.

Questi tre ossimori sono figli a loro volta d’un quarto paradosso, in Italia il più antico e persistente. È il paradosso delle regole: senza, la libertà non può attecchire, perché gira subito in licenza, e la licenza in prepotenza, autoritarismo, arbitrio; ma troppe regole s’elidono a vicenda, e in ultimo uccidono la stessa libertà che dovrebbero salvare. Ecco, le regole. Nel preambolo del regolamento battezzato dalla commissione di Vigilanza sulla Rai vengono enumerate 10 leggi nazionali, 6 leggi regionali, una convenzione e 3 atti d’indirizzo. Quello stesso testo sviluppa 13 articoli, 451 righe, 5.350 parole. Manca una norma sui colpi di tosse e gli starnuti in tv, ma prima o poi ci arriveremo.

Nulla d’inedito, la stessa armatura normativa inchioda tutti gli ambiti della nostra vita pubblica e privata. Ma nel caso della libertà d’informazione il suo effetto è ancora più nefasto. Perché un’informazione addomesticata è in realtà un’informazione negata. Perché il pluralismo va piuttosto garantito con una severa disciplina antitrust e con una Rai non lottizzata dai partiti. Infine, certo: perché la par condicio si è rivelata una iattura. Varata nel 1995 dal governo Dini, non ha mai assicurato l’equal time fra i candidati come succede negli Usa, trasformandosi viceversa in un fattore d’opacità nell’avventura elettorale. Sarebbe il caso di sostituirla con regole più duttili, più sobrie, più rispettose della libertà d’informazione. Anche se proprio adesso la par condicio ha generato il suo frutto maturo: il par silentium.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #51 inserito:: Febbraio 20, 2010, 11:12:05 am »

20/2/2010

Il potere senza data di scadenza
   
MICHELE AINIS

Uno sdegno collettivo monta nella società italiana. Si spegnerà presto, lo sappiamo già per esperienza. D’altronde la tensione etica è come quella erotica. Non dura a lungo. Nel frattempo la corruzione occupa tutta la nostra scena pubblica.

Inchieste giudiziarie, grida d’allarme della Corte dei conti, statistiche nerissime (da Eurispes a Transparency International), dibattiti di seconda mano sul rapporto fra società politica e società civile. Infine l’esecrazione risuona nei pulpiti più alti, dal presidente del Consiglio al papa. La terapia? Sempre la stessa, inasprire pene e penitenze. Come se un anno di galera in più possa dissuadere il peccatore.

Tuttavia non è vero che il diritto sia impotente a curare la nostra etica pubblica. E specularmente non è vero che in Italia quest’ultima voli rasoterra per un tratto antropologico, per un cranio di Lombroso che ci hanno trasmesso i nostri avi. Gli italiani, al pari degli esquimesi o degli indiani, non sono né diavoli né santi. O meglio sono gli uni e gli altri, dipende dalle regole del gioco. Se alle nostre latitudini è in gran voga l'intrallazzo, dobbiamo domandarci cos’abbiano di speciale queste regole rispetto agli altri Stati. Se l’intrallazzo governa la seconda repubblica al pari della prima, dobbiamo inoltre chiederci quali regole siano sopravvissute con la medesima divisa dopo Tangentopoli.

Ma la risposta non è affatto complicata, perché la corruzione galleggia sempre in un sistema chiuso, oligarchico, senza ricambio di classi dirigenti. Nuota a suo agio dove il mare è opaco. Dove i controllori coincidono con i controllati. Dove manca ogni separazione fra economia e politica, così come fra amministrazione e governo. Dove infine la cultura del merito sta solo sui libri, perché nella vita reale l’appartenenza trionfa sulla competenza.

È a questi mali che dovremmo dedicarci. Rovesciando le regole che li hanno allevati, a cominciare dalla scarsa trasparenza degli appalti così come dei concorsi. Mettiamo tutto online, come dice Brunetta; ma stabiliamo inoltre che in ogni procedura i commissari siano sempre sorteggiati, e che rispondano delle proprie scelte. Scriviamo una legge sulle lobby, quale esiste negli Usa fin dal 1946. Sbarazziamoci dello scandalo giuridico che permette al governo di nominare i giudici contabili e amministrativi. Sminiamo il campo dai troppi conflitti d’interesse benedetti dalla legge. Eliminiamo lo spoil system, restituendo ai funzionari pubblici la neutralità promessa dalla Carta. Insomma poniamo il diritto al servizio dell’etica pubblica, invece di baloccarci con la riforma del bicameralismo.

E c’è poi un’ultima regola su cui dovremmo usare lo scalpello: quella che rende immarcescibili le facce dei potenti. Difatti un potere senza data di scadenza può inebriare anche gli astemi. Ti senti invincibile, ma il senso d’impunità è il primo alimento della corruzione. Per questa ragione nell’antica Grecia le maggiori cariche duravano un anno o anche soltanto un giorno, come nel caso dell’epistate dei pritani, il capo dello stato. Per la medesima ragione potevano ricoprirsi una sola volta nella vita, o al massimo due volte. In democrazia - diceva Aristotele - si governa e si viene governati a turno.

Tuttavia il principio della rotazione delle cariche non è affatto un fossile giuridico, se vincola la stessa presidenza degli Stati Uniti. Invece Bertolaso ha iniziato a dirigere la Protezione civile nel 1996, tre lustri fa. In Italia è la regola, e infatti alle prossime regionali Errani e Formigoni s’apprestano a toccare il ventennio di comando, benché una legge del 2004 renda assai dubbia la loro elezione. Ecco, la legge. Usiamo il bastone del diritto per vietare le poltrone a vita, nella società politica non meno che nella società civile. Se non altro costringeremo corrotti e corruttori a rinnovare l’agendina telefonica.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it
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« Risposta #52 inserito:: Febbraio 24, 2010, 05:37:15 pm »

24/2/2010
La repubblica dei corrotti
   
MICHELE AINIS

Benvenuti nella Repubblica dei corrotti: c’è posto per tutti e non c’è neanche bisogno di mettersi ordinatamente in fila, tanto nessuno la rispetta. Ma come abbiamo fatto a guadagnarci questo speciale passaporto? Perché siamo inquilini d’uno Stato senza Stato, ha osservato ieri Luca di Montezemolo. E perché in questo vuoto prosperano l’inefficienza pubblica e l’illegalità privata.

Ma prospera inoltre un paradosso, giacché nel nostro caso il vuoto dipende in realtà dal troppo pieno. Non è che ci abbia lasciato orfani lo Stato: semmai è cresciuto a dismisura, è diventato un elefante impietrito dalla sua stessa mole. Non è che in Italia manchino le leggi: ne abbiamo viceversa fin troppe sul groppone, col risultato che s’elidono a vicenda, e in ultimo ciascuno fa come gli pare. Non è che il Paese soffra l’assenza di un’energia riformatrice, come il corpo d’un malato lasciato senza medicine: le medicine sono a loro volta troppe, troppi i dottori che ce le somministrano, e ovviamente ogni dottore cambia la terapia confezionata da chi lo aveva preceduto. Sicché alla fine della giostra il paziente muore intossicato.

Valga per tutti il caso dell’università. Noi professori siamo costretti ormai da anni a un andirivieni normativo, dato che ogni governo si sente in obbligo di riformare la legge di riforma, quella varata dal vecchio esecutivo. Le riforme, poi, non sempre fanno tabula rasa del passato ordinamento; più spesso vi s’innestano, crescono per superfetazione, e infatti in questo momento gli atenei italiani offrono simultaneamente corsi di laurea diversi per durata, per numero d’esami, per disciplina complessiva. Non sapendo come diavolo chiamarli, li distinguono in relazione al vecchio, al nuovo e al «nuovissimo» ordinamento, con buona pace dell’Accademia della Crusca. Nel frattempo l’università ha sperimentato più divorzi di Liz Taylor: prima fusa con la scuola sotto un unico ministro, poi retta da un dicastero autonomo, ora di nuovo coniugata. Ma a conti fatti abbandonata al suo destino, perché nessuna riforma può generare frutti se non le si lascia il tempo d’attecchire. Dal pieno nasce dunque il vuoto, ed è esattamente in questo vuoto che hanno messo radici parentopoli, concorsopoli e gli altri scandali dell’università. Per forza, con 111 leggi in materia d’istruzione negli ultimi tre lustri, tutte elencate e consultabili nel sito web di Montecitorio. Ecco, le leggi. Nonostante le buone intenzioni del ministro Calderoli, ne abbiamo ancora 20 mila in circolo. Senza contare quelle regionali (all’incirca 25 mila), né i regolamenti del governo (70 mila).

Significa che il nostro diritto è un corpo opaco, inconoscibile per gli stessi addetti ai lavori. Significa al contempo che i furbi trovano sempre una scialuppa normativa che li conduce in salvo, mentre l’onesto annega. Ma questa ipertrofia della legislazione nutre a sua volta il corpaccione dello Stato, e a sua volta ne è nutrita. Anche qui basterà un esempio. Nell’officina del diritto ospitata da Palazzo Chigi c’erano 345 dipendenti sotto il Duce; oggi sono quasi 5 mila. E anche quando lo Stato si sottopone a una cura dimagrante, cedendo quote di potere, finisce per moltiplicare gli apparati burocratici (è il caso delle Regioni), oppure per moltiplicare i controllori, i quali giocoforza si pestano i piedi a vicenda (è il caso delle authorities, che ormai sono una dozzina).

Insomma, la nostra malattia morale s’accompagna a una bulimia di leggi, di istituzioni, d’apparati. Sarà la fame atavica dei politici italiani, che non sanno rinunciare a una provincia inutile o ai mille posti in Parlamento per non sparecchiare la tavola imbandita. Sarà l’idea di passare in gloria con la riforma del millennio. Però c’è almeno una virtù che a questo punto dovrebbero esibire: la virtù dell’astinenza.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #53 inserito:: Marzo 06, 2010, 11:28:25 am »

6/3/2010


   

MICHELE AINIS

Gira e rigira, alla fine il governo ha tirato fuori dal cilindro un coniglio vestito da decreto. Così, giusto per non perdere le sane abitudini. Anche se i decreti in materia elettorale sono vietati espressamente (art. 15 della legge n. 400 del 1988). Anche se l’escamotage della norma interpretativa suona in realtà come una frode, che in passato la Consulta ha castigato a più riprese. Funziona così: il legislatore detta una nuova regola sostenendo che fosse già racchiusa in una regola più vecchia, come il frutto nel seme. E dunque la circonda di efficacia retroattiva, la rende valida oggi per ieri. Sennonché l’esigenza di chiarire per legge il significato di una legge può sorgere quando sussistano contrasti giurisprudenziali, oscillazioni applicative, incertezze amministrative. In caso contrario è solo un trucco.

Nel frattempo la gara elettorale si è trasformata in una zuffa sulle regole. Non è la prima volta, non sarà neppure l’ultima. Senza andare troppo a ritroso, si può ricordare per esempio che le regionali del 2005 furono accompagnate da un corteo d’inchieste giudiziarie su e giù lungo la penisola, dal Piemonte alla Campania. Per quale ragione?

Firme fasulle, oppure carpite con l’inganno, oppure apposte in fogli bianchi, senza l’elenco dei candidati; anche perché di solito le liste vengono chiuse all’ultimo minuto.

Insomma ci risiamo. Generalmente gli uomini imparano dai propri errori; ma gli uomini politici hanno le orecchie d’asino. Eppure questa vicenda surreale, che in Lombardia e nel Lazio può ancora inaugurare una partita con una sola squadra in campo, dovrebbe impartirci quantomeno una lezione. Per apprezzarla, c’è però da prendere sul serio la folla di domande che in queste ore si vanno ponendo gli italiani. Qual è il peso della legalità formale rispetto all’interesse sostanziale di scegliere fra due programmi alternativi? È giusto che il rito democratico sia ostaggio d’una procedura burocratica? È accettabile che il successo d’una lista venga sancito non dagli elettori bensì dai magistrati? E c’è infine una ragione per rendere esente la politica dai rigori della legge, a differenza di quanto accade in sorte ai comuni cittadini?

Queste domande investono la natura stessa del diritto. Che tuttavia è sempre una medaglia con due facce, l’una formale, l’altra sostanziale. La prima viene scolpita a caratteri di piombo nelle Gazzette ufficiali, attraverso una litania di commi e articoli, che a propria volta disegnano procedimenti, uffici, competenze. Se non esistesse tale forma, se tutto il diritto fosse racchiuso nella parola volubile e volante del sovrano, noi non conosceremmo la linea di confine fra i torti e le ragioni, saremmo come ciechi al cospetto della legge. Ecco perché i giuristi, da Montesquieu a Calamandrei, ripetono da secoli che la forma è garanzia di libertà. Ma ne è al contempo ancella, perché la libertà - insieme all’eguaglianza - esprime lo specifico fine del diritto, la sua ragione sostanziale.

Il guaio è che noi italiani non sappiamo tenerci in equilibrio su queste due parallele. E allora ci alleviamo in seno i due figli degeneri del diritto: formalismo e sostanzialismo. Il primo indossa per esempio l’abito confezionato dalla commissione di vigilanza sulla Rai, che in nome della par condicio ha strangolato il dibattito politico che la par condicio dovrebbe viceversa garantire. Il secondo rappresenta la perenne tentazione di chi siede nella stanza dei bottoni, ma i suoi effetti sono ancora più nefasti. Nel dopoguerra - per fare un altro esempio - la Polonia approdò al regime socialista senza sostituire le sue vecchie leggi, con una semplice norma interpretativa, dove fu sancito l’obbligo d’applicarle in conformità ai dettami del marxismo.

C’è un modo per riconciliare la forma alla sostanza, in quest’ennesima vicenda di delitti elettorali? Sì che c’è, se non per l’oggi, almeno per il domani. Ma a condizione d’abbracciare una soluzione estrema, che tagli la mala pianta alla radice. Le norme in vigore impongono di raccogliere varie migliaia di firme per candidarsi alle elezioni, facendole autenticare da un notaio, da un cancelliere, da altri pubblici ufficiali. Una montagna impervia da scalare per chi non abbia alle spalle un partito organizzato, ed è infatti da questa somma vetta che
s’esercita la signoria dei partiti sugli eletti. Salvo poi calpestare la regola essi stessi, quando conviene, quando non c’è tempo, quando il candidato sbuca fuori all’ultima curva del circuito. Ecco, rompiamogli in testa questa spada. Togliamo via di mezzo tutti i filtri per candidarsi alle elezioni. Costringiamo i partiti a competere con liste di cittadini fuori dai partiti. Se poi questo ne segnerà la fine, vorrà dire che se la sono un po’ cercata.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #54 inserito:: Marzo 21, 2010, 04:22:48 pm »

INTERVISTA.

Il portavoce Eschenbaecher: "Finora nessuno ci ha chiamato"

"Nel 2008 voto regolare, ma sulle reti Mediaset una linea troppo favorevole al Pdl"

"Osce pronta a intervenire ma serve l'ok del governo"

di ANAIS GINORI


ROMA - "Siamo già stati in Germania, Norvegia, Italia. Andiamo dappertutto. Di solito, spetta al governo invitare i nostri osservatori per l'appuntamento elettorale. In questo caso, non è avvenuto". Jens Eschenbaecher è il portavoce dell'ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce. Dal 1991, l'organismo internazionale con sede a Varsavia ha inviato i suoi osservatori in molti paesi europei. Anche in Italia. L'ultima volta è stata alle politiche dell'aprile 2008.

Come si svolse la missione?
"Eravamo stati chiamati dall'allora ministro degli Esteri Massimo D'Alema. C'era stata una fase preparatoria, subito dopo lo scioglimento delle Camere e successivamente a ridosso del voto. Nel complesso, i nostri esperti non avevano constatato gravi irregolarità".

Il caos delle elezioni regionali non meriterebbe la vostra attenzione?
"In tanti anni, ci è accaduto raramente di occuparci di scrutini locali. Concentriamo il nostro lavoro su elezioni nazionali, che siano presidenziali o parlamentari. In ogni caso, ripeto: interveniamo solo quando c'è la richiesta ufficiale di un governo".

Dall'Italia non vi ha chiamato nessuno per la prossima scadenza?
"No, nessuna richiesta da Roma, ma forse sarebbe stato strano il contrario. Il mandato dell'Osce non prevede controlli sul voto amministrativo".

Entrate in campo solo quando ci sono rischi di brogli o irregolarità?
"È un luogo comune. La nostra missione è assicurare il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, promuovendo i principi della democrazia".

E quindi in Europa dove c'è stato bisogno di voi?

"Qualche mese fa, gli esperti dell'Osce sono stati inviati in Germania. Prima ancora eravamo stati in Norvegia. Cito questi due esempi per far capire che non interveniamo solo quando c'è una presunta emergenza democratica".

In Italia si potrebbero fare passi avanti, no?
"Nel 2008, l'Osce si è limitato a monitorare il sistema di procedure: la formazione delle liste e delle candidature, il diritto di voto passivo e attivo, la comunicazione elettorale. Abbiamo fatto quella che in gergo si chiama "missione di valutazione"".

Quali furono allora le critiche?
"Secondo il rapporto dei nostri esperti, la campagna elettorale del 2008 era stata pluralistica e competitiva, anche se era stata segnalata la linea editoriale favorevole al Pdl nei canali Mediaset. Ma l'Italia ha una tradizione di elezioni democratiche caratterizzate da un elevato tasso di partecipazione. E questo è indubbiamente positivo rispetto ad altri paesi europei".

© Riproduzione riservata (21 marzo 2010)
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« Risposta #55 inserito:: Marzo 23, 2010, 09:11:13 am »

23/3/2010

I gay e la legge che non c'è

MICHELE AINIS

Oggi la Consulta torna sotto i riflettori.
Ma questa volta non è la politica che bussa al suo portone, come per il lodo Alfano o per il «salvaliste».

È piuttosto la società civile, o meglio una minoranza discriminata dalla storia e dal diritto: il popolo dei gay. Rispetta la Costituzione il divieto di sposarsi, l’uomo con l’uomo, la donna con la donna? Secondo i tribunali di Venezia, Trento, Firenze e Ferrara no, non la rispetta; e per l’appunto invocano il verdetto della Corte. Da qui una grande questione giuridica e sociale. Ma da qui anche un nodo istituzionale, che tocca i rapporti fra i poteri dello Stato. Sta di fatto che il matrimonio omosessuale viene consentito in Belgio, Olanda, Spagna, Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Islanda, nonché in 4 Stati americani. Molti altri Paesi prevedono forme di registrazione pubblica delle unioni omosessuali, sulla scia dei Pacs introdotti in Francia nel 1999. In Italia, viceversa, l’unico esperimento normativo - i Dico - è rimasto chiuso in un’ampolla di laboratorio, quello diretto dal professor Prodi.

C’è insomma una lacuna grande quanto un lago. Anche il divieto di sposarsi per i gay non è mai scritto a lettere di piombo sulle Gazzette ufficiali, piuttosto si desume dal silenzio della legge. In questo deserto normativo si rispecchia il vuoto della politica italiana, la sua congenita impotenza. E allora le istanze di libertà, la sete di diritti, si scaricano sulle aule giudiziarie. È già accaduto per Eluana, dato che il testamento biologico rimane a propria volta orfano di disposizioni normative. E almeno in quel caso la risposta delle corti ha innescato una rissa furibonda tra i poteri dello Stato.

Sapremo presto se succederà di nuovo. Però sappiamo fin da adesso che i dubbi del diritto girano attorno a una questione d’eguaglianza. Davvero i matrimoni gay ferirebbero le nostre tradizioni? Negli anni Cinquanta era un’offesa al buon costume mettersi in bikini sulla spiaggia; oggi è un’offesa fare il bagno in calzamaglia. Davvero quei matrimoni sarebbero un oltraggio alla natura? Ma una legge del 1982 - avallata poi dalla Consulta - permette ai transessuali di sposarsi, anche se ovviamente dall’unione non nascerà una prole. Succede, d’altronde, pure a molte coppie eterosessuali. E allora è giusto discriminare i gay rispetto a chi cambia sesso per mano d’un chirurgo? È giusto impedirgli di mettere su famiglia quando nessun interesse pubblico - né di sanità, né di sicurezza collettiva - verrebbe minacciato? E che cos’è, dopotutto, la famiglia?

La Costituzione italiana la definisce come una «società naturale fondata sul matrimonio». In altre parole, non la definisce. Né dice che il matrimonio sia la somma di un uomo e di una donna. Certo, nel 1947 era a questo che pensavano i nostri padri fondatori. Ma scelsero di qualificarla con l’aggettivo «naturale» proprio allo scopo d’assecondarne gli sviluppi, senza frenare il motore della storia. Sicché in ultimo, la domanda posta alla Consulta è tutta in questi termini, a che punto è la nostra storia.

Avrebbe dovuto offrire il suo responso la politica, ma nell’ottobre scorso un documento ufficiale della Camera ha equiparato i gay a chi compie atti di sadismo, d’incesto, di pedofilia. Che poi la nostra società viaggi su umori ben diversi, è un altro segno del muro che divide partiti e cittadini. L’ultimo Rapporto Eurispes dichiara che soltanto un italiano su 10 considera l’omosessualità immorale; e il 61% è favorevole ai matrimoni gay o alle unioni civili. Può darsi che tutto ciò non basti, che la Consulta rifiuti di colmare la lacuna in omaggio alla discrezionalità legislativa. Sul piano del diritto avrebbe le sue buone ragioni; resta da chiedersi se la politica meriti ancora questo omaggio.

da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Marzo 31, 2010, 03:02:47 pm »

31/3/2010


   
MICHELE AINIS


C’è un 8 per mille che doniamo ai signori dei partiti. E per lo più senza saperlo né volerlo, come succede per la Chiesa.
Anche in questo caso il trucco c’è, ma non si vede. Però mentre il giochino inventato da Tremonti (e messo poi nero su bianco in una legge del 1985) ha via via innescato un fiume di proteste, qui invece tutti zitti, non ci accorgiamo nemmeno del raggiro.

Come funziona l’8 per mille religioso? Attraverso un marchingegno giuridico che calcola pure la scelta dei contribuenti che non scelgono. Ciascuno di noi, quando compila la dichiarazione dei redditi, può infatti mettere una firma per destinarlo in favore dello Stato, della Chiesa cattolica, di altri culti minori. Ma il 60% degli italiani resta con la penna in mano, firmano soltanto 4 su 10. Poco male, perché la torta viene comunque servita per intero, tagliandone le fette in proporzione alle scelte manifestate espressamente. E così la Cei si mette in tasca un miliardo di euro l’anno, pur meritandone neanche la metà.

L’8 per mille politico gira sui medesimi ingranaggi. Contano le schede votate, non quelle che nessuno ha provveduto a ritirare. I seggi in palio vengono distribuiti fino all’ultimo, anche se gli elettori hanno divorziato in massa dalle urne. D’altronde pure il finanziamento pubblico ai partiti riflette la stessa impostazione. E anche qui lo Stato non risparmia un euro, perché tutta la posta viene ripartita in base alle percentuali di consenso che ogni partito guadagna alle elezioni. Il non consenso, il popolo degli astenuti, diventa così un consenso tacito verso i padroni del vapore. A dispetto della matematica, ma forse - al punto in cui siamo arrivati - anche a dispetto della democrazia.

S’apre infatti una doppia questione dopo le elezioni regionali. Quella politica, certo: come recuperare alla nostra vita pubblica quanti se ne sono allontanati. I partiti - di destra e di sinistra - hanno subito promesso d’occuparsene, dato che a quanto pare l’astensionismo è bifronte come Giano. Che poi davvero ci riescano, è tutt’altra faccenda. C’è però un’altra faccia del problema: quella istituzionale. Sta di fatto che abbiamo appena registrato la più bassa affluenza della storia repubblicana: il 64,2%. Significa che il partito del non voto è ormai il primo partito politico italiano, ben più del Pdl, che a conti fatti riscuote il consenso di appena un italiano su 6. Anzi: se al 36% d’astenuti sommiamo le schede bianche e nulle, quel partito supera da Dc dei tempi d’oro. Tanto per dire, in Campania i voti invalidi toccano il 5,8%, in Lazio il 4,1%, in Basilicata il 6,7%, in Piemonte il 5,7%.

E allora è giusto lasciare senza voce il 40% del popolo italiano? Possiamo farlo, certo; però sapendo già in anticipo che in tale ipotesi la frustrazione non può che generare altra disaffezione. Oppure possiamo farci carico della domanda silenziosa uscita dalle urne. Quali che siano le sue ragioni individuali, il non voto esprime infatti un rifiuto della delega, e perciò l’aspirazione verso altri strumenti, altri canali di deliberazione. Sarebbe logico tenerne conto amputando in proporzione seggi e quattrini dei partiti, ma logica e politica non vanno quasi mai d’accordo; non per nulla Aristotele ne trattò in due opere distinte. Però dovremmo quantomeno potenziare gli istituti di democrazia diretta, a partire dal referendum, ormai rinsecchito come un vecchio tronco. Non accadrà, statene certi. Specialmente alle nostre latitudini, gli assenti hanno pur sempre torto, anche quando hanno ragione.

da lastampa.it
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« Risposta #57 inserito:: Aprile 07, 2010, 04:34:55 pm »

7/4/2010

La grande riforma di Arlecchino
   
MICHELE AINIS

Messe in archivio le elezioni, la politica ha ripreso a trastullarsi col suo gingillo preferito: le riforme costituzionali. Non è una novità, sono trent’anni che ci giriamo attorno. Nel frattempo abbiamo sfogliato tutti i petali di questa margherita, dal presidenzialismo al cancellierato, dal neoparlamentarismo al premierato. Ora è il turno del semipresidenzialismo in salsa francese, evocato a gran voce dalla Lega. Neanche questa è una prima assoluta, benché pochi ne serbino memoria. Un mercoledì di giugno del 1997 la Bicamerale di D'Alema lo scelse infatti come futuro sistema di governo, sia pure in modo alquanto accidentale. Era accaduto che i commissari della Lega, che da quattro mesi ne disertavano i lavori, si presentassero compatti al voto conclusivo, rovesciando la maggioranza favorevole alla premiership. Un’imboscata, ma alla fine tutti si dichiararono contenti, tanto per noi italiani ciò che conta è una bella targa straniera sul modello di riforma, francese o inglese fa lo stesso.

Sta di fatto che in Francia il semipresidenzialismo esprime precisi connotati. In primo luogo, nel 1958 venne imposto da De Gaulle con uno strappo costituzionale, giacché il progetto di riforma non fu mai discusso in Parlamento; ma speriamo che almeno questo ci venga risparmiato, dato che non abbiamo un’Algeria nei nostri confini, né i parà del generale Massu a rumoreggiare nelle piazze.

In secondo luogo, l'obiettivo di De Gaulle era di mettere un bavaglio alle assemblee elettive; e infatti il Parlamento francese non ha mai avuto una salute di ferro, nemmeno dopo la riforma predisposta nel 2008 dalla commissione Balladur. Per un Parlamento malaticcio com’è ormai quello italiano, il semipresidenzialismo insomma può risolversi nel colpo di grazia, quello che ti toglie il fiato in gola. In terzo luogo, e soprattutto, l’attributo più pregnante del modello francese descrive altresì il suo fattore di maggiore debolezza. La Quinta Repubblica - diceva Duverger - è infatti un’aquila a due teste, con un capo dello Stato eletto direttamente dal corpo elettorale e un Primo ministro sostenuto dalla maggioranza in Parlamento. Tutt’e due a dividersi il menu, talvolta litigando (è accaduto nei 9 anni di coabitazione fra esponenti di partiti avversi), talvolta con il secondo ridotto a maggiordomo del presidente in carica. Da qui una perenne fonte d'incertezza: non a caso in mezzo secolo di vita la Costituzione francese ha attraversato 23 revisioni.

Ma forse per i politici italiani vale di più l’unica certezza che si può comprare in Francia: la doppia poltrona. In una ci fai sedere Berlusconi, nell’altra può sempre accomodarsi Bossi. E Fini? Se il metro di giudizio è questo, più che un semipresidenzialismo servirebbe un tripresidenzialismo, un presidenzialismo al cubo. Senza dire che i modelli non si possono copiare a pezzi, questo sì, quello no. In Francia c'è una legge elettorale che contempla il doppio turno, e che a sua volta è un po’ come il cemento che tiene insieme l’edificio: prendiamo pure quella? Sempre in Francia c’è uno Stato accentrato, dove i 36 mila municipi hanno ben pochi poteri, le regioni men che meno, e dove i prefetti esprimono la voce del padrone: come si concilia questo monolite con il federalismo della Lega? Tanto varrebbe allora spingere lo sguardo verso un autentico Stato federale, gli Usa di Barack Obama. A patto d’importare tuttavia anche i poteri del Congresso americano, dove il presidente non può nemmeno metter piede. Nonché la sacralità del potere giudiziario, che può permettersi di convocare il Papa in qualità di testimone, come è stato appena chiesto al tribunale di Louisville.

No, non è un vestito d’Arlecchino l’abito che ci renderà eleganti. Né un vestito preso a prestito, perché ogni popolo ha la sua taglia, e ha pure la sua storia. La nostra racconta un’indipendenza nazionale che dura da 150 anni; tornare al rango di coloni sarebbe il modo peggiore di far festa.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #58 inserito:: Aprile 11, 2010, 11:17:53 am »

11/4/2010

Dizionario delle riforme

MICHELE AINIS

Le riforme? Una bevanda più eccitante del caffè per i politici italiani, camomilla per i comuni mortali.


Anche perché questa materia talvolta suona astrusa per gli stessi addetti ai lavori. Diciamo allora che si tratta di ridisegnare la carrozzeria della macchina statale, correggendo il sedile del pilota nonché il numero dei passeggeri a bordo. E per orientarci nella scelta proviamo a compilare un dizionario dei modelli in catalogo.

PRESIDENZIALISMO
Di questi tempi è il mantra dei nostri ri-costituenti. Nell’immaginario collettivo significa un presidente eletto direttamente dal corpo elettorale, con i poteri del comandante in capo. Scendendo nei dettagli, diciamo innanzitutto che quest'uomo (o donna, perché no?) può indossare un abito da capo del governo o dello Stato. La prima soluzione è stata sperimentata soltanto in Israele, ha innescato una grande quantità di pasticci e di bisticci, infine - dopo le elezioni del 2001 - gli stessi israeliani l’hanno gettata nel cestino dei rifiuti. D’altronde è pressoché impossibile conciliare il primato del presidente del Consiglio con il primato delle assemblee rappresentative, quando il sistema resti nell’alveo delle democrazie parlamentari. Largo perciò alla seconda alternativa, ma anche qui: attenzione. In Austria, Irlanda, Islanda il capo dello Stato ottiene un’investitura popolare, ma ha solo poteri di facciata. Tutt'altra musica negli Usa, dove il presidenzialismo ha ricevuto i suoi natali. Lì il presidente governa in solitudine, nomina e revoca i ministri (per meglio dire, i segretari di Stato), è indipendente dal Congresso (che non può sfiduciarlo). Però il Congresso a propria volta tiene i cordoni della borsa, mette becco nelle nomine, può azionare l’impeachment contro il presidente (per evitarlo Nixon si dimise dopo il Watergate), ha infine il monopolio dell’attività legislativa, giacché il veto presidenziale è superabile con la maggioranza dei due terzi. E le elezioni di mid term, che intervengono a metà del suo mandato, segnano spesso il predominio del partito avverso al presidente. Senza dire del corpo giudiziario, forse il più potente al mondo. Insomma una rigida separazione dei poteri, pesi e contrappesi perfettamente bilanciati. In difetto di questa condizione il presidenzialismo diventa una caricatura, come avviene in Sudamerica: tu lo scegli aspettandoti l’Obama italiano, ti ritrovi in casa un caudillo col faccione di Chávez.

SEMIPRESIDENZIALISMO
È il modello inventato in Francia da De Gaulle, e poi esportato per esempio in Portogallo. Un’aquila a due teste, perché il Capo dello Stato viene eletto a suffragio universale, può sciogliere le Camere, decide la politica estera, promuove i referendum, ha poteri speciali durante le situazioni di crisi. Per converso il Primo ministro guida il potere esecutivo, ma per restare in sella deve conservare la fiducia del Parlamento. Un guaio, quando quest’ultimo esprime maggioranze antagoniste rispetto a quella incarnata dal Capo dello Stato (in Francia è successo per un tempo complessivo di 9 anni); anche perché, con un esecutivo frazionato e un legislativo sotto tiro, la separazione dei poteri diventa piuttosto commistione, se non confusione dei poteri. Sarà per questo che in Italia il semipresidenzialismo raccoglie così tanti tifosi.

PREMIERATO
Qui entriamo nella lunga galleria dei sistemi parlamentari, dove l’indirizzo politico viene consegnato al tandem governo-Parlamento. La variante inglese (modello Westminster) s’incentra sul ruolo del premier, al contempo leader del partito di maggioranza alla Camera dei comuni e vertice del potere esecutivo. Per offrire buona prova, questa forma di governo presuppone però un sistema bipartitico, nonché l'adesione a un corpo di regole non scritte (conventions) che limitano la concentrazione del potere. Nel Regno Unito nessuno si sogna di violarle, in Italia facciamo fatica a rispettare pure le norme scritte. Inoltre il premierato non impedisce di sostituire il capo senza passare per le urne: nel 1990 ne fece le spese perfino la Thatcher, sostituita dai conservatori con John Major.

CANCELLIERATO
In questi anni espone il viso rubicondo della Merkel, Cancelliere federale della Repubblica tedesca. I suoi poteri? Di netta prevalenza sui ministri, ma pur sempre costretta a un’estenuante attività di mediazione tra i partiti che formano la coalizione di governo. Se non ci riesce, cade in Parlamento, attraverso una mozione di sfiducia «costruttiva». Significa che il Bundestag elegge nello stesso tempo, a maggioranza assoluta, un nuovo cancelliere; o altrimenti tutti a casa, si sciolgono le Camere. Difatti in Germania il rapporto fiduciario corre tra l’assemblea legislativa e il capo del governo, non con l’esecutivo nel suo insieme. Da qui una certa personalizzazione del potere, senza però mortificare il Parlamento.

SISTEMA ELETTORALE
È il convitato di pietra che identifica le diverse forme di governo, benché le Costituzioni in genere siano silenziose su questo punto decisivo. Lo è anche la Carta italiana, ma i padri fondatori la scrissero strizzando l'occhio al proporzionale; non a caso quando nei primi anni Novanta gli abbiamo dato il benservito, orientandoci verso un maggioritario sia pure un po’ bastardo, in quel momento la seconda Repubblica ha ricevuto il suo battesimo. E così in Italia le simpatie verso il Cancellierato, da parte dei centristi e dei centrini, sono in realtà attizzate da una voglia di proporzionale, con una legge elettorale alla tedesca; i fan del premierato preferiscono al contrario un maggioritario di stampo anglosassone; i semipresidenzialisti hanno in testa il doppio turno alla francese. O almeno dovrebbero, giacché la coerenza non è la nostra massima virtù. Magari va a finire che cambiamo forma di governo tenendoci stretta questa legge elettorale, deprecata in pubblico, benedetta in privato dai segretari di partito. D’altronde come dargli torto, è così comodo scegliere i parlamentari uno per uno, senza nemmeno importunare gli elettori.

da lastampa.it
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« Risposta #59 inserito:: Aprile 15, 2010, 09:47:27 am »

15/4/2010

Ma la politica non sa dare le regole

MICHELE AINIS

Qualcuno si dispera, qualcun altro si spella le mani. Hanno torto, gli uni e gli altri. Nonostante l’apparenza, la decisione della Consulta non è una porta chiusa in faccia alle coppie omosessuali. Il varco che rimane ancora aperto sta tutto nel riferimento alla «discrezionalità del legislatore». Significa che la Corte non si è spinta oltre per non invadere le competenze riservate al Parlamento; ma significa al contempo che la Costituzione non pone alcun divieto verso l’allargamento dei diritti familiari alla tribù dei gay. La prima conclusione suonerebbe ovvia dappertutto, salvo che alle nostre latitudini.

Non è forse qui in Italia che il governo accusa a giorni alterni la Consulta d’appropriarsi di funzioni riservate alle assemblee elettive? Non abbiamo ascoltato mille volte parole arroventate contro i giudici costituzionali comunisti, che sovvertono a colpi di sentenza le scelte del popolo sovrano? Quest’ultima pronunzia ne è la smentita più efficace. D’altronde, quantomeno nel caso di specie, le speranze degli esclusi erano destinate giocoforza a cadere nel vuoto: il diritto al matrimonio omosessuale, per rendersi effettivo, postula infatti un apparato di regole minute (di tecnicalità, come s’usa dire in gergo) che una sentenza non può confezionare. Il tribunale costituzionale lavora su materiali normativi già esistenti, non può sostituirsi ai muratori, né tantomeno agli architetti. E lavora per sottrazione, demolendo questo o quel mattone. Un legislatore «negativo», come diceva Kelsen.

Persino il faro giudiziario dei gay di tutto il mondo - la Corte suprema della California, che nel 2008 sancì il loro diritto al matrimonio - è una prova vivente di tali limitazioni. Laggiù, dieci anni fa, prima una legge e successivamente un referendum definirono il matrimonio come un’unione tra persone di sesso diverso, pur garantendo alle coppie omosessuali gli stessi diritti di quelle coniugate. Dunque una differenza puramente nominale, ma tanto bastò alla Corte americana per castigarla in nome del principio di non discriminazione. C’era una legge, insomma, su cui i giudici calarono la scure. E quando un altro referendum modificò la Costituzione dello Stato, chiarendo una volta per tutte che il matrimonio può celebrarsi soltanto fra una donna e un uomo, gli stessi giudici alzarono le braccia.

E in Italia? Rimane ancora un vuoto normativo profondo come un pozzo. Si tratta allora di capire quanta acqua sgorgherà dal rubinetto della Corte Costituzionale. Per saperlo, bisognerà tuttavia leggere la decisione per intero. Si dice sempre così, ma almeno in questo caso non è una clausola di stile. È importante che la Corte abbia definito una political question la garanzia delle unioni omosessuali, ma è altrettanto importante il parametro costituzionale cui andrà ancorata la futura attività legislativa. Per la verità, l’infondatezza pronunziata rispetto agli articoli 3 (che vieta di discriminare in base al sesso) e 29 della Costituzione (che menziona la famiglia e il matrimonio, senza definirli) parrebbe escludere ogni spazio alle nozze omosessuali. Per converso, l’inammissibilità rispetto all’art. 2 (dove vengono evocati i diritti inviolabili dell’uomo) parrebbe un invito al Parlamento affinché detti una disciplina paramatrimoniale, sul modello dei Pacs vigenti in Francia e in vari altri Paesi. Ma i tribunali di Trento e di Venezia, che hanno sollevato la questione, chiedevano una risposta sulla legittimità del matrimonio omosessuale, non delle sue buone o cattive imitazioni.

Quale che sia in ultimo il responso della Corte, c’è un che di disperante in quest’appello alla politica. Non perché l’appello sia sbagliato, perché è sbagliata la politica. Negli ultimi anni sono via via emersi e subito affondati in Parlamento i Dico, i Cus, i Didorè. Si direbbero altrettante canzonette, e forse in realtà lo sono. Le note stonate con cui ci canzona la politica.

michele.ainis@uniroma3.it
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