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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 127113 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Agosto 03, 2012, 07:22:26 am »

Il retroscena Lombardo e l'ipotesi di giocare d'anticipo decidendo di andare alle urne già a settembre

E la crisi dell'isola «trascina» il voto nazionale

Partiti in difficoltà: la modifica del Porcellum potrebbe consentire di unire le due elezioni


ROMA - Le elezioni anticipate siciliane potrebbero essere un anticipo delle elezioni politiche nazionali, potrebbero dare cioè una plastica rappresentazione dello stato disastroso in cui versano i partiti. Perciò - pur di rimandare il voto sull'Isola - le forze della «strana maggioranza» sono pronte a tutto, anche ad anticipare il voto sul «continente». Ragioni diverse e interessi convergenti, uniscono Pdl, Pd e Udc a Idv e Sel, siccome tutti sono timorosi di specchiarsi subito nelle urne sicule dopo quanto è successo con le urne di Palermo.

Potrà sembrare paradossale, ma un filo rosso tiene insieme il rinnovo dell'Assemblea siciliana, la riforma della legge elettorale e l'ipotesi non ancora tramontata di anticipare in autunno il voto per il Parlamento. L'idea di cambiare il Porcellum per indire le elezioni nazionali in novembre potrebbe consentire infatti di unire i due appuntamenti. Ma l'accorpamento non è facile, servirebbe una norma - magari da infilare nella Finanziaria - per evitare un conflitto con le prerogative costituzionali siciliane.

A Roma però dovranno fare i conti con Palermo, dove il dimissionario Lombardo potrebbe a sua volta giocar d'anticipo, indicendo il voto non più a fine ottobre ma agli inizi di settembre, e garantendosi così due risultati: intanto si vendicherebbe di antichi alleati e avversari, sapendo che li coglierebbe impreparati; eppoi allontanerebbe da sé il problema che già s'intravvede all'orizzonte, visto che nelle casse regionali le risorse scarseggiano e a breve potrebbero essere a rischio gli stipendi dei lavoratori precari.

Il voto in Sicilia è un rompicapo politico e giuridico di prima grandezza, una faccenda davvero complicata, e in cui - a vario titolo - sono coinvolti anche il Quirinale e Palazzo Chigi. La sfida si è iniziata a giocare tra le pieghe del contenzioso economico che ha visto contrapporsi il governo nazionale a quello locale, con i partiti che in quei giorni incitavano Monti al «redde rationem» con Lombardo. E se ora le forze della «strana maggioranza» (e quelle di opposizione) temono il voto siciliano c'è un motivo: a parole giurano di esser pronti alla competizione nel giro di un paio di settimane. Ma non è vero.

Il Pdl è prossimo ormai all'implosione. Ad accelerare il processo ci sta pensando il leader di Grande Sud, Micciché, ostile ad Alfano, che ai tempi delle Comunali di Palermo ha strappato al Cavaliere la «promessa» di appoggiarlo nella corsa a governatore e ora chiede che i patti siano mantenuti. Al suo fianco si è schierata l'ex ministro Prestigiacomo, mentre un altro berlusconiano ha annunciato di «scendere in campo»: è il capogruppo all'Assemblea, Leontini, un piede fuori dal partito, che vanta il sostegno del Pid di Romano, un tempo amico di «Angelino». E proprio ad «Angelino» la corte di cui si circonda Sua Emittenza non fa mancare la propria solidarietà: tal Volpe Pasini - che nonostante le smentite millanta di essere consigliere di Berlusconi - ha detto che «Silvio per la Sicilia pensa ad Alfano». Un sorso di cicuta. Intanto, ai blocchi di partenza, si scaldano anche il coordinatore regionale Castiglione, il presidente uscente dell'Ars Cascio e il «destro» catanese Musumeci, che ha una buona immagine e i migliori sondaggi.

A sinistra non stanno certo meglio. Nella caserma del Pd, ai minimi storici nell'Isola, l'eurodeputato Crocetta ha annunciato il «rompete le righe», autocandidandosi, nonostante il partito non lo abbia autorizzato. Non è una finta, «non mi ritirerò», ha confidato giorni fa l'ex sindaco di Gela: «Alla peggio, farò eleggere con me una decina di deputati regionali». Bersani ne sarà lieto. In lizza per la poltrona di governatore si annunciano pure Sonia Alfano, che dopo il divorzio con l'Idv corteggia Grillo, e Fava, che profittando del divorzio dalla Alfano ci sta provando con Di Pietro. E mentre la Sicilia brucia a Roma i vertici del Pd discutono, tentano di indurre all'alleanza l'Udc con un candidato di antica speme, Bernardo Mattarella, figlio di Piersanti.

Anche Casini però è nei guai. Nei mesi scorsi il leader dei centristi aveva confidato al segretario del Pdl le sue mosse: «Quello che farò in Sicilia, farò anche a livello nazionale». Ma il voto in autunno nell'Isola sconvolgerebbe i suoi piani, perché un accordo regionale con il Pd scoprirebbe anzitempo il suo gioco nazionale, l'idea di accordarsi dopo le urne con Bersani, l'obiettivo della presidenza del Senato per la successiva corsa al Colle... Per non parlare degli inevitabili contraccolpi a livello elettorale. E allora contrordine, «potremmo andare anche da soli», diceva ieri il segretario siciliano D'Alia. «Servirebbero le larghe intese anche a Palermo», aggiungeva a tono il segretario nazionale Cesa.

L'Isola fa più paura del continente, ecco perché tutti i partiti vorrebbero evitare che in Sicilia si giocasse l'anticipo del campionato nazionale. Anche perché quella è la terra di tanti esperimenti, compreso quello «milazzista» che mise insieme fascisti, comunisti e democristiani. Leoluca Orlando ha iniziato a ripassare qualche pagina di quella storia, magari per trovare ispirazione e vendicarsi (con un accordo eterodosso) di chi a sinistra provò a farlo incespicare nella sfida per il comune di Palermo. Ma sì, i partiti sono pronti. Quasi...

Francesco Verderami

2 agosto 2012 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_agosto_02/verderami-e-la-crisi-dell-isola_f70686d0-dc63-11e1-8f5d-f5976b2b4869.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Agosto 16, 2012, 07:16:11 pm »

Le istituzioni guardano con preoccupazione a quello che è accaduto in Grecia

E il voto diventa un referendum sull'Europa

I partiti costretti auna posizione netta in vista delle elezioni

Di FRANCESCO VERDERAMI


Come definire il dibattito che ha impegnato venerdì il governo? Come catalogare il quesito attorno al quale si è discusso, a proposito della Consulta tedesca che a settembre dovrà esprimersi sulla legittimità costituzionale del fiscal compact e dello scudo anti-spread?

«La sentenza della Corte tedesca — si sono chiesti i ministri italiani — lascerà impregiudicata la libertà del Parlamento di Berlino?». Qual era il tema al centro del confronto? Si discuteva di economia o di democrazia?

L’Europa — all’affannosa ricerca di una «terza via» tra il modello federale americano e l’unione tra Stati —è sempre più un sistema integrato per via della moneta, ma al momento non sembra avere né gli strumenti istituzionali né la generosità politica per uscire dal vicolo. Così l’Italia rischia di pagarne le conseguenze, rischia di subire — come spiega l’ex ministro Sacconi—«una limitazione della propria sovranità, e non solo per un’eventuale dipendenza da ulteriori vincoli». Dopo Madrid toccherà a Roma approssimarsi alla richiesta di aiuti per sfuggire alla morsa dello spread, e il «programma» di salvataggio finanziario metterebbe in mora i progetti politici dei partiti in vista delle elezioni.

È un pericolo di cui c’è consapevolezza nel Palazzo e che il presidente del Senato scorge all’orizzonte: quello cioè di una «democrazia pre-commissariata », di un futuro governo «con margini di autonomia ridotti». Tutto ciò, «nonostante il lavoro svolto da Monti», «malgrado il senso di responsabilità» mostrato dalle forze della «strana maggioranza», i provvedimenti «dolorosissimi che sono stati condivisi» e che hanno finito per gravare sui cittadini. Il punto è proprio questo: come lo spiegheranno i partiti che hanno appoggiato il professore, quando si confronteranno con le urne? È ben chiaro a Schifani il rischio di una «reazione diffusa », di un «rigetto dell’Unione» che potrebbe sfociare in «un voto anti- sistema».

Le consultazioni — che dovrebbero servire a rinnovare il Parlamento — potrebbero insomma trasformarsi in un referendum pro o contro l’Europa, se il governo invocasse lo scudo. In quel caso, per arginare l’offensiva in campagna elettorale, a Pdl Pd e Udc non basterebbe sostenere che «anche a noi questa Europa non piace», che «l’Europa è un’incompiuta », perché si esporrebbero all’accusa (semplicistica quanto efficace) di non aver operato per cambiarla. A meno che — com’è già accaduto in Francia — i partiti non adottassero la strategia di Hollande, che ha chiesto un giudizio ai cittadini sul rapporto di Sarkozy con la Merkel, vincendo la sfida. Ma sempre di referendum si tratterebbe, pro o contro l’Europa.

L’Italia che si appresta a diventare un laboratorio, è però al «caso greco » che guarda con preoccupazione, visto lo stato in cui versa la politica. Non a caso, per scongiurare l’evenienza, tra i democratici c’è chi teorizza il voto anticipato, così da lasciare al nuovo governo e non a Monti «il compito di negoziare le condizioni per gli aiuti». Ma il timing non sembra più favorire questa soluzione, che dal centrodestra viene peraltro scartata. E il capogruppo del Pdl alla Camera Cicchitto, arriva fino all’estremo, al «paradosso democratico»: «Visto come stanno le cose, le elezioni non andrebbero anticipate di cinque mesi ma posticipate di cinque anni». Se non è l’evocazione della Grande Coalizione, ci si avvicina, è un sentimento trasversale nei due schieramenti.

Un’opzione che Bersani rifiuta, al termine di una serie di messaggi pubblici e di ragionamenti svolti nelle riunioni di partito e nei colloqui con il governo. Quando, due settimane fa, il capo dei Democrat si è chiesto e ha chiesto «dov’è lo scudo? », voleva denunciare la fragilità dell’intesa realizzata al vertice europeo di fine giugno, quando sembrò che gli aiuti potessero arrivare per i Paesi «con i conti in ordine» senza dover passare per il «programma». Un «programma» che — secondo Bersani — dovrebbe essere «condiviso » dai partner europei, visto che «oltre 200 punti di spread sono da addebitare agli attacchi speculativi contro l’euro e non possono essere scaricati solo sull’Italia». E comunque, «se ci fossero impegni condivisi e mutuali in Europa, un centro-sinistra di governo sarebbe in grado di rispettarli».

È un segnale di garanzia e di continuità rispetto all’agenda Monti che il candidato del Pd a palazzo Chigi lancia alle istituzioni internazionali e ai mercati. Ma quale sarebbe la reazione del centrosinistra se — tra i punti di negoziazione — oltre a un ampliamento del processo di liberalizzazioni e a un maggior controllo sugli enti locali con drastica riduzione della spesa, venisse riproposto il nodo del mercato del lavoro e fosse richiesta una legislazione «più aperta »? La modifica dell’articolo 18 è uno dei punti inseriti in un dossier del Fondo monetario internazionale sull’Italia, è l’incubo ricorrente nelle ultime notti per alcuni dirigenti del Pd. È chiaro che un governo di centrosinistra non toccherebbe quella norma. Il problema è se, per garantire lo «scudo», all’Italia venisse chiesto di modificarla. Sarebbe un tema di economia o di democrazia?

4 agosto 2012 | 7:57

DA http://www.corriere.it/politica/12_agosto_04/voto-diventa-referendum-verderami_db855098-ddf4-11e1-9fa2-bd6cbdd1a02d.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Settembre 14, 2012, 10:22:59 pm »

Il primo accusa il manager di essere «indeciso», l'altro lo chiama «tattico»

Casini e Montezemolo contro La crisi nata in due weekend

Dal fine settimana con le famiglie alla rottura


ROMA - Li unisce la simpatia umana, li divide la diffidenza politica. Ecco perché le strade di Casini e Montezemolo si sono separate: le affinità non sono bastate a colmare le differenze. E sebbene Pier parli di Luca come di «un amico», e Luca a sua volta definisca Pier «una persona perbene», le divergenze sono tali da esser diventate fonte di litigio. Tanto che, dopo aver passato insieme alle rispettive famiglie il penultimo fine settimana, ora i due hanno interrotto i rapporti. Colpa dell'ultimo weekend, della festa dell'Udc, evento a cui Casini aveva invitato Montezemolo, che a sua volta aveva promesso in sua rappresentanza la presenza di Nicola Rossi.
Non solo l'esponente di ItaliaFutura non si è presentato all'appuntamento, ma il giorno dopo l'associazione montezemoliana ha definito una kermesse da «fritto misto» quella manifestazione, dove ministri tecnici e rappresentanti del mondo del lavoro e delle imprese si erano mischiati alla nomenklatura dell'Udc. Da allora la linea telefonica tra Pier e Luca è interrotta. Il presidente della Ferrari, che condivide i contenuti di quella nota, riconosce che i toni erano forse un po' eccessivi, mentre al capo dei centristi quei toni sono parsi tanto sgarbati e basta.

Ma la distanza sta nella sostanza, più che nella forma, se è vero che nel penultimo fine settimana Pier e Luca avevano avuto una conversazione molto franca. Le posizioni erano rimaste quelle dell'estate, quando Casini - invitando Montezemolo ad accompagnarlo nella costruzione di un nuovo polo - lo aveva pungolato: «Se qualcuno crede di aver qualcosa da dare al Paese, lo faccia senza tatticismi. Non c'è spazio per chi pensa a se stesso». E Montezemolo, non credendo in quel progetto, aveva commentato assai piccato: «Non si può dire di voler costruire qualcosa di nuovo, dando una mano di vernice alle pareti di una vecchia casa».

I punti di vista non sono cambiati. Il capo del Cavallino ha esortato (ed esorta ancora) il capo dei centristi a tagliare i ponti con il passato, a sciogliere l'Udc in un contenitore nuovo e a rinnovare la classe dirigente. L'altro, che ha già tolto il proprio nome dal simbolo, non ci pensa affatto a cancellare quel simbolo e confida piuttosto di ingrandire casa: da una parte con l'appoggio di settori del mondo del lavoro, che portano in dote la loro piccola «rete», dall'altra con l'ingresso in squadra di Marcegaglia e Passera, che potrebbero intercettare il voto di opinione. E dopo la lite con Luca, Pier ha iniziato a corteggiare alcuni esponenti di ItaliaFutura, avvertendoli che «adesso è il momento di fare il grande salto».

In realtà il gruppo dirigente di ItaliaFutura aspetta di sapere se e quando Montezemolo farà «il grande salto». Il presidente della Ferrari scioglierà la riserva solo a fine ottobre, siccome - a suo giudizio - il quadro politico è ancora troppo in movimento e c'è il test elettorale siciliano che può far mutare il corso degli eventi, influenzare persino Berlusconi nelle scelte. Perché una vittoria del centrodestra nell'Isola (e la sconfitta dell'asse Bersani-Casini) potrebbe indurre il Cavaliere a rilanciare l'offerta di un patto tra moderati e a non ricandidarsi: un colpo di scena che Luca (al contrario di Pier) non esclude.

Di sicuro Montezemolo non ha interesse al gioco dei centristi, considera contraddittorie certe scelte, non capisce come Passera possa ritrovarsi assieme a Bonanni, ha trovato priva di bon ton istituzionale l'idea della Marcegaglia di andare alla festa dei centristi, se non altro perché fino a poco tempo guidava ancora Confindustria. E rigetta l'accusa di pensare solo a sé e a Palazzo Chigi. Più che ai sondaggi che lo mettono in cima alla lista nazionale per popolarità, studia i report in cui è spiegato che oltre il trenta per cento degli elettori è in attesa di una nuova offerta politica «non inquinata» dalla vecchia nomenklatura: un bacino immenso.

Certo, prima o poi bisognerà capire cosa sia nuovo e cosa vecchio, far chiarezza su quale sia la differenza in Italia tra partiti a trazione lideristica e partiti a gestione proprietaria, quanto sia fondata la tesi di Montezemolo, secondo cui «in politica oggi c'è chi preferisce detenere il 100% di una piccola azienda piuttosto che avere il 60% di una grande impresa». Questione di punti di vista. Quelli di Pier e Luca sono diversi. Il primo dice che Luca è un «indeciso», il secondo parla di Pier come di un «tattico», che un giorno sta con Bersani e l'altro ammicca a Renzi, mentre cerca l'intesa con il Pdl sulla legge elettorale. E se Casini annuncia che «Monti è il nostro candidato», Montezemolo lo addita come un alibi usato per non scegliere.

D'altronde uno è alla testa di un partito, l'altro è il fondatore di un'associazione che vanta ormai quasi sessantamila iscritti. Casini ha deciso di non candidarsi a Palazzo Chigi, Montezemolo non ha ancora deciso se candidarsi, ma resta comunque interessato alla costruzione di un rassemblement moderato che sappia confrontarsi con il centrosinistra, e ritiene che per costruire un simile schieramento, e farlo diventare grande, sia inevitabile interloquire con l'area berlusconiana.

Francesco Verderami

14 settembre 2012 | 10:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_settembre_14/casini-montezemolo-rottura-verderami_a48fc3f4-fe40-11e1-82d3-7cd1971272b9.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Ottobre 09, 2012, 11:13:57 am »

Nel simbolo sarà scritto «centrodestra italiano»

Il piano del Pdl: azzerare tutte le cariche

Assemblea straordinaria il 2 dicembre, in parallelo al secondo turno delle primarie del Pd

«Reset» è lo slogan attorno a cui Alfano - nei «giorni cupi» seguiti allo scandalo laziale - ha costruito una proposta, presentata al Cavaliere. E Berlusconi l'ha fatta propria. Così si è avviata la macchina organizzativa per un progetto in dieci punti che si compirà con la convention da indire tra due mesi. Sarà la direzione a ufficializzare l'evento, un vero e proprio congresso con poteri costitutivi. Sarà l'omega e l'alfa di ciò che resta del Pdl e di ciò che punta a essere il futuro «centrodestra italiano».
È difficile prevedere oggi se la «rifondazione» - come la definisce Alfano - porterà a una resurrezione politica. Ma se è vero che l'uomo del predellino non vuole rimanere sepolto sotto quelle stesse macerie su cui era salito da vincitore nel '94, se è vero che vuole sfuggire alla nemesi e non vuole essere additato come un «professionista della politica», se intende allontanare da sé l'immagine di leader di un partito ridotto al gioco delle correnti e attraversato da faide di potere, allora non esistono scorciatoie. Per questi motivi, tra mille titubanze, ha dato il benestare all'operazione che darà origine a una profonda trasformazione del modello partito e insieme della struttura.

La riorganizzazione si porterà appresso l'azzeramento degli organismi dirigenti, perché non basterebbe cambiare solo nome e simbolo, e perché nelle condizioni in cui versa il Pdl - come ha avuto modo di spiegare il segretario - «nessuno può pensare di far resistenza. Si resiste se c'è qualcosa da conservare, qui invece c'è da ricostruire». Perciò bisogna «resettare». Il nuovo inizio ricorderebbe per certi versi il vecchio inizio, quello di Forza Italia, un partito simile a quelli americani, leggero e al tempo stesso pronto ad agire in profondità sul territorio con l'approssimarsi delle campagne elettorali. Un partito capace magari di federare pezzi di società civile, di chiamare a raccolta esponenti del mondo imprenditoriale come l'ex presidente di Confindustria D'Amato, che secondo il Cavaliere sarebbe «interessato» al disegno.

Toccherà a Berlusconi tenere a battesimo il «centrodestra italiano», anticipando l'appuntamento del Pdl con una kermesse in cui - da one man band - annuncerà il progetto. Se quella sarà l'occasione per sciogliere anche la riserva sulla sua candidatura, si vedrà. È certo che sarà lui a premere il tasto del «reset». I sondaggi d'altronde illustrano con chiarezza la situazione in cui versa il partito fondato dal Cavaliere. Il problema non è (soltanto) dettato dal fixing settimanale, con una forbice tra il 15% e il 19% dei consensi. A destare maggior preoccupazione è il progressivo restringimento del «bacino potenziale» degli elettori, che in meno di un mese si è ridotto di tre punti, toccando il minimo storico del 21%.

Gli scandali incidono, non c'è dubbio, ma è l'inazione che sta portando alla consunzione. Le analisi demoscopiche raccontano come l'elettorato di centrodestra auspichi che Berlusconi non si tiri indietro, ma promuova contemporaneamente un processo di rinnovamento. Il fatto che Alfano sia davanti al Cavaliere nei sondaggi lo testimonia. Non è facile passar la mano tenendo la mano, ma è lì lo snodo. Anche perché nell'altra metà campo è in atto un movimentismo che secondo i dirigenti del Pdl sta giovando ai Democratici. È vero che con le primarie rischiano di farsi male, ma l'azione di Bersani sulla sinistra e quella di Renzi sull'area di centro stanno ampliando lo spettro dei consensi potenziali, superiori oggi al 35%.

Non è quindi un caso se l'Assemblea straordinaria sarà convocata per il 2 dicembre: è la data in cui il centrosinistra dovrebbe tenere il ballottaggio delle primarie. Quella domenica la convention consentirà al Pdl di non dover essere spettatore silenzioso di una partita giocata da altri. Sarà insomma un modo per tener botta al Pd. Il primo passo verso la sfida elettorale, da affrontare sul programma. Da tempo si coltiva l'idea di una Conferenza sull'economia, dove illustrare in modo organico il pacchetto di proposte già presentate in Parlamento (dal progetto per la riduzione del debito, alla compensazione tra crediti e debiti, all'Iva di cassa), e dove annunciare altre misure in materia fiscale che mirino alla riduzione delle tasse.
Il resto, le ipotesi di ingegneria politica, gli innesti di piccole sigle affidate ad agguerrite pasionarie, o la scomposizione di ciò che resta del Pdl, sarebbero trucchi circensi per un partito già in ginocchio. Anche l'opzione dello spacchettamento tra ex forzisti ed ex aennini sembra accantonata, e Berlusconi si incarica di recuperare al partito l'ex ministro Prestigiacomo. In attesa magari di ricomporre la frattura persino con Miccichè, dopo il voto in Sicilia.

Siamo al «reset» del Pdl, che serve per dar vita al «centrodestra italiano». Un nome e un simbolo sotto cui il Cavaliere pensa ancora di accogliere gli altri pezzi del mondo moderato: «Io sono pronto a candidarmi, ma dato che vengo vissuto come un elemento divisivo, sono pronto a farmi da parte pur di fare spazio». È tattica. E siccome il federatore non c'è, nessuno più crede a questa favola di Berlusconi, che dietro il suo attendismo sulla propria candidatura e i ripetuti ripensamenti sulla legge elettorale nasconde forse un altro progetto...

Francesco Verderami

5 ottobre 2012 | 20:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_05/piano-pdl-azzerare_57dbd1c2-0eaa-11e2-8205-e823db4485d4.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Ottobre 20, 2012, 04:08:41 pm »

Settegiorni

L'arma (segreta) di Berlusconi: ripartire con la lista «L'Italia che lavora»

Ma i primi sondaggi la collocano al 4-5 per cento


Credeva di aver trovato la soluzione, «ho trovato un coniglio nel cilindro», diceva Berlusconi, convinto di poter rovesciare le sorti avverse mettendosi alla testa di imprenditori, di giovani e persino di intellettuali: «L'Italia che lavora, così si chiamerà la mia lista». Perciò voleva far saltare l'intesa sulla riforma della legge elettorale, in modo da scegliere chi nominare in Parlamento, per questo aveva affidato ad alcune fedelissime deputate il compito di costituire un gruppo alla Camera.

L'avanguardia berlusconiana in Parlamento non avrebbe avuto solo il compito di testimoniare la nascita del progetto, sarebbe servita anche a evitare - grazie proprio alle norme del Porcellum - la macchinosa raccolta di firme in giro per l'Italia per la presentazione della lista. Il Cavaliere pensava davvero di aver risolto così ogni problema e di poter tornare a vincere, ricostruendo il fronte con la Lega e lasciando al Pdl gli oneri passivi insieme all'apparato. Era convinto che, trasformando il partito di cui è fondatore in una bad company, si sarebbe liberato dai debiti di una stagione fallimentare culminata con la caduta del suo governo.

Ma l'eugenetica non può essere applicata alla politica, non basta una lista dell'«Italia che lavora» per competere con le novità di Renzi e Grillo. Ancor più banalmente, non è cambiando l'ordine (e il nome) degli addendi che può cambiare la somma dei voti nelle urne. Anzi, è una regola che certe operazioni abbiano un saldo negativo. Anche perché i debiti finiscono comunque per ricadere sul leader e lo inseguono.

L'aveva avvisato per tempo Gianni Letta, «guarda Silvio che così non prenderesti più del 15%». E i sondaggi hanno dato ragione all'antico consigliere di Berlusconi, siccome la lista non raccoglierebbe più del 4-6%, e sarebbe superata persino dal Pdl, quotato in caso di spacchettamento tra l'8 e il 10%. Sono numeri che raccontano il paradosso di un Cavaliere che rottamerebbe il Cavaliere, condannandosi all'irrilevanza politica, «a una triste uscita di scena», come dice Matteoli. Di più: quei numeri evidenziano come il Pdl riuscirebbe a sopravvivere al suo leader, che continua a marcare la distanza dal suo partito.

Per questo motivo il gruppo dirigente ha deciso di sfruttare l'intervista della Santanchè al Foglio come casus belli: per quanto i rapporti tra Alfano e Berlusconi siano tesi, l'offensiva non va infatti interpretata come un gesto ostile verso il Cavaliere, semmai come un appello a rompere gli indugi, per farsi interprete e protagonista del rilancio del Pdl. «Bisogna portarlo a ragionare, senza mai rompere», spiegava sere fa Verdini nel corso di una riunione. Nessuno lavora a un 25 luglio, tuttavia c'è una bella differenza tra l'idea di «rottamare» e quella di «resettare» il Pdl.

Il fatto è che il capo per ora non ci sente e continua a cercare ispirazione nei colloqui con persone estranee alla politica. Nei giorni scorsi gli sono brillati gli occhi quando un imprenditore suo ospite lo ha esortato a un «grande gesto»: «Berlusconi deve fare Berlusconi». «E come?», gli ha chiesto il Cavaliere. «Tu devi denunciare il patto che ha portato alla nascita del governo Monti, dire che sei stato costretto ad appoggiarlo». «Ma così perderei le elezioni». «Sì, ma saresti coerente». Avanti un altro. Perché c'è sempre qualcuno che è pronto a vellicarne l'ego, perciò l'ex premier non si cura dei suggerimenti di chi lo segue da decenni. Gianni Letta più volte lo ha esortato a fare i conti con la cruda realtà, una settimana fa lo ha invitato a prendere per esempio in considerazione l'ipotesi di puntare sull'ex sindaco di Milano Albertini come candidato a Palazzo Chigi: sarebbe un modo per sfidare i centristi di Casini. Niente.

E siccome Berlusconi non ha bloccato l'opera di demolizione del Pdl da parte dei suoi fedelissimi, Alfano ha deciso di reagire. Perché era ormai chiaro il disegno: se è vero che il voto siciliano rappresenta un test politico, com'è possibile che il partito venga screditato dai suoi stessi dirigenti mentre è in corso la campagna elettorale? L'obiettivo era (e resta) quello di scaricare sul segretario la responsabilità dell'eventuale sconfitta, per chiederne poi la testa.

Si vedrà se il candidato del centrodestra Musumeci riuscirà a battere anche quanti dovrebbero stargli al fianco nella sfida con Crocetta. Intanto è stata preparata la contromossa, di cui peraltro Berlusconi è a conoscenza. È il progetto che Alfano aveva già presentato al Cavaliere, un po' modificato. Il segretario è pronto a varare il programma del partito, le nuove regole e una nuova squadra, nel segno di un «profondo ricambio». Non ha ancora deciso se muovere il passo già prima del voto in Sicilia, per giocare d'anticipo, ma la road map - concordata con il resto del gruppo dirigente - porterà il Pdl alla convention del 2 dicembre, quando si discuterà anche il cambio del nome e del simbolo.

«Il partito non si scioglie», su questo Alfano è stato chiaro con Casini, che mira a un patto solo con una parte del Pdl, depurata dagli ex An. Un'opzione scartata da Alfano, che ha fissato i confini della sua forza politica, «ancorata all'europeismo e al Ppe» e che non accetta «analisi del sangue». In attesa del risultato in Sicilia, sono a sua volta evidenti le difficoltà del progetto centrista, incapace di sfondare elettoralmente e ora colpito dal «caso Montecarlo» in cui è coinvolto Fini. Il leader di Fli si è rattristato per il modo in cui Casini lo ha invitato a dimettersi da presidente della Camera. È un ulteriore segno dello sgretolamento di un'area che un tempo fu maggioranza nel Paese.

Difficile immaginare una ricomposizione nel rassemblement dei moderati, è certo che il Pdl vuole giocarsi la partita della sopravvivenza. Con o senza Berlusconi, questo è il rebus tuttora irrisolto. Ma se il Cavaliere non ha ancora dato il via al suo progetto, c'è un motivo: all'operazione «Italia che lavora» manca il quid.

Francesco Verderami

20 ottobre 2012 | 14:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_20/italia-che-lavora-berlusconi-piani-verderami_4eac5bc6-1a99-11e2-a470-3b372467b052.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Ottobre 26, 2012, 09:25:25 am »

Il retroscena / l'accelerazione per tutelare il centrodestra alla vigilia del voto in Sicilia

Il progetto: Monti bis e partito ad Alfano

Messaggio di Silvio Berlusconi al Professore: «Non rinuncio all'idea che guidi i moderati»


ROMA - Per non mettere all'incanto la sua storia, Berlusconi doveva passar la mano tenendo la mano ai suoi eredi.

Non era facile per un uomo che negli ultimi venti anni ha scritto la storia del Paese e del Palazzo. Ma dopo un lungo e tormentato pensamento, mentre intorno a sé vedeva aggirarsi schiere di pretendenti che lo adulavano per accaparrarsi brandelli del suo patrimonio politico, Berlusconi ha scelto. È a Monti che ha deciso di affidare il lascito più importante, è sul Professore che punta il Cavaliere, «perché io non rinuncio all'idea di vederti a capo di uno schieramento dei moderati», gli aveva ripetuto l'altra sera a Palazzo Chigi, tra i contorcimenti di chi cercava un appiglio a cui aggrappare certezze che non aveva: «Insisto. E non ti chiedo di rispondermi subito, ma a questa idea non rinuncio».

In questo gesto c'era un'analogia con il '94, quando Berlusconi - prima di scendere in campo - si recò da Martinazzoli per invitarlo a «unire i moderati» e impedire la vittoria della sinistra. Ma rispetto ad allora il Cavaliere ha offerto la successione a Monti nel campo che nel frattempo aveva conquistato, non in quello dei tecnici. Raccontano che il premier abbia compreso e invece di lasciar cadere il discorso abbia voluto rispondergli. A suo modo, però, spiegando che l'Italia ha bisogno di un programma di «riforme radicali in senso liberale», prospettando un progetto che per realizzarsi necessita di un «vasto appoggio», facendo insomma capire al Cavaliere che una sua nuova discesa in campo avrebbe ostacolato l'aggregazione delle forze necessarie al disegno.

I dubbi avevano accompagnato Berlusconi per tutta la nottata e anche la mattina dopo, fino all'appuntamento con Alfano che non era più rinviabile. In quel colloquio interminabile non c'erano solo in gioco le scelte politiche ma anche «il legame di affetto e di lealtà» che per il segretario del Pdl sovrintende ogni altro aspetto nel rapporto con il Cavaliere. Una decisione era tuttavia necessaria prima del voto in Sicilia, per mettere il partito al riparo dai rischi di implosione in caso di sconfitta. Ed è vero che Alfano era pronto a dire no all'idea di spacchettare il Pdl, che lì sarebbe rimasto, che lo avrebbe annunciato nelle prossime ore. E l'ha detto, convinto di non aver altra strada, confortato anche da un suggerimento che indirettamente gli era giunto dal cardinal Ruini: «È sempre un errore sciogliere un partito».

L'intento di Alfano non era quello di sfidare Berlusconi, semmai di esortarlo a guidare il rinnovamento. Il pericolo che la riunione finisse con un nulla di fatto, era pari a quello che il segretario del partito annunciasse le primarie dello «strappo». Ed è stato allora che Berlusconi ha definitivamente deciso a chi affidare l'altra parte dell'asse ereditario, e ha ragione il centrista Lusetti quando sostiene che «così come nel '94, la decisione del Cavaliere di non candidarsi cambia radicalmente lo scenario politico». Lo cambia nel Pdl, perché è Berlusconi a intestarsi le primarie a cui parteciperanno persone a lui vicine. Perché è la successione democratica all'interno di un partito carismatico, che non passa per un parricidio né per un infanticidio.

Il Pdl, o come si chiamerà in futuro, sarà un pezzo del nuovo centrodestra. E già l'impianto delle primarie dovrà essere nuovo, sicuramente diverso da quello del Pd. Ecco cosa voleva dire Berlusconi parlando di consultazioni «aperte»: niente vincoli, niente regole capestro, perché il vero obiettivo è «riavviare il rapporto con gli elettori, non asfissiare il confronto tra i competitori». Non c'è dubbio che la citazione di Alfano nella nota in cui annuncia la sua decisione di non ricandidarsi a Palazzo Chigi, sia un modo per riconoscere il ruolo al segretario del partito. Ma la corsa del 16 dicembre sarà libera e senza preclusioni né vantaggi iniziali per nessuno. Così come d'ora in poi finirà la corsa a inseguimento del Pdl verso le altre forze politiche che fanno parte del campo moderato.

Il partito resta compatto e tutti tirano un sospiro di sollievo, a partire da Schifani che era andato in tv per evidenziare «l'avvitamento» del Pdl e attendeva al pari degli altri quel segnale positivo che è arrivato. Ora il voto in Sicilia fa meno paura: una sconfitta non cambierà l'agenda del Pdl, un successo gli darà maggiore slancio. Ad Alfano, in attesa del voto delle primarie, toccherà iniziare il «reset». Dopo, se riuscisse a vincere, non potrà restare a gestire con il bilancino gli equilibri di partito, ma dovrà assumere il ruolo di interlocutore dell'establishment, acconciarsi alle trattative per la sfida elettorale, uscendo dal perimetro in cui si è trovato confinato.
Perché Berlusconi vuole vincere, «io voglio vincere» ha detto al segretario del partito. Ed è evidente che la sua mossa ha spiazzato tutti, a partire da Casini. Così com'è evidente che il segnale era rivolto ad altri interlocutori, a partire da Montezemolo. Ma è su Monti che Berlusconi confida per veder risarcita la sua scelta. Il Professore è «la continuità», Monti è il rappresentante di quella parte di Paese che «non ha mai voluto partecipare alla caccia alle streghe», di quel pezzo di poteri forti che non lo ha «demonizzato». E siccome il Cavaliere non vuole veder disperso il patrimonio politico costruito in diciotto anni, a lui si affida dinnanzi «al pericolo serio», che nel '94 erano i Progressisti e oggi ai suoi occhi sono i Democratici.

Il resto è tutto in costruzione, è un cantiere che nemmeno è stato aperto. Sulla legge elettorale, per esempio, si vedrà se Berlusconi continuerà a puntare i piedi per tenersi il Porcellum o aprirà seriamente alla trattativa per un nuovo sistema. Ma è chiaro che, facendo un passo indietro, il Cavaliere ha in realtà fatto un passo avanti nel campo moderato. Come nel gioco degli scacchi, non si è posto su una casella ma la controlla da un'altra posizione. In fondo era una mossa obbligata, così l'avvertiva, specie dopo che Veltroni e soprattutto D'Alema avevano annunciato di non ricandidarsi per un seggio in Parlamento. Una scelta che l'aveva colpito e che è stata tra i motivi della sua decisione.

Le ore convulse e interminabili che hanno sancito il passaggio di consegne sono state vissute con diversi stati d'animo nel Pdl. In molti sono stati presi alla sprovvista, soprattutto quanti speravano che Berlusconi rilanciasse e facesse saltare il partito. Ma il colloquio con Alfano dimostra quale sia il legame tra i due, e testimonia al tempo stesso la crudezza della politica, con le sue ferree regole: «Presidente, è l'ora, dobbiamo scegliere». E il «presidente» ha scelto.

Francesco Verderami

25 ottobre 2012 | 9:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_25/verderami-progetto-monti-bis-partito-alfano_30886db0-1e63-11e2-83ec-606b68a0023b.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Ottobre 28, 2012, 10:38:21 am »

Il retroscena Il mantenimento del Porcellum tornerebbe utile all'ex presidente del Consiglio e a Bersani per bipolarizzare il voto e indirizzarlo

Nel messaggio una «offerta» al Pd: urne a febbraio

Assist / 1 Berlusconi ha fornito due assist ai rivali. Il primo è sgombrare il campo dall'ipotesi del Monti bis

Assist / 2 Il secondo assist consiste nel contributo a fermare l'operazione di aggregazione del centro


ROMA - Non è stato solo uno sfogo. «Ma quale sfogo», ha detto ieri il centrista Carra a un collega di partito. Carra ne ha viste tante, fin dai tempi della Dc, perché gli potesse sfuggire il senso del messaggio lanciato dal Cavaliere: «Prepariamoci a votare a febbraio». Ecco, il messaggio è stato recepito nel Palazzo, che ha interpretato la mossa di Berlusconi come una chiara offerta al Pd: chiusura anticipata della legislatura, voto a febbraio con il Porcellum e accorpamento delle elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia.
Uno scenario drammatico per il Pdl in fase di ricostruzione e non preventivato dalla galassia centrista in via di formazione. Ma che è allettante per Bersani, a cui viene proposto un patto che il segretario democrat non deve nemmeno sottoscrivere, anzi può respingere con toni formalmente sprezzanti e ostili. «Il patto non c'è e non ci sarà», dice infatti il pd Latorre: «Certo, quanto ha detto Berlusconi è un macigno sulla strada della prosecuzione della legislatura». Tutto come da copione. Anche perché, rientrando in scena a affondando il colpo contro il premier, il Cavaliere azzoppato fornisce due assist allo schieramento avverso: sgombra il campo dall'ipotesi del Monti bis dopo il voto, che fino ad oggi era il vero ostacolo per Bersani sulla via di palazzo Chigi, e garantisce al Pd un «nemico» contro cui impostare la campagna elettorale.
Essendo un interesse reciproco, anche Berlusconi ne avrebbe un tornaconto, siccome il mantenimento del Porcellum tornerebbe utile per bipolarizzare il voto e per indirizzarlo: non è stato casuale l'attacco ai partitini e quell'endorsement per le forze maggiori. Di più. L'idea di anticipare le urne sarebbe interesse comune del Cavaliere e di Bersani, perché non darebbe il tempo di organizzarsi a quell'area di centro ancora in fase embrionale e che sta muovendo i primi passi. D'altronde, l'idea di assistere inermi, fino ad aprile, al gioco di chi la mattina fa il ministro tecnico con il sostegno di Pdl e Pd e di pomeriggio va a raccogliere voti per il proprio movimento, non garba nè all'ex premier nè a chi vorrebbe diventarlo. «Fossi Bersani - chiosa Carra - dentro di me ringrazierei Berlusconi».
Maroni lo fa pubblicamente, e il segretario della Lega ha molte ragioni per farlo. Più il Cavaliere prende le distanze da Monti più si riavvicina al Carroccio. E non c'è dubbio che Berlusconi - subìto il rifiuto di Casini - sia tornato a stringere un legame con l'ex alleato. Maroni non ne ha fatto mistero con i dirigenti del suo partito: «A parte il fatto che l'Udc è in caduta libera nei sondaggi, e che il resto di quella compagnia è composto da un'elite senza voti, con chi dovrebbe stare il Pdl? Quelli porterebbero i salotti, noi porteremmo i nostri asset. E se il Pdl non vuol ridursi a partitino del Sud...».
Sarà stato solo uno sfogo, quello del Cavaliere, e non c'è dubbio che la sua mossa ha il segno della disperazione, ma può ancora produrre effetti sugli assetti politici futuri. E poco importa a Berlusconi se sulla traiettoria di fuoco si ritrova il suo gruppo dirigente, se le primarie (con questo scenario) finirebbero per saltare, se il partito potrebbe spaccarsi con l'ipotesi nemmeno tanto remota di altre liste in campo. L'operazione barricadera è chiara, come il segnale al Pd.
Restano una variabile e un'incognita. La variabile è il passaggio parlamentare per aprire la crisi di governo. Nel Pd ritengono che Berlusconi non la aprirebbe sull'anticorruzione, sarebbe impopolare: è la legge di Stabilità semmai che ha messo nel mirino, è sull'ennesima stretta fiscale che potrebbe forzare la mano anche per cercare di riconquistare i suoi elettori delusi e che nei sondaggi «per l'85% sono contrari a Monti». Il democratico Latorre avvisa che la legge di Stabilità va approvata perché è «l'ultimo passaggio su cui l'Italia si gioca la credibilità internazionale». E proprio su quell'«ultimo passaggio» il Cavaliere potrebbe chiudere la partita, votando il provvedimento «per senso di responsabilità» ma chiedendo in cambio che il governo, un minuto dopo, rassegni il mandato. C'è poi l'incognita: quale sarebbe la reazione del Colle davanti all'ipotesi che si torni a votare con il Porcellum? La preoccupazione corre sul filo del telefono tra Napolitano e Monti.

Francesco Verderami

28 ottobre 2012 | 7:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_28/berlusconi-messaggio-pd-voto-a-febbraio-porcellum_d982ca58-20cc-11e2-89f5-89e01e31e2ac.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Novembre 03, 2012, 04:13:17 pm »

Settegiorni

L'intesa (di fatto) sul Porcellum


Prima si dovrà consumare il rito, e quando sarà certificato ciò che oggi è già evidente, quando verrà formalmente sancito il fallimento della trattativa, solo allora - a un passo dalle urne - si aprirà la vera trattativa per tentare di modificare il Porcellum. Ma su un unico articolo: quello che riguarda il premio di maggioranza. Lo stralcio della riforma della legge elettorale sarà l'epilogo di una inconcludente mediazione che si è protratta per mesi tra incontri riservati e pubblici dibattiti, proclami di imminenti accordi e minacciosi richiami istituzionali.

Per salvare la riforma bisognerà dunque cancellarla e concentrarsi sul nodo attorno al quale fin dall'inizio si è ingarbugliata tutta la faccenda. È il premio di maggioranza, è quello il sancta sanctorum del Porcellum, che il capo dello Stato chiede venga modificato per uniformarlo alle indicazioni della Corte Costituzionale.

È vero che la disputa accademica e politica in questi anni si è incentrata sulle deprecate liste bloccate, che hanno partorito parlamenti di nominati. Ma il cuore del sistema elettorale è l'altro, che garantisce a una coalizione vincente con qualsiasi risultato di ottenere la maggioranza assoluta alla Camera. Va introdotta una soglia minima per accedere al premio, ecco il punto. E lo stralcio della riforma serve per impedire l'agguato delle votazioni a scrutinio segreto che si prepara a Montecitorio, e che affosserebbe definitivamente un provvedimento già delegittimato.

Così i testi, su cui ancora per settimane si cimenteranno la Commissione e l'Aula del Senato, le norme e gli emendamenti che verranno presentati, discussi e poi votati, diventeranno politicamente carta straccia, resoconti di defatiganti lavori parlamentari destinati all'oblio. Ma siccome è chiaro che l'intesa è di non trovar l'intesa, siccome il tempo è usato per far passare il tempo, siccome è impensabile procedere per decreto, anche al Quirinale si sono ormai convinti che ci sia un unico modo per eliminare l'alibi dei veti incrociati, dietro cui si cela il patto per il mantenimento dello status quo.

Non è chiaro se l'operazione dello stralcio sarà l'effetto dirompente di un messaggio alle Camere di Napolitano, o se i partiti si adopereranno anzitempo per evitare un conflitto istituzionale senza precedenti. È certo che la soluzione è stata discussa dai vertici istituzionali, e rappresenta l'extrema ratio per uscire dallo stallo di una riforma che - prima ancora di essere esaminata dal Senato - è stata di fatto disconosciuta da Berlusconi. È vero che il Cavaliere - sconfessando i suoi stessi sherpa - si è scagliato solo contro le preferenze.
Ma ha posto una pietra tombale sulla legge.

E non c'è dubbio che l'ex premier sia ostile verso quel meccanismo di selezione, ma era e resta un altro il suo obiettivo: «Bisogna abolire per intero il premio di maggioranza», ha chiesto agli sbigottiti dirigenti del Pdl che si occupano del provvedimento. Il leader che ha incarnato in Italia il bipolarismo, vorrebbe insomma un ritorno al proporzionale puro, che con le liste bloccate avrebbe però un sapore sovietico. Dall'altra parte è Bersani che, senza esporsi, difende ora il premio di maggioranza del Porcellum. E muro contro muro non se ne esce.

Schifani, consapevole di dover gestire l'iter di una riforma su cui non c'è passione e non c'è intesa, farà quanto è in suo dovere da presidente del Senato, «mi assumerò - ha detto ai suoi interlocutori - la responsabilità di portare il testo in Aula, con o senza relatore». Il problema politico verrà dopo, quando cioè verrà formalizzata l'impossibilità di andare avanti. A quel punto chi si assumerà il compito di proporre lo stralcio? Sarà una richiesta dei partiti tramite i gruppi parlamentari o un'iniziativa di stampo istituzionale?

È ancora presto per capirlo, visto che il rito deve ancora consumarsi. Di sicuro, fallita la maxi-trattativa, è già in corso la mini-trattativa che muove dall'idea del senatore centrista D'Alia: assegnare il premio di maggioranza a una coalizione che ha superato il 40%, e se ciò non dovesse verificarsi, garantire un mini-bonus di seggi al partito che ha ottenuto il maggior numero di voti. Bersani nicchia per ora, ma sa che si prepara la tagliola dello stralcio, e che Napolitano è pronto a dire in pubblico quanto gli ha già detto in privato.

Certo, non mancano argomenti ai difensori del Porcellum per sottolineare quali siano le controindicazioni. Dato il quadro politico frammentato, sarà difficile oltrepassare la soglia del 40% per ottenere il premio di maggioranza. E un modello elettorale che predetermina il risultato elettorale rischia di produrre un aumento dell'astensionismo e del voto di protesta. Traduzione: con questo tipo di modifica sarebbe pressoché scontato un Monti-bis nella prossima legislatura. Con la schiettezza che tutti gli riconoscono, l'altro giorno il segretario dell'Udc Cesa non ha usato perifrasi con un dirigente del Pd per confutare questo ragionamento: «Lo volete capire o no che dopo il voto, con Grillo al 20%, ci saranno i numeri solo per fare un governo di larghe intese?».

Lo stralcio si avvicina, a passi lenti. Dato che senza una riforma, per quanto mini, il capo dello Stato non indirà le elezioni nazionali, i partiti si prenderanno ancora un po' di tempo. Vorranno vedere prima i risultati delle elezioni regionali. Incrociando le dita.

Francesco Verderami

3 novembre 2012 | 8:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_novembre_03/l-intesa-di-fatto-sul-porcellum-francesco-verderami_8c041456-2583-11e2-a01c-141eb51207fd.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Gennaio 05, 2013, 11:39:14 am »

Il retroscena

I segreti del patto tra Bersani e Renzi

Il Pd ha cambiato pelle, è diventato - per usare le parole del sindaco di Firenze - «un partito all'americana»


L'intesa tra Bersani e Renzi non è (solo) un'operazione di immagine e di potere, e non è (solo) una mossa mediatica in vista della campagna elettorale. Da ieri il Pd ha cambiato pelle, è diventato - per usare le parole del sindaco di Firenze - «un partito all'americana», dove «il timone è nelle mani di Pier Luigi, mentre io darò una mano». È il suggello della sfida alle primarie, un punto di partenza e anche di arrivo, perché chi è uscito sconfitto dalla sfida per la premiership accetta di collaborare con il candidato per Palazzo Chigi.

Ma al tempo stesso il patto pone fine «alle vecchie saghe», alla stagione dei complotti che hanno dilaniato in passato il centrosinistra. «Mettermi contro Bersani sarebbe ridicolo», spiega Renzi. E non è (solo) per una questione di «credibilità e di lealtà» che si pone al fianco del segretario. C'è una evidente convergenza di interessi tra i due, tra chi cioè si gioca le proprie carte nei prossimi mesi e chi mira ad avere le stesse chance nei prossimi anni.

Perciò Bersani ha invitato l'altro ieri a colazione il «rottamatore», che si è detto pronto a pagare il conto, «a patto che tu mi spieghi la metafora del tacchino sopra il tetto», pronunciata dal segretario del Pd durante il confronto in tv per le primarie. Davvero Renzi stenta a comprendere «il bersanese», tanto che più volte - durante la conversazione - ha dovuto interrompere l'interlocutore: «Aspetta Pier Luigi, scusami. Questa non l'ho capita».

Epperò su un punto i due si sono subito intesi, quando il leader dei democratici ha chiesto al sindaco di Firenze di mobilitarsi: «Lo devi fare nell'interesse della ditta». La parola «ditta» ha sempre fatto storcere il naso a Renzi, e non solo per una questione semantica. Tuttavia il messaggio era comprensibile. A Bersani serve «un argine al montismo» - così ha detto - in campagna elettorale, e l'ex sfidante - che alle primarie ha incarnato la novità - è attrezzato alla guerra di frontiera: «Matteo, fatti sentire sui temi dell'innovazione».

Renzi ha accettato, andrà in tv e nelle piazze, pronto a riproporre alcuni punti del programma con cui lanciò la sfida per palazzo Chigi al segretario: «Anche perché certe cose che Monti ha inserito nel suo documento, le ha riprese dal mio. E non erano di Ichino...». Il passaggio del giuslavorista democratico nelle file del premier uscente è stato al centro di commenti poco lusinghieri durante il pranzo, ed è proprio a Ichino che Renzi avrebbe più tardi indirizzato pubblicamente una frecciata, sostenendo che «c'è troppa gente abituata a scappare con il pallone quando perde. Io no».

Ma quando il professore se n'è andato con il Professore, Bersani ha intuito il progetto politico e mediatico che si celava dietro l'operazione, il tentativo di relegarlo nel recinto di un vetero-laburismo condannato all'attrazione fatale con la sinistra estrema, l'idea di dare in Italia e all'estero l'immagine di una coalizione e di un candidato premier «unfit» per palazzo Chigi. Il «rottamatore» serve proprio a rompere quello schema, e lui sa che la sua funzione sarà quella di «strappare voti nel campo avverso», cercando di drenarli «a Monti e a Berlusconi»: «Perché così si vince».

Con Renzi in campo il segretario del Pd lancia un messaggio al premier che mira a «silenziare le estreme», prefigurando quasi una spaccatura del fronte democratico dopo le elezioni. Con il patto di ieri, invece, un partito «all'americana» è un partito che non si rompe, è un modo - secondo Bersani - per far capire che «non c'è e non ci sarà nessuna ipotesi di scissione nel nostro schieramento, tantomeno nel nostro partito». Una tesi ribadita dal sindaco di Firenze, che giura di non volere incarichi nè di fare il capocorrente, e che tuttavia ha garantito sulla lealtà dei suoi parlamentari: «Saranno più bersaniani di Bersani».

Certo, se da una parte l'intesa di ieri consente di consolidare quel patrimonio accumulato con le primarie, dall'altra c'è il rischio che i messaggi renziani finiscano per alimentare tensioni con l'ala «sinistra» del Pd. «Ma io non silenzierò nessuno», avvisa Bersani. Che rivolgendosi a Monti, aggiunge: «A un leader non spetta tacitare, tocca svolgere un ruolo di sintesi». C'è dunque un motivo se ieri il leader del Pd era soddisfatto, se l'accordo sui numeri con Renzi è stato raggiunto in poco tempo. Il segretario inserirà una ventina di candidati nel listino, che si aggiungeranno agli altri cinquanta usciti vincenti dalle recenti parlamentarie.

E discutendo di liste a tavola i due erano convinti che «sul piano del rinnovamento daremo lezioni a tutti»: «Quando saranno note le liste collegate a Monti, si vedrà quali sono le più nuove tra le loro e le nostre». Il patto di ieri chiude il cerchio nei Democratici e dà il via alla campagna elettorale, durante la quale Bersani vestirà i panni del pompiere: non vuole giochi pirotecnici nè intende andare allo scontro diretto con il Professore, «a meno che non sia lui a trascinarmi». Lascerà a suoi il compito di lavorarlo ai fianchi, com'è accaduto anche ieri, con il governatore della Toscana Rossi che ha spiegato come il premier uscente «rischi di trasformarsi in un politico mediocre».

Il segretario-candidato agirà invece «solo di rimessa». Tanto ha capito chi sia stato a suggerire a Monti di aprire un fronte offensivo con il Pd: «È farina del sacco di Casini». E sorride ricordando l'ammonimento del leader Udc, secondo cui «Pierluigi» non andrà a palazzo Chigi se non riuscirà ad avere la maggioranza anche al Senato: «Questo è la solita, vecchia teoria politica di Pier Ferdinando. Comanda chi ha meno voti...».

Non c'è dubbio che alle prossime elezioni sia in gioco il bipolarismo, che Bersani vuole «salvaguardare». Perciò incalzerà il Professore quotidianamente, invitandolo a spiegare con chi si schiererà «in Italia e in Europa», e chiedendo «rispetto» per il Pd, «perché non può scoprire oggi i nostri difetti dopo essere stato appoggiato per un anno a palazzo Chigi». Comunque non intende pregiudicare «gli eventuali rapporti futuri», ha spiegato ai suoi, come a segnare il destino di Monti e della sua avventura. Certo, avrebbe preferito che il Professore rimanesse super partes, e con Renzi si è soffermato sulla scelta del premier di entrare in campo: avesse federato l'intero centrodestra sarebbe stato assai insidioso, mettendosi a capeggiare l'area centrista sarà funzionale al Pd. In ogni caso entrambi hanno convenuto che «sta dilapidando un patrimonio».

Ma è soprattutto del Pd che i due ex sfidanti hanno parlato. Ed è un segno dei tempi se un emiliano e un toscano hanno cambiato il volto di un partito a tra(di)zione post-comunista, dove era sempre toccato ai romani la cabina di comando. Resta il problema di Renzi, che spesso fatica a capire il «bersanese». La storia del «tacchino sul tetto», per esempio: il segretario del Pd ha ammesso di aver sbagliato a citare la metafora, «perché non mi volevo riferire a un tacchino ma a un piccione». «Si vabbè, Pier Luigi. Ma che vuol dire?».

Francesco Verderami

4 gennaio 2013 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_04/i-segreti-del-patto-tra-bersani-e-renzi-francesco-verderami_85557f60-5638-11e2-9534-ad350c7cbb97.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Gennaio 16, 2013, 04:14:33 pm »

I nuovi sondaggi: ma le analisi degli istituti di ricerca divergono

I centristi vero ago della bilancia. L'area stimata dall'11 al 15 per cento

La soglia magica che insegue il Centro. Berlusconi avrebbe guadagnato il 2,6% dalla performance con Santoro

Tra i due litiganti è il terzo che decide (e si gioca) tutto alle elezioni, è sul risultato di Monti che sono infatti concentrate le attenzioni di Berlusconi e Bersani, convinti - numeri alla mano - che il Professore sarà determinante nella prossima legislatura soltanto se supererà la soglia del 15 per cento.


Il derby d'Italia sarà pur tornato a farsi appassionante, ora che il Cavaliere - dopo l'exploit televisivo da Santoro - ha guadagnato in un solo colpo il 2,6% nei sondaggi.
E mentre il fondatore del Pdl fa mostra di credere in un'improbabile rimonta, il leader del Pd si mostra determinato a consolidare il vantaggio sul rivale.

Ma la sfida tra le due coalizioni non esaurisce la contesa per il governo del Paese, ora che l'(ex) arbitro è entrato in campo. Già non è facile districarsi tra i numeri dei rilevamenti demoscopici, che - com'era accaduto nel 2006 - divergono a seconda degli istituti di ricerca. Perché se è vero che ieri il sondaggio di Emg (commissionato dal tg de La7) evidenziava uno scarto di nove punti e mezzo tra centrosinistra e centrodestra, è altrettanto vero che l'ultimo report di Euromedia research (in possesso di Berlusconi) riduce la forbice a soli quattro punti e mezzo.

A parte la macroscopica differenza tra i due test, comunque questi numeri non basterebbero a prefigurare il vincitore delle prossime elezioni, dato che sul risultato finale pesa l'incognita del Senato, dove i dati nazionali andranno disaggregati su base regionale per l'assegnazione dei relativi premi di maggioranza. E non c'è dubbio che la governabilità dipenderà dalla composizione di palazzo Madama, è chiaro che l'obiettivo minimo del Cavaliere è conquistare la Sicilia e il Lombardo-Veneto per impedire al segretario del Pd di avere la maggioranza nei due rami del Parlamento.

Ma il vero snodo elettorale e politico passa dalla performance della coalizione guidata da Monti, che non sembra in grado di vincere il derby e tuttavia potrebbe ritagliarsi un pezzo di scudetto la sera del 24 febbraio, qualora ottenesse il 15% dei consensi. Lo sanno Berlusconi e Bersani, lo dicono gli stessi alleati del Professore: sopra «quota 15», Monti avrebbe la possibilità di condizionare se non addirittura determinare gli equilibri di governo; sotto «quota 15» si ritaglierebbe invece un ruolo minore, di interdizione, rischiando addirittura la marginalità.

Ecco spiegato il motivo per cui i leader di centrodestra e centrosinistra sono così interessati ai rilevamenti sull'area di centro. Ma i dati dei rilevamenti non sono omogenei.
C'è una netta discrepanza, per esempio, tra l'ultimo sondaggio di Euromedia e quello di Ipsos: mentre l'agenzia della Ghisleri alla Camera quota la coalizione di Monti all'11% (6% Scelta civica, 4% Udc, 1% Fli), la società di Pagnoncelli accredita quasi sei punti in più al «partito» del Professore. Al Senato invece Euromedia attribuisce alla lista unica montiana un dato più alto (12-15%) rispetto all'ultimo rilevamento di Ipsos (11-12%).
Sono numeri che fanno fluttuare Monti tra la zona scudetto e la zona retrocessione, e che inducono Berlusconi a sperare di essere determinante al Senato per la maggioranza di governo.

Basta un niente d'altronde per ribaltare il risultato. Ecco perché il Cavaliere è arrivato perfino a commissionare un focus sulle candidature del Professore, dal quale risulta che l'elettorato montiano non ha gradito l'inserimento in lista di personaggi come l'olimpionica Vezzali e la cantante Minetti. Ieri però - analizzando gli ultimi dati - non ha potuto fare a meno di riscontrare un «piccolo salto in avanti» del premier. Perciò, al vertice di partito, ha sottolineato la necessità di fare molta attenzione ai candidati: «Siamo al 23,4%.
E se non faremo errori nella composizione delle liste arriveremo di sicuro al 25%. Lo scarto dal Pd è di un milione e ottocentomila voti. Questo dato non ci deve spaventare, si può recuperare, perché si tratta di elettori che erano già nostri». È stato un modo per lasciare intuire ai dirigenti locali ciò che aveva anticipato ai dirigenti nazionali: «Nelle regioni in bilico deciderò tutto io. Non voglio candidati che portano il volto della sconfitta».

Berlusconi vuole depotenziare il terzo incomodo, assorbendo quella fascia di «ex votanti del Pdl» che oggi sono annoverati tra i «delusi». E non è detto che la nuova stagione dei processi sia nociva alla rimonta, visto che il leader del Pdl punta a bipolarizzare il voto gridando all'accanimento giudiziario. E per studiare meglio l'area degli astensionisti ha preso in esame una ricerca sulla proiezione del dato di affluenza, che al momento si aggira tra il 70-71%, ben al di sotto quindi della media elettorale, calcolata tra il 79-83%. È lì - secondo il capo del centrodestra - che vanno recuperati i consensi, per la maggior parte considerati ex berlusconiani. Ma non solo lì.

I report sul movimento di Grillo segnalano non solo un arretramento di M5S ma anche una certa «volatilità» in quanti ancora oggi dicono di voler votare per quella forza.
Ecco il motivo del lavorio ai fianchi, speculare a quello del segretario del Pd, che sta cercando di prosciugare quanto più possibile il fronte sinistro di Ingroia, in nome del «voto utile».

Così i due litiganti mirano a fare il pieno, con una differenza di non poco conto: Berlusconi punta a rendere irrilevante Monti, Bersani lavora per ridimensionarlo. Altrimenti al Senato rischia di dover scendere a patti con il Cavaliere.

Francesco Verderami

15 gennaio 2013 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_15/la-soglia-magica-che-insegue-il-centro-francesco-verderami_5226b8d0-5ede-11e2-8d79-cb6cdb3edff8.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Febbraio 07, 2013, 11:45:06 pm »

Il retroscena: Il futuro esecutivo sarà ispirato al modello sinistra-centro

E per Monti spunta l'ipotesi Senato

L'accordo sembra inevitabile: già occupate le caselle di Economia ed Esteri. Casini orientato a trattare sulla Difesa


Il pressing delle cancellerie internazionali, le preoccupazioni per l'andamento dello spread e anche i timori di un sorpasso del Cavaliere sono solo alibi, espedienti da campagna elettorale dietro cui Bersani e Monti devono celare l'inevitabile intesa dopo il voto. Un'intesa necessitata. Ed è vero quanto sostiene il Professore, e cioè che «non c'è oggi nessun accordo tra noi e il Pd», così come è vero che il leader democratico a Berlino non ha detto nessuna novità, ma ha solo ribadito le aperture di credito che avanza ormai da un mese ai centristi. Il punto è che i due, all'indomani delle elezioni, saranno costretti a un patto dettato da ragioni politiche e numeriche, se è vero che - fuori da questo schema - non si intravvedono in prospettiva altre maggioranze in Parlamento.

I giochi però non sono fatti, almeno non del tutto. Perché le urne incideranno sugli equilibri e gli assetti di governo, serviranno a stabilire i rapporti di forza tra le coalizioni. Un conto è se il segretario del Pd sarà obbligato all'alleanza con Monti per non essere riuscito a ottenere l'autosufficienza al Senato, altra cosa è se - pur avendo i numeri - proporrà al Professore un patto di programma. Un punto comunque è chiaro fin da ora: si tratterà di un governo di sinistra-centro, dove il primato spetterà ai Democratici. È un fattore determinante, che segnerà la rotta nelle trattative per la formazione del futuro esecutivo.

Nei due schieramenti hanno ben presente quale sarà lo schema, non a caso già se ne discute. A Monti, Bersani offrirà «la prima scelta», avvertendo che alcune opzioni saranno precluse. Il ministero dell'Economia, per esempio. C'è un motivo se il segretario del Pd nelle scorse settimane ha avvisato che «o c'è un rapporto fiduciario con il titolare di quel dicastero o è meglio spacchettare»: se approdasse a palazzo Chigi, Bersani non potrebbe far passare l'idea in Italia e all'estero di esser stato posto sotto tutela, quasi commissariato. Di sicuro non accetterebbe una presenza così ingombrante, con il rischio di riproporre il dualismo che caratterizzò la stagione di Berlusconi e Tremonti.

Il veto preventivo di Vendola, «Monti potrà essere il ministro dell'Economia per Berlusconi», tornerà utile al Pd all'atto delle trattative, quando anche un'altra casella verrà data per «occupata»: quella degli Esteri, con D'Alema. Sugli asset più importanti dell'esecutivo i Democratici non sono intenzionati a cedere. Così, sebbene ieri il Professore abbia detto di non escludere la sua presenza «in un governo riformista», è poco probabile che l'ipotesi si concretizzerà. Almeno, questa è la previsione di molti autorevoli esponenti del Pd e dello stesso Casini, che nei suoi conversari riservati ha ammesso di vedere «Monti proiettato verso la presidenza del Senato». E siccome al capo della sua coalizione spetta la «prima scelta», il leader dell'Udc già medita se sia opportuno puntare a un incarico di governo «come la Difesa».

Un simile scenario inevitabilmente si proietterebbe anche sui rapporti della maggioranza con l'opposizione, cioè con il Pdl, che chiederebbe la presidenza di un ramo del Parlamento, ben sapendo che dal '94 ad oggi la coalizione vincente ha sempre tenuto per sé quelle cariche. Di più, qualora Monti il 15 marzo dovesse occupare lo scranno più alto di palazzo Madama, a un mese dalla corsa per il Quirinale si proporrebbe come potenziale candidato alla successione di Napolitano. Insomma, «l'intesa necessitata» non sarà stata ancora sottoscritta, ma c'è un motivo se già i protagonisti si preparano all'evento e studiano le varie opzioni.

Resta un dettaglio, il risultato delle urne, che assegnerà la forza contrattuale nelle trattative. E su questo punto regna l'incertezza. Perché nel Pd non sanno ancora se conquisteranno «157 o 138 seggi al Senato», che è come passare dal giorno alla notte. E lo stesso discorso viene fatto per i numeri di Monti che «ballano tra il 9 e il 14%». Casini - come a volersi levare un sassolino dalle scarpe - ieri è stato tagliente con il Professore: «L'Udc darà il suo contributo all'alleanza, ma tra il 10 e il 14% c'è una fondamentale differenza...».

Per i Democratici questo segnale rafforza la tesi sulla gracilità del rassemblement montiano, sostenuta tempo fa da Bersani: «Più che una coalizione sembra un taxi». E i dubbi nel Pd si estendono allo stesso Monti, ai suoi reali propositi personali: vorrà restare in Italia o mira a incarichi europei? In quel caso che ne sarebbe dell'area centrista? In più, le iniziative mediatiche del Professore stanno irritando Bersani, perché quelle battute abrasive verso il Pd a cui seguono repentini ammiccamenti, «finiscono per fare il gioco di Berlusconi». Anche ieri Monti ha applicato lo stesso schema, ma provando a creare un cuneo tra i Democratici e Vendola ha innescato la reazione di D'Alema: «I partiti piccoli devono farsi notare».

Il fatto è che il Professore sta cercando di rilanciarsi nei sondaggi, siccome al Senato il futuro «governo di programma» - a dir poco eterogeneo - avrebbe bisogno almeno di trenta seggi di maggioranza per poter applicare lo schema delle «geometrie variabili», e garantirsi così eventuali voti distinti delle due estreme. L'impresa non è semplice. Come non bastasse, il Monti premier è atteso a una prova molto delicata: il vertice europeo sul bilancio dell'Unione. Non è solo Berlusconi che lo attende al varco, per denunciare «la resa alla Merkel del governo».
Lo stesso Bersani è pronto ad affondare il colpo contro il futuro alleato. Anche a Bruxelles si fa campagna elettorale.

Francesco Verderami

7 febbraio 2013 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/monti-centrosinistra-ipotesi-presidente-senato_2dda6ed6-70ef-11e2-9be5-7db8936d7164.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Febbraio 26, 2013, 04:49:18 pm »

Il retroscena

Elezioni anticipate o larghe intese

Le due strade dopo lo «tsunami»

Grillo vuole votare di nuovo «nel giro di sei mesi»

E Pd e Pdl si scambiano i primi segnali


ROMA — Sanno che, quando la polvere dello scontro elettorale si sarà posata, dovranno fare i conti con l’unica formula che potrebbe garantire oggi la governabilità al Paese. Sanno che, quando gli slogan pronunciati ai comizi andranno sostituiti dai ragionamenti per le consultazioni al Quirinale, dovranno prendere in esame l’unico scenario parlamentare possibile. Insomma, Pd e Pdl sanno che per calcolo numerico e politico si troveranno costretti a discutere di Grande coalizione. È vero che alla vigilia del voto i Democratici consideravano un «suicidio» una simile prospettiva, ma valutavano come un «suicidio» anche un ritorno immediato alle urne. Ed è altrettanto vero che — al pari di Bersani — anche Berlusconi diceva «mai più con i nostri avversari».

Ma il responso delle urne pone i due partiti dinnanzi a una scelta: suicidarsi o assumersi quelle responsabilità che hanno delegato per un anno e mezzo ai tecnici. L’inseguimento dei Cinquestelle per formare una maggioranza in Parlamento è tempo perso, o meglio è un modo di Pd e Pdl per prender tempo, in attesa di far metabolizzare la larga coalizione. Anche perché il vero obiettivo di Grillo — che è stato capace di un exploit non riuscito nemmeno a Berlusconi nel ’94 — è proprio quello di tornare al voto «nel giro di sei mesi », per capitalizzare il successo in una nuova tornata elettorale e sbaragliare ciò che resta delle forze nate nella Seconda Repubblica.

Certo, mettere insieme due progetti alternativi è a dir poco complicato, perciò il passaggio si preannuncia drammatico. E non sarà a costo zero. L’unica variabile è quella profetizzata alcune settimane fa dal ministro Fabrizio Barca, che in un’intervista al Corriere disse come «senza una maggioranza stabile potrebbe accadere, una volta eletto il capo dello Stato, di tornare alle urne», magari con un cambio della legge elettorale. Una opzione da mettere in preventivo, dato che il governo Monti non si è formalmente dimesso, e dunque potrebbe andare avanti per il disbrigo degli affari correnti e di una nuova sfida elettorale. Ma tanto il Pd quanto il Pdl sono consci che in quel caso il «vaffa voto» li sommergerebbe.

Ecco perché, per calcolo politico e numerico, devono prendere in esame le larghe intese, un’alleanza che vedrebbe il centro montiano ininfluente. E chissà se il Professore, dinnanzi a una sconfitta senza appello, avrà pensato al ruolo che avrebbe potuto avere adesso se non fosse «salito in politica». La débâcle centrista è uno dei risvolti che fanno di Berlusconi un «perdente di successo». L’emorragia di voti subita nelle urne è stata compensata dalla maggioranza relativa conquistata al Senato, che consente al Cavaliere di sedere al tavolo delle trattative per la formazione del governo e per la scelta del futuro presidente della Repubblica. Bersani farebbe volentieri a meno di una simile intesa, ma se il Pd optasse per le elezioni anticipate, l’attuale leader dei Democrat dovrebbe passar subito la mano, lasciando a Renzi un partito «rottamato» dal risultato. E con Bersani verrebbe fatta fuori l’intera classe dirigente attuale, che certo non ha interesse a capitolare. Ecco allora che, dopo le prime dichiarazioni a caldo — tutte incentrate sulla necessità di «tornare a votare » — lo stato maggiore del Pd ha assunto una linea meno intransigente, Enrico Letta ha rettificato il tiro, la Finocchiaro ha spiegato che «serve un governo pienamente politico». Una posizione certamente condivisa da D’Alema. Non a caso, in modo speculare, dal fronte berlusconiano sono giunti i primi segnali di apertura: «Se nessuna delle coalizioni avrà la maggioranza — ha detto il pdl Palma — andrà trovata una soluzione per garantire la governabilità». Persino la Lega con Tosi si predispone all’evenienza, pur prospettando una «opposizione costruttiva » a un eventuale gabinetto di larghe intese. Condannati a governare, per espiare le colpe commesse ancora nel recente passato, Pd e Pdl sanno che dovrebbero fare le riforme — anche quelle istituzionali — prima di tornare al voto, per evitare il «suicidio». È una missione (quasi) impossibile, non solo per l’incompatibilità delle ricette economiche ma anche per le difficoltà di comporre il governo: a chi, per esempio, spetterebbe indicare il premier? Potrebbe rivendicarlo il partito che vincesse alla Camera, ma sarebbe necessaria una figura «terza». Uno schema che andrà comunque applicato per la corsa al Colle, dove i candidati di «parte» come Prodi perdono terreno. Perché il Cavaliere — «perdente di successo» — sarà seduto al tavolo che conta. Ma lì ci sarà anche il convitato di pietra: Grillo, l’uomo dello tsunami.

Francesco Verderami

26 febbraio 2013 | 6:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/26-febbraio-Elezioni-anticipate-larghe-intese-verderami_823a4a76-7fbf-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Febbraio 27, 2013, 05:34:44 pm »

Si ripropone lo scenario che segnò l'inizio della fine della Prima Repubblica

Vent'anni dopo spunta la trappola che Bossi tese ad Andreotti

Il Pd teme che Grillo offra disponibilità solo per picconare il sistema


ROMA - Davvero Bersani tende la mano a Grillo? Davvero il Pd cerca un'intesa con i Cinque Stelle? Perché se così fosse, il rischio per i Democratici sarebbe quello di cadere nella stessa trappola che Bossi tese ad Andreotti nel '92, quando la Lega offrì al «divo Giulio» i propri voti per il Quirinale, riuscendo nell'intento di rompere il «patto del Caf» che - grazie all'intesa con Craxi - avrebbe dovuto portare Forlani al Colle. Quello fu l'inizio della fine per la Prima Repubblica.

A ventuno anni di distanza il copione si ripeterebbe sulle macerie di un altro sistema prossimo all'implosione. Se non fosse che l'apertura al dialogo di Bersani ai grillini appare come un espediente tattico, più che strategico. È una manovra dettata anzitutto dall'esigenza di tenere unito il partito e la coalizione che ha guidato alle urne. È una mossa segnata dalla necessità di consumare una serie di passaggi prima di esplorare l'unica soluzione che garantirebbe la governabilità al Paese: il governo delle larghe intese con il Pdl. In caso contrario, le sorti di una legislatura che nemmeno è iniziata sarebbero già segnate.
La trappola di Grillo - che non fa mistero di puntare alle elezioni «nel giro di sei mesi» - è già in bella mostra. Ha le sembianze del «modello siciliano» che il leader di M5S ieri ha definito «meraviglioso», è un patto in base al quale il governatore di centrosinistra Crocetta - che ha dato la presidenza dell'Assemblea regionale ai grillini - può contare sull'appoggio dei Cinque Stelle su alcuni provvedimenti, ma a carissimo prezzo. Sarebbe possibile esportare questo sistema in Continente e applicarlo a livello nazionale? Gran parte del Pd non solo ritiene sia impossibile, ma teme soprattutto di esporsi al colpo di grazia del «picconatore» della Seconda Repubblica. Una tesi sostenuta anche nel Pdl: «Bersani non ci farà questo regalo», sorride infatti l'ex ministro Matteoli.

D'altronde, con le cancellerie dell'Unione che invocano «la stabilità», con il governatore della Federal reserve americana che definisce il voto italiano un «elemento di instabilità in Europa», nel centrodestra sono convinti che Napolitano non darebbe mai il viatico a un governo di minoranza del Pd esposto all'appoggio esterno dei grillini. Ne sono consapevoli anche i dirigenti democratici. Il punto è che Bersani si trova oggi a gestire una fase drammatica: per un verso deve fare i conti con un partito frastornato dall'esito del voto e lacerato dinnanzi alla prospettiva di un'intesa con il centrodestra; dall'altro - siccome vuol provare a formare un governo - deve iniziare a costruire una proposta valida da presentare al capo dello Stato.

È tra l'insediamento del nuovo Parlamento e l'inizio delle consultazioni che il leader del Pd potrebbe tentare una manovra diversiva, per cercare di costruire un ponte con i grillini e stabilire con loro un rapporto. Perché se è vero che sulla formazione del futuro governo spetterà a Napolitano il ruolo di regista, prima di allora ci sarà un passaggio che le forze politiche affronteranno in autonomia: l'elezione dei presidenti delle Camere. È lì, come ha fatto intendere Bersani ieri, che potrebbe aprirsi la trattativa con i Cinque Stelle, in attesa di scaricare sul Pdl la responsabilità di appoggiare o meno un governo a guida Pd in nome della «governabilità». Ma l'idea di muoversi «step by step» è un gioco scoperto, che il centrodestra si appresta a rintuzzare.

Bersani però deve allontanare da sé il sospetto dell'inciucio, perciò ha avvisato il Pdl che «non ci disporremo al balletto di diplomazie politiche». «Non è un problema di poltrone, ma di programma», ha risposto Alfano come ad aver inteso il messaggio. Anche perché - sull'orlo del precipizio - mai come questa volta non potrebbe trattarsi di inciucio o di accordi di potere: «Se non si facessero le riforme istituzionali e non si desse ossigeno all'economia, verremmo spazzati via dal Paese», spiegano sottovoce i dirigenti dei due partiti, mentre si sbattono reciprocamente la porta in faccia com'è scontato che sia in questa fase.

Il governo di larghe intese è l'unica opzione per evitare le urne, è un passaggio che non sarebbe indolore per entrambe le forze politiche, «è una riflessione che prenderà del tempo», dice infatti Berlusconi, la cui prudenza testimonia quanto il progetto sia maledettamente complicato da realizzare e non conceda margini all'improvvisazione. Non è una questione di contatti tra Pd e Pdl, la Grande Coalizione non sarebbe comunque tema da pissi pissi di Palazzo. Al momento opportuno, non sarebbero nemmeno Bersani e Berlusconi a parlarsi. Toccherebbe a Napolitano essere l'artefice della mediazione.

Francesco Verderami

27 febbraio 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/27-febbraio-vent-anni-dopo-%20trappola-bossi-ndreotti-verderami_e03d99b2-809f-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Marzo 02, 2013, 03:29:21 pm »

Settegiorni

E Berlusconi vuole svuotare la lista Monti

Il centrodestra teme una trappola sull'imminente elezione del nuovo capo dello Stato


Una settimana può sembrare un'eternità, e chissà quante eternità dovranno ancora passare prima di trovare la soluzione al rebus del governo. Al momento tutti si rincorrono, ognuno con obiettivi diversi.
C'è Berlusconi che insegue Bersani per un gabinetto di «larghe intese», c'è Bersani che insegue Grillo per un esecutivo di «scopo», e c'è Grillo che invece insegue le elezioni e basta. Toccherebbe al capo dello Stato porre fine al gioco per dare stabilità al sistema, ma la composizione del Senato rende la sfida molto complicata. Perché il segretario del Pd non ha i numeri per formare una maggioranza, e l'opera di «stalking» verso i grillini non può ridursi a una campagna acquisti tra i parlamentari a Cinquestelle.

Il paradosso, uno dei tanti in questo tormentato avvio di legislatura, è che i Democratici - insieme a ciò che resta dei centristi - non avrebbero la forza di andare a palazzo Chigi, ma potrebbero eleggere il nuovo presidente della Repubblica, quando verrà il momento. È un dettaglio che non è sfuggito al Pdl nell'analisi della situazione, perché potrebbe avere un peso rilevante nella sfida di governo e potrebbe giocare a loro sfavore.
C'è un motivo quindi se Berlusconi, ingobbito dai guai giudiziari, ha ventilato l'ipotesi di tornare subito alle urne dopo la modifica del sistema di voto. E la manifestazione indetta per il 23 marzo contro la «magistratura politicizzata» ha un forte sapore elettorale. Il Cavaliere è convinto che - qualora si tornasse a consultare i cittadini - avrebbe delle chance di vittoria, «perché Grillo si mangerebbe il Pd ma noi ci mangeremmo Monti». E grazie agli altri partiti della coalizione di centrodestra potrebbe forse restare davanti a M5S.

Il fatto è che alle elezioni non si potrebbe tornare subito, siccome Napolitano - giunto a fine mandato - non può sciogliere le Camere, potere che avrebbe invece il suo successore. Ed è qui che il Pdl ha fiutato una possibile «trappola»: cosa accadrebbe se le trattative per formare il governo si trascinassero a ridosso della scadenza di mandato dell'attuale presidente della Repubblica? A quel punto i Democratici - escludendo Berlusconi dalle scelte per il nuovo inquilino del Quirinale - potrebbero uscire dall'angolo in cui si trovano al momento.

«Il rischio c'è», riconosce l'ex ministro Fitto: «Sarebbe una furbizia che avrebbe il sapore di un grave sgarbo politico nei nostri confronti e di un gravissimo sgarbo istituzionale nei riguardi del capo dello Stato. Si tratterebbe di un atto che noi saremmo pronti a denunciare». Di paradosso in paradosso, oggi Napolitano è vissuto nel centrodestra come una sorta di nume protettore delle regole del gioco. Perché la linea del Colle in vista delle consultazioni è chiara, tanto che ieri Europa - quotidiano del Pd - ne ha fatto il titolo di prima pagina: «Senza maggioranza non ci sarà incarico».

Ed è evidente la divergenza con Bersani, che ipotizza un governo di minoranza e si prefigge di cercare in Parlamento i voti per andare avanti. Quale sia il livello di tensione tra il Colle e i Democratici lo si intuisce dai ragionamenti di molti dirigenti del Pd, che ormai senza censurarsi teorizzano come «il partito debba assumere un atteggiamento adulto nei confronti di Napolitano». Già prima del voto il segretario aveva denunciato a denti stretti che «i patti» stipulati alla nascita del governo Monti non erano «stati rispettati» dal Professore e dal Cavaliere.

E il risultato della scorsa settimana, la «sconfitta», ha acuito l'insofferenza di quanti nel Pd avevano per tempo sottolineato come il varo del gabinetto tecnico non avesse «consentito al partito di cogliere l'attimo» della crisi berlusconiana per capitalizzarlo nelle urne. Quell'attimo in effetti c'è stato, anche lo scorso anno sarebbe stato forse possibile garantirsi il successo senza grandi patemi. Perché il comico non era ancora pronto a diventare leader, come ha rivelato qualche giorno fa l'ex grillino Favia, che dopo il divorzio da M5S si è candidato con la lista di Ingroia.

L'esponente di Rivoluzione Civile - al termine di una trasmissione televisiva - ha raccontato che «se si fosse votato nel 2012, Grillo non si sarebbe presentato alle elezioni. Ricordo che a quei tempi Casaleggio diceva: "Se si vota adesso non ci presentiamo. Abbiamo bisogno di tempo, dobbiamo arrivare almeno all'anno prossimo"». Così è stato, Grillo ha fatto «boom» e promette di fare un botto ancora più forte se si dovesse tornare alle urne a breve termine.

Perciò il capo di M5S non si lascia acchiappare da Bersani, mira alle elezioni anticipate e medita la «marcia su Roma», con la conquista del Campidoglio a maggio. Un obiettivo che sarebbe alla portata, se gli incubi del Pd si trasformassero in realtà: i Democratici capitolini temono che il sindaco Alemanno sia elettoralmente troppo debole, che al ballottaggio possa arrivare il candidato grillino, trasformando Roma in un nuovo e più clamoroso «caso Parma».

Francesco Verderami

2 marzo 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_02/berlusconi-svuotare-lista-monti_6b220dae-82ff-11e2-839d-17a05d1096bb.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Marzo 03, 2013, 05:23:29 pm »

Il retroscena

Mossa Pd: una maggioranza per il nuovo Colle

Tensione tra i Democratici e il Quirinale

L'ipotesi: costruire un fronte attorno al nome del futuro presidente


ROMA - Se ieri Napolitano ha imposto il «reset» al dibattito politico postelettorale, è perché confida che una ripartenza possa offrirgli dei margini di mediazione per la formazione di una maggioranza di governo. D'altronde la politica non può restare senza un «piano B». Ma a nemmeno sette giorni dal voto ogni soluzione sembra esser stata bruciata, e gli spazi di manovra per il capo dello Stato sono strettissimi. Di più, la partita che si prepara a gestire già prefigura un braccio di ferro con il capo dei Democratici. Il paradosso provocato dal risultato delle urne è che le parti si sono rovesciate: ora è il Pdl a dar manforte all'opera del Quirinale.


Bersani è consapevole delle proprie difficoltà, l'inseguimento di Grillo gli serve per sfuggire all'abbraccio di Berlusconi, per evitare cioè la prospettiva di larghe intese, anche camuffate dalle sembianze di un governo a guida tecnica. La direzione del Pd sarà fondamentale prima di andare all'appuntamento con Napolitano: il voto del partito gli servirà per arrivare alle consultazioni con la forza necessaria a resistere al pressing del Colle. Bersani ritiene di aver con sé la maggioranza del gruppo dirigente, a cui si unisce una base ostile all'idea di un patto con il Cavaliere.


E ancor prima che inizi la sfida, già si mette di traverso rispetto alla prima opzione del «piano B», l'ipotesi che si possa sfruttare il governo attualmente in carica per dare quantomeno avvio alla legislatura. Una prospettiva che anche i vertici della Cgil vivono come una «provocazione». Monti - anche per rispetto verso Napolitano - ha detto di sentirsi «ancora a disposizione del Paese, se servisse». Ma si rende conto che la «salita in politica» ha compromesso la sua immagine di terzietà. Lo pensano anche il leader del Pd e Berlusconi, e almeno su questo punto concordano: «Mai un Monti-bis». Anche perché l'obiettivo del capo del centrodestra è quello di «svuotare» la lista del Professore.

Sul resto i due avversari si dividono. E la «disponibilità» del Cavaliere è un modo per incalzare Bersani, testimoniando al capo dello Stato che il Pdl è pronto a un accordo per un patto di governo che abbia come «precondizione» una durata di almeno due anni, «altrimenti sì che regaleremmo il Paese a Grillo», spiega Alfano. Stretto nella morsa e senza possibilità di conquistare alla causa i 5 Stelle, il Pd è in cerca di altre strade. E chissà se l'ipotesi di velocizzare le procedure di avvio della legislatura - di cui si è discusso a Palazzo Chigi e al Colle - sia una contromossa rispetto allo scenario che è stato preso in esame in questi giorni dallo stato maggiore democratico: dato che non è possibile formare al momento una maggioranza di governo, perché non tentare di precostituirla con una maggioranza sul nome del nuovo capo dello Stato?


L'operazione avrebbe un senso, se non fosse che - per realizzarla - Napolitano dovrebbe dimettersi senza avviare le consultazioni, e lasciando come primo compito al nuovo Parlamento l'elezione dell'inquilino del Quirinale. Le argomentazioni che i dirigenti del Pd producono sottovoce a sostegno della tesi, vanno dai limitati poteri di Napolitano (che è al termine del mandato e non può sciogliere le Camere), fino al ricordo che «proprio lui aveva detto di voler lasciare al suo successore il compito di gestire la nuova legislatura».


L'impressione che Napolitano sia vissuto come un intralcio dai suoi ex compagni di partito è il segno di quanto forti siano le tensioni tra il Pd e il capo dello Stato, e dà l'idea di quanto potrà essere drammatica la fase che si apre. Non a caso l'ex ministro Fitto ha denunciato in maniera preventiva «il rischio di un gravissimo sgarbo istituzionale verso il presidente della Repubblica che saremmo pronti a denunciare», quasi ad alludere a forme di pressione in atto verso il Colle. È chiaro che se le fiamme dello scontro politico sul governo dovessero propagarsi fino al Quirinale, gli esiti del conflitto potrebbero essere devastanti per un sistema già in pezzi.
Il punto è che il Pd non vuole andare in pezzi, perché il prezzo che pagherebbe rispetto all'ipotesi di un qualsiasi rapporto con il Pdl sarebbe altissimo, viste le posizioni nel partito. Anche perché - per quanto affidato a un tecnico - il governo dovrebbe poi essere sostenuto in Parlamento dalla riedizione della «strana maggioranza», e Bersani sembra disposto a sacrificarsi magari per aprire la strada a nuove elezioni con un nuovo candidato, Renzi. Sarà così? Per ora la politica è senza «piano B»: Napolitano ha imposto il «reset» per cercarlo e farlo diventare un compromesso. Ma è chiaro che si tratta di un braccio di ferro. È già iniziato.

Francesco Verderami

3 marzo 2013 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_03/mossa-pd-una-maggioranza-per-il-nuovo-colle-francesco-verderami_58321494-83c4-11e2-9582-bc92fde137a8.shtml
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