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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 100284 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Settembre 20, 2008, 04:19:01 pm »

CRONACA         

Il valore di quelle vite

di GIUSEPPE D'AVANZO


C'è, tra i Casalesi, una banda di latitanti. Non più di sei o sette. In armi e cocainomani persi. C'è un boss (Francesco Bidognetti) che, in galera, potrebbe presto saltare il fosso e "cantare". "Pentito". Le sue incertezze gli fanno cadere la corona dal capo. Il territorio appare libero da ogni influenza (il boss l'ha perduta con i suoi tentennamenti) e i latitanti vogliono prenderselo per loro fin negli angoli, spremerlo fino all'ultimo euro.

Dalla primavera, gli assassini vanno in giro sparando e ammazzando e distruggendo per far sapere chi comanda, ora. In quattro mesi, hanno ucciso il padre di un "pentito"; ammazzato un imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo (Domenico Noviello) e un altro che si preparava a testimoniare (Michele Orsi); hanno devastato con il fuoco la fabbrica di un terzo restio a piegarsi; hanno mancato per un pelo la nipote della compagna del "pentito" (Anna Carrino). Nelle ultime due settimane, non c'è stato in quell'angolo di Italia, lungo la via Domiziana, tra le province di Napoli e Caserta, una fabbrica, un'impresa, una bottega di qualche pregio che non abbia ricevuto la sua dose di raffiche di mitraglietta 7.62.

Ora, nella notte di San Gennaro, la strage degli africani dinanzi alla sartoria "Ob Ob exotic fashions" di Castelvolturno. Dicono, per punire uno o due spacciatori che non pagavano o che non era stati autorizzati a spacciare. Per gli assassini un nero vale un altro. E per fare un morto, sparando alla cieca 84 bossoli di 9×21 e 7.62, ne hanno lasciato a terra sei, venuti in Italia dal Ghana, dal Togo, dalla Liberia. Le vittime innocenti si raccoglievano davanti a quella piccola fabbrica-sartoria, alla fine della giornata di digiuno per il Ramadan, per consumare insieme l'unico pasto. È stata questa la sola colpa. Erano al posto sbagliato con un amico sbagliato. Erano uomini che lavoravano duramente per pochi euro all'ora, pregavano e rispettavano il loro dio, se ne stavano tra di loro.

Sono stati condannati dal colore della loro pelle e dalla convinzione della Camorra che i neri sono non-uomini, buoni per essere "cavalli" del traffico di stupefacenti, raccoglitori di pomodori per qualche euro l'ora, operai edili nei cantieri del Nord riforniti dal calcestruzzo dei Casalesi, il loro grande affare alla luce del sole.
Non è stato sempre così, da quelle parti. Come racconta Roberto Saviano, c'è stato un tempo che la gente della costa domizia "non era crudele con gli africani, non li guardava con nausea. Anzi". C'è stato un tempo che bianchi e neri lavoravano insieme, festeggiavano insieme, in qualche caso si sposavano anche e le ragazze nere erano ben accolte in casa come babysitter. "Col tempo però ? ricorda Saviano ? i potenti, i veri potenti, hanno diffuso un senso di paura, una diffidenza, una separazione imposta. Se proprio devono esserci contatti che siano minimi, che siano superficiali, che siano momentanei. Poi ognuno per sé ed il danaro solo per loro, i potenti".

Il comando dei Casalesi ha precipitato i neri in un mondo a parte di baracche, di stenti, di esclusione, sopraffazione, sfruttamento. E ora anche di morte. Una morte così ingiusta e insensata da essere intollerabile anche per chi, emigrato dall'Africa, ha perso ogni speranza di poter essere trattato con la dignità che si deve a un essere umano. È questa intollerabilità che ha provocato le violenze di ieri, quelle ore di devastazioni e rabbia pazza scatenata da un paio di centinaia di uomini, sordi al grido "Basta!" dei loro connazionali.

Quel che accade lungo la costa domizia è una vendetta della realtà contro le semplificazioni del format di governo che ? come scriveva qualche giorno fa Edmondo Berselli ? non descrive nulla della società contemporanea. È la rivincita del mondo reale sul posticcio affresco italiano diffuso da ministri, a quanto pare, popolarissimi. È "cronaca" che liquida in poche ore e per intero la logica, i paradigmi, si può dire l'universo mentale che sostiene, nella nuova stagione, le politiche pubbliche della sicurezza e dell'immigrazione.

La realtà ci racconta che il nero ? l'altro ? non è il nemico: è la vittima innocente. La "cronaca" ci dice, con un'evidenza cruda, quale sia il valore, il niente in cui è tenuta in considerazione la vita di un nero (in un disprezzo moltiplicato nella Campania criminale, dopo il pestaggio mortale di Abdul a Milano). Nel mondo reale di Castelvolturno l'aggressore, il criminale, l'assassino non è l'immigrato ma l'italiano. E un tipo di italiano e di italianità diffusa nel Mezzogiorno, organizzata in Mafia, capace di tenere il potere dello Stato in un cantuccio, di governare il territorio, di succhiarne le risorse pubbliche e private, di decidere della vita e della morte degli altri, di ridurre gli altri, se neri, in uno stato di schiavitù, di non-umanità, dopo aver avvilito a sudditi i cittadini italiani. Nell'arco di una mezza giornata vengono alla luce, nella loro essenzialità, l'inconsistenza e i trucchi, il furbo conformismo di una politica che sa soltanto eccitare e inseguire le paure, gli egoismi e furbizie di italiani confusi e smarriti.

Gli italiani vogliono prostitute, ma non vederle sotto casa: il governo le punisce e le nasconde senza curarsi di chi controlla la "tratta delle schiave" e ne incassa gli utili. Gli italiani vogliono cocaina, ma non lo spacciatore nella strada accanto: il governo mostra qualche soldato in armi per strada per fare la faccia feroce senza curarsi delle 600 tonnellate l'anno di cocaina che 'ndrangheta e camorra importano in Italia; senza darsi pensiero della grande operazione di marketing lanciata al Nord dalle mafie che vendono ai teenager una bustina di "bianca" per dieci euro. Gli italiani vogliono lavoro a basso costo e in nero, ma non i clandestini. E il governo crea il reato di immigrazione clandestina e il lavoro diventerà ancora più nero e ancora più a basso costo e diffuso e clandestino.

E allora perché meravigliarsi se i Casalesi ? una banda di assassini, che controlla gli affari di droga e utilizza nelle sue imprese il lavoro nero ? possono pensare di fare una strage di neri solo per ammazzarne uno? Quanto vale un nero? Niente. Davvero qualcuno si scandalizzerà oggi se duecento di quei niente hanno gridato per un pomeriggio la loro rabbia?


(20 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Settembre 21, 2008, 11:33:33 am »

REPORTAGE / Viaggio nel paese dopo l'assassinio di sei immigrati africani

Gli amici delle vittime: "Dicono che erano delinquenti per insabbiare tutto"

Tra i fantasmi di Castelvolturno dove i neri chiedono più Stato


dal nostro inviato GIUSEPPE D'AVANZO

 

CASTELVOLTURNO - Dell'albergo di un tempo, ai bordi della pineta di Castel Volturno, al chilometro 32 della statale Domitiana, c'è oggi soltanto uno scheletro di cemento, annerito e bruciato come un tizzone nel fuoco. Le finestre, come occhi vuoti, annunciano da lontano un paesaggio spettrale e il mondo livido di morte abitato dai tossici. Se ne vedono entrare e uscire. Sono frenetici, quando riescono a camminare diritti. I più entrano barcollando, escono tonici e "felici". Rifiuti umani, vite di scarto abbandonate al loro destino come la spazzatura putrefatta che è dovunque, qui intorno. Rimasugli di cibo, cessi sbreccati, tavoli senza gambe, copertoni d'auto bruciati, vetri rotti, la tappezzeria di un'auto, scarpe senza tacco, un rugginoso schedario, preservativi, colmano la piscina vuota e il giardino dove il numero delle siringhe - un tappeto bianco latte - è superiore al numero degli aghi di pino.

Un tempo, l'albergo si è chiamato "Boomerang", tre stelle "con ristorante annesso", lo Zagarella. Oggi è la "Casa dei Nigeriani". O meglio il mercato di droghe (eroina, cocaina, kobret) organizzato da una banda di nigeriani che la vende a cielo aperto. Vivono nell'albergo senza acqua, senza luce, senza servizi igienici. E accolgono gli zombi, in astinenza penosa, alla luce delle candele. Mettono a disposizione siringa, cucchiaino e, se si vuole, ci si può anche dormire per qualche ora, se hai già pagato la tua dose. Il bagliore delle candele si vede al pianterreno e al primo piano. È impossibile avvicinarsi. Ben prima del bordo della piscina - e l'edificio è ancora lontano cinquanta passi - la voce arrochita di un uomo grida (deve essere di vedetta da un bel po'): "Fratello, fermati lì, gira le spalle e vattene, se non vuoi guai".

L'uomo è nascosto dietro una coperta di lana che fa da tenda. Parla da uno squarcio della coperta. Agita un braccio. Indica la direzione verso cui filare subito. Un altro passo. Un altro urlo ancora più minaccioso. Un bianco che passa di lì - abita a meno di duecento metri al "Villaggio agricolo" di Castelvolturno - consiglia di darci un taglio: "Và via, sono pericolosi e ti scatenano contro i tossici: sono i loro cani da guardia. Per una bustina in premio, quelli ti aprono la testa come un melone".

* * *

La "Casa dei Nigeriani", conosciuta da tutti lungo la Domitiana con quel via vai di vite perdute, è la più palese contraddizione del racconto "ufficiale" della strage di San Gennaro. Si dice (lo dicono le polizie): i Casalesi, e quella loro banda di cocainomani fuori di testa armati, in libertà e introvabili, "hanno voluto ribadire la loro egemonia, uccidendo i sei neri". Hanno voluto far sapere che la festa (la loro sfarzosa festa) non è finita, anzi raddoppia: ogni pagliuzza dei commerci illegali deve sottostare alla loro fiscalità predatoria. E, con i tempi che corrono (arresti, sentenze definitive d'ergastolo, avvocati da pagare, famiglie da sostenere, pentiti da punire), non è più sufficiente tassarsi del venti per cento, bisogna tirar fuori il cinquanta. Per ogni cosa che produce euro. Per un negozio, per una fabbrica, per le puttane, per la droga, per il lavoro nero. Sarà anche vero, ma se questo doveva essere il messaggio degli assassini perché non sono venuti qui, alla "Casa dei Nigeriani", a dare la loro "lezione" agli uomini "giusti"? Perché hanno sparato e ucciso alla cieca contro sei ghanesi innocenti, tredici chilometri più in là?

* * *

Non è una novità che i Casalesi azzannino, di tanto in tanto, i neri con ferocia. Quasi ogni settimana un nero viene picchiato e ferito con qualche pistolettata "volante", da queste parti. Altra cosa, è una strage. I Casalesi, una strage, l'hanno fatta con clamore anche nel passato, nel 1990 (come racconta Gigi Di Fiore nel suo L'impero dei Casalesi, fresco di stampa per Rizzoli). Quella volta, gli assassini, armati di tre pistole calibro 9, due calibro 7.65, una P.38, due fucili a pallettoni invasero, a Pescopagano, il bar Centro e accopparono cinque uomini e ne ferirono sette. Un nigeriano, Salim Kindy, il Cinese, s'era messo per conto suo a vendere eroina. Per trovarlo si dovevano seguire i cartelli stradali dove aveva dipinto una freccia e il suo nome, il Cinese.
 
Salim fu il primo ad essere ucciso quel giorno nel bar di via Consortile. L'eccidio fu rivendicato con una telefonata al centralino del quotidiano Il Mattino. Con il tempo, s'è scoperto il nome dell'uomo che al telefono disse: "Siamo della camorra della Domitiana e siamo stati noi a sparare a Pescopagano. Noi non trattiamo droga e non la vogliamo". Era una balla, come ha spiegato l'uomo quando si è "pentito". Si chiama Augusto La Torre e ha raccontato: "Fu Sandokan (Francesco Schiavone, il capintesta dei Casalesi) a dirmi che serviva un'azione eclatante. Si doveva fare una strage e far ritrovare la droga, così i carabinieri si sarebbero decisi a mandare via i negri".

In realtà, i Casalesi che avevano scoperto la vena d'oro dei rifiuti tossici e del calcestruzzo non volevano polizia tra i piedi e pretendevano che fossero più discreti e nascosti i traffici criminali di strada che attiravano le divise, come le mosche il miele.
Anche se fossero queste le motivazioni di oggi per fare una strage, la domanda non cambia: perché aggredire gli innocenti ghanesi e non quei nigeriani che davvero spacciano droga, come il Cinese, come l'uomo nascosto dietro la coperta all'hotel degli zombi? Il posto giusto per trovare una risposta accettabile è il chilometro 43 della Domitiana, dove c'è stato l'eccidio.

* * *

Sulla serranda della sartoria "Ob Ob exotic fashions" - é dentro e fuori il piccolo laboratorio che gli assassini hanno ucciso nella notte di San Gennaro - ci sono quattro mazzi di fiori. E più in là, in circolo o appoggiati alle auto, sono gli amici di Samuel, Awanga, Yulius, Eric, Alex, Cristopher. La rabbia non si è spenta. Si passano il foglio di giornale con la fotografia di Eric. È seduto nella sua auto. Ha il capo riverso sulla spalla sinistra e un rivolo di sangue ai lati della bocca e una larga macchia rosso scuro ai lati del collo. Gli hanno sparato l'ultimo proiettile alla testa. Era già morto, dicono.

Racconta Alì: "Tutti conoscevamo Eric. Lavorava in un'impresa edile come piastrellista. L'altro sera era venuto qui per farsi rattoppare il pantalone che aveva addosso. Nella sartoria gli hanno detto che avrebbero pensato a lui soltanto prima della chiusura, alle "nove". È andato a sedersi in macchina. Era stanco o forse si vergognava a farsi vedere con quello strappo nei calzoni. Ora lo seppelliranno con quel pantalone lacero".

Il ricordo di Alì riaccende, d'improvviso, la collera. È una scintilla di follia rabbiosa che prende prima uno e poi un altro, come se con un'idrofobia umana esplodesse finalmente il sovraccarico di umiliazioni, la bolla di paura in cui molti di questi giovani uomini sono costretti a vivere. Un ragazzo, in tuta bianca e solido come una quercia, corre verso la strada. Raggiunge un'auto con un bianco a bordo che guarda curioso verso la sartoria. Il ragazzo grida come un ossesso: "Va via, italiano di merda. Vattene, razzista".

E mentre urla, come intossicato dal dolore e dal rancore, comincia a tirare calci e pugni contro l'auto. Gli altri lo trattengono a fatica mentre altri ancora urlano: "Non vogliamo bianchi qui. Andate tutti via". E spingono e smanacciano. Intorno non ci sono più bianchi, se si esclude un ragazzo che sta sistemando il suo mazzo di fiori accanto alla macchia di sangue dinanzi alla porta chiusa della sartoria.

* * *

Kwane mi tira via, lontano. Dice: "Come è possibile che avvenga tutto questo, come è possibile che avvenga qui in Europa? L'Africa fa schifo, okay. Veniamo qui per non vivere in quello schifo. Veniamo qui soltanto perché siamo poveri. Non è una colpa. Non lo dovrebbe essere in Europa. Vogliamo soltanto sopravvivere alla miseria e, quando ci riusciamo, aiutare le nostre famiglie. Dicono oggi che i nostri poveri morti erano spacciatori di droga. È una menzogna. Una grande menzogna. Si spezzavano la schiena nei campi e nei cantieri. Chi lavorava nella sartoria lo faceva dalla mattina alla sera, senza alzare la testa dal banco. È un'offesa che brucia sentire e leggere che erano delinquenti. Lo dicono soltanto per mettere tutto a tacere. La droga lì dentro non l'hanno trovata e non l'hanno trovata addosso ai morti. E non gliel'hanno trovata perché non avevano nulla a che fare con la droga. La polizia ve lo dice per dimostrare che poi non è successo nulla: soltanto criminali italiani che uccidono criminali africani. Siamo poveri, ma non stupidi e non è giusto che finisca così".

Kwane sembra averne abbastanza. Si allontana come per andarsene. Si ferma, come paralizzato, dopo qualche metro. Ritorna indietro e non si vergogna a farsi vedere in lacrime: "Non è giusto, siamo brava gente. Anche la nostra vita dovrebbe avere un valore. Quando uccisero quella signora a Roma, subito trovarono il rumeno assassino. Accadrà anche per noi, per i nostri amici innocenti? No, che non accadrà. Perché noi siamo negri e la nostra vita non vale quella di un italiano, nemmeno quella di un italiano assassino. Siamo noi - non i bianchi di qui, non gli italiani che accettano di vivere con quella gente armata - siamo noi a chiedere: dov'è lo Stato in questo Paese? Perché non fa il suo mestiere? Perché per avere il rinnovo di un permesso di soggiorno si deve attendere due anni? Perché nel cantiere dove lavoro non ho alcun diritto? Perché degli assassini possono andarsene in giro liberi e nessuno li cerca davvero? Perché per dormire in un tugurio devo pagare quanto, uno di voi, un appartamento vero?".

Kwane si asciuga gli occhi con un gesto rapido. "Sono cattolico. Accanto a voi prego in chiesa. Anche lì non riesco a sentirmi un essere umano. Questa strage è soltanto razzismo - li hanno uccisi perché, per loro, per voi, un negro vale l'altro - ma quell'insulto ai nostri poveri morti di essere delinquenti è un razzismo peggiore".

(21 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Ottobre 12, 2008, 05:16:41 pm »

POLITICA     DIBATTITI

La democrazia è un format?

La nuova lingua del potere


di GIUSEPPE D'AVANZO

LA DISTRUZIONE del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione. Se si ricorda il presagio di Karl Kraus, è indispensabile esaminare nei suoi esiti più radicali la semplificazione del discorso pubblico del governo che appare così vincente e convincente da far sostenere a Edmondo Berselli che "la democrazia contemporanea è più vicina a un format che a un complesso strutturato di regole"; a Michele Serra che "la sinistra" deve darsi da fare, lungo questa strada semplificatoria, per sopravvivere nell'èra del "pensiero sbrigativo"; a Marino Niola che "ridotta a format, l'offerta politica contemporanea fa riaffiorare mitologie che appartengono agli strati più remoti della rappresentazione del potere".

Sono riflessioni che hanno il merito di scomporre il paradigma berlusconiano, i suoi gesti, comportamenti e modalità (cinque in condotta in luogo della riforma della scuola e della didattica; fannulloni in luogo di un più moderno disegno di pubblica amministrazione).

Credo tuttavia che il ragionamento sarebbe monco se non ci chiedessimo anche che cosa cova quella diluizione superficiale del linguaggio. A mio avviso, questo può, deve essere l'altro focus della discussione: quale pensiero, potere e democrazia annuncia quell'alienazione della parola che, colonizzati dalla cultura televisiva, diciamo format? Quella lingua, che non riconosce alcuno statuto alla realtà, che riduce drasticamente ogni complessità (anche lessicale), è soltanto una mera tecnica di consenso o custodisce di più: una strategia e addirittura un destino politico?

Temo che l'entusiasmo per le magie del marketing politico trascuri pericolosamente l'"Ospite Indesiderato" che, nascosto nel format, bussa alla porta della nostra democrazia. Desiderosi di consigliare a un'opposizione impotente e muta i modi di una "narrazione" efficace e spendibile al Mercato della Politica diventata Spettacolo e nuovo Leviatano non scorgiamo - quanto non ne ignoriamo - le implicazioni. Omettiamo l'essenziale. Non avvertiamo che la semplificazione brutale del linguaggio della politica cancella ogni spazio politico.

* * *

Qui si potrebbe farla lunga. Citare Aristotele. Ricordare che l'uomo è animale politico perché parla. "L'uomo è zoon politikon, ma è tale perché echon logon. E' animale politico perché linguistico: è la comunicazione a gettarlo nella Polis. Imparare a parlare significa cominciare a obbedire alle leggi non scritte della Città. Più precisamente, significa cominciare a prendere partito, ad appartenere e a escludere, a tracciare dei confini" (Rocco Ronchi, "Parlare in neolingua" nel prezioso Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, utilissimo con i suoi 16 saggi, curati da Massimo Recalcati, per affrontare i temi in discussione).

E' il parlare dunque, è il linguaggio che ci consente di abitare nel "regno del politico". A quest'abitare, se libero, deve essere concesso di esitare. L'esitazione della risposta è la consapevolezza di chi parla della "posta in gioco". Implica una decisione. Dispone chi parla in uno spazio preciso del luogo comune. Risolve una relazione con gli altri che lo ascoltano. In questo senso, il linguaggio è un dono (munus) ma anche legame e obbligo perché come il dono, come il dovere, il linguaggio fonda la communitas. Quando la consapevolezza di chi parla, la sua libertà (svelata dall'esitazione) è eliminata a vantaggio di un riflesso automatico, "alla communitas si sostituisce la caserma, al socius il camerata".

* * *

La semplificazione (il format) allora non è soltanto una "tecnica" che evoca le "buone vecchie cose di un tempo" (la maestra, il grembiule di scuola fresco di bucato, l'impiegato operoso), è un modulo assertivo, mai dialogico che dispiega una forza ingiuntiva, imperativa. E' come un tic automatico. E' un logo. Come ogni logo, attiva una memoria automatica, un riconoscimento senza immagine, un assenso senza riflessione, un consenso senza esitazione. Questa modularizzazione del linguaggio, la sua meccanicità presuppone la conoscenza come una maledizione, il registro del reale come irrilevante, il pensiero come un'infezione. "La profilassi comincia dal vocabolario" che s'impoverisce, rinsecca fino a diventare slogan come nella pubblicità, marchio come nella grafica.

Chiunque di noi può combinare un catalogo dei "moduli" della neolingua del Berlusconi politico. Successo Comunisti Produttività Teorema giudiziario Efficienza Legittimità Decisione Mercato Italianità Sicurezza sono oggi loghi che attivano riflessi robotizzati. Appaiono "oggettivi". La loro necessità e valore è fuori discussione. Costituiscono - si può dire rubando ancora le parole a Ronchi - "le premesse assiomatiche della conversazione pubblica. E come accade ai principi primi di ogni dimostrazione, sono sottratti ab aeterno a ogni razionale discussione".

Sono più o meno degli ordini che escludono ogni libero consenso o lecito dissenso. Eliminano un luogo comune e quindi ogni dubbio, esitazione, libertà cancellando di fatto lo spazio politico. Sono "aut disgiuntivi": o si è dentro o si è fuori; o si è incondizionatamente amico o incondizionatamente nemico: o si è per il bene o per il male. Quando il linguaggio si semplifica fino a ridursi a riflesso che rimuove ogni pensiero pensante, a risposta che anticipa il tempo della riflessione soggettiva (non è diventato "criminale" un sinonimo di "immigrato"?) si finisce per annullare la dicotomia oppositiva assenso/dissenso che definisce i regimi democratici o autoritari.

* * *

Il format, la semplificazione del discorso del governo non è soltanto una tecnica di marketing politico. Ci si può vedere senza sforzo qualcosa di peggio: una tendenza totalitaria. Nella fascinazione che suscita anche in spiriti liberi mi sembra di scorgere un offuscamento che inquieta, come un'oscurantista dipendenza a una deriva immaginaria che lavora a mano libera scenari posticci, che manipola il rapporto tra la realtà e la finzione (già realizzato e controllato dal potere ideologico e spettacolare della propaganda totalitaria del Novecento).

Come spiegare in altro modo la rappresentazione - non contestata da alcuno, se non sbaglio - di un uomo di 72 anni, già fiaccato nelle sue energie vitali da un cancro alla prostata e da un intervento chirurgico assai invasivo, come un immortale "padre totemico" che riposa tre ore a notte e fa l'amore per altre tre, prima di rimettersi al lavoro nelle altre diciotto per risolvere i problemi dell'Italia, le difficoltà dell'Occidente, la crisi del Milan?

Come definire questo stato ipnotico che ci impedisce di scorgere il grottesco di questa scena? Il format che ci vieta di riderne pubblicamente non è "un'invenzione culturale", è un esercizio di potere che svela una vocazione totalitaria. E' un dispositivo politico capace di rimuovere ciò che vediamo, sappiamo, conosciamo, tocchiamo.

E' la manifestazione di un potere che riscrive sotto i nostri occhi la realtà ("il reale esiste"); distrugge il linguaggio riducendolo ad automaton incondizionato; ci sottrae l'esperienza e la capacità di prendere posizione. Non dovrebbe essere una sorpresa il consenso anche vasto, anche "imbarazzante" che raccoglie. Sempre "il legame totalitario è la risposta paradossale ad alcuni bisogni, spesso indotti". Non c'è sempre bisogno di polizia e terrore, di violenza assoluta. Il lavoro sulla psiche è più efficace. E' proprio di quel dispositivo creare il mondo e proporsi come il garante della sicurezza e della prosperità del popolo. Il processo di dipendenza tra psiche e politica è assicurato se si inventa una condizione perenne di insicurezza, uno stato permanente di emergenza (l'immigrazione, la giustizia, l'italianità minacciata, la scuola) per offrire una protezione totalizzante.

Come accettiamo l'indistruttibile vitalità del "padre totemico", come accogliamo un grembiule come se risolvesse i problemi dell'educazione, acconsentiamo a quello scenario di finzione e alla moltiplicazione delle strategie di controllo e di prevenzione che seguono. Prigionieri di un vocabolario impoverito - per profilassi - delle cose e del pensiero "infetto", finiamo per considerare il corpo sociale come un corpo malato e le decisioni del governo come una terapia finalizzata a restituirne la salute aggredita da una tossicità interna (l'opposizione, gli stranieri scuri di pelle, i magistrati, i fannulloni, il sindacato, l'informazione).

Il linguaggio diventato logo e riflesso impedisce di vedere come quei "marchi" giustifichino sempre di più pratiche di controllo minuziose (i militari nel centro della città, i vigili urbani in armi); un esercizio del potere illimitato privo di trasparenza e contrappesi (decreti con forza di legge, immunità per chi governa, parlamento servile, autorità indipendenti sospese nelle funzioni); un'invasività nel privato dell'azione disciplinare del potere (intercettazioni preventive, divieto di sesso a pagamento, divieto di trasportare mercanzia con sacchi di plastica, divieto di stendersi sull'erba di un prato in un parco).

* * *

La semplificazione del linguaggio (il format) non è la chiave di un successo politico, magari da imitare come copione da recitare se la sinistra vuole chiudere con le sconfitte: è il presupposto che ridisegna il rapporto tra libertà e politica. Proprio perché la distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione, mi chiederei allora che cosa sarà distrutto domani, dove la tentazione totalitaria ha cominciato a lavorare oggi.

"Totalitarismo", lo so, è una di quelle parole espulse con disprezzo dal discorso pubblico e tuttavia se si guarda al dibattito filosofico e politico - discussione che si svolge a luci spente, lontano dal rumore dei media - interrogare le forme contemporanee dei totalitarismi post-ideologici nelle società a capitalismo avanzato non è per nulla indecente o fesso o volgare. Al contrario, è opportuno. E' onesto. E' urgente. E' legittimo.

Non si tratta naturalmente, come osserva Simona Forti ("Il Grande Corpo della totalità" ancora in Forme), di "opporre - a una democrazia - un regime politico" o di considerare il totalitarismo "come mostro politico" perché "non esiste nessuna muraglia né giuridica né istituzionale, né tanto meno filosofico-culturale, che separa la democrazia dal regime totalitario".

Il totalitarismo non minaccia dall'esterno la democrazia. E', scrive Forti, "l'indesiderato ospite che bussa di continuo alla sua porta", "è una risposta estrema alle questioni che la modernità politica pone e non può risolvere. Non solo allora il totalitarismo è un'esperienza moderna, ma è un possibile sbocco della democrazia. Una forma di società che reagisce alla debolezza costitutiva dell'invenzione democratica, alla sua indeterminatezza, alla sua apertura verso il vuoto, in una parola alla libertà".

Per comprendere se l'Ospite Indesiderato abita accanto a noi, dentro di noi, bisogna allora investigare le debolezze della nostra democrazia, le angosce della società italiana, l'insufficienza di equilibri e assetti (esistenziali, istituzionali, politici, culturali). E' nello scarto tra la modernità dei problemi, lo smarrimento sociale che provocano, l'angoscia delle domande e l'inadeguatezza delle risposte collettive e politiche, che si aprono i varchi dove si fa largo e attecchisce una "mentalità totalitaria" e una tecnica di potere che, al contrario del Novecento, non ha più alcun contenuto ideologico.

Una verifica della presenza dell'Ospite nella nostra democrazia deve esplorare la relazione essenziale del totalitarismo con la libertà (e il linguaggio, abbiamo visto, n'è la prima vittima) perché è un totalitarismo che non si costituisce più esplicitamente, visibilmente come violenza e terrore e distruzione dell'Altro, ma più occultamente "lavora" (ancora Forti) nel nesso tra vita umana e potere politico; nelle modalità del rapporto tra realtà e finzione; nell'assenza di strumenti idonei per orientarci tra il bene e il male, di definizioni, orientamenti, consapevolezze che oggi ci impediscono anche di riconoscerlo il male, di averne un'idea, un pensiero. Ora sono queste le dannate sfide che attendono la sinistra, non lo scimmiottamento del "padre totemico", della sua neolingua totalitaria.

(11 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Ottobre 16, 2008, 06:58:11 pm »

L'ANALISI

Il potere ad personam

di GIUSEPPE D'AVANZO


Il partito democratico non voterà per la Corte Costituzionale Gaetano Pecorella, già avvocato di Berlusconi e creativo autore di leggi ad personam favorevoli al suo eccellentissimo assistito. È una buona cosa, e sarebbe eccellente se si sciogliesse di netto il nodo che stringe due questioni che stanno insieme come pere e mele. È di tutta evidenza che il peso istituzionale della nomina di un giudice della Consulta non può avere riscontro nell'elezione di una commissione politico-parlamentare di garanzia come è la Vigilanza Rai.

Sono grandezze non paragonabili. Per la Vigilanza, che è - per le regole - appannaggio dell'opposizione (tanto più che il presidente del Consiglio controlla direttamente o indirettamente sei network televisivi) è sufficiente che la maggioranza non faccia mancare il numero legale per risolvere il problema. Per la Consulta occorre il consenso qualificato di due terzi del Parlamento. La "qualità" delle maggioranze necessarie dice da sola che la Consulta non può essere accostata, se non con uno sgorbio istituzionale, alla Vigilanza e sarebbe un'indecente tentazione di sbrigare l'affare nello stesso tempo e con un baratto bipartisan. Non solo per ragioni formali, che pure hanno il loro peso.

La necessità di affrontare, separatamente e con altri criteri, intenzioni e consapevolezza, la scelta del giudice costituzionale interpella l'equilibrio e la natura stessa dell'architettura dello Stato, sollecitata in questi primi mesi del Berlusconi IV, da molte tensioni. Vediamo in quale "quadro" politico-istituzionale cade la nomina costituzionale.

Il presidente del Consiglio ha deciso di affidare il suo governo non al potere legislativo della rappresentanza parlamentare di cui può non tenere conto (onorevoli e senatori sono nominati da un'oligarchia e non scelti dal popolo), ma a un potere "personalizzato" che agisce, rafforzato dalla legittimità popolare, con misure aventi forza di legge (ma diverse dalla legge perché particolari e non universali, vedi i decreti "Rifiuti" o "Alitalia"). Le novità della stagione sono dunque tre: l'assoluta prevalenza dell'esecutivo sul legislativo, l'abuso del decreto legge (vedi il provvedimento sulla riforma della scuola), la debolezza degli "argini" (la legge sospesa in nome della "decisione"; i mercati in crisi profonda; la giustizia soffocata dalla sue inefficienze e dal conflitto scatenato dalla politica).

Quel che abbiamo sotto gli occhi è la crisi della divisione dei poteri, la debolezza di un'idea di equilibrio del sistema. Berlusconi, sostenuto da un consenso sempre più ampio (se i sondaggi hanno un credito) non nasconde la sua insofferenza per le prerogative delle istituzioni di garanzia (Quirinale, Corte Costituzionale, Authority). Non vuole che indeboliscano o limitino la sua legittimità. Vi dovrebbero soggiacere. È un pensiero che - direbbero i costituzionalisti - piega il pactum societatis che è la Costituzione (l'accordo sulle condizioni dello stare insieme) al pactum subiectionis (il reciproco impegno a ubbidire alle decisioni del governo legittimo).

Ora, si può decidere della nomina senza tener conto di queste novità? Il dispetto della maggioranza per gli organi di garanzia dovrebbe essere elemento decisivo per chi deve integrare la Consulta. Chi è chiamato a quella responsabilità deve tenere in giusto conto (come ha detto in passato Gustavo Zagrebelsky) che "la Corte non è e deve temere di essere, o anche solo di apparire, organo della politica" perché la giustizia costituzionale (il controllo giudiziario su procedure e contenuti delle decisioni) "non è la prosecuzione in altra forma della contesa che si svolge in Parlamento e tra i partiti politici. Il massimo tradimento di questi chierici che sono i giudici costituzionali sarebbe quello di trasformarsi in una terza camera dove continua per interposte persone il confronto tra le parti del conflitto politico".

Solo una Consulta "al di sopra" e "al di là" della politica potrà essere (e apparire) il luogo più adeguato per proteggere una dialettica istituzionale che può frantumarsi in una collisione tra le due idee opposte di Stato che sono oggi in campo.

Bisogna allora chiedersi se il metodo partisan (il Pdl propone all'opposizione la nomina alla Consulta di "uno di noi" per avere in cambio alla Vigilanza "uno di voi") rafforzi o fiacchi la credibilità e l'indipendenza della Corte. Come è evidente, il problema va ben oltre il curriculum inadeguato di Gaetano Pecorella. Si discute di un metodo e della posta in gioco. Non deve sorprendere che la maggioranza voglia rendere la nomina quanto più possibile "partigiana". Non è un paradosso. Quanto più la Corte diventa "politica", e quindi "faziosa", tanto più apparirà "terza camera", luogo di appartenenze che ne cancella il carattere di garanzia: la Consulta come il Parlamento, ma senza la sua legittimità. Quindi, non giudici, non custodi delle regole, ma attori del conflitto.

In assenza di un'idea viva e condivisa di una equilibrata divisione dei poteri, sarebbe un esito dagli effetti liquidatori. Se la Corte costituzionale non è "al di là" e "al di sopra" della contesa, ma con i piedi, la testa e il cuore nello scontro politico, è un epilogo fisiologico accettarne la subalternità al Parlamento e la soggezione al governo. Qualunque nome estratto dal teatro politico, quale che sia il suo prestigio, non potrà spezzare quel circuito vizioso. Al contrario ne accentuerà la "partigianeria". Sarebbe per la Consulta una catastrofica crisi perché una Corte costituzionale politicamente schierata o anche soltanto in apparenza schierata - sono parole ancora di Zagrebelsky - "meriterebbe di essere soppressa perché, se a favore della maggioranza, non se ne capirebbe l'utilità se non come inganno dell'opinione pubblica; se contro, se ne capirebbe l'utilità, ma mancherebbe totalmente di legittimità".

Come si è già detto in altre situazioni analoghe, per l'opposizione e per quella parte di maggioranza che ancora crede nella essenziale funzione della Costituzione c'è un solo modo per sottrarsi a questo gioco a perdere: l'abbandono delle logiche mediocri del sottogoverno e del baratto poi detto "bipartisan". Si esalti, al contrario, la natura nonpartisan della scelta del giudice costituzionale. Non conti l'appartenenza politica. Si aprano le porte a chi possa essere e apparire "straniero" alla politica, se si vuole conservare alla Consulta il compito di conciliare i conflitti in modo pacifico e soprattutto credibile.

(16 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #49 inserito:: Ottobre 31, 2008, 02:50:25 pm »

SCUOLA & GIOVANI    IL RACCONTO

Il giorno della verità dei fratelli d'Italia

di GIUSEPPE D'AVANZO
 

Chissenefrega della solita conta, un milione e mezzo, un milione, ottocentomila o fate voi. Roma è per intera paralizzata. E' impossibile anche entrare in città. Decine di pullman sono "spiaggiati", come balene, sul Grande Raccordo e, nell'impossibilità di raggiungere il centro storico, migliaia di persone se ne vanno in processione, allegre e rumorose, là dove sono: lungo l'anello autostradale, alla Magliana. In centro, chi si è mosso da piazza della Repubblica scende dal Pincio verso piazza del Popolo che il serpente - quieto e colorato di palloncini blu e giallo e rosso - ha ancora la coda nella posta di partenza. Chi con realismo dispera di arrivarci, in piazza del Popolo, cambia strada. La protesta si frantuma e si disperde dilatandosi là dove trova spazio e strade libere da affollare. I cortei diventano tre e si muovono in direzioni diverse, gli universitari e gli studenti dei licei venuti dalla Sapienza e da molte città del Mezzogiorno se ne vanno verso Trastevere e circondano il ministero della Gelmini e le gridano: "Mariastella, arrenditi. Sei circondata!"

Quanti saranno? Importa davvero a qualcuno, se non al governo imbarazzato ("poche migliaia di persone"), avere un numero? E' il giorno della realtà, questo, quale che siano i numeri. E' il giorno della robusta e ostinatissima realtà.

È il giorno della concretezza della vita quotidiana di studenti e insegnanti, delle compromesse speranze di futuro dei più giovani e delle loro famiglie. È il giorno della tangibilità di una sdegnata rabbia per il presente che - con la voce e il corpo di centinaia di migliaia di uomini e donne, ragazze e ragazzi che nella scuola e nelle università ci vivono, ci lavorano, ci studiano, ci sperano - mette finalmente in un canto, per un'intera mattinata, le formule vuote e le verità rovesciate che avvelenano il discorso pubblico.

Dice un'insegnante in piazza della Repubblica - non sono ancora le nove, la pioggia è intensa e tutti sono già zuppi d'acqua e non se ne curano - : "È come se mi avessero messo davanti allo specchio. Io ho i capelli neri e loro mi dicono che sono biondi. Li ho corti e quelli dicono che ho i capelli lunghi. Dicono che sono strabica, incartapecorita dagli anni e sdentata e invece io so di essere giovane con gli occhi e i denti giusti. Dicono che sono depressa e io invece so di essere energica e decisa. Quel che dicono di me, non mi racconta, non mi descrive. Quella non sono io. Questa non è la scuola che abito e conosco. Hanno bisogno di trasfigurarla per poterla distruggere in silenzio e nel disinteresse dei più. Ecco perché sono qui. Sono qui perché non voglio vedere distrutta la scuola pubblica che è la mia scuola e la scuola di tutti. Vorrei fare io una domanda a tutti: chi ne parla, conosce davvero la scuola?".

* * *

È un leit motiv: davvero conoscete la scuola, signori? Davvero la conosce il governo? Di quale scuola parlano, parlate? Di quella che ogni giorno, con i suoi ritardi e le sue eccellenze, con i suoi sacrifici e pigrizie, con i suoi piccoli sconosciuti eroismi, apre i battenti? O di quella che immaginano o lasciano immaginare per poterla schiacciare? Sono domande - spiegano in una singolare coincidenza di opinioni, studenti e professori, bidelli e maestri, sindacalisti e ricercatori - che impongono di chiamare le cose con il loro nome, finalmente.

Così, anche se negli slogan Mariastella Gelmini è protagonista e trasfigurata in santa, "Santa Ignoranza", nei colloqui, nei capannelli, nelle discussioni che si accendono qui e lì il decreto diventato ormai legge dello Stato non ha una madre, ma soltanto un padre: Giulio Tremonti.

Dice uno: "La Gelmini, di suo, avrebbe dovuto proporre un disegno, un progetto educativo, un documento da discutere, un percorso riformatore per passare dalle criticità di oggi - che ci sono e non trascurabili - a un assetto più soddisfacente nel futuro. Non lo ha fatto. La sua è una presenza muta. È una comparsa. Il primattore è l'altro, è Tremonti. Suoi sono i tagli e questa riforma - che è una falsa riforma - non è altro che tagli al personale docente, amministrativo e tecnico; risparmi per il bilancio dello Stato; riduzione dell'orario scolastico e fine del tempo pieno; tagli al Fondo di finanziamento delle università e trasformazione degli Atenei in Fondazione private. Noi abbiamo bisogno di più riforma e invece ci danno meno risorse e nessuna riforma".


* * *

È il giorno della realtà, questo. Non è il giorno dei "grembiulini", del "cinque in condotta", del maestro che da "unico" diventa per magia, per conformismo e obbedienza dei media, "prevalente". In una parola non è il giorno dei codici comunicativi e vuoti che, con sapienza, Berlusconi ha messo in campo per nasconderla e manipolarla, la realtà.

L'"avviso ai naviganti" del mago di Arcore puntava ad accendere il solito dispositivo, a innescare un riconoscimento identitario della società con la sua leadership, a indicare un ostacolo da rimuovere: i "fannulloni", gli "ignoranti", il "potere dei sindacati", gli "insegnanti pagati troppo per quel che fanno e danno", una scuola che è soprattutto o forse soltanto "spreco".

In una parola, un'"infezione" che minaccia la salute del Paese. La protesta contro la riforma della scuola -suggeriva il premier - compromette il diritto allo studio. Pregiudica il futuro dell'educazione che invece la riforma assicura. Le proteste danneggiano la formazione dei più operosi. Quindi, la loro stessa libertà.

Berlusconi ha voluto indicare alla sua gente - "la maggioranza silenziosa" come va dicendo la Gelmini - un terreno di conflitto, quasi una chiamata alle armi, un nuovo ambito di ostilità di un'Italia: la sua Italia, contro l'altra che non lo ama o che vuole giudicarlo senza pregiudizio per quel che fa. Non ha esitato a minacciare l'arrivo dei Reparti Celere nelle scuole e università "okkupate" perché sempre un "diritto di polizia" si affaccia quando "lo Stato non è più in grado si garantirsi gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo".

A quanto pare, se si guarda questa piazza e queste vie, Berlusconi per una volta ha sbagliato i suoi calcoli. Clamorosamente. Per la prima volta, in questa legislatura. Come dicono lungo via Sistina, "il governo è riuscito nel miracolo di mettere insieme tutte le sigle sindacali", che solitamente intrattengono tra di loro i rapporti che il cane ha con il gatto.

Ha consentito a un'intera generazione, distratta, disillusa, spettatore passivo distante dal luogo comune, di scoprire che la politica non è appartenenza a un partito o a un gruppo, a una fazione o a un'ideologia, ma che è politica soltanto la volontà di opporsi e resistere a un progetto di ordine sociale che esplicitamente rinuncia a una concezione dello Stato "garante legale dell'eguaglianza" per disegnare esclusioni e differenze, creare privilegi e divisioni.

Non c'è chi in questo corteo, che ora affolla piazza del Popolo e via Ripetta e via del Babuino fino a piazza Augusto Imperatore e piazza di Spagna, non abbia letto il decreto e toccato con mano che "i grembiulini" sono soltanto polvere negli occhi che acceca. Lo studente universitario ti spiega pignolissimo come "il Fondo di finanziamento ordinario delle università viene progressivamente ridotto di 63,5 milioni per il 2009, di 190 milioni per il 2010, di 316 milioni nel 2011, di 417 milioni per il 2012 e di 455 a partire dal 2013, un risultato che si otterrà vietando di assumere personale oltre il 20 per cento dei pensionamenti dell'anno precedente. Una morta lenta che ucciderà tutti, i buoni e i cattivi senza alcun discernimento: chi ha disperso le sue risorse e chi le ha utilizzate al meglio; chi ha valorizzato il merito e chi ha inaugurato un insegnamento inutile per dare una cattedra all'amante o al figlio. Dicono: quel che non darà più lo Stato lo forniranno le Fondazioni, ma quali, ma come? Il governo non lo dice perché o non lo sa o non può dire che vuole un'università privatizzata".

È la trama della realtà che fa capolino. È il suo giorno. Per una volta, la "comunicazione" può attendere. I trucchi non funzionano. Quell'indifferenziazione tra reale e fittizio che sempre Berlusconi riesce a costruire appare sgonfia come una ruota bucata. La gente che è qui, che ancora non riesce a raggiungere piazza del Popolo, sembra che ancora riesca a distinguere ciò che accade davvero da quel che la politica e i suo cantori raccontano.

Madri di famiglia ti spiegano come cambierà concretamente la loro vita e la vita del figlio con la fine del "tempo pieno", con il "maestro unico" e l'orario settimanale di ventiquattro ore. "Che cosa è più educativo la strada, la televisione o la scuola?", chiedono.

La realtà. Ha il fiato corto Berlusconi quando si lamenta della "scandalosa capacità di mentire su cose di buonsenso" o quando nega che ci siano tagli. Qui se ne vanno in giro con nella borsa o in tasca il decreto e, sollecitati, sono pronti a squadernartelo sotto gli occhi. "I docenti a tempo determinato che voleranno via come stracci saranno 87.341 in tre anni. Nel 2009/10, 42.105; 25.560 nel 2010/11; 19. 676 nel 2011/2012. Questo per gli insegnanti. Per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario sono previsti 42.500 posto in meno, il 17 per cento in meno. Come si fa a dire che non ci sono tagli?".

* * *
In piazza del Popolo, un'orchestrina intona l'inno di Mameli. È bizzarro, e di certo non consueto, che prima sottovoce, poi con sempre maggiore forza e convinzione, quel canto dilaghi in ogni angolo della piazza. A pensarci meglio, non è fuori posto "Fratelli d'Italia". Anzi, quel canto appare coerente. Forse può essere addirittura il senso della giornata. Le persone che sono qui, quale che sia il loro numero, sembrano sapere che è in gioco "un'idea di Italia" a cui non vogliono rinunciare. Sanno che "la scuola pubblica, la scuola di tutti", quell'idea la custodisce. Anche con i suoi deficit.

(31 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Novembre 09, 2008, 11:42:41 am »

IL COMMENTO

Il diritto diseguale

di GIUSEPPE D'AVANZO


NON da oggi, l'Italia è un Paese privo di normalità, ma pieno di norme e normatività. La novità del presente, governato dalla destra, è che le norme che dovrebbero restituire normalità al Paese lo rendono più disordinato, affondato in anomalie peggiori di quel che una normatività, approvata con immediata forza di legge, vorrebbe curare.

Tre esempi documentano questa deriva autoritaria e populista che crea asimmetrie sociali e territoriali e assegna alle polizie non più la funzione amministrativa di esecuzione del diritto, ma l'efficacia di uno stato d'eccezione che sospende la norma e trasforma il diritto in una decisione mai interamente determinata dalle leggi in vigore. Naturale che saltino fuori distorsioni, incostituzionalità, un "diritto della diseguaglianza", la preoccupazione per un'avventura di cui ormai conosciamo l'epifania, ma non l'esito.

Napoli. Accade che il secondo decreto per i rifiuti preveda l'arresto per chi scarica in strada scarti ingombranti. Si sa che, per liberare dall'immondizia Napoli e la fascia costiera della Campania, sono state sospese le leggi ambientali in quella sfortunata e colpevole regione. Ciò che è illegale interrare a Milano, è legittimo a Napoli. La catastrofe di quest'estate sembrava giustificarlo. Ma con un secondo decreto, in una congiuntura non più emergenziale, (parole di Berlusconi), il governo ha voluto esplorare ancora questo "vuoto di diritto". E' così, se a Treviso si espone soltanto a una multa chi abbandona in strada una poltrona sfondata, a Napoli lo sventurato rischia il carcere, da sei mesi a tre anni.

Il governo - sembra di capire - immagina che debbano essere la legge e la forza militare a "creare" il cittadino, buoni costumi e virtù pubbliche. Vitale Varchetta non è di certo un buon cittadino. I carabinieri lo sorprendono mentre abbandona sul marciapiede in una strada di periferia mobili da cucina, bombole di gas, materiale ferroso arrugginito e materiali di lavori edili. Varchetta viene arrestato e ora vedremo quanto carcere gli verrà comminato. Ammesso che davvero un processo si faccia, perché con tutta evidenza quella legge è incostituzionale: punisce con pene diverse lo stesso comportamento. La limitazione territoriale del decreto appare agli addetti un problema insormontabile. Come sostiene il costituzionalista Valerio Onida, l'abbandono di un frigo provoca lo stesso danno all'ambiente in qualsiasi regione d'Italia. Né vale opporre, come molti "d'istinto" oppongono, che però soltanto in Campania c'è un'emergenza rifiuti. Se saltasse fuori che in Lombardia ci sono più furti che altrove, accetteremmo senza batter ciglio che in quella regione il ladro venisse punito con pene doppie, triple rispetto al resto del Paese?

L'asimmetria, riservata alla Campania, ci racconta un metodo e una cultura di governo sui cui dovrebbe riflettere anche chi, stanco dei disastri che i napoletani infliggono alla loro città, condivide l'arresto di Varchetta. Il governo liquida d'imperio, con decreti d'urgenza, un'idea del diritto fondato su norme "impersonali e perciò generali, prestabilite e perciò pensate per durare". Privilegia decisioni dettate esclusivamente dalle mutevoli situazioni concrete. Affiora così una situazione del tutto inedita per il nostro Paese. Come dimostrano i provvedimenti "diseguali" previsti per i napoletani, il governo rivendica la legittimità di stabilire, in autonomia e senza alcun controllo parlamentare o verifica giudiziaria, che cosa sia l'ordine e la sicurezza pubblica, quando e dove sia messa in pericolo. E' da questa convinzione che nascono anche i due emendamenti approvati dalla commissione giustizia del Senato nelle ultime ore: il registro dei senza dimora compilato dalle polizie; la legalizzazione delle "ronde" private. Svelano una cultura che trasforma il povero (come lo straniero, come il non-cittadino) in un pericolo, in un nemico. Come nemico diventa un criminale. Come criminale è affidato alle cure delle "operazioni di polizia", pubblica e ora addirittura privata. Era Hobbes che avvertiva come non potesse essere "il cittadino a stabilire privatamente chi sia l'amico, chi il nemico pubblico". In Italia è quel che può avvenire presto. Con il rischio che, dall'ordine anche precario e anomalo di oggi, si può scivolare nel caos. Dallo Stato nello "stato di natura".


(9 novembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #51 inserito:: Novembre 10, 2008, 10:13:43 am »

Pestaggi, violenze.

In settimana la sentenza per i 29 poliziotti accusati delle violenze nella scuola di Genova nel 2001

Quelli della Diaz: le verità negate

La notte nera della democrazia


di GIUSEPPE D'AVANZO


UNO STATO che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico.
Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell'ordine".
Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici".

Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.

* * *

Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc ? che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei "gruppi scelti" della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso.

Ora, più o meno, è mezzanotte. Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia. Covell si accorge che la polizia sta "chiudendo" la strada. Avverte subito il pericolo. Estrae l'accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i "tonfa" o "telescopic baton", più che un manganello un'arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: "può uccidere", se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia, subito dopo, contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: "You are black bloc, we kill black bloc" ("Tu sei un black, noi ti uccidiamo").

Covell cade finalmente a terra. E' semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i "celerini" che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall'indifferenza, in quell'angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E' ancora aperta l'indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L'accusa: tentato omicidio).

* * *

Distruggere. Annientare. E' con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola. Arnaldo Cestaro, "un vecchietto", è sulla destra dell'ingresso. Viene travolto. Lo gettano contro il muro. Lo picchiano con i "tonfa". Gli spezzano un braccio e una gamba. Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo.

Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni. Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un'ultima "provocazione" mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: "Noi siamo pacifici, niente violenza". "Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?", dicono i testimoni. La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball).

Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci. Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è "aperta" come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida "Basta!". Raggiunge la ragazza. "La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un'autoambulanza". (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra).

Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: "Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C'era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch'io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto "Poverina!" e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello". Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: "Dì, che sei una merda". Mentre colpiscono gridano: "Frocio!", "Comunista!", "Volevate scherzare con la polizia?", "Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!".

Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. "Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero". La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. "Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata".

Dei 93 ospiti della "Diaz" arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).

* * *

Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida? Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla. Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un breve comunicato che vale la pena di ricordare per intero: "Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all'autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All'atto dell'irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini". Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell'ingresso della scuola, "nella disponibilità degli occupanti".

* * *

Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all'epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero. Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta. Si dice che l'assalto (la "perquisizione") fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni. Il processo ha dimostrato che non c'è stata nessuna pattuglia aggredita. Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città.

Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai "celerini". Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c'è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di "alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant'altro". Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati "abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio".

Nella scuola non c'è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio. Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera. Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata. Nella scuola non c'erano molotov. Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente. La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.

* * *

In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia. Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza. Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo.

E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo. Dell'assalto alla "Diaz" non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte "criminali" a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto. Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l'omertà indecorosa che manipola prove; costruisce a tavolino colpevoli; nasconde le responsabilità; sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti. Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un "diritto di polizia". Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell'ordine non sia una impudente finzione. Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l'altro diventa un "nemico" da annientare.


(10 novembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #52 inserito:: Novembre 15, 2008, 11:59:14 am »

IL COMMENTO

Un poliziotto oltre il limite


di GIUSEPPE D'AVANZO


La pessima sentenza di Genova per i pestaggi della Diaz imponeva che subito dovessero venire dalle istituzioni, dalla polizia, dalla politica chiari segnali rassicuranti della fedeltà alla Costituzione delle forze dell'ordine. Per un intero giorno, il silenzio. Un silenzio non imbarazzato, non pudico, ma quasi soddisfatto. Come se l'esito minimalista del processo genovese, che si sovrappone alla mediocre e ambigua conclusione del dibattimento per le torture di Bolzaneto, potesse chiudere senza danno - "e finalmente" - la ferita profonda che i giorni del G8 hanno aperto tra lo Stato e la società, tra le istituzioni e una giovane generazione di cittadini. In questo assordante e colpevole silenzio, ha preso la parola soltanto Vincenzo Canterini, il comandante del Reparto Mobile, della Celere di Roma, condannato a quattro anni di carcere (tre cancellati dall'indulto).

Canterini, il capo delle tre squadre del VII nucleo antisommossa che, per prime, invasero la Diaz e, armate dei micidiali manganelli "tonfa" usati al contrario, bastonarono decine di ragazzi e ragazzi, ferendone 82 e riducendone tre in fin vita. Canterini ha scritto ai suoi "ragazzi" una lettera che è una sfida alla Costituzione, un oltraggio alla "disciplina" e all'"onore" che dovrebbero orientare, per la Carta, i servitori dello Stato.

È una rivendicazione di uno spirito di corpo omertoso ("Io e voi sappiamo benissimo che cosa è successo; ci siamo guardati più volte negli occhi"). È un avvertimento alle gerarchie che avrebbero abbandonato il "Reparto" al loro destino ("Abbiamo perso una battaglia; ma quante volte si siamo sentiti umiliati e forse traditi"). È soprattutto la riproposizione delle menzogne disseminate, nel corso di sette anni, per impedire l'accertamento della verità.

Scrive Canterini: "Quante volte chi ci aggrediva pensava di averci sopraffatto e poi si accorgeva che invece eravamo vivi e fieri di noi (?) Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni". La verità è che nessuno ha aggredito, nella Diaz, Canterini e i suoi "ragazzi". La verità è che nella Diaz non c'è stata nessuna colluttazione, non fu trovato nessun passamontagna, nessun bastone, nessuna catena, nessun maglio spaccapietre (come accreditò una sua relazione di servizio). La verità è che nessuno dei picchiatori di Canterini fu ferito (anche questo giurò) e i referti medici furono tutti manipolati.

La verità - la sola verità che pessime sentenze, miopi convenienze politiche, opportunisti istituzionali non potranno cancellare - è che quella notte di luglio Canterini e i suoi "ragazzi", forse dopo essersi guardati negli occhi, si abbandonarono a un pestaggio brutale di uomini e donne indifesi e inermi. "Facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere", è l'esortazione conclusiva di Canterini.

È un'esortazione anche per noi. Se vince un poliziotto come Canterini perdiamo tutti.

Dopo aver letto il comandante dei nuclei antisommossa sappiamo di non poterci affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie. Sappiamo di aver bisogno di difendere con intransigenza le garanzie offerte dalla Costituzione e i diritti assicurati dalla legge, quelli calpestati a Genova. Sappiamo di dover ancora pretendere di sapere (nonostante la giustizia si sia mostrata timida e impotente) che cosa, come, perché sono state sospese a Genova le regole e l'umanità; con la responsabilità di chi è nato quel "vuoto di diritto" che ha consegnato la vita delle persone, spogliata di ogni dignità, alla violenza arbitraria, disumana che Canterini ha l'arroganza di rivendicare.

Una domanda, però, pretende una risposta subito. Canterini e i suoi "ragazzi" possono ancora restare nei ranghi della polizia?

(15 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #53 inserito:: Novembre 16, 2008, 05:14:56 pm »

IL COMMENTO

Il coraggio della verità

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

Il capo della polizia Antonio Manganelli non si volta dall'altra parte. Non chiude gli occhi. Non sceglie un comodo silenzio. Decide di guardare in faccia la realtà e la realtà è che i pestaggi della Diaz - come le torture di Bolzaneto - sono una frattura tra lo Stato e la società, tra le forze dell'ordine e una giovane generazione. Una macchia nella storia dell'istituzione che governa. È un'ombra incancellabile. Manganelli sembra saperlo, ma dichiara la sua disponibilità a collaborare "senza alcuna riserva" per ricostruire quella "pagina nera" nella convinzione che un'opera di verità possa, per lo meno, evitare che le violenze poliziesche si ripetano in un futuro.

Come è naturale, il capo della polizia non accetta che la sua istituzione possa essere soltanto sospettata di infedeltà costituzionale. Con orgoglio e consapevole dignità, ricorda il quotidiano sacrificio di migliaia di uomini in divisa che fanno il loro lavoro ("sottopagato") al servizio della sicurezza dei cittadini.

E tuttavia Manganelli ha il coraggio di dire quel che, nelle ore seguite alla pessima sentenza di Genova, nessuno nell'establishment ha accettato anche soltanto di ipotizzare: quel che "realmente accadde a Genova" deve essere ancora esplorato, ricostruito, raccontato. La verità di quei giorni di violenza non può essere rinchiusa in un'aula giudiziaria; spenta nella rete delle responsabilità personali e delle sanzioni penali che guidano un processo; soffocata dalle timidezze della magistratura o annullato dai difetti dei codici.

Manganelli rivela quel che, per quanto nella sua disponibilità, ha messo su per migliorare ("correggere") il lavoro di strada dei Reparti Mobile, della Celere, affidati a "persone pulite". In ogni caso, il capo della polizia si assume fin da ora "la responsabilità per gli errori che i suoi uomini possono commettere". Già è accaduto che, dopo "l'avventatezza" omicida di un agente della Stradale, Manganelli si sia assunto la responsabilità della morte di Gabriele Sandri, ucciso un anno fa da un colpo di pistola nell'area di servizio di Badia al Pino Est dell'A1. Uno stile assai diverso dal suo subordinato Vincenzo Canterini, comandante nel 2001 della Celere di Roma e del VII nucleo antisommossa (i picchiatori della Diaz): un ufficiale che, dopo avere gettato il sasso (un'arrogante lettera di velate minacce, di richiami all'omertà di gruppo, di propositi di vendetta), nasconde ora la mano.

Quel che più conta nella lettera di Manganelli sono un paio di righe: "... il Paese ha bisogno di spiegazioni su quel che accadde a Genova e l'istituzione, attraverso di me, si muove e muoverà senza alcuna riserva, non attraverso proclami stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali".

Ora toccherebbe alla politica, al parlamento inaugurare, se non ci sono, quei luoghi istituzionali dove rendere concreta la possibilità di ricostruire - al di là dell'accertamento penale (o nonostante i suoi mediocri esiti) - quel che è accaduto a Genova; come, con la responsabilità di chi, perché si sia aperto nei giorni del G8 un "vuoto di diritto" che ha inghiottito ogni garanzia costituzionale e consegnato la nuda vita delle persone a una violenza arbitraria e indiscriminata.

Dovrebbe essere la politica a battere ora un colpo, ma la scena che si scorge è avvilente. L'opposizione parlamentare appare afona e quando trova la voce, come con Antonio Di Pietro, è soltanto contraddittoria senza imbarazzi (l'Italia dei Valori bocciò la nascita della commissione parlamentare d'inchiesta che oggi pretende). La maggioranza mostra un volto prepotente fino all'insolenza. Maurizio Gasparri rifiuta ogni ipotesi di commissione d'inchiesta: "Non la voteremo mai. La maggioranza non ha alcuna intenzione di permettere una speculazione in Parlamento ai danni delle forze dell'ordine". Il presidente dei senatori della destra non si accontenta di sbattere la porta. Dimentico dei 93 arresti abusivi, delle prove artefatte, dei verbali truccati, degli 82 feriti, dei tre disgraziati in fin di vita, si dice convinto dell'innocenza di Canterini e del VII Nucleo antisommossa (per il tribunale di Genova sono i picchiatori della Diaz). Sarebbe davvero desolante, oltre che politicamente grave per la qualità della nostra democrazia, se la disponibilità del capo della polizia non venisse raccolta; se l'opportunità di ricostruire "i fatti di Genova" non trovasse alcun luogo istituzionale per essere acciuffata nell'interesse di una riconciliazione tra le forze dell'ordine e una generazione. Quale reticenza, quale viltà, quale convenienza potrebbe giustificarlo?

(16 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #54 inserito:: Novembre 24, 2008, 04:28:14 pm »

POLITICA

In Parlamento e nelle grandi società l'Italia non è più un paese per vecchi

A sopresa tiene testa agli Stati Uniti e continua nel processo di rinnovamento

Sorpresa, politici e manager dove il potere si scopre giovane


di GIUSEPPE D'AVANZO

UN INDIZIO di conflitto generazionale fa capolino con il gonfiarsi dell'Onda studentesca - e speriamo che non sia fittizio, che duri e nel tempo si rafforzi. Finalmente, una forma di resistenza individuale e collettiva a un modello normalizzato che riconosce soltanto incertezza e precarietà alle giovani generazioni non protette dalla famiglia, dalle relazioni amicali, dalle connessioni di interesse. Un pregio della falsa "riforma Gelmini" è innegabile: ha costretto molti giovani ad aprire gli occhi su quel che li aspetta: precarietà prolungata; mediocri e intermittenti guadagni; incertezza nel reddito; insicurezza sulla continuità del lavoro; assenza di sostegno pubblico; impossibilità a programmare una vita consapevole (unione, nascita di figli, mobilità). I giovani sono come congelati in una dimensione di adulti immaturi, privati di opportunità e autonomia; imprigionati in un modello sociale e produttivo che non sa riconoscere la qualità e non premia il merito.

Al più, quando va bene (e va bene ai soliti noti), il "modello italiano" concede l'attenzione di una di quelle consorterie - Pierluigi Celli le chiama più esplicitamente "bande" - che "accreditano competenze, contrattano alleanze, tassano ogni forma di collocamento".

A fronte di questo dramma e dell'accenno di conflitto sociale che si può intravedere, il dibattito sull'esclusione dei "giovani" dalla leadership politica di una "Repubblica della Terza Età" è una lagna soporifera. È un piagnisteo che trascura una realtà molto più contraddittoria del diffuso luogo comune del "Paese dove il tempo si è fermato". È gne-gne che occulta un'autentica questione che interpella non tutto il Paese né tutto il ceto politico. Ma soprattutto l'università e la sinistra riformista (o il centrosinistra, chiamatelo come volete). Per almeno quattro ragioni.
Dunque, una giovane classe politica sarebbe tenuta fuori dalla porta delle stanze che contano. Primo argomento: sono davvero giovani?

Quei "giovani" che chiedono attenzione e pretendono, come un atto dovuto, accesso al potere, alle élites, alla classe dirigente, sono falsi giovani, ingrigiti, maturi, diciamo già un po' spelacchiati. Come spiega Francesco Billari (il Mulino, 5/2007), le Nazioni Unite quando progettano azioni dedicate allo youth empowerment (più potere ai giovani) definiscono giovanile l'età che corre tra i 15 e i 24 anni e chiamano addirittura "giovani adulti" quelli che hanno tra i 20 e i 24 anni.
Anche la Commissione Europea considera "gioventù, l'età della vita che va dai 15 ai 25 anni". È dunque una bizzarra anomalia italiana considerare "giovane" chi è nato dopo il 1968 e magari ha già festeggiato i quarant'anni. Non è peraltro una anomalia del presente (secondo argomento).

Alberto Alesina ha ricordato che, quando nel 1984 Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l'economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Modigliani raccontò che all'età di 52 anni, durante un seminario in Italia, fu presentato come "un brillante giovane economista" e lui replicò, quando prese la parola: "Grazie per il "giovane", ma negli Stati Uniti mi considerano un po' passé".

L'anomalia quindi non è nuova in Italia. Di nuovo, al contrario, c'è (terzo argomento, alquanto sorprendente) il tentativo di svecchiare élite politiche e ceti dirigenti. È vero, Berlusconi è in là con gli anni (72 anni) e lo separano più o meno due decenni da Sarkozy (53 anni), Merkel (54), Zapatero (48), Brown (57), però è altrettanto vero che, se si guarda ai cinque ministeri chiave, Economia (Tremonti, 61 anni), Interni (Maroni, 53), Esteri (Frattini, 51), Giustizia (Alfano, 38) e Difesa (La Russa, 61), la media è di 52 anni (era di 63 nel governo Prodi).

Se poi si sbirciano i dati raccolti da Marco Leonardi (economista, Statale di Milano), si scopre che in Italia la giovane età non è un deficit nemmeno per gli amministratori delegati delle 200 aziende quotate in Borsa a Milano. Età media, 52,6. Nelle 4049 aziende quotate a Wall Street, l'età media dei chief executive officer (CEO) è più alta, anche se di mezza incollatura: 53 anni. Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana.

Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l'aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell'insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l'esistente. Di sicuro non nell'università italiana.

A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l'età media è di 53 anni. Alla Camera l'età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l'età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega.

Il più "antico" partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell'ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente "giovane e competente". Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un'età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce. info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell'ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni.

È una classe dirigente cresciuta all'ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un'élite consapevole che debba essere la Lega "il motore riformatore del governo".

Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier "è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c'è straccio di classe dirigente che resista". Si sente Napoleone III o forse - meglio - Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di "vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori", intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni).

Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell'autarchia generazionale e, a parole, è così.

Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito - ripeto - più "antico"). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50).

Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.

L'avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come "economista" tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: "Metto al servizio del Paese la mia incompetenza". Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere.

Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa ("Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere"). Nella convinzione che l'azione politica si svolga tutta all'interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine.

Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: "Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente" per poi concludere: ". Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all'altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate".
Chapeau!

Ho l'impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), "un partito moderno, democratico, laico e di sinistra" (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l'accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.

È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.
Se si guarda al PD, è ossessionata dall'obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell'ultimo partito nato. E' una politica che non conosce il conflitto.

Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E' il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).

Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell'appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza.

Ce l'ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un'idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell'immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.

Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire - e non è una provocazione - che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l'età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l'Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c'è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un'impotente lagna.


(24 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Novembre 30, 2008, 11:03:17 pm »

IL COMMENTO

Quel gesto disperato nella città senza vergogna

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
E' SEMPRE un mistero la ragione che spinge a uccidersi perché il suicidio è sempre e soltanto questo semplice fatto: un uomo preferisce la morte alla vita. Quale sia l'urgenza della scelta, quale sia la tossina intollerabile che la provoca, apparirà ai vivi sempre un passo incongruo. Un eccesso rispetto all'irreversibilità dell'addio. Chi può dire perché Giorgio Nugnes si è impiccato?

Nessuno, e il suo gesto imporrebbe soltanto silenzio e pietà e malinconia. Ma Nugnes era un personaggio pubblico. La sua decisione lascia un segno profondo in una città disgraziata, una ferita collettiva nella sua comunità, che sarebbe insolente lasciar cadere. In queste ore, c'è chi evoca altri suicidi e altre stagioni della Repubblica. La morte di Gabriele Cagliari, la morte di Raul Gardini, le nobili parole di Sergio Moroni. La disperazione di uomini che giudicarono preferibile la morte a una vita ormai insostenibile perché indegna se vissuta in carcere; perché umiliata dagli errori del passato; perché travolta dalla distruzione di un mondo che ora precipitava sul loro destino, e soltanto sul loro, il peso del conformismo di tutti, la colpa e la corresponsabilità di ognuno.

L'accostamento mi sembra improprio. Non credo che il suicidio di Nugnes possa essere paragonato a quei suicidi. La sua morte porta con sé un altro marchio collettivo più grandioso e, al tempo stesso, più sinistro.
Giorgio Nugnes era un uomo molto amato a Pianura. Pianura non è Napoli. Non è soltanto un quartiere di Napoli, al di là della collina dei Camaldoli. è un altro luogo. Separato, autonomo dalla grande città. Con una spiritualità indipendente. Chi ci abita è fiero di questa alterità. Lo era anche Nugnes che, di quella comunità, era un modello. Abitava in fondo a una viuzza stretta stretta dove la campagna ancora non ha ancora ceduto del tutto al cemento; una via abitata da fratelli, cugini, nipoti, una famiglia ospitale e giudicata generosissima.

Della comunità di Pianura, Nugnes era il leader. La sentiva così sua, così costituzionalmente parte di sé e ragione della sua esistenza pubblica e privata, che non ha avuto alcun dubbio da che parte stare quando scoppiò la rivolta contro la riapertura della discarica, durante i giorni della crisi della monnezza. Stava dalla parte della sua gente. Assessore, partecipava ai tavoli di crisi in municipio e in prefettura. Leader della sua comunità, svelava subito dopo alla sua gente i piani e le strategie della polizia per spezzare i blocchi stradali. Fu arrestato per associazione a delinquere. Si sentiva a posto con la sua coscienza. "E' vero ? disse ? mi sono battuto contro la riapertura della discarica. Mi accusano di avere organizzato blocchi stradali, ma a volte questa resistenza pacifica evita un corpo a corpo più pericoloso. Ho sempre difeso fino in fondo la gente del mio quartiere. Siamo cresciuti con l'olezzo della discarica a Pianura, non permetteremo, non permetterò che la riaprano".

Giorgio Nugnes diceva le sue colpe, non ne confessava nessuna. Poteva farlo perché la felicità, la sua felicità, gli appariva una virtù sociale. A Pianura, tra la sua gente, non avrebbe avvertito alcun peso, alcuna colpa, alcuna responsabilità. La decisione di allontanarlo dal suo quartiere deve averlo colpito peggio di una sentenza di condanna. Negli ultimi giorni, lo diceva a tutti quelli che avevano voglia di ascoltarlo.

L'ostracismo (doveva abitare lontano da Pianura e poteva rientrare a casa, per la notte, soltanto tre giorni la settimana) lo avrebbe precipitato nell'isolamento, nella solitudine, nell'oscurità. Lontano dalla sua gente, si sarebbe sentito un escluso e un estraneo. E soprattutto quel che a Pianura era un gesto solidale e responsabile sarebbe apparso altrove, agli altri, un deplorevole inganno, una mossa colpevole di cui vergognarsi. Lontano dalla sua comunità, Nugnes è stato ucciso dalla vergogna (forse aggravata dalle voci che annunciavano una nuova inchiesta, altri severi provvedimenti).

E' terribile dirlo o anche soltanto pensarlo, ma lo scuorno che ha ucciso Nugnes è l'amaro turbamento che può restituire, se compreso, decoro a una città, dignità a un ceto politico che sembra aver smarrito il senso della vergogna. Le istituzioni pubbliche cittadine, assediate dalle inchieste giudiziarie, dalle rivelazioni degli sperperi, oggi appaiono aggrappate tenacemente alle proprie rendite politiche.

Il suicidio di Giorgio Nugnes racconta anche questo. Ammesso che si abbia la voglia di decifrarlo, racconta quanto sia grave e profonda la crisi di una città che apprezza, come virtù, l'ostinazione del potere, la flessibilità morale, la protezione degli interessi particolari, la difesa della rendita politica e, come missione, la gelosa custodia del consenso anche quando questi veleni distruggono giorno dopo giorno la rispettabilità di Napoli, dei napoletani e, irrimediabilmente, il loro futuro. Che Giorgio Nugnes pace trovi, e riposo.


(30 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #56 inserito:: Dicembre 04, 2008, 09:43:56 am »

Dopo il suicidio di Nugnes, l'ombra delle intercettazioni sulla giunta

Al centro dell'indagine il provveditore, cinque assessori e un imprenditore

Napoli, l'inchiesta dei veleni sul "patto degli appalti"


di GIUSEPPE D'AVANZO


NAPOLI - Il fatto è che una manina si è portata via dagli uffici della Direzione investigativa antimafia di Napoli una copia delle intercettazioni dell'indagine che, nel suo avvio e senza alcuna ironia, gli investigatori chiamavano Magnanapoli. Dicono fonti vicine all'inchiesta che ora il boccino ce l'hanno in mano un paio di "barbe finte" - di spioni - che distillano veleni con almeno tre obiettivi ormai espliciti. 1. Azzoppare un'inchiesta che, presto svelerà come sinistra e destra, governo cittadino e opposizione consiliare vivono, a Napoli, d'amorosi sensi quando si discute e si decide di appalti e affari. 2. Regolare qualche conto in sospeso tra le burocrazie della sicurezza. 3. Soffiare "per input politici e gerarchici" il nome di innocenti, incappati nelle intercettazioni telefoniche, per farne colpevoli da sbattere sui giornali. Bisogna allora cominciare da qui - dalla disinformazione - per diradare qualche nebbia. L'operazione consente di vedere all'opera le manine galeotte, gli utilizzatori en plein air, i virtuali beneficiari, gli sventurati target.

Uno sventurato target è Antonio Di Pietro. Suo figlio Cristiano, 34 anni, al tempo consigliere provinciale di Campobasso, si mette in contatto con Mario Mautone, provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise. Mal gliene incolse.

I comportamenti di Mautone sono già al centro dell'inchiesta di Napoli. Iperattivo, interlocutore favorito di amministratori, politici, imprenditori, amico giovialissimo di questori, generali e magistrati. E' settembre dello scorso anno. Una manina consegna al senatore Sergio De Gregorio (Partito delle libertà) la notizia che Cristiano Di Pietro è "indagato dalla procura di Napoli in un'inchiesta sulla ricostruzione post-terremoto in Molise". La notizia farlocca viene rilanciata dal Giornale, che ancora ieri ostinatamente la ripubblica. Raccontano che, di quelle intercettazioni, venga a conoscenza anche Silvio Berlusconi; che venga sollecitato a utilizzarle come una mazzuola sulla testa del suo "nemico" storico (Di Pietro) e contro il partito democratico (governa Napoli e la Campania da quindici anni).

Il premier non ne fa nulla. L'uomo ha un felice intuito perché la storia, come gliela raccontano, è bugiarda. E' vero, il giovane Di Pietro - intercettato - discute con Mautone della sorte di un paio di caserme dei carabinieri in Molise. "Più che correttamente", dicono oggi fonti vicino all'inchiesta. Il padre, Di Pietro il vecchio, Antonio, in quei mesi ministro delle Infrastrutture, ha il cattivo carattere che ha - si sa - e al primo stormir di foglie dell'indagine rimuove Mautone sottraendogli l'autonomia di provveditore per consegnarlo a un incarico non operativo al ministero.

"Mi sono sempre comportato così - dice ora Di Pietro - Se sapevo che la magistratura stava valutando la correttezza dei comportamenti di un alto dirigente lo destinavo a un incarico non operativo - è accaduto in cinque, sei occasioni - nell'interesse del ministero, della giustizia, del dirigente indagato o soltanto coinvolto nell'indagine". Fonti vicino all'inchiesta confermano che Di Pietro si è comportato in questa storia con "esemplare correttezza".

Il venticello calunnioso soffiato contro il leader dell'Italia dei Valori è analogo all'aria venefica che le "barbe finte" sbuffano contro il colonnello Gaetano Maruccia (comandante provinciale dei carabinieri) e il generale Vito Bardi (comandante regionale della Guardia di Finanza in Campania). Li dicono, con il questore Oscar Fiorolli, indagati, compromessi dall'amicizia e rovinati dagli interessi opachi del provveditore. In realtà, i nomi dei militari saltano fuori nelle conversazioni telefoniche, ma in maniera neutra. Bardi e Maruccia prendono subito il largo da quel tipo, Mautone. Fiorolli, più amichevole e frivolo, si attarda a frequentarlo, ma non fino al punto di lasciarsene coinvolgere, a quanto pare.

E' tra questi miasmi e veleni che precipita Giorgio Nugnes. Nelle ultime ore, prima del suicidio si aggira tra le redazioni dei giornali. Determinato a scrollarsi di dosso ogni accusa, chiede ai cronisti che apprezza: "Ma perché anche i servizi segreti indagano su di me?". Ipotizzano gli investigatori che Nugnes, nella notte tra venerdì e sabato 29 novembre, possa essere stato avvicinato dalle "barbe finte", pressato, minacciato con false notizie fino al punto che l'uomo ha ceduto di schianto la mattina dopo, impiccandosi. Se queste supposizioni dovessero trovare conferma, più che di un "nuovo Enzo Tortora", come suggerisce Francesco Cossiga, Giorgio Nugnes sarebbe la vittima di una stagione di veleni che era sconosciuta a Napoli, città più facile al melodramma e al buffo che alla tragedia.

Sgombrato il campo dal loglio, resta il grano ed è grano molto guasto. Comunque vada, quando le conversazioni telefoniche diventeranno pubbliche, della giunta di Rosa Iervolino resterà soltanto polvere per le prassi di governo, l'etica che le ispira, gli interessi personali protetti, la rete di potere non trasparente e trasversale che quei colloqui portano alla luce.

L'inchiesta giudiziaria trova il suo focus in un triangolo. Il provveditore alle opere pubbliche; cinque assessori; l'imprenditore Alfredo Romeo. Sullo sfondo, a Roma, i rapporti "tutti ancora da chiarire" con politici nazionali, tra cui Renzo Lusetti (Pd), Nello Formisano (IdV), Italo Bocchino (PdL). Il "triangolo" di interessi è alle prese con un global service, un progetto di gestione integrata delle proprietà della pubblica amministrazione. Rosa Iervolino lo presentò pubblicamente nella primavera del 2007 come "un regalo per Giorgio Napolitano che trascorre qui la Pasqua". Il piano, "in una visione unitaria", avrebbe dovuto "valorizzare il patrimonio pubblico, dagli immobili alle strade, dai palazzi monumentali a quelli di edilizia residenziale".

E' un appalto che i protagonisti istituzionali e amministrativi - Mario Mautone, il provveditore; Enrico Cardillo, l'assessore al bilancio (ora dimissionario); Giorgio Nugnes, dimissionario dall'assessorato alla protezione civile - cuciono come una giacca ben tagliata sulle spalle di Alfredo Romeo. A quanto pare, le indagini non svelano "cavalli di ritorno", mazzette che premiano la corruzione - se non pallide tracce, tutte ancora indagare - ma le fonti di prova raccolte, per la procura, sono adeguate a dimostrare la fraudolenza della gara e, quindi, la richiesta di misure cautelari - in soldoni, di arresti - inviata al giudice per indagini preliminari che, se fa in fretta (ha l'incarto da luglio), potrebbe decidere anche prima di Natale. Turbativa d'asta, dunque. Il reato non è esplosivo.

Esplosive sono le conversazioni che dimostrano quanto il parolaio guerresco del confronto pubblico tra destra e sinistra sia, a Napoli, soltanto una mascherata. In realtà, ogni rivolo della spesa pubblica si decide in un compromesso utile a proteggere gli interessi personali, la rendita politica, le quote di consenso di ciascun partito. Una realtà politico e amministrativa che trova la sua conferma nel sostegno di Forza Italia alla giunta Iervolino in occasione del bilancio, nella protezione che alla Regione Silvio Berlusconi offre al pericolante Bassolino. L'equilibrio amministrativo e istituzionale non è costruito per l'interesse pubblico, con l'urgenza di lavorare insieme per far fronte alle gravi criticità della Campania, alla crisi profonda della città, ma intorno alla corruzione, al clientelismo, per usare le formule del capo dello Stato.

Forse informato per rispetto istituzionale (il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore smentisce), Giorgio Napolitano ha anticipato (se si hanno orecchie per ascoltare) le ragioni della prossima crisi politica che travolgerà, con l'inchiesta giudiziaria, l'amministrazione e il ceto politico cittadino. Lo ha fatto così: "E' assolutamente indispensabile che cambino i comportamenti di tutti i soggetti, pubblici e privati, che condizionano negativamente il miglior uso della risorse disponibili con il peso delle intermediazioni improprie che possono ricondursi a forma di corruzione e clientelismo, interferenza e manipolazione. (Bisogna) mettere in discussione la qualità della politica, l'efficienza delle amministrazioni pubbliche e l'impegno a elevare il grado complessivo di coscienza civica". A buon intenditore, poche parole.

(4 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Dicembre 05, 2008, 09:46:46 am »

Intervista al sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino: "Qui la politica è una guerra per bande"

"Se qualcuno in Giunta ha sbagliato pagherà. Vigliacco scappare per salvarsi"

"Non fuggo, io ho le mani pulite ma se il Pd me lo chiede lascio"


di GIUSEPPE D'AVANZO
 

NAPOLI - "Comincio a essere stufa. Anche il più integro dei meccanismi alla fine si rompe". Sono le prime parole di Rosa Russo Iervolino, sindaco di una Napoli politica e amministrativa sull'orlo di una crisi che si annuncia rovinosa.

Dicono che sia stata convocata con urgenza dal segretario del Pd, insieme ad Antonio Bassolino. Dicono che Veltroni pretenderà le dimissioni del governatore. Che c'è di vero?
"E' una sciocchezza che sia stato Veltroni a convocare, a Roma, me e Bassolino. Sono io che ho cercato oggi Veltroni e non il contrario. Purtroppo Walter è in viaggio verso Atene. Sapete, noi del Pd ci occupiamo molto di politica internazionale.."

La convocazione per martedì pare che sia stata confermata da Giuseppe Fioroni.
"Un altro genio. Ma che si sappia: sono io che voglio sapere dal mio partito, dal segretario, dal gruppo dirigente che cosa hanno in mente per Napoli. Stiamo parlando della terza città italiana e dell'unica governata dal partito democratico. Sono io ? con le mie mani pulite ? che chiedo a loro di mettere sul tavolo i rilievi che merito io personalmente e le critiche, le censure per la mia giunta".

L'inchiesta della procura di Napoli non pare rassicurante per la sua giunta.
"Non conosco le carte di quest'inchiesta, ma conosco la Costituzione. L'ho studiata e ancora la frequento. So che la responsabilità penale è personale e, prima di dire colpevole un imputato, bisogna attendere una sentenza definitiva. In ogni caso, le responsabilità di uno o di pochi non possono ricadere sulla giunta".

Ma se dovessero emergere, come a questo punto è molto probabile, comportamenti penalmente scorretti di alcuni dei suoi assessori, lei che cosa farà?
"Quel che ho già fatto. Per quanto è nella mia possibilità e competenza, di fronte a un'indagine penale che coinvolge un mio amministratore, prenderò subito provvedimenti. L'ho fatto anche con il povero Giorgio Nugnes, un ragazzo che mi era molto caro. Per il resto voglio capire però se la polemica contro la mia giunta è frutto di un giudizio etico e politico o l'effetto di una bega politica. Perché - guardi - io, che sono in politica da trent'anni, sono abituata a un altro metodo: c'è un problema, si riuniscono gli organi di partito, si analizza la situazione, si discute anche con franchezza, si decide".

Lei chiede un confronto. Ma immagino che lei abbia già avuto modo di discutere con i suoi?
"No. Accade che qualche tempo fa, con tutti i miei assessori, discuto a lungo e con serenità con Luigi Nicolais (già ministro della funzione pubblica nel governo Prodi, oggi segretario del Pd napoletano). Poi oggi apro il giornale e leggo: ultimatum di Nicolais, o giunta nuova o me ne vado. Prima di consegnare l'ultimatum a mezzo stampa, Nicolais non poteva dire a me il suo disagio? Se era già a disagio perché non ce lo ha detto quando ne ha avuto l'occasione?".

Glielo chiedo io, perché?
"No, lo deve chiedere a Nicolais, a Veltroni o magari a Fioroni. Io so soltanto che non cederò alle liti di partito. Non si può fare delle istituzioni un solo fascio. Di che cosa parlano? Della Regione Campania e del comune di Napoli? Di Bassolino e di Rosetta Iervolino?"

C'è però in arrivo un tsunami politico, è chiaro a tutti. Per quel che se ne sa, i rilievi penali saranno il meno, a petto del quadro etico che verrà fuori.
"Io sto ai fatti. Quest'inchiesta di cui lei parla ancora non c'è e io non ne so niente. Dunque, dove sta il problema? Qualcuno ha fatto parte di camarille? Qualcuno sa di avere uno scheletro nell'armadio e si dimette? Ben fatto, io accetto le dimissioni e tiro avanti. Con un comitato di saggi, ho già disposto severe regole di controllo degli atti amministrativi. Non è sufficiente? Lo si dica. Si presenti una mozione di sfiducia, la si approvi e il sindaco se ne va. Questa è la democrazia, non lo spettacolo che ho sotto gli occhi".

Qual è questo spettacolo?
"Le insalate dove tutte le responsabilità sono uguali. I patti trasversali, mai resi pubblici. Gli appetiti per il nuovo piano regolatore che condizionano l'informazione e le opinioni di alcuni organi di stampa. Le debolezze di un partito democratico che non decolla. Da parte mia, posso soltanto dire ai miei: lavorate, lavorate, lavorate. Fatelo con mani pulite. Che posso fare di più? Me lo dica lei?".

Lei parla spesso della sua forza, della sua tenuta d'acciaio, delle sue "spalle larghe". Ma un sindaco è anche l'espressione di una coalizione politica, la sintesi della qualità di un ceto politico, il custode di un progetto, il garante della correttezza di un'amministrazione. Converrà che non lei, ma la reputazione e la credibilità delle forze politiche che la sostengono sono oggi al grado zero. Questa criticità può essere senza conseguenze?
"A parte il fatto che anche l'acciaio si spezza e io mi sento ormai vicino a quel punto di frattura, voglio capire di che cosa stiamo parlando. Finora, io vedo soltanto un polverone. Voci. Insinuazioni. Accuse senza padre?".

C'è stato un suicidio, sindaco.
"Non deve dirlo a me che ero affezionata a Nugnes come mi ha dato atto a Pianura la sua famiglia e la sua gente, nonostante qualche titolo sciacallesco. Voglio chiederle: perché devo pagare io? Qual è la mia responsabilità? Che c'è di concreto in questo polverone che ci impedisce di vedere e ragionare?".

Sembra che lei non voglia prendere in considerazione nemmeno le parole del presidente della Repubblica. Le ripeto che cosa ha detto Giorgio Napolitano qui, a Napoli, ai napoletani e a chi li governa: "E' assolutamente indispensabile che cambino i comportamenti di tutti i soggetti, pubblici e privati, che condizionano negativamente il miglior uso della risorse disponibili con il peso delle intermediazioni improprie che possono ricondursi a forma di corruzione e clientelismo, interferenza e manipolazione. (Bisogna) mettere in discussione la qualità della politica, l'efficienza delle amministrazioni pubbliche". Che cosa doveva dire di più, e di peggio, il capo dello Stato per scuotere l'albero?
"Senta, Mino Martinazzoli più di quindici anni fa mi acchiappò dal mio seggio di Lanciano-Vasto, dove venivo eletta da più legislature, e mi fece rientrare a Napoli. Sono napoletana, la mia famiglia è napoletana. Accettai volentieri la prova. In città la Democrazia Cristiana era stata distrutta da Tangentopoli. Mario Condorelli rifondò il partito popolare allontanando i personaggi più discussi e discutibili. Nel corso del tempo, questa gente è rientrata nel partito. Non gliel'ho consentito io, di rientrare. Però, sono io a doverci fare i conti. Ogni giorno, i miei figli mi dicono di lasciar perdere, di non sporcare in questo palazzo il mio nome, la mia storia, il nome e la storia della mia famiglia. Appena cinque minuti fa, è stata qui mia figlia. Senza dire una parola, con il solo gesto della mano oscillandola come un pendolo da destra a sinistra, mi ha implorato ancora una volta di filare, di andarmene. Lei crede che io non ci pensi ogni giorno a quanto sia più facile tornarmene a casa? Ogni giorno ci penso e ogni giorno mi dico che sarebbe vigliacco scappare per salvare il mio buon nome e lasciare la città ai suoi conflitti, dilaniata da una guerra per bande. Che alibi offrirei a chi - nelle élite culturali cittadine - già oggi pensa che bisogna tenersi lontano dalla politica perché la politica ti può soltanto sporcare?
Ho compreso benissimo le parole del presidente Napolitano e sono quelle parole che mi convincono a chiedere al segretario e alla direzione del mio partito di dirmi se devo restare e, in questo caso, qual è il progetto che il partito democratico ha in serbo per Napoli. Se mi dicono: dimettiti, lo farò. Non sono il tipo che si incatena alla poltrona".

Quanto pesano sulle sue difficoltà, le difficoltà di Antonio Bassolino e la sua ostinazione a restare alla guida della Regione Campania?
"Io rispondo soltanto dei miei atti e delle mie decisioni. Bassolino delle sue. Sarei attenta, comunque, a dire ostinato Antonio. Bassolino sta affrontando un rinvio a giudizio, ma io so che è una persona onesta, come sua moglie Anna Maria Carloni".

(5 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #58 inserito:: Dicembre 09, 2008, 11:08:23 am »

POLITICA     
EDITORIALE - La riforma della giustizia

Il vero obiettivo del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


Berlusconi non ha alcuna voglia di riformare subito la giustizia. Perché dovrebbe averne? Si è personalmente protetto con l'immunità (la "legge Alfano") e non teme più i giudici.

Può essere paziente, può non avere fretta, può attendere. C'è il tempo di una legislatura per preparare e realizzare il colpo finale (dipendenza del pubblico ministero dall'esecutivo). Con sapienza, è sufficiente al premier tenere alto il fuoco sotto la pentola e cuocere magistratura, riformisti democratici, opinione pubblica con sfide, provocazioni, affondi incrociati. Sempre inconciliabili. Tipo: "Nella sinistra c'è una questione morale", dice. Che ovviamente suggerito da un piduista, con un avvocato corruttore di giudici (Previti) e un braccio destro amico di mafiosi (Dell'Utri), fuori pericolo per amnistie e prescrizioni, scampato per un conflitto di interessi che gli ha permesso di approvarsi leggi ad personam, irrita gli animi e provoca un irrigidimento politico. Che subito dopo Berlusconi massaggia da "statista" con un invito a discutere insieme la riforma della giustizia.

Un'offerta politica che, presa in considerazione per qualche ora, provoca all'istante nell'opposizione divisioni e malanimo che l'egoarca aggrava lasciando dire, un attimo dopo, che "in ogni caso, il governo la riforma la farà per conto suo" alla pattuglia di sherpa più partisan che ha a disposizione - Alfano (suo segretario personale e ora ministro virtuale), Ghedini (suo avvocato personale e ministro di fatto), Cicchitto (fratello di loggia).

Bisogna mettersi nei panni di Berlusconi. L'unica forza che teme davvero è la Lega Nord e Bossi non vuole sentir parlare di giustizia prima di avere in tasca il federalismo e, se il premier s'azzarda a capovolgere l'ordine delle priorità, gli toccherà subire gran brutti scherzi in aula. E poi perché procurarsi delle rogne quando i suoi avversari si fabbricano guai da soli?

I magistrati si mangiano vivi come scorpioni in una bottiglia screditando irresponsabilmente la stessa funzione giudiziaria. Il Consiglio superiore della magistratura, costretto ad affrontare la crisi calabro-campana per la mossa inconsueta di Napolitano, è pronto già da oggi a ritornare ai tempi lunghi, al gioco di squadra correntizio, alla protezione corporativa incapace di trovare risposta al perché magistrati così palesemente inadeguati debbano ottenere un incarico direttivo. È questa la qualità della magistratura italiana o è questo il mediocre merito che piace ai "kingmaker" delle correnti? D'altronde, è anche vero che, per le toghe più spregiudicate, una buona visibilità mediatica rimedia a qualsiasi abbaglio professionale se si posa a vittima, se si strepita contro l'arroganza del potere e i baratti politici sotto banco: quel che non si è stati capaci di mettere insieme rispettando le regole del processo penale, lo si ottiene come condanna morale pubblica da un'opinione pubblica, disinformata con maestria, che attende l'Angelo vendicatore e l'inchiesta catartica.

Il quadro sarebbe però incompleto se si trascurasse quel che più conta, la moderna originalità del Berlusconi IV (novità che la miopia autoreferenziale di opposizione e magistratura neppure sembra scorgere). Oggi il bersaglio del signore di Arcore (impunito per legge) non concerne più la magistratura (avversario secondario), ma lo stesso sistema di legalità (obiettivo primario). Non l'ordine o il potere giudiziario, ma le leggi, quella "formulazione generale e astratta che distingue le leggi da ogni altra manifestazione di volontà dello Stato". Berlusconi rivendica la legittimità del suo comando e non vuole che esso sia determinato dalle norme, ma lo esige orientato dalla necessità concreta, dallo stato delle cose, dalla forza della situazione. Vuole dare un taglio netto alle "dispute avvocatesche" che accompagnano lo Stato dove i giudici interpretano la legge. Vuole liquidare "le discussioni senza fine" dello Stato legislativo-parlamentare. Vuole e pretende una decisione eseguita con prontezza senza che né i giudici né il Parlamento ci mettano il becco.

Questa è la "partita" che vede la magistratura e il riformismo democratico confusi nel difendere forme, identità e routine che le mosse di Berlusconi spingono costantemente in fuori gioco. Converrà allora abbandonare l'idea di discutere e dividersi per una riforma della giustizia che non ci sarà per il momento (ci saranno soltanto maligne e pericolose modifiche di procedure e codici). È più utile rendersi presto "presentabili" per difendere con qualche prestigio dinanzi all'opinione pubblica un'architettura dello Stato dove ""legittimo" e "autorità" valgono solo come espressione della legalità".

Il riformismo democratico ha molto lavoro, e doloroso, davanti a sé. È ferito, in qualche caso sfigurato, dalle collusioni con il malaffare, dal clientelismo, dall'avidità, da "sistemi di potere" chiusi e inaccessibili. Non riesce a prendere atto, anche nei sindaci più integri come Domenici e Iervolino, che la sconfitta dell'etica pubblica nelle loro amministrazioni è un fallimento politico e quindi una loro diretta, esclusiva responsabilità di cui devono dar conto. Prima che affare dei giudici, quella caduta è uno sfregio alla fiducia ottenuta dagli elettori. Le proteste per la propria, personale correttezza non gliela restituirà e non la restituirà al centro-sinistra. La discussione severa nel campo dei riformisti dovrà ricordare allora che non può esserci autorità al di fuori di legalità.
Soltanto il rispetto della legalità può rendere legittimo e autorevole il comando a meno di non volersi incamminare lungo la strada aperta da Berlusconi.

La magistratura si muove nello stesso angolo stretto. Così ubriaca di se stessa da non accorgersi di ballare su un Titanic prossimo alla catastrofe, in alcune agguerrite falangi, inalbera le prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza come se fossero un lasciapassare per l'irresponsabilità. La magistratura deve mostrare di essere in grado di rimuovere, con i propri poteri amministrativi, le toghe sporche, le toghe immature, le toghe oziose, le toghe incapaci, gli inetti volenterosi, i vanitosi cacciatori di titoli. "La ricreazione è finita", è stato detto sabato scorso al Csm durante le audizioni dei capi degli uffici di Salerno e Catanzaro. "La ricreazione" deve finire davvero, se la giustizia vuole essere ancora custode e garante del diritto in uno Stato giurisdizionale.

Soltanto questo doppio esame critico consentirà di affrontare, quando sarà, una riforma della giustizia che abbia non soltanto un uomo al comando, con i numeri insuperabili delle sue truppe, ma almeno un protagonista politico (il Pd) e un attore istituzionale (la magistratura) che possono far pesare nel Paese la loro credibilità, un indiscusso credito. Non è molto, ma è la sola moneta che si può spendere oggi.

(9 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #59 inserito:: Dicembre 11, 2008, 11:01:03 am »

Intervista a Giuseppe Cascini, segretario dell'Associazione nazionale magistrati

"La separazione delle carriere è un'ossessione, ma non risolve i problemi"

"Il Cavaliere vuole controllare i pm così i cittadini saranno meno liberi"

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
GIUSEPPE Cascini è il segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati. Legge con attenzione le notizie d'agenzia che danno conto dell'annuncio di Berlusconi. Riforma costituzionale e separazione del pubblico ministero dall'ordine giudiziario anche a costo di voltare le spalle agli inviti alla collaborazione e alla condivisione più volte avanzati dal presidente della Repubblica.

Dunque, il governo va verso la riscrittura del Titolo IV della Costituzione. Qual è il suo giudizio?
"La separazione della magistratura giudicante da quella requirente mi sembra soltanto un'ossessione che Berlusconi sventola a ogni occasione come panacea per tutti i mali della giustizia. E' il frutto di una semplificazione puramente propagandistica di un problema, al contrario, molto serio. Le voglio dire di più. Questa storia del pubblico ministero che deve dare del "lei" al giudice o prendere appuntamento e attendere il suo turno è soltanto folklore".

Non è folklore la ragione che, in apparenza, convince Berlusconi a separare le carriere o gli ordini, come gli piace dire. Il processo, sostiene, è squilibrato a favore dell'accusa.
"La parità delle parti nel processo è garantita dagli strumenti processuali che oggi in Italia, più che in ogni altro paese europeo, assicurano una forte imparzialità dell'organo giudicante. E d'altronde una parità ordinamentale è irrealizzabile".

Perché è irrealizzabile?
"Perché l'organo dell'accusa dovrà essere necessariamente, e sempre, un funzionario pubblico mentre l'avvocato è un libero professionista legato all'interesse privato del suo assistito. A meno che Berlusconi non voglia "privatizzare" l'interesse rappresentato dalla pubblica accusa. Chiunque comprende che, in questo caso, saremmo alle prese con una forte riduzione delle garanzie di libertà dei cittadini. Permetta ora di fare a me una domanda e una proposta: ma è proprio vero che i giudici non sono imparziali, che sono sottomessi alle pretese dei pubblici ministeri? Perché il ministro Alfano non offre all'opinione pubblica dei dati su cui riflettere e discutere? Perché non ci dice quante sono, in percentuale, le assoluzioni decise in dibattimento; le ordinanze dei gip contrarie alle richieste del pubblico ministero; gli annullamenti del tribunale del riesame? Siamo convinti che questi dati documenterebbero l'alto grado di imparzialità della magistratura giudicante e la vitalità della dialettica e del controllo processuale".

Che cosa cambia o può cambiare, a suo avviso, con la separazione degli ordini, con il pubblico ministero separato dal giudice?
"Innanzitutto si impoveriscono radicalmente le garanzie di libertà. Avremo un corpo autonomo di funzionari dello Stato, estraneo alla cultura della giurisdizione che è poi consapevolezza del diritto del cittadino. Si formerà un corpo di mille pubblici ministeri che si autogovernano con un proprio Consiglio superiore. Nascerà un centro di potere che deve inquietare. Avrà a disposizione il monopolio dell'azione penale, la direzione della polizia giudiziaria, la libertà e la reputazione dei cittadini. E la possibilità di governarsi in modo indipendente. Mi chiedo quanto tempo sarà necessario perché si ponga, con molte ragioni, la questione di chi debba controllare questa microcorporazione, questo centro di potere? Sarà una domanda che porterà il pubblico ministero diritto nell'orbita dell'esecutivo, alle dipendenze del governo. In fondo, mi pare che questo sia il frutto avvelenato dell'iniziativa del presidente del Consiglio".

La magistratura come replicherà, se replicherà?
"Noi possiamo soltanto denunciare all'opinione pubblica che queste riforme vanno contro l'interesse dei cittadini. Ricorderemo che queste questioni - ripeto, folkloristiche, propagandistiche, semplificatorie - lasciano irrisolti i problemi reali della sistema penale italiano".

Che appare molto malato, però.
"Certo, che è malato, chiunque lo vede. Ma qual è la malattia? Noi crediamo che sia malato dell'inefficacia della pena, dell'irrazionalità di un sistema sanzionatorio che punisce, con rigore, gli autori di reati minori diventando indulgente o lassista anche di fronte a fatti gravissimi. Si va in galera per tre furti di mele in un supermercato e agli arresti domiciliari o in affidamento in prova per una rapina a mano armata. Voglio farle ancora un esempio. Il ministro Tremonti ha detto recentemente che i banchieri che hanno responsabilità nella crisi finanziaria o vanno a casa o in galera. Mente. Un banchiere può andare dall'avvocato e dire che ha venduto ai suoi clienti-risparmiatori dei pessimi bond; di aver falsificato i bilanci della banca; di aver preso denaro da faccendieri in cambio dell'apertura di linee di credito senza tetto e garanzie. Quel banchiere può chiedere all'avvocato quanto rischia e si sentirà rispondere che l'unico pericolo che dovrà affrontare non sarà una condanna o il carcere, ma soltanto la parcella dell'avvocato. Il governo dovrebbe spiegare ai cittadini perché non rende funzionale il servizio giustizia e si occupa soltanto dei magistrati. Noi lo faremo".

Ammetterà che la magistratura ci ha messo del suo nel precipitare di una crisi che, con il conflitto tra le procura di Salerno e Catanzaro, ha mostrato un ordine giudiziario non sempre in grado di vivere con responsabilità l'autonomia e l'indipendenza che gli garantisce la Costituzione. Le chiedo: come è possibile che due procuratori così palesemente inadeguati siano stati ritenuti capaci di dirigere un ufficio giudiziario? Quanto pesano, per le nomine, i compromessi tra le correnti? E perché questi compromessi premiano non sempre i migliori, ma a volte promuovono i peggiori?
"Sicuramente le difficoltà del sistema di autogoverno sono legate a logiche di appartenenza, a una visione di difesa corporativa che per troppi anni ha orientato le scelte del Consiglio superiore. Tuttavia non va sottovalutato l'inversione di rotta che questo Csm ha realizzato sui temi della professionalità con politiche addirittura rivoluzionarie: la temporaneità degli incarichi direttivi; l'abolizione del criterio dell'anzianità senza demerito; verifiche periodiche, serie e rigorose di professionalità ed efficienza. C'è bisogno di tempo per vedere i frutti di quel che il Consiglio sta seminando".

Non sarebbe, a questo punto, un gesto coraggioso sciogliere le correnti dell'Associazione magistrati e quindi del Csm? Si fa fatica oggi a capire l'ostinazione di tenere in piedi orientamenti culturali diversi o fazioni diverse quando, come dimostra la sortita di Berlusconi, la questione è soltanto una e vi vede tutti d'accordo: la difesa del Titolo IV della Costituzione, la soggezione dei giudici soltanto alla legge, l'autonomia e l'indipendenza della magistratura da ogni altro potere?
"Il pluralismo culturale della magistratura è stato ed è un valore ineliminabile. E' un patrimonio storico della cultura giuridica del nostro paese al quale sarebbe impensabile rinunciare. Deve essere chiaro, però, che, nella gestione del sistema di autogoverno, le correnti devono fare un passo indietro. Deve essere escluso ogni peso delle logiche di appartenenza o di spartizione correntizia. Non possiamo nascondere che questo è avvenuto e che lo sforzo di privilegiare il merito e la professionalità, fatto in questi anni, è l'unica risposta per rendere credibile e affidabile la magistratura, concrete quelle prerogative costituzionali che oggi ci appaiono minacciate dalle politiche del governo".

(11 dicembre 2008)
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