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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 283805 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Agosto 02, 2008, 09:09:47 am »

Eugenio Scalfari.


La nuova opposizione



Quelli che ne lamentano l'assenza vogliono spianare la via alla gestione diretta della gente da parte del nuovo potere autoritario. Ma con la stretta economica, in autunno, la situazione può cambiare  La pubblicistica e gran parte delle forze politiche si concentrano da molte settimane su un tema: in Italia non c'è opposizione. Questa assenza occupa quasi ossessivamente i loro pensieri. Sono preoccupati e tanto più se i loro cuori battono a favore del centrodestra. È un segnale di longanimità? Resipiscenza? Desiderio di mettersi al di sopra della mischia per incoraggiare i più deboli?

I migliori cervelli si arrovellano: è mai possibile che in un Paese che per decenni ha visto un protagonismo fiero e bellicoso dell'opposizione - ai tempi del vecchio Pci - adesso non ci siano che 'animulae blandulae', ombre mute, fantasmi spauriti, proprio mentre un governo efficiente e blindato inanella successi un giorno dopo l'altro senza trovare ostacoli di sorta? Angelo Panebianco, politologo di lungo corso, li enumera compiaciuto quei successi: Napoli finalmente pulita in 58 giorni, una legge finanziaria già varata nelle sue parti essenziali con un anticipo di almeno quattro mesi sul calendario tradizionale, la sicurezza ripristinata o almeno la paura diminuita nell'animo della gente, gli statali fannulloni al lavoro, il precariato alla frusta, gli zingari avviati verso percorsi di operoso ravvedimento, gli immigrati bloccati sul bagnasciuga e rispediti a casa.

Ma Panebianco, pur nella soddisfazione per tutti questi buoni risultati del migliore dei governi possibili, ha un tarlo che gli rode l'anima: l'opposizione non reagisce, non è un vascello da battaglia ma una scialuppa a rimorchio dell'ammiraglia berlusconiana e tremontiana.

Da punti di vista diversi arrivano alle medesime conclusioni Andrea Romano, Luca Ricolfi, Augusto Minzolini, Paolo Franchi, Maria Teresa Meli. Della Loggia è forse il solo a battere percorsi diversi e diverse sono le sue preoccupazioni. Ma perfino Bertinotti è angosciato dalla mancanza di una vera opposizione e con lui Diliberto e quanto resta dei Verdi. Infine
anche all'interno dei democratici il problema è sentito. Molti di loro si chiedono: come si fa a far vivere un'opposizione vera che fermi l'avversario e gli impedisca di fare 'cappotto'?

Naturalmente la quasi totalità di queste anime in pena pone delle condizioni, variabili secondo i diversi talenti. L'opposizione non deve essere giustizialista. Deve volere e praticare il dialogo ma con una propria agenda. Deve scendere in piazza ma non con Di Pietro. Oppure non deve scendere affatto ma il Parlamento non basta come luogo di confronto.

Alla fine quasi tutti concludono che la soluzione è culturale e constatano che, purtroppo, la sinistra e i riformisti una cultura non ce l'hanno o non ce l'hanno più. Della Loggia pensa e scrive che neppure la destra ha una cultura e forse non l'ha mai avuta neppure lei. Ferrara è arrivato da tempo alla conclusione che la sola cultura in campo sia quella del Papa e dei Vescovi. Gli altri, più o meno, annuiscono o tacciono sul punto e chi tace - si sa - acconsente.

Mi scuso con le egregie persone che ho nominato per debita informazione dei miei lettori e per rendere di più chiara comprensione ciò che penso io.

Secondo me l'opposizione c'è ed è destinata ad aumentare man mano che la stretta economica e sociale crescerà. È un fatto naturale: una politica economica necessariamente restrittiva crea disagi e reazioni specie quando è inspirata da una visione della società molto evidente, che distribuisce i pesi in modo difforme tra i vari ceti e categorie. Gli obiettivi possono essere condivisi, ma le modalità per raggiungerli dividono.

Al di là della stretta economica e della sua ispirazione sociale, l'attuale maggioranza persegue anche un altro obiettivo: trasformare la Costituzione vigente in un reggimento autoritario e presidenziale senza i contrappesi necessari a preservare una sostanza di democrazia partecipata.

Questo disegno, ormai evidente in ciascuna mossa del governo, è meno percepibile dalla pubblica opinione perché non tocca interessi immediati. Renderlo percepibile è il compito dell'opposizione politica ed è il compito di tutta la sinistra, che sia quella riformista o quella più estrema o quella liberal-moderata che non condivide il progetto autoritario-populista.


Il perno dell'opposizione politica non può che essere il partito democratico il quale attraversa una fase di costruzione organizzativa certamente non facile. La responsabilità di opporsi ai disegni della maggioranza in Parlamento e nel Paese spetta dunque principalmente al Pd e al suo gruppo dirigente. La crescita di un partito non si improvvisa ma è vero che il tempo a disposizione è molto breve. In autunno si vedrà se la costruzione del maggior partito d'opposizione è in grado di stare in campo con l'efficacia che il compito richiede.

Quelli che lamentano oggi la pochezza o addirittura l'assenza dell'opposizione non sono mossi da sollecitudine ma dal trasparente desiderio di dare per già liquidata l'opposizione politica togliendo di mezzo quel punto di raccolta ideale e sociale e spianando la via alla gestione diretta della gente da parte del nuovo potere autoritario. Dico della gente, cioè di una società 'liquida' che mette ciascun individuo di fronte al potere abolendo ogni contropotere ed ogni struttura intermedia.

La sinistra e l'opposizione in tutte le sue modulazioni ha dunque l'autunno come momento di verifica della sua forza. Ne faccia buon uso.


(01 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #76 inserito:: Agosto 03, 2008, 07:46:04 pm »

POLITICA

Il bene di vivere e il diritto di morire


di EUGENIO SCALFARI



QUANDO Emanuele Severino e Umberto Galimberti segnalarono l'irruzione della tecnica nel mondo dell'etica sembrò ai più che la questione avesse un contenuto esclusivamente filosofico e quindi astratto e di scarsa importanza pratica.

Se ne erano del resto già occupati scrittori e filosofi americani e, in Europa, tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli, greci. Era insomma una questione posta dall'attualità e dall'evidenza: la tecnica, la "tecné", aveva conquistato una vera e propria egemonia che incideva nel mondo dei comportamenti sociali, determinava lo sviluppo dell'economia, accresceva ma al tempo stesso vulnerava i territori della libertà.

Le reazioni più preoccupate da quell'egemonia provennero dal campo religioso, sia di parte cristiana sia di parte islamica sia dalle numerose credenze asiatiche: le religioni denunciavano lo squilibrio tra il progresso tecnico e quello morale e vedevano la propria autorità sempre più insidiata dai progressi delle scienze che non ammettevano limiti alla ricerca né si preoccupavano che i risultati di volta in volta raggiunti fossero compatibili con le verità rivelate delle quali le religioni ritenevano di avere esclusiva rappresentanza. La discussione investì tutte le culture e divenne tanto più intensa quanto più si avvicinava alla fine del secolo e del millennio, con l'inevitabile carica apocalittica che i grandi eventi portano con loro. Sul bordo del XXI secolo e del terzo millennio dell'era cristiana il tema era ormai chiaro in tutta la sua importanza.

Non si trattava più soltanto dell'egemonia ma addirittura dell'avvenuto capovolgimento di dipendenza tra l'uomo e gli strumenti da lui creati: non erano più al suo servizio quegli strumenti, ma era l'uomo al servizio della "tecné", diventata ormai un'ideologia possessiva alla quale l'intero genere umano si era piegato e asservito.

Siamo ormai tutti "tecno-dipendenti" in ogni atto e momento della nostra vita e tutti in un modo o in un altro lavoriamo per accumulare nuovi saperi che accrescono il potere della tecnica a detrimento della nostra libertà.

* * *

Ricordo queste vicende perché da allora, nei pochi anni trascorsi, il tema non è più soltanto filosofico, religioso, scientifico, ma ha fatto irruzione anche nella politica. Come ha rilevato Aldo Schiavone pochi giorni fa su questo giornale, ha messo in discussione due momenti topici dell'esistenza di ciascun essere umano: il momento della nascita e quello della morte, la nostra entrata e la nostra uscita dal mondo.

I due eventi che dominano la nostra intera vita, l'alfa e l'omega delle nostre esistenze individuali, erano fino a poco fa al di fuori del nostro controllo. Ma ora non è più così poiché la tecnica se ne è impadronita: ha creato strumenti che consentono di determinare la nascita non solo secondo natura ma anche in laboratorio ed ha prolungato la vita anche oltre i limiti posti dalla natura.

Le religioni - e quella cattolica in particolare - hanno assunto un atteggiamento dogmatico e ideologico sul tema della vita, trasformandolo in una vera e propria ideologia. Per quanto riguarda la nascita la Chiesa ha rigorosamente vietato la contraccezione respingendo ogni strumento tecnico che potesse limitare le nascite; sul tema della morte al contrario la Chiesa difende il ricorso agli strumenti che la tecnica è in grado di fornire per prolungare artificialmente una pseudo-vita al di là dei limiti segnati dalla natura.

Questo duplice e contraddittorio atteggiamento che vieta la tecnica limitatrice di nascite non volute e invoca invece la tecnica capace di mantenere una vita artificiale, ha ideologizzato la discussione facendo irruzione nella politica, nei governi, nei parlamenti. Si è arrivati al punto di far votare dagli elettori e dai loro rappresentanti parlamentari questioni di estrema privatezza, con tutte le torsioni politiche ed etiche che queste intrusioni comportano nelle coscienze e nella libertà individuale. La privatezza della morte è diventata argomento pubblico non solo come indirizzo generale ma perfino nei casi specifici di questo e di quello. Di conseguenza, mettendo in discussione alcuni diritti fondamentali degli individui, anche la magistratura è stata chiamata in campo.

La discussione sui principi si è incattivita e imbarbarita. Attorno alle camere di rianimazione si svolgono polemiche interminabili; le Corti di giustizia emettono verdetti contrapposti e sentenze inaccettate. Nel caso attualmente aperto di Eluana Englaro le Camere sollevano addirittura conflitti di competenza tra potere legislativo e potere giudiziario. La Corte costituzionale è ora chiamata a sciogliere una questione a dir poco imponderabile, al solo dichiarato intento da parte della maggioranza di centrodestra di guadagnare qualche settimana o mese di tempo lasciando l'esistenza di una persona tecnicamente già morta da 16 anni, agganciata ad un tubo che le somministra sostanze capaci di ossigenarle il sangue, come si trattasse d'una pianta e non di una vita umana.

* * *

La vita e la morte sono argomenti non decidibili o almeno così dovrebbe essere. Esperienze che segnano il carattere e la coscienza di ciascuno. Il nostro destino. La nostra dignità. La nostra libertà.

Scendere da questo livello e discutere se abbia giudicato correttamente un Tribunale, una Procura, una Corte di cassazione; se una legge debba colmare il vuoto di legislazione e in che modo la sua precettistica debba essere formulata: tutto ciò immiserisce una questione che dovrebbe essere affidata alla volontà responsabile della persona interessata o ai suoi legali rappresentanti se l'interessato non è in condizione di intendere, di esprimersi, di volere.

Ma poiché questa è in una molteplicità dei casi lo stato di fatto, di esso bisognerà dunque discutere superando il disagio che ce ne deriva. Le domande che ci dobbiamo porre nel caso specifico di Eluana sono le seguenti: esiste una manifestazione chiara e recente di volontà dell'interessata? Se non esiste o è considerata remota ci sono persone validamente in grado di decidere per lei? Infine: su quali punti d'appoggio o principi si basa la sentenza della Suprema Corte che ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere le cure e determinare l'arresto del cuore, pulsante in un corpo che è in coma da 16 anni con encefalogramma piatto e una vita non umana ma vegetale?

* * *

Sappiamo che Eluana manifestò ripetutamente la sua volontà di non sopravvivere alla propria eventuale morte cerebrale. Lo fece ancor giovanissima, perfettamente sana e consapevole, in seguito alla traumatica esperienza di aver visto e assistito persona a lei cara che si trovava in condizioni di morte cerebrale cui per sua fortuna seguì di lì a poco quella cardiaca.

I fautori ad oltranza dell'ideologia della vita obiettano che quelle manifestazioni di volontà siano remote rispetto al momento in cui Eluana entrò in coma e quindi "scadute", prive di legittima volontà.

L'argomento a sostegno di questa tesi si appoggia alla considerazione che in una materia così delicata e privata si può cambiare parere fino ad un attimo prima dell'ultimo respiro. È vero, si può cambiare parere fino all'ultimo respiro se si è in condizioni di cambiar parere e di esprimerlo. Ma se si è già morti cerebralmente? L'espianto degli organi con i quali si salvano altre vite non avviene forse quando la morte cardiaca non è ancora avvenuta e gli organi sono ancora vitali se l'autorizzazione a disporne è già stata data e i se i parenti consentono?

Alla seconda domanda la risposta è netta: il padre e la famiglia di Eluana, che l'hanno assistita per sedici anni ed hanno raccolto una serie di evidenze cliniche sull'irreversibilità del suo stato, vogliono che la vita artificiale non prosegua e che cessi l'accanimento terapeutico. Esprimono in nome della propria figlia il rifiuto delle cure in atto; un rifiuto che è un diritto riconosciuto del malato o di chi lo rappresenta.

Infine la terza domanda: la validità della sentenza della Cassazione. La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare sul diritto dell'interessata o di chi la rappresenta di rifiutare le cure. Non ha neppure avuto bisogno di fondare la sentenza sulle manifestazioni di volontà di Eluana di molti anni fa. Ha accertato, la Suprema Corte, l'inesistenza di una legislazione in materia e si è quindi rifatta, come è suo dovere prescritto in Costituzione, al diritto del malato, anch'esso riconosciuto in Costituzione, di rifiutare le cure.

Sentenza ineccepibile: in assenza di norme e in presenza di diritti costituzionalmente garantiti la Corte giudica in base ai principi dell'ordinamento giudiziario che riconosce il dovere del giudice di tutelare i diritti dei cittadini.

* * *

Le Camere su istanza dei deputati e dei senatori di centrodestra, hanno voluto sollevare conflitto di competenza. Non spetta alla magistratura intervenire bensì al popolo sovrano e a chi lo rappresenta, di fornire una normativa che regoli la questione.

Nessuno nega che spetti al potere legislativo legiferare e non certo alla magistratura, ma qui siamo in una situazione in cui il potere legislativo non ha legiferato provocando un vuoto nel quale solo alla magistratura incombe il dovere di tutelare diritti riconosciuti in Costituzione.
Non esiste dunque conflitto tra i due poteri. Quello giudiziario è intervenuto in difesa d'un diritto in mancanza di legislazione. Quando quel vuoto sarà riempito la magistratura disporrà di una legge e dovrà applicarla sempre che essa non sia in contrasto con i principi costituzionali.
Vedremo comunque quale sarà la sentenza della Corte costituzionale investita del problema.

* * *

C'è stata polemica sul comportamento dei deputati e dei senatori del Partito democratico, che in entrambe le votazioni sul conflitto di competenza hanno preferito disertare l'aula anziché votare contro. Giustamente, a mio avviso, Miriam Mafai ha severamente criticato quella decisione. Penso tuttavia opportuno distinguere quanto è avvenuto alla Camera dei deputati da quanto è avvenuto in Senato.

Alla Camera, come poi al Senato, i rappresentanti del Pd hanno espresso la loro opposizione al conflitto di competenza sollevato dalla maggioranza e si sono poi assentati dall'aula per non provocare crisi di coscienza tra i deputati cattolici aderenti al Pd.

Al Senato invece è stato presentato un ordine del giorno proposto da Luigi Zanda che stabiliva l'impegno a discutere ed approvare la normativa sul testamento biologico entro l'anno in corso. L'ordine del giorno è stato votato anche dai senatori di centrodestra e appoggiato dal presidente del Senato. L'astensione ha avuto dunque una contropartita abbastanza forte.

Duole tuttavia registrare che una parte di parlamentari democratici e cattolici ha presentato un disegno di legge sul testamento biologico difforme in alcune parti sostanziali da un altro analogo documento di legge presentato dallo stesso Partito democratico.

È evidente che queste differenze dovranno essere sanate prima dell'inizio del dibattito parlamentare. Il Pd su un argomento di questa importanza non può che avere una sola voce, ispirata alla laicità dello Stato oltreché alla tutela dei diritti del malato.

Ci sono molti problemi davanti al Pd che dovranno esser chiariti entro il prossimo autunno, ma sarebbe grave se questo tema non fosse considerato tra quelli prioritari. Dall'incontro tra laici e cattolici democratici è nato il Pd. La laicità è stato fin dall'inizio considerato il valore fondante. Questa è la prima prova concreta per saggiare la validità dell'incontro tra quelle due culture. Se la prova fallisse le conseguenze metterebbero in discussione l'esistenza stessa del partito.

(3 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #77 inserito:: Agosto 11, 2008, 12:41:31 am »

POLITICA

E tutti sparavano sul quartier generale

di EUGENIO SCALFARI


TANTE cose che accadono tutte insieme e delle quali ci sfugge il senso. Tante casematte munite di potenti cannoni che sparano da parti diverse sul Quartier Generale. Ma esiste ancora un Quartier Generale? Tanta confusione sotto il cielo che segnala l'emergere d'una nuova storia. Oppure è la vecchia storia che sotto forme diverse si ripete con inevitabile monotonia? Il potere.

Quella che sta andando in scena a tutti i livelli è ancora una volta l'eterna vicenda del potere, quello mondiale e quelli locali, scontro di poteri vecchi e nuovi, terremoti improvvisi e scosse di assestamento. Aumentano dovunque le diseguaglianze. Tra ricchi e poveri, tra esclusi e inclusi, tra giovani e vecchi, tra istruiti e ignoranti, tra sani e malati, tra Nord e Sud e Est e Ovest, tra religioni e miscredenze, tra maschi e femmine, tra fanatici e tolleranti. Le popolazioni del pianeta hanno le convulsioni e non sappiamo se esse anticipano un generale declino o piuttosto una nuova aurora. Del resto non è la prima volta e il XX secolo è stato attraversato da fenomeni analoghi. Ma questo che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è amplificato dalla tecnologia. Avviene ed è percepito dai quattro angoli del mondo in tempo reale e questo fa la differenza.

* * *

I giochi olimpici si svolgono in un immenso paese dominato da un regime autocratico che si sta modernizzando con un tasso di crescita dell'8 per cento l'anno. Un miliardo e 300 milioni di anime delle quali almeno un terzo sono già incluse nella civiltà dei consumi mentre un altro terzo vi entrerà tempo una o due generazioni.

L'autocrazia spinge e regola il mercato. Pervasa dalla corruzione come tutte le autocrazie e come tutte le democrazie, l'austerità non alligna in nessun luogo dalla Grecia di Pericle alla Roma dei Cesari, dalla Compagnia delle Indie alle Corti del Rinascimento.
I giochi rappresentano uno scenario ideale per celebrare la lealtà sportiva e l'amicizia tra i popoli in un contesto di lotte sordide e corposi interessi. In piccolo ne vediamo la ripetizione domestica per quanto sta accadendo all'Expo milanese: Moratti, Tremonti, Formigoni, Ligresti e i leghisti del Dio Po. Spettacolo consueto, niente di nuovo.

Ma a Pechino la posta è immensamente più grande. Una grande potenza emergente si presenta ufficialmente al mondo gettando sul piatto della bilancia il peso della sua forza demografica, economica, politica, militare. La Cina si apre scaricando sul resto del mondo la sua domanda di petrolio, di materie prime, di manufatti, la nube tossica del suo inquinamento, il vincolo tra potere autocratico e sviluppo economico. Ancora una volta i contadini pagano il prezzo del risparmio forzato e dell'accumulazione del capitale. L'esercito di riserva fornisce il combustibile necessario a modernizzare il paese dei "mandarini" e del Celeste Impero.

* * *

Nelle stesse ore è scoppiata la guerra tra Russia e Georgia. Mentre scriviamo i bombardieri distruggono il porto principale della Georgia e sganciano razzi e bombe sulla regione. La posta apparente è l'Ossezia del Sud, un lembo di terra montuosa senza importanza geopolitica ed economica. Ma dietro un minuscolo problema di sovranità c'è l'aspirazione della Georgia ad entrare nella Nato e il desiderio dell'America di accoglierla mettendo un'ipoteca caucasica sul fianco della Russia. Il Caucaso è una terra di cerniera tra Occidente e Oriente, tra il Caspio e il Mar Nero. Lo fu per Alessandro il Grande, lo fu per i mongoli, lo è stato per l'impero inglese ed ora per gli Stati Uniti, ricco di petrolio e sede di transito dei grandi oleodotti che arrivano fino alla Mesopotamia e al Mediterraneo.

La Georgia è la chiave di quella zona del mondo. Il suo esempio di indipendenza può contagiarsi in vasti territori dell'Asia Centrale, le repubbliche islamiche che premono anch'esse per entrare nella galassia euro-americana fino all'Ucraina e alle terre cosacche.
Perciò la reazione russa sarà durissima come lo fu ai tempi di Shevardnadze, il grande comprimario della "perestrojka" ai tempi di Gorbaciov e poi dittatore della Georgia fino alla rivolta popolare che portò alla sua caduta.

Ma lo scossone georgiano sarà avvertito anche a migliaia di chilometri di lontananza. Avrà ripercussioni sulla lotta all'ultimo voto tra Barack Obama, e John McCain, tra i democratici buonisti e i repubblicani intransigenti e conservatori. Bush ha dato per primo il segnale e McCain l'ha seguito a minuti di distanza. Obama ci ha pensato tre ore per allinearsi ma la sua credibilità è scarsa su questo tema; le bombe dei bombardieri russi su Tbilisi spostano voti preziosi in Pennsylvania e in Texas, sulla costa occidentale e nelle grandi pianure dell'Ovest.

* * *

Accade intanto un fatto strano: il prezzo del petrolio diminuisce da due settimane dopo aver superato il traguardo dei 160 dollari al barile. Si pensava che la guerra nel Caucaso lo riportasse al rialzo e ce n'erano parecchi motivi, invece, quando già tuonavano i cannoni e si accatastavano centinaia di morti, il prezzo del greggio ha toccato il minimo di 115 dollari. Le scorte Usa sono in aumento. Contemporaneamente il dollaro si apprezza rispetto all'euro che da 1,60 è sceso in pochi giorni a 1,50.

Petrolio debole, dollaro più forte. Chi pensava che l'ascesa del greggio fosse frutto prevalentemente della speculazione e proponeva lotta ad oltranza per stroncarla si dovrà ora ricredere: la speculazione precede, come è suo utile compito, l'andamento reale delle curve di domanda e di offerta; quando la domanda supera un'offerta la speculazione gioca al rialzo ma quando si indebolisce gioca al ribasso.
Ora la domanda dei consumatori occidentali è in drastica riduzione, il prezzo era andato troppo in alto, i consumi in America e in Europa si sono contratti, la speculazione punta dunque al ribasso. Le proposte e la diagnosi di Tremonti erano sbagliate e non faranno passi avanti.

Il dollaro segue il petrolio: aumentano e diminuiscono insieme. Ma prima che questi movimenti si ripercuotano sui mercati locali passerà un tempo tecnico la cui durata dipende da vari fattori: la lunghezza dei circuiti distributivi, le loro malformazioni monopoloidi, la mancata liberalizzazione delle catene commerciali ed anche alcune imposte mal pensate. La Robin Tax su petrolio ed energia è una di quelle, dovrebbe dare un gettito di oltre 4 miliardi che in gran parte si trasferiranno sulle bollette dei consumatori, ma ne daranno assai di meno se il consumo diminuirà come sta avvenendo, con inevitabili ripercussioni sul gettito.

* * *

In realtà lo spettro della "stagflation" si aggira sull'Europa e sull'Italia in particolare che da due trimestri è a crescita zero. Se il terzo avrà lo stesso andamento o peggio, saremo per la prima volta dopo molti anni ufficialmente in recessione. I sindacati sono preoccupati, le industrie e il commercio sono preoccupati, Emma Marcegaglia è preoccupata e anche Tremonti lo è. Se cercate uno che non lo sia lo troverete facilmente nel "premier" Silvio Berlusconi che ringrazia la sua squadra di governo e ritiene che la legge finanziaria appena approvata sia la migliore del mondo, loda il suo superministro dell'Economia e promette che passata la buriana saremo più forti di prima.

"Più forti e più felici di pria". Ricordate il Nerone di Petrolini? "Grazie" gridava una voce dalla piazza. "Prego" rispondeva Nerone-Petrolini con la cetra in mano dagli spalti del Palatino. "Grazie" "prego", "prego", "grazie", "prego" in uno scambio sempre più rapido ed esilarante. Tito Boeri nel nostro giornale di ieri ha qualificato come pessima la Finanziaria di Tremonti. Non ripeterò se non per dire quanto sia falsa l'affermazione "non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, ma taglieremo le spese". Tagliare gli sprechi è un conto, tagliare 16 miliardi di spese è un conto diverso.

Quel taglio significa mettere le mani nelle tasche degli italiani; che altro avviene infatti quando si tagliano stipendi, contributi agli enti locali, minori posti letto e chiusura di ospedali, imposizione di ticket, peggioramento dei servizi? Crescita zero del reddito? Inflazione? Non è un altro modo di mettere le mani nelle tasche? Pensate che sia un modo indolore?
Se si tagliano così profondamente e indifferenziatamente le spese, bisogna compensarle in qualche modo. Bisogna scegliere chi si può penalizzare e chi no. Una cosa è certa: la tassa inflazione colpisce i redditi fissi cioè il lavoro. Qualcuno ci rimette, qualcuno ci guadagna, anche qui a livelli diversi si riproducono diseguaglianze e lotta per il potere. Nulla è neutrale e chi vuol darcela da bere è un emerito imbroglione.

Post Scriptum 1. Due giorni dopo l'entrata in scena dei militari nel sistema della sicurezza pubblica alcune villette di Sabaudia (chissà quante altre in tutta Italia) sono state depredate dai ladri. Tra di esse quella affittata da Veltroni in cui dormivano la moglie e la figlia. Ma dov'erano quella sera i lancieri di Montebello? Caro Walter non ti fidare: i ladri se ne fregano delle ronde interforze che magari arresteranno un marocchino in più ma non riusciranno ad ottenere un furto in meno. Meglio ingaggiare un vigilante privato. Costa, ma dà lavoro e protegge.

Post Scriptum 2. Sento dire che l'amico Giuliano Amato è amareggiato perché alcuni del Pd criticano la sua accettazione della presidenza di una Commissione voluta congiuntamente dalla Regione Lazio (centrosinistra) dalla Provincia di Roma (idem) e dal Comune capitolino (Alemanno). Amato ritiene che una Commissione bipartisan sia utile a svelenire gli animi e ad avviare un dialogo costruttivo tra le forze politiche, sia pure a livello locale, sulla linea anticipata dal Presidente Napolitano.

Personalmente credo che Amato abbia ragione ma qualche dubbio ce l'ho anch'io. Non sull'esistenza della Commissione e tanto meno sulla presidenza di Amato, ma sui compiti affidati a quell'organismo. Che deve fare? Si dice: studiare la nuova architettura istituzionale della Capitale. Ma ci vuole una Commissione per questo? Si scavalcano i Consigli comunali provinciali regionali? O se ne occupa una Commissione esterna o se ne occupano i Consigli, una delle due entità è uno spreco di troppo. Ma si dice anche che la Commissione dovrà fornire idee sul futuro della Città eterna. Che genere di idee? Coltivare il pistacchio nei prati dell'Eur sarebbe un'idea? Istituire un servizio di mongolfiere o di elicotteri tra l'aeroporto di Fiumicino e la terrazza del Pincio sarebbe un'idea?

Mi viene in mente una poesia satirica del Ragazzoni che aveva come suo principale hobby quello di scavare buchi nella sabbia. "Sento intorno sussurrarmi che ci sono altri mestieri / Bravi, a voi! scolpite marmi / combattete il beri-beri /coltivate ostriche a Chioggia / filugelli in Cadenabbia / fabbricate parapioggia / io fo buchi nella sabbia".

(10 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #78 inserito:: Agosto 11, 2008, 09:13:39 am »

POLITICA

E tutti sparavano sul quartier generale

di EUGENIO SCALFARI


TANTE cose che accadono tutte insieme e delle quali ci sfugge il senso. Tante casematte munite di potenti cannoni che sparano da parti diverse sul Quartier Generale. Ma esiste ancora un Quartier Generale? Tanta confusione sotto il cielo che segnala l'emergere d'una nuova storia. Oppure è la vecchia storia che sotto forme diverse si ripete con inevitabile monotonia? Il potere.

Quella che sta andando in scena a tutti i livelli è ancora una volta l'eterna vicenda del potere, quello mondiale e quelli locali, scontro di poteri vecchi e nuovi, terremoti improvvisi e scosse di assestamento. Aumentano dovunque le diseguaglianze. Tra ricchi e poveri, tra esclusi e inclusi, tra giovani e vecchi, tra istruiti e ignoranti, tra sani e malati, tra Nord e Sud e Est e Ovest, tra religioni e miscredenze, tra maschi e femmine, tra fanatici e tolleranti. Le popolazioni del pianeta hanno le convulsioni e non sappiamo se esse anticipano un generale declino o piuttosto una nuova aurora. Del resto non è la prima volta e il XX secolo è stato attraversato da fenomeni analoghi. Ma questo che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è amplificato dalla tecnologia. Avviene ed è percepito dai quattro angoli del mondo in tempo reale e questo fa la differenza.

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I giochi olimpici si svolgono in un immenso paese dominato da un regime autocratico che si sta modernizzando con un tasso di crescita dell'8 per cento l'anno. Un miliardo e 300 milioni di anime delle quali almeno un terzo sono già incluse nella civiltà dei consumi mentre un altro terzo vi entrerà tempo una o due generazioni.

L'autocrazia spinge e regola il mercato. Pervasa dalla corruzione come tutte le autocrazie e come tutte le democrazie, l'austerità non alligna in nessun luogo dalla Grecia di Pericle alla Roma dei Cesari, dalla Compagnia delle Indie alle Corti del Rinascimento.
I giochi rappresentano uno scenario ideale per celebrare la lealtà sportiva e l'amicizia tra i popoli in un contesto di lotte sordide e corposi interessi. In piccolo ne vediamo la ripetizione domestica per quanto sta accadendo all'Expo milanese: Moratti, Tremonti, Formigoni, Ligresti e i leghisti del Dio Po. Spettacolo consueto, niente di nuovo.

Ma a Pechino la posta è immensamente più grande. Una grande potenza emergente si presenta ufficialmente al mondo gettando sul piatto della bilancia il peso della sua forza demografica, economica, politica, militare. La Cina si apre scaricando sul resto del mondo la sua domanda di petrolio, di materie prime, di manufatti, la nube tossica del suo inquinamento, il vincolo tra potere autocratico e sviluppo economico. Ancora una volta i contadini pagano il prezzo del risparmio forzato e dell'accumulazione del capitale. L'esercito di riserva fornisce il combustibile necessario a modernizzare il paese dei "mandarini" e del Celeste Impero.

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Nelle stesse ore è scoppiata la guerra tra Russia e Georgia. Mentre scriviamo i bombardieri distruggono il porto principale della Georgia e sganciano razzi e bombe sulla regione. La posta apparente è l'Ossezia del Sud, un lembo di terra montuosa senza importanza geopolitica ed economica. Ma dietro un minuscolo problema di sovranità c'è l'aspirazione della Georgia ad entrare nella Nato e il desiderio dell'America di accoglierla mettendo un'ipoteca caucasica sul fianco della Russia. Il Caucaso è una terra di cerniera tra Occidente e Oriente, tra il Caspio e il Mar Nero. Lo fu per Alessandro il Grande, lo fu per i mongoli, lo è stato per l'impero inglese ed ora per gli Stati Uniti, ricco di petrolio e sede di transito dei grandi oleodotti che arrivano fino alla Mesopotamia e al Mediterraneo.

La Georgia è la chiave di quella zona del mondo. Il suo esempio di indipendenza può contagiarsi in vasti territori dell'Asia Centrale, le repubbliche islamiche che premono anch'esse per entrare nella galassia euro-americana fino all'Ucraina e alle terre cosacche.
Perciò la reazione russa sarà durissima come lo fu ai tempi di Shevardnadze, il grande comprimario della "perestrojka" ai tempi di Gorbaciov e poi dittatore della Georgia fino alla rivolta popolare che portò alla sua caduta.

Ma lo scossone georgiano sarà avvertito anche a migliaia di chilometri di lontananza. Avrà ripercussioni sulla lotta all'ultimo voto tra Barack Obama, e John McCain, tra i democratici buonisti e i repubblicani intransigenti e conservatori. Bush ha dato per primo il segnale e McCain l'ha seguito a minuti di distanza. Obama ci ha pensato tre ore per allinearsi ma la sua credibilità è scarsa su questo tema; le bombe dei bombardieri russi su Tbilisi spostano voti preziosi in Pennsylvania e in Texas, sulla costa occidentale e nelle grandi pianure dell'Ovest.

* * *

Accade intanto un fatto strano: il prezzo del petrolio diminuisce da due settimane dopo aver superato il traguardo dei 160 dollari al barile. Si pensava che la guerra nel Caucaso lo riportasse al rialzo e ce n'erano parecchi motivi, invece, quando già tuonavano i cannoni e si accatastavano centinaia di morti, il prezzo del greggio ha toccato il minimo di 115 dollari. Le scorte Usa sono in aumento. Contemporaneamente il dollaro si apprezza rispetto all'euro che da 1,60 è sceso in pochi giorni a 1,50.

Petrolio debole, dollaro più forte. Chi pensava che l'ascesa del greggio fosse frutto prevalentemente della speculazione e proponeva lotta ad oltranza per stroncarla si dovrà ora ricredere: la speculazione precede, come è suo utile compito, l'andamento reale delle curve di domanda e di offerta; quando la domanda supera un'offerta la speculazione gioca al rialzo ma quando si indebolisce gioca al ribasso.
Ora la domanda dei consumatori occidentali è in drastica riduzione, il prezzo era andato troppo in alto, i consumi in America e in Europa si sono contratti, la speculazione punta dunque al ribasso. Le proposte e la diagnosi di Tremonti erano sbagliate e non faranno passi avanti.

Il dollaro segue il petrolio: aumentano e diminuiscono insieme. Ma prima che questi movimenti si ripercuotano sui mercati locali passerà un tempo tecnico la cui durata dipende da vari fattori: la lunghezza dei circuiti distributivi, le loro malformazioni monopoloidi, la mancata liberalizzazione delle catene commerciali ed anche alcune imposte mal pensate. La Robin Tax su petrolio ed energia è una di quelle, dovrebbe dare un gettito di oltre 4 miliardi che in gran parte si trasferiranno sulle bollette dei consumatori, ma ne daranno assai di meno se il consumo diminuirà come sta avvenendo, con inevitabili ripercussioni sul gettito.

* * *

In realtà lo spettro della "stagflation" si aggira sull'Europa e sull'Italia in particolare che da due trimestri è a crescita zero. Se il terzo avrà lo stesso andamento o peggio, saremo per la prima volta dopo molti anni ufficialmente in recessione. I sindacati sono preoccupati, le industrie e il commercio sono preoccupati, Emma Marcegaglia è preoccupata e anche Tremonti lo è. Se cercate uno che non lo sia lo troverete facilmente nel "premier" Silvio Berlusconi che ringrazia la sua squadra di governo e ritiene che la legge finanziaria appena approvata sia la migliore del mondo, loda il suo superministro dell'Economia e promette che passata la buriana saremo più forti di prima.

"Più forti e più felici di pria". Ricordate il Nerone di Petrolini? "Grazie" gridava una voce dalla piazza. "Prego" rispondeva Nerone-Petrolini con la cetra in mano dagli spalti del Palatino. "Grazie" "prego", "prego", "grazie", "prego" in uno scambio sempre più rapido ed esilarante. Tito Boeri nel nostro giornale di ieri ha qualificato come pessima la Finanziaria di Tremonti. Non ripeterò se non per dire quanto sia falsa l'affermazione "non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, ma taglieremo le spese". Tagliare gli sprechi è un conto, tagliare 16 miliardi di spese è un conto diverso.

Quel taglio significa mettere le mani nelle tasche degli italiani; che altro avviene infatti quando si tagliano stipendi, contributi agli enti locali, minori posti letto e chiusura di ospedali, imposizione di ticket, peggioramento dei servizi? Crescita zero del reddito? Inflazione? Non è un altro modo di mettere le mani nelle tasche? Pensate che sia un modo indolore?
Se si tagliano così profondamente e indifferenziatamente le spese, bisogna compensarle in qualche modo. Bisogna scegliere chi si può penalizzare e chi no. Una cosa è certa: la tassa inflazione colpisce i redditi fissi cioè il lavoro. Qualcuno ci rimette, qualcuno ci guadagna, anche qui a livelli diversi si riproducono diseguaglianze e lotta per il potere. Nulla è neutrale e chi vuol darcela da bere è un emerito imbroglione.

Post Scriptum 1. Due giorni dopo l'entrata in scena dei militari nel sistema della sicurezza pubblica alcune villette di Sabaudia (chissà quante altre in tutta Italia) sono state depredate dai ladri. Tra di esse quella affittata da Veltroni in cui dormivano la moglie e la figlia. Ma dov'erano quella sera i lancieri di Montebello? Caro Walter non ti fidare: i ladri se ne fregano delle ronde interforze che magari arresteranno un marocchino in più ma non riusciranno ad ottenere un furto in meno. Meglio ingaggiare un vigilante privato. Costa, ma dà lavoro e protegge.

Post Scriptum 2. Sento dire che l'amico Giuliano Amato è amareggiato perché alcuni del Pd criticano la sua accettazione della presidenza di una Commissione voluta congiuntamente dalla Regione Lazio (centrosinistra) dalla Provincia di Roma (idem) e dal Comune capitolino (Alemanno). Amato ritiene che una Commissione bipartisan sia utile a svelenire gli animi e ad avviare un dialogo costruttivo tra le forze politiche, sia pure a livello locale, sulla linea anticipata dal Presidente Napolitano.

Personalmente credo che Amato abbia ragione ma qualche dubbio ce l'ho anch'io. Non sull'esistenza della Commissione e tanto meno sulla presidenza di Amato, ma sui compiti affidati a quell'organismo. Che deve fare? Si dice: studiare la nuova architettura istituzionale della Capitale. Ma ci vuole una Commissione per questo? Si scavalcano i Consigli comunali provinciali regionali? O se ne occupa una Commissione esterna o se ne occupano i Consigli, una delle due entità è uno spreco di troppo. Ma si dice anche che la Commissione dovrà fornire idee sul futuro della Città eterna. Che genere di idee? Coltivare il pistacchio nei prati dell'Eur sarebbe un'idea? Istituire un servizio di mongolfiere o di elicotteri tra l'aeroporto di Fiumicino e la terrazza del Pincio sarebbe un'idea?

Mi viene in mente una poesia satirica del Ragazzoni che aveva come suo principale hobby quello di scavare buchi nella sabbia. "Sento intorno sussurrarmi che ci sono altri mestieri / Bravi, a voi! scolpite marmi / combattete il beri-beri /coltivate ostriche a Chioggia / filugelli in Cadenabbia / fabbricate parapioggia / io fo buchi nella sabbia".

(10 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #79 inserito:: Agosto 14, 2008, 05:25:41 pm »

Eugenio Scalfari


Arrivano i nostri


Da quando i creativi di destra hanno ripreso il potere, abbiamo assistito a molte delle loro invenzioni. La più grottesca è quella di inserire i militari nel piano di sicurezza  Ignazio La RussaBerlusconi è creativo. Tremonti è creativo. A modo suo anche Ignazio La Russa è creativo. Diciamo che il centrodestra nel suo complesso è creativo. Forse questa capacità e questa vocazione sono state sottovalutate dalla sinistra.

Gli italiani sono quasi tutti creativi. Bisognerebbe a questo punto definire che cosa si intende per creativo. È una qualità molto individuale, anzi individualistica. I creativi amano molto poco le convenzioni e ancora meno le regole. Esser creativo ti porta inevitabilmente a rompere sia le une che le altre. I creativi non amano l'autorità costituita, non amano lo Stato. Hanno venature di anarchismo. Voglia di fare da sé. Tendenza a delegare ad altri l'onere di amministrare una convivenza sociale della quale i creativi fruiscono a patto di non doversene prender cura. Prezzolini diceva che governare gli italiani non è impossibile, ma è inutile. Mussolini prese in prestito questa battuta e molti altri, anche ora, la ripetono. Perfino Andreotti l'ha fatta propria più di una volta.

In questi ultimi mesi, da quando i creativi di destra hanno di nuovo preso il potere, abbiamo assistito a molte delle loro 'invenzioni', alcune accettabili, altre al limite del grottesco. Ma secondo me la più geniale di tutte è stata quella di inserire un contingente di militari nel piano di sicurezza fortemente voluto dal centrodestra, dai suoi elettori e anche da una larga parte dell'opposizione.

'Arriva l'esercito!' questa frase, sparata dai media, è passata di bocca in bocca tra la fine di luglio e il 4 agosto, giorno in cui i 3 mila uomini del contingente militare sono entrati in campo con le modalità previste dal famoso decreto ormai diventato legge dello Stato.

Arriva l'esercito, come 'arrivano i nostri' cari ai ragazzini della mia generazione quando, nei primi western della storia del cinema i cavalleggeri arrivavano a gran galoppo in soccorso di una piccola pattuglia di cow-boys che stava per arrendersi di fronte ad una marea di indiani. Quando noi ragazzotti di otto-dieci anni seguivamo quelle scene col fiato in gola, lo squillo della tromba che suonava la carica scatenava l'entusiasmo della platea infantile. Battevamo le mani e i piedi gridando 'arrivano i nostri' e le sorti di quella storia si capovolgevano.


Berlusconi è creativo e di scienza delle comunicazioni se ne intende come pochi. Secondo me dovrebbe ricevere, lui sì, una laurea honoris causa in quella disciplina da parte di tutte le Università italiane. L'arrivo dell'esercito è stato il suo capolavoro, condiviso da La Russa. Fiorello, che anche lui se ne intende, ne dovrebbe prender nota per perfezionare le sue imitazioni.

Dico questo perché, esaminata a tavolino, la norma che inserisce un contingente militare nel sistema della Pubblica sicurezza è assolutamente priva di senso. Si tratta di 3 mila soldati e ufficiali scelti tra paracadutisti, alpini, granatieri e lancieri di Montebello. La regola di ingaggio ne prevede compiti di presidio a pubblici edifici e a zone sensibili (per esempio le discariche dei rifiuti), ma anche compiti di pattugliamento in formazione interforze, insieme a carabinieri, polizia e Guardia di Finanza. Ai pattugliamenti sono adibiti 500 militari, vale a dire solo un sesto del contingente.

In che modo un contributo così minuscolo possa rafforzare il sistema della sicurezza pubblica resta un misero. Sommando carabinieri, polizia di Stato e Guardia di Finanza si arriva a un totale di 300 mila uomini. Anche defalcando quelli di loro adibiti a compiti amministrativi ne restano a dir poco 200 mila destinati a investigare, prevenire e reprimere sul campo i colpevoli di reati. I 3 mila militari del contingente sicurezza rappresentano dunque l'1,5 per cento del totale delle forze di Ps; i 500 uomini adibiti ai pattugliamenti ne costituiscono una frazione infinitesimale. Eppure... 'arrivano i nostri'.

Un mio amico siciliano d'un piccolo paese della campagna agrigentina dove ancora risiede sua madre ottantenne, mi ha raccontato un suo colloquio telefonico con la mamma. "Era più tranquilla, mi ha detto, perché stavano per arrivare i militari. Quali militari?, gli ho chiesto. I soldati, quelli dell'esercito. Ma chi te l'ha detto? La televisione. Ma non arriveranno mai nel nostro paese. Invece sì, la televisione l'ha detto. E perché sei più tranquilla? Perché cacceranno gli zingari che rubano i soldi e anche i bambini. Ma non ci sono mai stati zingari da noi. No, ma sono pericolosi e rubano tutto. Mamma, hai mai visto uno zingaro nella tua vita? No, però la televisione dice che sono pericolosi, ma adesso che arrivano i militari mi sento rassicurata. Da noi però c'è la mafia, le ho detto io. Sì, mi ha risposto, ma quelli li conosciamo, sono del paese".

Questa è la stata la telefonata del mio amico con sua madre. Io propongo per Berlusconi e per La Russa un 'master' in creatività, magari rilasciato dai Lincei o dall'Accademia di San Luca. Se lo meritano tutto.
(14 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #80 inserito:: Agosto 18, 2008, 04:24:06 pm »

POLITICA

L'opinione pubblica è rimasta senza voce

di EUGENIO SCALFARI


DAL FESTIVAL cinematografico di Locarno dove si trovava, Nanni Moretti qualche giorno fa ha lanciato una provocazione politica. "In Italia - ha detto - l'opposizione non esiste più ma c'è un altro fenomeno ancora peggiore: non c'è più un'opinione pubblica. Il dominio di Berlusconi sulle reti televisive ha spostato e devastato il modo di pensare degli italiani".

Moretti non è il solo ad essere arrivato a questa conclusione; l'autore del "Caimano" ha però il pregio di non esser mosso da alcun interesse né ideologico né pratico; esprime icasticamente un modo di pensare e di constatare che in parte anch'io condivido ma che merita comunque alcune precisazioni. Soprattutto per quel che riguarda la pubblica opinione. Il tema è di grande importanza, specialmente nei Paesi democratici. In essi infatti l'opinione pubblica costituisce la sostanza vitale sulla quale la democrazia imprime la propria forma.

Anche nei Paesi governati da sistemi autoritari o, peggio, totalitari l'opinione pubblica rappresenta un elemento essenziale cui il potere dedica specialissime cure. Il fine di questi regimi consiste nella sistematica manipolazione delle coscienze affinché siano persuase ad una credenza conforme. Una variante (non necessariamente alternativa) è quella di smantellare ogni tipo di opinione facendo rifluire l'attenzione dei cittadini sui loro interessi privati. Questo processo, se portato alle sue conseguenze ultime, conduce alla desertificazione dell'opinione pubblica. Mi sembra che l'autore del "Caimano" pensi e tema soprattutto questa variante: il dominio delle opinioni private al posto dell'opinione pubblica, alle mire del regime dominante.

Altre volte ho scritto che lo specchio in cui si rifletteva l'immagine che i cittadini avevano del loro Paese si è rotto in tanti frammenti i quali riflettono soltanto la figura e gli interessi frammentati di chi vi si specchia. Tante opinioni private senza più una visione del bene comune: questo è il prodotto del berlusconismo, agevolato e amplificato dal controllo dei "media". Ad esso l'opposizione non ha saputo rispondere: nonostante le intenzioni di seguire una strada opposta ha subito l'egemonia berlusconiana e si è sintonizzata sulla stessa lunghezza d'onda, convinta di poter diffondere messaggi diversi. Allo stato dei fatti l'esito di questo scontro ha dato un solo vincitore e parecchi sconfitti.

Tuttavia l'esito non è definitivo e non tutte le opinioni sono state ridotte alla sola dimensione privata. Ci sono ancora gruppi consistenti di cittadini che coltivano una visione del bene comune, che sentono il bisogno impellente di pensare in termini di bene comune senza contrabbandare dietro queste due parole i loro privatissimi egoismi e le loro personali egolatrie.

Esiste per esempio un'opinione pubblica "berlusconista". Coltivata, amplificata, puntellata con mezzi imponenti, ma di cui sarebbe un madornale errore negare l'esistenza. Sicurezza, tolleranza zero, intransigenza identitaria, fiducia nel leader anche a costo di veder sacrificati alcuni privati interessi. Un'opinione pubblica così conformata costituisce la base di consenso che accomuna le spinte identitarie berlusconiste e leghiste. Caro Moretti, quest'opinione pubblica c'è; anche se da quello specchio emerge una figura che a te ed a me risulta ripugnante, è tuttavia con essa che si debbono fare i conti.

C'è un altro specchio e un'altra opinione pubblica di diversa natura; è quella di cui parla Giuseppe De Rita quando delinea una strategia cattolica fondata sulle comunità locali, sul volontariato, sul doppio pedale del "sacro" e del "santo", cioè della fede e delle opere.
Questa visione del bene comune indubbiamente esiste ma non si identifica né con il Vaticano né con la Conferenza episcopale. Sono piuttosto i cattolici degli oratori, delle case religiose, delle comunità di dimensioni nazionali, di alcuni Ordini religiosi.

Il sacro e il santo. Riesce molto difficile dare una figura politica a questo tipo di opinione pubblica, ma senza una figura politica non esiste una visione di bene comune perché non esiste una "polis", una città terrena dove applicarla. Il sacro non è infatti di questo mondo. Quanto al santo, cioè alle opere, esse costituiscono un'importante presenza testimoniale e missionaria, una rete flessibile come tutte le reti e quindi disponibile ad essere utilizzata da forze esterne. Dietro il santo c'è molto spesso un vitello d'oro da adorare invece del poverello di Assisi e ne abbiamo tutti i giorni la prova.

Esiste anche, da almeno due secoli, ed opera attivamente in tutte le democrazie occidentali un'altra opinione pubblica con caratteristiche sue proprie ed è quella espressa dalla "business community". Possiede potenti strumenti di formazione e di diffusione ed ha una sua precisa visione del bene comune: libertà di mercato, regole blande, considerazione degli interessi costituiti, Stato efficiente e leggero. Insomma il capitalismo, che può assumere di volta in volta forme molto diverse tra loro, dal liberismo al protezionismo, dall'alleanza con la democrazia a quella con la "governance" autoritaria.

Oggi questa opinione pubblica è tendenzialmente orientata verso la versione berlusconista della democrazia, con simpatie leghiste diffuse soprattutto nel Nord-Nordest, ma la "business community" fa comunque parte a sé, ha il suo metro di giudizio, i suoi valori e la sua moralità che si realizza nel profitto d'impresa, "variabile indipendente" alla quale tutte le altre a cominciare dal lavoro debbono conformarsi.

Infine esiste (stavo per scrivere esiste ancora) un'opinione pubblica di centro e di sinistra riformista, progressista, laica. La sconfitta elettorale di un anno fa sembra averla ridotta ad uno stato larvale; non riesce ad esprimere un pensiero unitario e un'egemonia culturale, percorsa da convinzioni forti ma contrastanti: tolleranza, solidarietà, legalità, federalismo, centralismo, pacifismo, sicurezza, diritti, doveri, gregarismo, moderazione, massimalismo. Spore del possibile avrebbe detto Montale. Belle persone e volti consumati. Lotte per conquistare un potere inesistente e futuribile. Trasformismi sottotraccia e idealismi generosi.

Quest'opinione pubblica avrebbe bisogno d'una voce che la rappresenti e di una forma che la riporti in battaglia. E ancora una volta dico: d'uno specchio in cui possa guardarsi e rassicurarsi del proprio esistere.
Alle primarie dello scorso ottobre questa forma sembrò realizzarsi. Sono passati dieci mesi da allora e sembra un tempo lontanissimo. Può tornare soltanto se ricreato da un atto di volontà collettiva. Le scorciatoie individuali non servono a nulla, nascondono piccole vanità e mediocri trasformismi.

Serve una volontà di massa per risollevare un Paese sdrucito e frastornato. Si può fare? Fino a poco tempo fa pensavo di sì, ma i giorni passano in fretta e non inducono a pensare positivo. Le spinte centrifughe aumentano e il "si salvi chi può" rischia di diventare un sentimento diffuso. Se volete dare un segnale di riscossa dovete alzarvi e camminare. Altrimenti attaccate la bicicletta al chiodo e non pensateci più. Toccherà pensarci ai vostri nipoti se ne avrete.

Post scriptum. Tre giorni fa l'ufficio statistico europeo Eurostat ha diffuso le cifre ufficiali concernenti il Pil di Eurolandia. Per la prima volta dalla nascita della moneta unica il Pil del secondo semestre di quest'anno arretra dello 0.2 per cento. Non vuol dire ancora recessione ma poco ci manca.

L'inflazione dal canto suo è ferma al 4 per cento, ma molti segnali registrano un'inversione di tendenza: petrolio, materie prime, prodotti ferrosi, derrate alimentari denunciano consistenti ribassi sui mercati internazionali anche se su molti mercati locali questi ribassi ancora non arrivano, ostacolati dalla lentezza dei circuiti distributivi e dalla presenza di monopoli e cartelli.

Fermo restando che l'andamento dell'inflazione dev'essere continuamente controllato, il pericolo incombente riguarda - ormai risulta in modo evidente - una drastica caduta della domanda di consumi e di investimenti con il cupo corteggio di disoccupazione e di ulteriore arretramento del reddito nazionale e individuale.

Da questo punto di vista l'intera impostazione della manovra finanziaria risulta a dir poco fuori tempo. La compressione triennale della spesa per un totale di 36 miliardi dei quali 16 già nel primo esercizio, a parità di pressione fiscale, configura una strategia insensata. Se è vero che la crisi attuale ricorda per gravità e dimensioni gli eventi del triennio 1929-1932, è altrettanto vero che le misure finanziarie fin qui attuate ricordano quelle che in Usa furono prese dalla presidenza repubblicana precedente all'avvento di Franklin D. Roosevelt. Misure sciagurate, che aggravarono ulteriormente la crisi e rallentarono gli effetti del rilancio rooseveltiano sulla domanda di consumi e di investimenti.

In queste condizioni, quali che siano le opinioni di Tremonti e di Calderoli, parlare di federalismo fiscale è pura accademia e fumo negli occhi per distogliere l'attenzione da questioni assai più cogenti. Una trasformazione radicale del sistema tributario e dei poteri amministrativi effettuati in tempi di recessione e di deflazione è inattuabile poiché comporta gravissimi rischi. Come se, in tempi di tempesta, il timone della nave fosse affidato a venti timonieri anziché ad uno. Basta enunciare un'ipotesi del genere per esserne terrorizzati.

(17 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #81 inserito:: Agosto 24, 2008, 06:28:32 pm »

L'EDITORIALE

Il rischio federalista nel Paese spezzato

di EUGENIO SCALFARI



DEDICO queste note di oggi al federalismo, fiscale e costituzionale e cioè all'attribuzione di competenze allo Stato, alle Regioni, alle Province, ai Comuni e alle risorse necessarie per farvi fronte. Ancora si sa molto poco delle proposte leghiste e quel poco è molto contraddittorio. Perciò cercherò soprattutto di individuare i vari problemi che il federalismo dovrebbe risolvere e quelli ancora più numerosi che esso solleverà nella società e nell'amministrazione.

Ma prima c'è un altro tema da affrontare, del quale mi sono già occupato domenica scorsa e cioè lo stato dell'opinione pubblica in Italia. Il tema ha suscitato numerosi interventi e anche qualche fraintendimento come sempre accade quando il dibattito si fa vivace e denso di interessi anche politici. Del resto non si tratta di un argomento peregrino rispetto a quello del federalismo; le autonomie del territorio, l'identità nazionale e quelle locali, le loro reciproche compatibilità e idiosincrasie affondano infatti le radici nelle opinioni che le sostengono. L'opinione pubblica è come l'atmosfera: impalpabile, pura o inquinata, strutturata nelle sue componenti chimiche ma al tempo stesso volatile sotto la sferza di venti improvvisi.

Un federalismo che non fosse appoggiato dall'opinione pubblica nazionale sarebbe morto; d'altra parte una nazione che non si riconosca come tale è destinata a sfasciarsi. Per questi motivi il dibattito sull'attuale consistenza delle opinioni costituisce una sorta di pre-condizione al riassetto delle istituzioni, centrali e locali. Ho scritto domenica scorsa che esistono nella nostra società diverse opinioni: una berlusconista, una riformista e laica, una cattolica, una ispirata alle imprese e ai valori economici. Aggiungo che vi è anche un'opinione nordista molto forte. Ma l'aspetto più inquietante non sta nel fatto che queste diverse opinioni forniscano l'immagine di una società divisa in tanti spezzoni discordanti tra loro. La differenza è un fatto normale in una società democratica anzi addirittura positivo.

L'aspetto inquietante consiste invece nel degrado dell'opinione pubblica in una miriade di opinioni private, di gruppo e di corporazione, di territori e di individui. Lo specchio rotto riflette in ogni suo frammento una figura e un interesse particolare. La visione del bene comune in queste condizioni diventa spesso ipocrisia. Si pensa e si agisce per sé e per la propria confraternita. I valori degradano a convenienze personali e corporative. Questa che per me rappresenta la devastazione e la desertificazione di ogni opinione pubblica costituisce il brodo di coltura del populismo, della democrazia plebiscitaria e autoritaria, della delega in bianco. Nadia Urbinati l'ha chiamata "dissenso docile" e quindi indebolimento dell'opposizione. È un modo efficace per descrivere un processo. Ma Aldo Schiavone, che pure concorda sull'immagine dello specchio rotto e del privatizzarsi delle opinioni, vede in quest'ultimo fenomeno alcuni aspetti positivi. Ci vede un modo per resistere all'apatia, alla pigrizia sociale e ci vede una capacità di farsi largo e un modo per restare in gara nell'economia globale.

Non sono d'accordo su questo giudizio consolatorio in mancanza di meglio. Per tre ragioni: la prima è che lo smarrimento dell'interesse generale e la privatizzazione degli interessi favoriscono il dominio dei forti sui deboli e l'attuarsi di intollerabili dislivelli e odiose diseguaglianze sociali. La seconda è la scomparsa della politica come attività regolatrice della convivenza e la sua degradazione a pura funzione di sostegno degli interessi forti. Basta leggere su "Repubblica" di venerdì l'intervento di Federica Guidi, presidente dei giovani industriali di Confindustria, per avere l'immagine di un'ideologia economicista che vede la politica come il "comitato d'affari" del potere economico del quale parlavano i marxisti del secolo scorso, rinverdito nell'epoca della globalizzazione.

Ma la terza ragione a me sembra ancora più dirimente delle prime due: la privatizzazione delle opinioni non è un fenomeno recente ed effimero, ma una costante della storia d'Italia. Una costante nefasta ma per fortuna combattuta da uno spirito pubblico che non si rassegna alla polverizzazione familistica e corporativa e si pone valori collettivi. Valori di colore diverso uno dall'altro ma vissuti come tali e quindi politici.

Lo scontro tra l'Italia "che si arrangia" e l'Italia "che si impegna" non è altro che la storia di questo Paese dall'epoca delle "Signorie" fino ad oggi. In questo scontro l'Italia "che si arrangia" ha avuto la meglio molto più spesso dell'Italia "che si impegna". Quando parlo di impegno sono ben consapevole che questa parola va al di là degli steccati tra destra e sinistra. L'Italia che si arrangia ha vinto tutte le volte che i detentori del potere hanno dato, essi per primi, l'esempio di privatizzare l'interesse pubblico e questo esempio è stato così frequente e così devastante da configurare il nostro Paese con le maschere della commedia dialettale. L'italiano è anarchico, furbo, debole e servile con i potenti, crudele e arrogante con i più deboli. Questa è l'immagine: convenzionale perché reale.

Ad essa si oppongono gli italiani consapevoli delle proprie responsabilità collettive. Anch'essi sono portatori di interessi, non hanno certo natura angelica né eroica. Il loro impegno consiste nel sublimare gli interessi a valori collettivi, impersonati da soggetti collettivi, ricostruendo uno specchio nel quale la società possa riflettersi insieme al proprio passato e alla progettazione del proprio futuro.

Ho colto durante questo dibattito molte voci che rivalutano il presente, la necessità di agire sul presente e nel presente, ma questa è una tautologia perché si opera sempre e comunque nel presente; ma il futuro comincia già un attimo dopo. Chi opera e vive attimo per attimo è una barca senza timone e senza nocchiero, a cominciare dall'imprenditore che vuole realizzare valore (cioè profitti) subito. Quando questo accade la finanza soverchia l'industria e i risultati negativi si vedono. L'investimento imprenditoriale segue una sua strategia e comporta tempi tecnici per attuarla nonché i rischi che ne derivano. Si opera dunque nel presente avendo l'occhio al futuro e la memoria delle origini dalle quali si proviene. Diceva Dante: "Tu sè manto che tosto raccorce / sì che se non s'appon di die in die / lo tempo va dintorno con le force". Parla della vita e della sua nobiltà. Troppo spesso lo dimentichiamo.

Il federalismo è senza dubbio entrato nel sentimento degli italiani in questa fase della nostra vita pubblica, con un'intensità inversamente proporzionale all'attenuarsi del sentimento nazionale e di quello europeista. L'identità localistica, regionale e comunale, ha un netto sopravvento non tanto sulla nazione intesa come patria quanto sullo Stato.

Lo Stato non ha mai goduto d'un grande favore in Italia. Oggi è addirittura detestato dalla maggioranza dei nostri concittadini. Deve essere leggero. Funzionale. Assolutamente privo di etica, cioè non portatore di visioni etiche. L'etica ce la mette semmai la Chiesa. Ma quella della Chiesa è un'etica tradizionale e solidaristica. I suoi pilastri sono la famiglia e la carità, cioè l'amore del prossimo, pilastri che non combaciano con l'identità localistica. Non a caso il popolo leghista è assai poco cattolico, almeno nel senso della solidarietà ecumenica.

Il rischio del federalismo dal punto di vista dei sentimenti è quello di accrescere la separatezza localistica non soltanto tra Nord e Sud ma anche tra Piemonte e Lombardia, Lombardia e Veneto, Puglia e Marche, Lazio e Campania e addirittura tra Padova e Verona, tra Roma e Milano, tra Brescia e Bergamo, tra Parma e Bologna, tra Catania e Palermo.

La Lega infatti è preoccupata da questi contrasti e farà quanto può per superarli o almeno non aggravarli dal punto di vista fiscale. Calderoli nella sua inedita versione di statista ha già fatto il giro delle sette chiese per realizzare un ecumenismo federalista perché alla Lega interessa portare a casa entro la fine dell'anno la legge delega. Rinviare oltre quella data non si può perché la macchina federalista è stata ormai lanciata a pieno motore e fermarla adesso equivarrebbe ad una catastrofe politica.

Gli obiettivi della Lega sono almeno tre: diminuire la distanza tra cittadini e istituzioni, trattenere "in loco" il maggior numero di entrate fiscali, acquistare sovranità locali sul maggior numero di materie. Per rendere accettabili in tutto il Paese queste finalità sentite prevalentemente nel Nord, la Lega ha capito che occorre "vestire" di valori questi interessi e quindi confezionare un'immagine che sia attraente per tutti. L'immagine è quella di un federalismo che avrà come risultato finale la diminuzione del dislivello tra Sud e Nord perché l'autonomia consentirà al Sud di accrescere i suoi redditi; il livello delle imposte diminuirà (in futuro), le amministrazioni locali saranno più snelle e più efficienti, alle regioni di più bassa capacità d'investimento sarà accordato il potere di adottare una fiscalità di vantaggio del tipo di quella irlandese; sarà istituito un fondo nazionale di perequazione alimentato da contributi delle regioni più ricche e dello Stato per sostenere il periodo transitorio di adeguamento delle più povere al livello standard dei servizi pubblici.

Le materie interamente affidate alle Regioni e ai Comuni saranno la sanità (già lo è in gran parte), l'istruzione, l'assistenza, la disciplina degli immigrati con i nuovi poteri affidati ai sindaci.
Mancano al momento indicazioni sugli strumenti fiscali da affidare alle istituzioni locali. Si parla di Iva, ma c'è uno ostacolo europeo; si parla di addizionali Irpef e addirittura dell'Irpef tutta intera. Si parla di accise (benzina e tasse di fabbricazione sui raffinati). Si parla anche di Irpeg e comunque di imposte sulle produzioni svolte sul territorio. L'esempio più eloquente sarebbe di tenere a Melfi l'incasso sul valore delle auto Fiat prodotte in quello stabilimento e a Termini Imerese quello sulle produzioni della fabbrica Fiat lì operante. Scomporre e ricomporre. Una rivoluzione imponente. Forse spostando dalle imposte dirette a quelle indirette il maggior peso del carico tributario con tutto ciò che ne deriva sui singoli contribuenti.

Bisognerebbe anche diminuire i trasferimenti dello Stato alle Regioni a statuto speciale, ma su questo punto si profila un contrasto radicale tra le cinque Regioni in questione e tutte le altre.
Si può mettere in carta e votare in Parlamento una legge delega di queste proporzioni tra l'ottobre e il dicembre prossimo? Senza correre il rischio di varare un aborto informe se non addirittura un mostro legislativo? Per di più in tempi di recessione e di estrema preoccupazione del gettito tributario? Scomporre o produrre solo caos?

Sui costi effettivi di questa mastodontica operazione non si ha alcuna notizia. Lo statista Calderoli ritiene che avverrà a costo zero ma un calcolo accertato e certificato non c'è. Tremonti ha addirittura dichiarato che la messa in pista del federalismo fiscale fornirà risorse aggiuntive, ma non ha precisato se questa sua previsione si riferisca alle spese della pubblica amministrazione nel suo complesso o soltanto a quelle dell'amministrazione centrale: dettaglio tutt'altro che marginale.

Ma c'è un altro aspetto del quale si parla poco o nulla: il diritto dei cittadini ad avere prestazioni eguali dai principali servizi pubblici, senza discriminazioni tra chi vive in Calabria o in Veneto, in Emilia o in Campania, nel Molise o in Sardegna, in Lombardia o nelle Marche. Quest'aspetto della questione spetta allo Stato di garantirlo. Se così non fosse l'intera costruzione federalista si sfascerebbe come un castello di sabbia.

Post Scriptum 1. Il governatore della Sicilia ha auspicato che il federalismo consenta alle Regioni di decidere sulla localizzazione delle centrali nucleari che verranno costruite e si è detto pronto a farne sorgere una in Sicilia. La Sicilia non si identifica con la mafia e la stragrande maggioranza dei siciliani non è mafioso, ma è un dato di fatto che la mafia in Sicilia c'è. Una centrale nucleare in Sicilia? Ci pensate? Altro che rischio atomico...

Post Scriptum 2. Le prospettive di crisi economica in tutti i Paesi dell'Unione europea sono sempre più nere: giù i consumi, giù gli investimenti. Ci vorrebbero interventi espansivi. Lo dice da molto tempo Draghi e lo dicono anche Berlusconi e Tremonti ma poi allargano le braccia e alzano gli occhi al cielo da buoni cattolici: per ora i soldi non ci sono, bisogna pazientare. I soldi non ci sono anche se per ora le entrate registrano ancora un surplus sulle previsioni. Viceversa il rapporto deficit-Pil viaggia ancora al di sotto della soglia del 3 per cento stabilita da Bruxelles.

Si può alzare di qualche frazione di punto quella soglia? L'operazione è audace in tempi di crescita zero del Pil, ma portare il deficit al 2,7 rispetto all'attuale 2,4 è una strategia fattibile. Consentirebbe una disponibilità di cinque miliardi da impegnare in detassazioni di consumi e di investimenti. L'Italia potrebbe adottare questa strategia, resa possibile dal buono stato dei conti che Tremonti ha ereditato da Padoa-Schioppa. Perché non lo fa? Non è la prima volta che gli indirizziamo questa domanda ma lui non risponde, non so se per timidezza o per arroganza o per cattiva educazione. Germania e Francia a suo tempo questa strategia la adottarono. Noi siamo meno eguali di loro?

(24 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #82 inserito:: Agosto 27, 2008, 02:30:52 pm »

ECONOMIA IL COMMENTO

Il gioco dell'oca

di EUGENIO SCALFARI
 


LA SOLUZIONE dell'"affaire" Alitalia (che è stata formalizzata ieri) non è una bufala. Si chiama con questo termine figurato la vendita di una patacca, una truffa in piena regola. Invece la soluzione Alitalia è un'altra cosa: un imbroglio politico che cerca di far passare con una diversa apparenza e in condizioni peggiori la stessa sostanza che era stata già concordata nello scorso mese di marzo con Air France.
Insomma un'operazione d'immagine che costerà ai contribuenti italiani un miliardo di euro come minimo, più il costo sociale degli esuberi, cioè dei licenziamenti che saranno più del doppio e poco meno del triplo di quanto sarebbe avvenuto in marzo.

Cinque mesi fa l'ipotesi accettata dal capo di Air France, Jean-Cyril Spinetta, ma furiosamente osteggiata da Berlusconi, da Fini e dai sindacati, prevedeva duemila esuberi, altri quattromila dipendenti sarebbero stati parcheggiati in una società di proprietà dello Stato con la prospettiva che almeno metà di loro sarebbe stata riassorbita entro cinque anni. La società si sarebbe fusa nel gruppo Air France-Klm conservando il suo marchio, gran parte del personale e gran parte delle rotte e acquisendone altre per destinazioni internazionali. La flotta sarebbe stata rinnovata gradualmente poiché la consistenza della flotta Air France-Klm insieme agli aerei Alitalia era in grado di far fronte ai previsti incrementi di passeggeri e di merci nei prossimi anni.

All'epoca in cui queste trattative erano sul punto di chiudersi il prezzo del petrolio, già molto alto rispetto ad un anno prima, quotava 80 euro al barile. Sono stati persi cinque mesi da allora ed oggi la trattativa si è svolta con il barile di greggio a 115 euro. Alitalia era sostanzialmente fallita già cinque mesi fa ma si poteva risollevare senza commissariamento e a condizioni migliori per il Paese e per il Tesoro.
Oggi dovrà inevitabilmente passare per il commissariamento, le condizioni per la nascita della "nuova Alitalia" costeranno inevitabilmente di più alla collettività senza cambiare di un ette la sostanza: una compagnia di fittizia bandiera che si avvia a diventare una branca di un gruppo controllato e gestito da una compagnia di altra nazionalità.

A quest'operazione d'immagine partecipano una decina di imprenditori italiani e tre o quattro banche tra le quali Banca Intesa e forse Mediobanca. Non si tratta però di "capitani coraggiosi" come alcuni giornali li hanno affrettatamente chiamati. Si tratta di capitalisti che sanno il fatto loro e che hanno patteggiato il loro ingresso nel capitale di Alitalia con contropartite di notevole interesse.
Ho detto che non è una bufala ma un imbroglio. Non saprei definirlo diversamente.

* * *
La prima constatazione (non si tratta di un'opinione ma di un fatto) è la situazione patrimoniale della "bad company" cioè della vecchia Alitalia, del vecchio e logoro osso che resterà in mano al Tesoro, cioè allo Stato, cioè a tutti noi contribuenti. Come è noto il patrimonio si compone di poste attive e di poste passive. Queste ultime ammontano nel caso Alitalia ad oltre un miliardo di euro perché tanti sono i suoi debiti. Ma in più ci saranno da gestire da cinque a seimila esuberi e forse più. Questa gestione ha un costo sociale e un costo finanziario. Quello sociale riguarda le persone e le famiglie che passeranno dallo stipendio alla Cassa integrazione e poi al licenziamento. Per di più si tratta quasi interamente di persone e famiglie concentrate a Roma, il che rende ancora più pesante l'impatto sociale della crisi.

Il costo finanziario dipenderà da eventuali "finestre" di pre-pensionamenti e dalla possibilità di alcune categorie di creditori di sottrarsi agli effetti del commissariamento pretendendo e ottenendo il pagamento integrale di quanto ad essi dovuto. Tra questi i fornitori di carburante i quali potranno adire il tribunale e ottenere una posizione privilegiata minacciando altrimenti di non rifornire la flotta Alitalia impedendone in questo modo il decollo.
C'è poi da considerare la sorte dei 300 milioni che nello scorso aprile furono conferiti dal Tesoro all'Alitalia per assicurarne la sopravvivenza. Quei soldi furono poi messi a patrimonio con la clausola che sarebbero stati restituiti al Tesoro nei tre mesi successivi all'avvenuto risanamento della società.
Saranno restituiti? Sarebbe una partita di giro, dalla "bad company" al Tesoro stesso. Quindi impraticabile perché inutile. Oppure non saranno restituiti, nel qual caso assumerebbero la natura di un aiuto di Stato e come tale impugnabile dalla Commissione europea dinanzi alla Corte di giustizia dell'Ue. Oppure ancora qualche banca o fondazione compiacente dovrebbe assumersi l'onere di rimborsare il Tesoro. Un samaritano che porti la croce. Ce ne sono in giro? Io non ne vedo. Se ci fossero sarebbero pazzi. Oppure furbi di quattro cotte che darebbero trecento per ottenere di ritorno in altri modi almeno il doppio. Staremo a vedere. Il nostro compito di giornalisti è appunto quello d'informare il pubblico. Non mancheremo di farlo.

* * *
I capitani coraggiosi. Vorrei cominciare dal gruppo Benetton per una ragione molto semplice: il responsabile operativo della famiglia e del gruppo di Ponzano Veneto rilasciò tempo fa un'intervista assai significativa, virgolettata e rivista dall'intervistato. Il giornalista che l'intervistava affacciò il dubbio che la contropartita d'una partecipazione dei Benetton al salvataggio Alitalia fosse già stata ottenuta con le ottime condizioni alle quali lo Stato aveva rinnovato la concessione delle autostrade al gruppo di Ponzano. Ma l'intervistato replicò che no, la partita delle autostrade non aveva alcun nesso con il salvataggio dell'Alitalia; le condizioni della concessione rinnovata non erano affatto un favore ma un'equa pattuizione. E va bene, sarà certamente così.

Il caso Alitalia era invece diverso. I Benetton non hanno alcun interesse a partecipare ad una compagnia di trasporto aereo. Possono metterci qualche spicciolo se proprio serve a salvare l'immagine politica, ma il loro interesse è un altro. I Benetton sono da tempo diventati costruttori di opere pubbliche: l'attuale aeroporto di Fiumicino l'hanno fatto le loro imprese. È un sito studiato per ospitare 30 mila passeggeri al giorno. Ma ora le previsioni per i prossimi vent'anni richiedono un aeroporto da 60 mila passeggeri in transito giornaliero. Perciò bisogna ricostruire Fiumicino nell'ambito di un progetto che ne faccia un "hub" mediterraneo. Ecco: i Benetton puntano su questo obiettivo. Non sono mica molliche.

Naturalmente, se la previsione d'un aeroporto da 60 mila transiti è corretta, non c'è assolutamente nulla di male a mettere in gara l'opera pubblica. Una trattativa privata senza concorrenti sarebbe uno strappo non da poco. Ma Tremonti è capace di questo e di altro nell'ambito di una strategia di Stato-padrone e di primazia della politica.
Però c'è un altro problema che lo stesso Benetton sollevò in quell'intervista: le tariffe da applicare alle compagnie di trasporto per utilizzo dell'aeroporto e, tra queste, in particolare le tariffe della compagnia di fittizia bandiera. Mi domando se non ci sia un conflitto di interessi tra un Benetton gestore dell'aeroporto e un Benetton azionista di Alitalia.

* * *
Di Ligresti si sanno molte cose e molte altre si intuiscono. Costruirà non so quanti milioni di metri cubi connessi (insieme alle circostanti aree) con l'Expo di Milano. Guida un gruppo gigantesco, immobiliare, finanziario, assicurativo. Sta nel sindacato di Mediobanca e come tale allunga l'occhio anche sul Corriere della Sera. Metterà una cinquantina di milioni anche in Alitalia. Per lui sono spiccioli e possono venir buoni con tanta terra al sole. E poi la sua banca di riferimento non è Intesa-Sanpaolo? È opportuno rendersi utili a chi finanzia i propri affari, accade da che mondo è mondo.

Conosco poco gli altri neo-azionisti della nuova Alitalia e quindi mi guardo bene dal formulare su di loro pensieri maliziosi. Ma una cosa va detta e vale per tutti: questi capitani coraggiosi giocano in realtà sul velluto perché hanno giustamente messo come condizione "sine qua non" la presenza nella combinazione d'un grande vettore internazionale. Poiché hanno ora accettato che i loro nomi siano resi pubblici se ne deve dedurre che l'accordo con il vettore straniero sia già stato fatto o sia comunque in avanzata trattativa.

Sappiamo che quando l'accordo sarà ufficializzato risulterà che lo "straniero" avrà il controllo azionario e la gestione della compagnia. È immaginabile e verosimile.
Secondo le informazioni che ho in proposito gran parte dei capitani coraggiosi si propongono di vendere allo "straniero" o sul mercato le loro quote azionarie quando l'accordo sarà diventato operativo. Dal che deduco che una rete di sicurezza i capitani coraggiosi ce l'hanno.
Arriva all'ultim'ora la notizia che Air France ha convocato il suo consiglio d'amministrazione per giovedì ed ha riaperto il dossier Alitalia. Spinetta chiederà anche di incontrarsi con Passera.
A pensarci bene è stato proprio un gioco dell'oca. Cinque mesi dopo torna l'ipotesi di tornare al punto di partenza in condizioni assai peggiori di prima.

* * *
Poiché in quest'operazione compare più volte il nome di Mediobanca, converrà spendere qualche parola su questo leggendario istituto che ha movimentato la storia finanziaria d'Italia dal 1947 ad oggi attraversando anche in casa propria alcune agitate, vicende come del resto accade nelle migliori famiglie. Finora le vicende "domestiche" di piazzetta Cuccia sono sempre finite bene e ci auguriamo che sia sempre così. Non altrettanto si può dire di quelle che Mediobanca ha patrocinato. Alcune a lieto fine altre a fine triste o tristissimo, a cominciare dalla guerra chimica ai tempi della Edison e della Bastogi per arrivare alla Montedison di Cefis e a quella dei Ferruzzi e dei Gardini e per finire con Pirelli e Telecom.
Che sta accadendo adesso a Mediobanca?
È in corso uno scontro molto duro. A volerlo personalizzare i protagonisti sono tre: Geronzi, Profumo, Nagel. Il primo è il presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca dopo aver guidato per molti anni il Banco di Roma che si fuse circa due anni fa con Unicredit; il secondo è l'amministratore delegato di Unicredit; il terzo è l'amministratore delegato del consiglio di gestione dell'Istituto di piazzetta Cuccia (un tempo si diceva via Filodrammatici perché Enrico Cuccia era ancora vivo).
Al momento della fusione del Banco di Roma con Unicredit si pose il problema di trovare una posizione adeguata per Cesare Geronzi che altrimenti sarebbe rimasto disoccupato. Geronzi non è uno che vada in pensione; si può tranquillamente scommettere che morirà (spero il più tardi possibile) lavorando. Banco di Roma e Unicredit possedevano circa il 9 per cento ciascuno del capitale di Mediobanca, in totale il 18 per cento, cioè la maggioranza assoluta nel patto di sindacato. A quel punto Profumo decise di vendere metà della partecipazione restando con il 9 per cento. Decise anche di affidare a Geronzi la presidenza dell'istituto ma per non essere troppo generoso optò per una "governance" duale, dando all'ex presidente del Banco di Roma la guida del consiglio di sorveglianza e insediando alla testa del consiglio di gestione il capo del management di piazzetta Cuccia, Nagel.

Un equilibrio perfetto, almeno sulla carta. Ma non era pensabile che Geronzi si contentasse a lungo di fare il padre nobile. Passato poco più di un anno è entrato infatti in agitazione chiedendo che la governance di Mediobanca tornasse dal sistema duale a quello "monale" e rivendicandone la presidenza operativa.
Profumo non è d'accordo ma è molto prudente, anche lui ha i suoi guai e non da poco. Nagel non è d'accordo neppure lui, ma Geronzi è in maggioranza nel sindacato e nell'assemblea degli azionisti. Dalla sua parte c'è Mediolanum, Ligresti, Generali, i francesi, insomma il grosso degli azionisti. Soprattutto ha l'appoggio politico di Berlusconi.

Ma Nagel e Profumo sono tuttora contrari. Se decideranno di battersi possono raggruppare un terzo dei voti nel sindacato azionario: una minoranza di blocco che riproporrebbe una conduzione duale all'interno di una "governance" unificata.
Infine c'è un'ultima incognita. Geronzi è stato rinviato a giudizio e addirittura condannato in primo grado per alcuni reati di cospicua gravità in materia finanziaria e bancaria. In tempi normali tutto ciò avrebbe determinato automaticamente le dimissioni del rappresentante legale di una banca e in tal senso esiste da tempo una circolare di indirizzo della Banca d'Italia. Ma oggi, lo sappiamo, non siamo in tempi normali. Mi domando però se questa posizione resterà ferma anche nel momento in cui il processo avrà inizio. Ogni previsione è azzardata ma una cosa è certa: la scelta dipenderà in larga misura da Draghi. È una partita cui sarà molto interessante assistere per raccontarla a dovere.

(27 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #83 inserito:: Agosto 29, 2008, 11:31:24 pm »

Eugenio Scalfari


La ricerca e la fede


A che punto è la discussione sulla soggettività o oggettività del ricercatore. Sulla 'buona scienza' e la 'cattiva scienza'.
Tra i tanti dibattiti in corso che riguardano la storia delle idee ce n'è uno di importanza particolare: ha come protagonista il pensiero scientifico, i suoi rapporti con la religione, con la politica, con la tecnica, con la filosofia e con ciascuno di noi, uomini e donne che viviamo in quest'epoca agitata, incerta, dinamica quant'altre mai.

Fino a qualche tempo fa tra la scienza e le cosiddette discipline umanistiche c'era una sorta di incomunicabilità: procedevano ciascuna per strade parallele che non si incontravano; perfino il lessico era diverso, due linguaggi estranei e reciprocamente incomprensibili. Ma ciò che le rendeva estranee l'uno all'altra al punto da farle definire 'due culture' era la profonda differenza dei metodi conoscitivi, quasi che due diversi cervelli o due diverse mappe cerebrali presiedessero alla cultura umanistica e a quella scientifica.

Non era stato sempre così. All'alba del pensiero occidentale la filosofia era stata tutt'uno con la scienza, le cosmogonie e il ruolo degli elementi primari, l'aria, l'acqua, il fuoco, nascevano da un pensiero al tempo stesso religioso, artistico, scientifico. L'unità tenne ancora fino a Pitagora, poi le due culture si separarono sviluppandosi ognuna per conto proprio, ma ancora in pieno rinascimento alcune personalità d'eccezione come Leonardo e Giordano Bruno riunificarono i linguaggi delle due culture che l'evoluzione delle idee aveva separato.

Oggi il pensiero scientifico ha avviato un percorso di profonda trasformazione dal quale emerge un aspetto che merita un attento esame: la ricerca sperimentale, che da Galileo in poi ha costituito l'ossatura della scienza moderna, è condizionata da ipotesi teoriche pregiudiziali, esalta il ruolo dello sperimentatore e per conseguenza la soggettività (e la precarietà) dei risultati di volta in volta raggiunti. Quest'aspetto è sempre stato implicito nella ricerca sperimentale ma ora è dichiaratamente esplicito. Senza una visione pregiudiziale del mondo che ci circonda, la sperimentazione sarebbe cieca, ma senza la conferma sperimentale la visione del mondo sarebbe vacua: questa è ormai la convinzione dominante che gli scienziati più avvertiti condividono.

Di qui il bisogno epistemologico di analizzare con cura crescente il ruolo dell'osservatore, cioè del soggetto, dei suoi punti di vista preliminari e dell'influenza che essi possono esercitare sui risultati della ricerca. Attraverso quest'analisi epistemologica si cerca insomma di 'ponderare' l'elemento soggettivo e 'ricaricare' l'oggettività della sperimentazione per quanto possibile. Se poniamo la questione da un altro punto di vista esaminando i rapporti tra il pensiero scientifico e le culture umanistiche, emergono problemi relativi all'autonomia della scienza e alle finalità della ricerca. Le questioni che si pongono sono le seguenti:

1. La scienza accetta che la politica e/o la religione pongano limiti alla ricerca? Accetta cioè vincoli di carattere etico oppure si pone al di fuori dell'etica?

2. La scienza cerca la spiegazione ultima del mistero della vita, la chiave che apra tutte le porte, la formula che racchiuda tutti saperi? Oppure procede a caso nella ricerca essendo consapevole che la spiegazione ultima non esiste se non affidandosi ad una fede che trascende la fenomenologia del mondo?

3. La scienza accetta i vincoli dell'etica e della trascendenza e si limita ad una ricerca con 'sovranità limitata' entro ambiti stabiliti da autorità extra-scientifiche?

Il mondo degli scienziati non è gerarchicamente organizzato, non esiste un papa né un imperatore che possano imporre le loro volontà. Perciò di fronte alle domande sopra formulate ci sono state e ci saranno sempre risposte soggettive. Dal punto di vista religioso esiste infatti una 'buona scienza' (quella che accetta di operare nell'ambito determinato dalla visione religiosa) e una 'cattiva scienza'. Esiste una verità assoluta o molte verità relative e questa divaricazione non deriva soltanto dai rapporti con il pensiero religioso ma anche dalla diversa posizione degli scienziati rispetto alla 'spiegazione ultima' del mistero della vita.

Questo grappolo di questioni variamente intrecciate tra loro hanno più d'un secolo di storia alle spalle. L'inizio che mise in discussione la scienza dell'epoca di Newton risale infatti alla teoria della relatività formulata da Albert Einstein agli inizi del Novecento e, qualche tempo dopo, dalla fisica dei 'quanti' e dei 'fotoni'. La discussione sulla soggettività o sull'oggettività della ricerca raggiunse il suo culmine alla fine degli anni Venti del secolo scorso, quando Heisenberg formulò il principio dell'indeterminazione, constatando che è impossibile conoscere la posizione e la velocità dell'infinitamente piccolo, cioè dell'elettrone che ruota attorno al nucleo atomico. Posizione e velocità sono percepite dall'osservatore soltanto bombardando la particella infinitesima e sbalzandola dall'orbita. Significa rompere il giocattolo, il che preclude la conoscenza del giocattolo integro.

Poco dopo la tappa fondamentale di Heisenberg, la meccanica quantistica andò ancora più oltre. Con Pauli arrivò addirittura a teorizzare l'ipotesi della trascendenza come possibile elemento di inferenza nel processo fisico. Mise in discussione il principio della non contraddizione, quello della reversibilità del tempo e la legge di gravitazione. Infine prospettò la necessità di interconnessione tra pensiero scientifico e pensiero filosofico da effettuare attraverso un nuovo e comune linguaggio. La discussione, sempre più ricca ma non priva di incertezze e di confusione, è a questo punto. Tralascio, sebbene lo consideri essenziale, il rapporto tra scienza e tecnologia sul quale mi propongo di tornare.

(29 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #84 inserito:: Settembre 07, 2008, 07:41:26 pm »

POLITICA

L'impossibile dialogo tra il lupo e l'agnello

di EUGENIO SCALFARI


UN OSSERVATORE spassionato che volesse descrivere quanto sta accadendo nella sinistra italiana in tutte le sue varie espressioni, da quella riformista a quella massimalista, dovrebbe servirsi della parola "implosione". La sinistra sta implodendo, i suoi punti di riferimento non sprigionano più l'energia sufficiente a delineare una direzione di marcia, i fari non emettono più segnali di luce capaci di illuminare i lineamenti della costa e gli scogli che la cospargono.

Implosione ed entropia: dopo lo sforzo compiuto nella campagna elettorale e la sconfitta subita l'energia si è dispersa e degradata. Il secondo principio della termodinamica descrive questo processo che si applica non solo in natura ma in ogni entità organizzata e questo è anche il caso dell'opposizione politica e di quella sindacale. Le forze centrifughe prevalgono su quelle centripete. Il risultato è la frammentazione della sinistra e, al limite, la sua polverizzazione.

Il fenomeno potrebbe ancora essere arrestato? Difficile dirlo, ma certo il punto di non ritorno, la soglia oltre la quale il processo diventa irreversibile è molto vicino e questo si avverte con particolare intensità nel Partito democratico che essendo la forza più rilevante dell'opposizione è quella dove i fenomeni di decomposizione sono più visibili e suscitano i massimi contraccolpi.

Il presidente della Regione Lazio, che vuole entrare come azionista nella nuova Alitalia contro il parere del suo partito, ha detto l'altro ieri che il centralismo democratico è finito. L'ha detto con un senso di liberazione.

È vero, il centralismo democratico del vecchio Pci è finito da tempo e comunque i rappresentanti di istituzioni rispondono ai loro elettori prima ancora che agli organi del partito al quale appartengono.

La rivendicazione di questa autonomia istituzionale è un bene che non va sottovalutato, ma tra l'autonomia e il "liberi tutti" c'è una differenza di fondo quantitativa e qualitativa che non può essere ignorata. Diversamente il "liberi tutti" si trasforma rapidamente in un "tutti a casa" che è esattamente ciò che sta accadendo nel Partito democratico, in Rifondazione comunista e in tutto quel vasto elettorato che rappresenta il 40 per cento di elettori e che sta perdendo il senso dell'appartenenza nel momento stesso in cui perde di vista le finalità dell'azione politica e degli strumenti necessari per realizzarne gli obiettivi concreti.

Ho fatto altre volte il confronto con un fiume che rompe gli argini e si sparge nelle campagne circostanti. Quando questo fenomeno avviene le ipotesi su quanto accadrà subito dopo sono tre. La prima è che l'acqua del fiume rientri nel suo letto naturale e riprenda a scorrere come prima; la seconda è che si scavi un nuovo alveo e scorra con la stessa pendenza tra nuovi argini; infine la terza è che diventi palude, acquitrino infestato da miasmi e zanzare, luogo di caccia alle anatre che, ignare e indifese, starnazzano in cielo.

* * *

Il governo, la sua maggioranza e gran parte dei "media" cercano dal canto loro di accentuare questo processo di disfacimento dell'opposizione. In vari modi. Uno di essi, il più frequentato, si svolge intorno alla parola "dialogo". S'invoca il dialogo, si vuole il dialogo e se ne tesse la tela attraverso il dialogo con pezzi dell'opposizione o addirittura con singoli personaggi. "La sventurata rispose" scrive il Manzoni quando la Monaca di Monza parla con il suo amante e acconsente al rapimento di Lucia. Credo che nella maggioranza dei casi i personaggi che hanno accettato di dialogare siano in perfetta buona fede e non abbiano in animo di far rapire alcuna Lucia, ma non toglie che la polverizzazione d'un partito di opposizione passa anche attraverso pratiche che si prestano ad essere scambiate per trasformismo, quale che siano le intenzioni degli interessati, suscitando fenomeni analoghi e non sempre altrettanto innocenti.

Il vero punto in discussione sta proprio nella parola dialogo. A volte il lessico è lo strumento diabolico che Mefistofele usa con i vari Faust che cadono nelle sue grinfie. Si dovrebbe usare - come fa il presidente Napolitano quando tocca quest'argomento - la parola confronto. Walter Veltroni l'ha detto molte volte: il confronto tra forze politiche in un sistema di democrazia parlamentare avviene in Parlamento e alla luce del sole.

A quel confronto nessuno si può sottrarre a meno di non modificare la Costituzione. E il Partito democratico non si è sottratto, ottenendo in alcuni casi qualche successo. Per esempio nel caso dell'emendamento "blocca processi" che fu tolto dal decreto legge sulla sicurezza, auspice anche la presidenza della Repubblica che fece pesare con forza la sua opinione in proposito. E per esempio nel caso dei "rom" e del "censimento" dei loro bimbi, più volte annunciato dal ministro Maroni a beneficio dei suo elettori leghisti ma poi abbandonato anche per le pressioni della Commissione di Bruxelles e del Consiglio d'Europa.

Il confronto parlamentare avviene tra forze politiche e non tra singoli personaggi e questa è la sostanza della democrazia parlamentare. Certo un partito non vive soltanto in Parlamento: vive, dovrebbe vivere, nel Paese, sul territorio, elaborando programmi specifici e concreti all'interno di una visione complessiva del bene comune e delle regole che ne scandiscono il funzionamento.

Questa presenza politica e questa elaborazione culturale sono gli aspetti manchevoli che abbiamo segnalato; a causa di questa assenza o presenza troppo debole i fenomeni di implosione, frammentazione, dialogo di singoli con lo schieramento avversario, si moltiplicano con diffuso gaudio del governo, della maggioranza e dei "media" consenzienti e addirittura dediti al picconamento dell'opposizione.

* * *

Ho accennato all'intenzione del presidente della Regione Lazio di entrare come azionista nella compagine societaria della nuova Alitalia (Cai). Se il suo desiderio fosse accettato dagli azionisti della Cai la privatizzazione di Alitalia subirebbe uno strappo a favore di un ente locale interessato a "tutelare" le sorti dell'aeroporto di Fiumicino. Lo stesso Marrazzo ha auspicato un analogo ingresso del presidente lombardo Formigoni a tutela degli interessi dell'aeroporto di Malpensa.

C'è qualche cosa di storto in questo modo di ragionare. Se gli enti locali sul cui territorio operano aeroporti importanti dovessero far parte della Compagnia di volo dovrebbero entrarvi anche Napoli, Palermo, Bari, Venezia, Bologna ed altri ancora. L'assemblea della società diventerebbe una stanza di compensazione di interessi contrapposti con tanti saluti alle regole del mercato.

Ma una stanza di compensazione tra interessi forti la nuova Alitalia lo è già. Non a caso il senatore Luigi Zanda ha scritto una lettera pubblica e formale al presidente dell'Antitrust segnalando i macroscopici conflitti di interessi di alcuni azionisti della Cai, in particolare i Benetton, i Riva, gli Aponte e parecchi altri. Sarà interessante vedere come si comporterà l'Antitrust su una questione così delicata.

Quale dovrebbe essere la funzione del Partito democratico, posto che il trasporto aereo è un tema di rilievo nazionale sul quale una forza politica ha pieno titolo di esprimersi? Credo che il Pd - come ogni altro partito - debba dire la sua sulla privatizzazione della Compagnia, sui molteplici conflitti di interesse presenti nella nuova società, sul piano industriale, sugli oneri che esso comporta per la finanza pubblica. Il problema degli esuberi è una derivata del piano industriale, come correttamente sostiene la Cgil.

È pacifico per tutti che in tempi di globalizzazione non esiste la possibilità di una società di trasporto aereo che non sia inserita in un "network" internazionale, a meno che non si tratti d'un vettore esclusivamente locale, con una piccola flotta di aerei e pochi dipendenti. Ma questo non è il caso dell'Alitalia.

I network interessati a livello europeo sono tre: Air France-Klm, British, Lufthansa. I tedeschi vedono in Alitalia uno strumento per aprirsi la strada verso l'Africa e l'Asia. I francesi e gli inglesi questa apertura ce l'hanno già e vedono in Alitalia un contenitore di passeggeri. Trenta milioni di passeggeri che negli anni saranno destinati a raddoppiare se inseriti in un quadro di ben altre dimensioni.

Quanto ai nuovi azionisti della Cai, realisticamente essi sanno che gli utili della Compagnia saranno assai magri nei primi cinque anni; non è quindi per la profittabilità dell'impresa che essi hanno deciso di impegnarvisi. Tantomeno per sentimenti patriottici, lodevoli ma estranei ad un piano industriale. I soci della Cai, tutti ad eccezione di Colaninno, hanno interessi extra-Alitalia da promuovere e tutelare e questa è già una buona ragione per metter nel piatto un "cip" e sedersi a quel tavolo. Ma ce n'è un'altra di ragione: far nascere una nuova Alitalia, ripulita da tutte le croste accumulatesi durante gli anni. La ripulitura non costerà nulla alla Cai, la fa Fantozzi a spese dello Stato.

Una volta compiuta la ripulitura, Alitalia possiederà una flotta di media importanza, una serie di diritti di volo soprattutto sul territorio nazionale e un pacco-passeggeri di trenta milioni di unità destinate ad aumentare fino al raddoppio. Il conto economico, l'abbiamo detto, darà risultati magri, ma il valore patrimoniale di una società ripulita a dovere sarà notevolmente più elevato: dopo il 2011 la Cai potrà valere a dir poco un quarto in più rispetto al patrimonio di partenza. A quel punto gran parte degli attuali azionisti, che non hanno alcun interesse per il trasporto aereo, usciranno dall'affare realizzando cospicue plusvalenze. A spese dello Stato e dei contribuenti.

Questo è l'affare Alitalia, questa è la logica del mercato e questa sarà la soluzione finale della compagnia aerea italiana. Colaninno, che buon per lui non ha conflitti d'interesse in questa vicenda, probabilmente resterà a guidare la sezione italiana del "network" internazionale nelle cui capaci braccia si spegnerà la cordata tricolore.

* * *

Ci sono molti altri temi di confronto tra maggioranza ed opposizione: la sicurezza, la giustizia, l'istruzione, la sanità. L'uscita dei partiti dalle Asl e dalla Rai e il riassetto dell'azienda televisiva. Il federalismo fiscale. E naturalmente le riforme costituzionali, legge elettorale compresa. Il luogo del confronto è il Parlamento dove contano i voti ma conta anche il consenso che i partiti si guadagnano nel Paese con la loro presenza, le loro proposte, i loro programmi, i valori dei quali sono portatori.

Se la crisi della sinistra e in particolare del Pd è l'appannamento della leadership, conviene dunque concentrarsi su questa questione e risolverla. Bisogna contemporaneamente costruire il partito sul territorio, risollevare l'animo e l'impegno degli elettori, dare forza al vertice del partito, utilizzare l'esperienza dei cosiddetti senatori del Pd portando però nella prima linea operativa una generazione di giovani da addestrare e a cui affidare a tempo opportuno la guida.

Nelle aziende e nelle banche di grandi dimensioni questo schema si chiama "duale", un consiglio di sorveglianza e un consiglio di gestione; nel primo stanno i saggi, nel secondo gli operativi. Forse uno schema del genere non si adatta ad un partito politico ma può comunque essere adatto a suggerire una soluzione adeguata.

C'è pochissimo tempo per riprendere la marcia. L'opposizione scricchiola, la gente si disimpegna, le rivalità interne si incistiscono. Bisogna spezzare questo circuito nefasto.

Credo che la responsabilità di riaccendere le luci d'una casa abbuiata incombano su Veltroni. Del resto è lui il segretario in carica. Decida e operi, chiami a raccolta tutti coloro che in quel partito ci credono ancora e cammini insieme a loro con idee precise e chiaramente enunciate.

Chi vuole dialogare con l'avversario a titolo personale non è un traditore. Può essere un ingenuo. Oppure un vanitoso. Comunque, se vuole farlo lo faccia a proprio rischio senza pretendere di rappresentare un partito perché l'ingenuità e la vanità possono condurre al disastro una forza politica.

(7 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #85 inserito:: Settembre 13, 2008, 12:36:01 am »

Eugenio Scalfari


Movida mantovana


Al Festival della Letteratura ho trovato una tensione allegra verso il futuro, verso il cambiamento, verso sogni e destini che scommettono sull'onestà, sulla creatività e sulla solidarietà  Una presentazione al Festival della LetteraturaIl Festival della Letteratura che si è svolto a Mantova dal 3 al 9 di questo mese è un evento abbastanza singolare nel panorama della vita culturale italiana di questi anni. Non è l'unico. Fenomeni analoghi ci sono stati a Roma con una serie di incontri sulla storia, sull'arte, sulla filosofia, sulle matematiche, che si sono susseguiti all'Auditorium della città; altre iniziative dello stesso livello si sono verificate a Torino, a Udine, a Cortona, a Firenze, a Bologna, a Napoli, a Palermo, a Padova, a Modena.

Milano è forse la sola delle tante capitali del Paese dalle 'cento città' a restare un po' in ombra; la sua vita culturale si è ristretta in ambiti elitari con punte musicali e teatrali di eccellenza ma con scarsa partecipazione. Paragonata a quella di quaranta o trenta anni fa sembra una città assai più spenta e annoiata. Speriamo che anche questa nottata milanese passi.

Il Festival di Mantova è però uno spettacolo molto diverso da tutti gli altri perché qui, per cinque giorni, un'intera città vive di cultura e per la cultura ospitando decine di migliaia di persone, per lo più giovani, che intervengono, discutono, leggono, partecipano con una ininterrotta 'movida', animando le strade, le piazze, i palazzi, i tendoni di questa città-gioiello.

Dibattiti, presentazione di libri e di scrittori, si susseguono senza sosta, ne ho contati più d'una quarantina ogni giorno e tutti affollati e animati come raramente capita di vedere.

Ero stato una sola volta a questo festival dodici anni fa, l'esordio di un'iniziativa che poi è andata crescendo di anno in anno e oggi si propone come un vero e proprio 'test' della vitalità culturale-letteraria della nostra società. Ne emergono alcuni tratti particolari. Li enumero così come mi sono apparsi.

Anzitutto i giovani, il festival è soprattutto un sito di accampamento giovanile, festoso, gioioso, informato. Una parte di questa popolazione giovanile presta anche servizio volontario nell'organizzazione del festival con le mansioni più varie. Senza di loro la città non ce la farebbe perché lo sforzo organizzativo è eccezionale e i risultati corrispondono all'impegno.


L'intera struttura è guidata da otto persone, un ottetto molto affiatato da quanto ho capito, un lavoro di squadra che abbraccia un periodo molto più lungo dei cinque giorni del festival vero e proprio. Ciascuno degli otto fa altri mestieri, ma il festival è ormai il loro impegno costante di tutto l'anno con continui contatti con analoghe iniziative in Usa, in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Spagna, in Brasile e ora anche in India e nell'est dell'Asia.

La materia prima è però italiana. Gli otto direttori del festival sono consapevoli del livello non eccelso della letteratura italiana di questi anni. "Lavoriamo su un'arte povera" mi ha detto uno di loro. "Non è solo italiana questa povertà letteraria, in altri paesi europei va anche peggio, ma negli ultimi tempi qualche scintilla di novità si nota e va incoraggiata. L'interesse del pubblico e le sue richieste sono invece in aumento perciò non disperiamo: quando la domanda è così forte l'offerta non tarderà a manifestarsi".

Sarebbe azzardato dire che il pubblico che ha invaso Mantova per cinque giorni mescolandosi agli abitanti di questa città che occupa da anni il primo posto per quanto riguarda il reddito e la ricchezza, abbia una colorazione politica omogenea. A me è capitato di parlare due volte in riunioni molto affollate nelle quali la tonalità di sinistra e laica era di gran lunga prevalente, ma questo si deve probabilmente al fatto che quello era un pubblico intonato alle mie idee e ai miei scritti.

Tuttavia l'atmosfera generale della città in quei giorni non era certo quella del 'law and order'. Diciamo che era intonata a Barack Obama e non certo a Maroni e Bossi sebbene Mantova abbia una presenza leghista di notevole rilievo. Ma quando si uniscono insieme i giovani, i volontari, gli scrittori, i poeti, che altro può venir fuori se non una tensione allegra verso il futuro, verso il cambiamento, verso sogni e destini che scommettono sull'onestà, sulla creatività e sulla solidarietà?

Sono incontri che fanno bene all'anima e riaccendono speranze di futuro che in altri contesti sembrano spente.

(12 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #86 inserito:: Settembre 14, 2008, 09:56:46 am »

ECONOMIA    IL COMMENTO

Il pifferaio, gli allocchi e l'asso di Colaninno

di EUGENIO SCALFARI


IL tema caldissimo di oggi è l'Alitalia, il tema appena meno scottante ma altrettanto infuocato è il federalismo fiscale. L'accoppiata sarebbe già di per sé esplosiva ma come non bastasse si colloca in un panorama politico estremamente teso e inquietante: una serie di annunci, di disegni di legge, di atti politici e amministrativi che hanno tutti il solo univoco effetto di accrescere le tensioni, inasprire i conflitti, mostrare la faccia feroce e la voglia di menar le mani all'insegna di uno slogan diventato ormai un "passepartout".

Lo slogan è stato inventato dal ministro dell'Interno che lo ripete a dritto e rovescio come una sorta di tic, di intercalare, ed è "tolleranza zero". È diventato il succo programmatico del governo e della sua maggioranza.

Evidentemente funziona e i sondaggi in favore del "premier" hanno toccato il culmine.

La gente vuole che si proclami tolleranza zero nei confronti di chiunque utilizzi i propri diritti di libertà in senso non conforme al senso comune ora in auge. Che poi la tolleranza zero realizzi risultati desiderati oppure no, questo non arresta l'onda d'urto d'una strategia "schiacciasassi" tipica nella storia europea degli ultimi cent'anni tutte le volte che pulsioni autoritarie abbiano, in nome di superiori ragioni di ordine e di sicurezza, ristretto i diritti di cittadinanza.

Speriamo che il "trend" attuale non ci conduca oltre il limite del populismo e delle favole narrate al popolo per distrarlo, ma questa sorta di ipnosi collettiva induce comunque a riflessioni preoccupate in un'epoca in cui si ridisegna la mappa politica ed economica del mondo.

Tolleranza zero, abolizione di fatto della legge Merlin sulla prostituzione, smantellamento della scuola pubblica dell'obbligo senza un progetto che abbia un senso, crescente pressione sui poteri e sull'indipendenza della magistratura inquirente, leggi elettorali che rafforzano il potere degli apparati confiscando ogni diritto di scelta dei cittadini, disprezzo dei valori costituzionali più sensibili, clericalismo di ritorno e impoverimento dei valori cristiani in una ritrovata alleanza tra la gerarchia ecclesiastica e il potere politico, inquinamento reciproco tra politica e affari, rivalutazione del fascismo da parte di ministri e di sindaci in carica: questo è lo sfondo allarmante di questa stagione.

La crisi dell'Alitalia e l'incognita del federalismo fiscale ne rappresentano i punti di massima tensione e di totale mancanza di progettualità. Non la fantasia ma il dilettantismo è oggi al potere. Non è la prima volta che accade nel nostro paese dove purtroppo la memoria è labile e non riesce a diventare matura esperienza.

* * *

Il ministro Tremonti, nella sua lunga ricostruzione del disastro Alitalia esposta davanti alla commissione competente della Camera e successivamente riprodotta nel suo testo integrale su 24 ore di venerdì e di ieri, ha esordito dicendo: "Lasciamo da parte il confronto con le condizioni di Air France dello scorso aprile, era un altro contesto e un'operazione di altra natura".

Seguiamolo in questa sua raccomandazione iniziale, non senza tuttavia aver ricordato che l'offerta di Air France fu respinta dal combinato-disposto del rifiuto dei sindacati, dalla campagna scatenata da Berlusconi contro quel progetto e dall'insistente pressione a favore d'una cosiddetta cordata tricolore sponsorizzata da Banca Intesa.

Se oggi ci troviamo tutti di fronte ad un "malpasso" la responsabilità sta in quel rifiuto dovuto a due soggetti (sindacati e Berlusconi) e alla presenza d'un convitato di pietra in attesa di entrare in scena (Banca Intesa).
Per Tremonti invece le responsabilità incombono interamente su Prodi e Padoa-Schioppa, incapaci secondo lui di afferrare il bandolo della matassa e concludere.

Credo che ci sia stata un'inerzia di Prodi come ci fu, ancor più grave, nella questione dell'immondizia napoletana. Ma Tremonti dimentica almeno due passaggi essenziali avvenuti nel corso del governo Berlusconi e della sua presenza al ministero dell'Economia. Il primo passaggio sta nella valutazione patrimoniale di Alitalia: l'azione in Borsa valeva circa 10 euro nel 2001 e 1,57 nel 2006. Tremonti ha contestato queste cifre, ma il 24 ore dell'11 settembre le ha ricontrollate insieme alla banca dati della Thomson Financial e ne ha certificato l'esattezza. In cinque anni di legislatura il patrimonio della compagnia di volo ha perso dunque i 9 decimi del suo valore patrimoniale. Le cifre non sono opinioni e non hanno bisogno di commenti.

Il secondo passaggio riguarda la proposta dell'amministratore di Alitalia, Mengozzi, nominato a quella carica dal governo Berlusconi e quindi dallo stesso Tremonti. Mengozzi aveva in animo una fusione con Air France. Aveva negoziato a lungo e aveva ottenuto che la fusione fosse fatta attribuendo ad Alitalia il 30-35 per cento del capitale del network francese. Il governo però respinse la proposta. Anche qui c'è poco da commentare, i fatti parlano da soli.

* * *

E veniamo all'oggi. Il governo ha emanato pochi giorni fa un decreto che spacca in due Alitalia: la società controllata dal Tesoro con in capo tutti i debiti, il personale, la flotta, i diritti di volo e i pochi soldi rimasti in cassa; una società sostanzialmente fallita, affidata dal Tesoro ad un commissario secondo le regole della legge Marzano appositamente riveduta per meglio adattarla al caso Alitalia.

A fianco del rottame Alitalia una nuova società di nuovissima istituzione, con 18 azionisti, un presidente (Roberto Colaninno) e un amministratore delegato (Sabelli), depurata da tutti i gravami e pronta a fondersi con Air One.

Sulla base della legge Marzano questa società figlia giovane e bella d'una madre vecchia e moribonda, potrà rilevare tutta la polpa di Alitalia e cioè gli aerei per l'attuazione del piano industriale, le rotte, il personale di volo e di terra necessari. Gli esuberi resteranno in capo alla società madre, così pure i debiti e il personale esuberante. Il prezzo ritenuto giusto da ambo le parti sarebbe attorno ai 450 milioni di euro.

Il capitale messo insieme dai 18 azionisti (tutti italiani) supera il miliardo. Il nome, nuovo di zecca, è Compagnia Aerea Italiana (Cai). Air One si fonderà con essa e i suoi proprietari otterranno 300 milioni portando nella Cai la flotta, le rotte, le opzioni per l'acquisto di nuovi aerei, il personale di volo. L'amministratore di Air One, Toto, entrerà nel capitale della Cai con 120 milioni e siederà nel consiglio d'amministrazione.

Il governo e soprattutto Berlusconi è entusiasta: in centoventi giorni la cordata italiana si è materializzata, il caso Alitalia è stato risolto, tutto è stato previsto: la sospensione per sei mesi delle regole antitrust, una benevola disponibilità della Commissione di Bruxelles a dare il disco verde all'operazione, l'entusiasmo degli azionisti della Cai. Molti di loro - in palese conflitto d'interessi - sono felici di esser adeguatamente compensati da alcuni affari sottobanco. L'amministratore di Banca Intesa, diventato da "advisor" dell'operazione azionista Cai, di fronte all'obiezione sugli affari non chiari di molti colleghi di cordata ha risposto che "i conflitti d'interesse saranno gestiti". Il capo dell'antitrust chiamato in causa dal senatore Zanda non ha risposto. Bonanni della Cisl manifesta disponibilità a collaborare.

Tutto insomma sembra andare a gonfie vele. Certo il Tesoro si dovrà accollare parecchi pesi: i debiti della vecchia Alitalia, gli esuberi di circa 7 mila unità di cui mille piloti; ma l'onore è salvo, perdite future non sono previste, gli esuberi saranno trattati con gli ammortizzatori sociali esistenti. Ma l'attivo sta nella resurrezione della compagnia di bandiera interamente rinnovata e tricolore, un taglio consistente ai vecchi azionisti, l'ingresso d'un vettore straniero con una quota di capitale non superiore ai 120 milioni. Che cosa si vuole di più? Berlusconi dove tocca fa il miracolo. I consensi degli italiani distratti e assuefatti (che sono al momento la larga maggioranza) sono alle stelle. Tremonti sentenzia: "La luna di miele del governo con gli italiani durerà molto a lungo, ci stiamo preparando a festeggiare le nozze d'argento".

Invece no. Poche ore dopo queste celebrazioni scoppia la tempesta. Ci siamo dentro tuttora e non si sa ancora come finirà.

* * *

Il governo e insieme con esso il commissario di Alitalia, Fantozzi, il presidente di Cai, Colaninno, il leader della Cisl, Bonanni, si erano scordati della questione "contratti". O meglio: non se ne erano scordati ma l'avevano considerata di facile soluzione. I dipendenti - pensavano - non hanno alternative: se non accettano le condizioni offerte dalla Cai, la nuova società si ritirerà, l'Alitalia fallirebbe, 20 mila persone forse più, considerando anche il lavoro indotto, andrebbero in mobilità, anticamera del licenziamento entro qualche anno. Quindi accetteranno.

Ma i contratti, per consentire alla Cai di volare con profitto, debbono realizzare una diminuzione di costi del 30 per cento e un pari aumento di produttività. O così o niente, prendere o lasciare. Gli esuberi avranno ammortizzatori lunghi e corsie preferenziali per essere ricollocati, ma sui contratti e sulla produttività non c'è margine. D'altra parte furono proprio i piloti ad affondare l'offerta di Air France. Dunque se la sono voluta. Chi semina vento raccoglie tempesta. E poi il mercato è il mercato.

Invece i piloti, gli assistenti di volo, il nucleo duro dei dipendenti, non ci stanno. All'inizio sembra una manfrina ma col passare dei giorni si vede che no, non è la solita sceneggiata sindacalese. I piloti alla fine si alzano dal tavolo e se ne vanno. Berlusconi chiama Colaninno, Sacconi chiama i sindacati, Matteoli chiama i piloti, Passera chiama tutti, ma la questione sembra ormai chiusa: Cai conferma che non può fare modifiche alla sua piattaforma, i piloti confermano che a quelle condizioni è inutile continuare. Berlusconi ha un momento di sconforto ma poi torna in battaglia: ha ancora qualche carta da giocare e la gioca.

* * *

Alle ore 14 di ieri, sabato, Fantozzi incontra i sindacati e comunica che siamo alla fine: non c'è più un euro in cassa, i fornitori di carburante hanno comunicato che non faranno più forniture a credito, d'ora in poi la flotta Alitalia potrà contare soltanto sulle poche riserve esistenti nei depositi.

Per conseguenza a partire da domani lunedì alcuni voli saranno cancellati e il personale addetto verrà messo in cassa integrazione. I voli da annullare saranno 34. Gli altri e in breve l'intera flotta cesseranno di volare entro una settimana o poco più.

Tra i piloti e gli assistenti di volo la tensione sale alle stelle. Intanto si viene a sapere che il fornitore che ha chiuso i rubinetti del credito è l'Eni. Ennesimo paradosso: la compagnia di bandiera petrolifera non fa più credito alla compagnia di bandiera del trasporto aereo. Il governo è stato informato? Oppure governo ed Eni d'accordo stringono la tenaglia intorno al collo dei sindacati? Roberto Colaninno ha passato a Mantova la notte di venerdì e la mattina di sabato ma nel pomeriggio è all'aeroporto di Verona: rientrerà a Roma in serata. Questa mattina, domenica, inviterà i sindacati ad un colloquio finale.

Ha qualcosa da mettere sul tavolo? Sì, qualcosa ce l'ha. Si era tenuto una riserva da usare all'ultimo minuto e l'ultimo minuto è arrivato. Potrà migliorare il "monte salari" del personale da riassumere in Cai in misura del 20 per cento. Che cosa significa? Se aveva chiesto ai piloti una decurtazione stipendiale del 25 per cento rispetto gli stipendi vigenti, il 20 per cento di miglioramento significa che la decurtazione scenderebbe al 20. Basterà? Questa sarà l'ultima parola.

Ma c'è un però. Colannino non vuole trattare soltanto con i piloti. Se seguisse questa tattica le altre categorie dei dipendenti potrebbero esigere che quel 20 per cento di miglioria sia ripartito tra tutti. Da buon imprenditore Colaninno non ha nessuna voglia di imbottigliarsi in una questione di riparto, perciò la sua offerta sarà fatta al complesso delle sigle sindacali: vedano tra di loro come spartire l'offerta. Comunque entro oggi la questione dev'essere chiusa altrimenti lunedì mattina comincerà non più l'ultima fase ma l'agonia vera e propria di un malato terminale.

* * *

Forse l'accordo oggi si farà: le probabilità si misurano al 51 per cento in favore dell'accordo in extremis contro il 49 che non riesca. Berlusconi, che era ormai con le spalle al muro perché il fallimento dell'Alitalia sarebbe stato per lui una catastrofe d'immagine senza precedenti, deve aver strizzato per bene Colaninno e i membri principali della cordata tricolore. Questi a loro volta avranno rincarato a propria compensazione i vantaggi extra che si aspettano dalla loro partecipazione.

Passera saggiamente aveva detto che i conflitti d'interesse debbono essere gestiti e il "premier" è un asso in quel tipo di gestione. Un'occhiata di riguardo non si può negare a nessuno dei 18 "capitani coraggiosi". Di occhiate di riguardo ne sono già state date parecchie, una di più non la si nega a nessuno pur d'assicurare il lieto fine.

Lieto fine per tutti? Forse per i piloti che rappresentano la nobiltà di spada tra i dipendenti Alitalia, forse per gli assistenti di volo che rappresentano la nobiltà di toga. Il popolaccio dei servizi a terra sarà il più strattonato, ma peggio per loro, qualcuno che trasporti i bagagli lo si trova sempre a buon prezzo magari tra i marocchini e i romeni per bene che fanno la coda per un posto precario.

E poi? Il finale della storia l'abbiamo già scritto domenica scorsa: tra cinque anni Cai avrà registrato una cospicua plusvalenza patrimoniale, gli azionisti venderanno e incasseranno. Cai entrerà a far parte di un bel "network" internazionale, tedesco o franco-olandese, perché nell'economia globale non c'è posto per una compagnia di volo come Alitalia, troppo grande per esser piccola e troppo piccola per esser grande. Così saremo tornati alla casella di partenza avendo perso un sacco di soldi e di tempo. Intanto il pifferaio suona il suo piffero e gli allocchi lo seguono incantati.

È in arrivo il federalismo fiscale, del quale riparleremo. Per ora si sono sentite molte parole ma non s'è visto nessun numero. Prima o poi però i numeri dovranno sbucare da qualche parte e bisognerà leggerli con molta attenzione.

(14 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #87 inserito:: Settembre 26, 2008, 06:27:00 pm »

Eugenio Scalfari.

Benedetta Porta Pia



La fine dello Stato pontificio fu un gran bene per la Chiesa e stupisce il silenzio dei cattolici sulla manifestazione indetta dal sindaco fascista che guida il Comune di Roma  Gianni AlemannoLa cosa stupefacente di questo 20 settembre 2008 non è stata la celebrazione dei 19 soldati dell'esercito papalino caduti alla Breccia di Porta Pia, promossa dal Comune di Roma e dal sindaco della città; e neppure l'omesso saluto ai bersaglieri che conquistarono Roma rendendo finalmente possibile il completamento dello Stato unitario.

La cosa stupefacente è stata il silenzio pressoché totale dei cattolici italiani. Da Alemanno e dalla sua giunta siamo ormai abituati ad aspettarci di tutto, anche se in quest'occasione la sua iniziativa supera per fantasia retrograda tutte le altre fin qui messe in scena. Non siamo più soltanto al recupero dell'ideologia fascista; qui si è fatto un salto all'indietro di 138 anni di storia, con uno spirito papalino che neanche il fascismo ebbe.

Ma i cattolici? I cattolici politicamente impegnati? I vescovi della Conferenza episcopale? La Segreteria di Stato vaticana? E il Papa?

Il 20 settembre 1870 cadde finalmente il potere temporale del Papato che durava all'incirca da 1500 anni. L'editto di Costantino ne aveva posto le basi, ma esso diventò effettivo qualche secolo dopo e si allargò nel corso del tempo fino alle Romagne al nord e al Volturno a sud diventando uno Stato vero e proprio, una teocrazia in piena regola, con le sue leggi, le sue magistrature, le sue prigioni, i suoi patiboli, il suo esercito comandato di solito dai nipoti e/o dai figli del Papa in cattedra in quel momento.

Fu questa una delle storture più macroscopiche della Chiesa cattolica, che mise in secondo piano la predicazione evangelica e l'imitazione di Cristo, privilegiando invece i calcoli di potere, le alleanze, i trattati, le guerre.

Lo Stato del Papa fu uno degli ostacoli principali dell'Unità d'Italia e della sua indipendenza, ma soprattutto ostacolò l'evoluzione del pensiero cattolico verso la spiritualità, la pratica della non-violenza, le parole di pace e amore verso il prossimo, verso il diverso e addirittura verso il nemico.

I Papi furono innanzitutto sovrani temporali. Ce ne furono molti dotati di saggezza, di sapienza teologica, di spirito di carità, ma molti altri devastati invece da cupidigia, ambizione, lussuria, spirito di vendetta. Ma sia gli uni sia gli altri non potevano prescindere dalla volontà di potenza insita necessariamente nella natura di ogni potere politico. Se c'è un sentimento lontano ed anzi opposto allo spirito del Cristianesimo, esso è proprio quello della volontà di potenza che diventò la seconda (o la prima?) natura della Chiesa cattolica.

Essa è la sola tra tutte le confessioni cristiane che abbia coltivato per molti secoli il temporalismo, il regno in questo mondo e non solo nell'altro, ed abbia consapevolmente praticato l'ipocrisia di giustificare il temporalismo come irrinunciabile condizione per assicurare alla Chiesa la propria indipendenza. Ipocrisia, perché il mezzo diventò fin dall'inizio una finalità e l'indipendenza della missione pastorale ed evangelica fu perduta perché fu posta al servizio del potere e dei canoni propri del potere.

In tutte le religioni si pongono questioni di potere perché esse sono innate nell'umana natura, ma in nessuna, salvo forse nell'Iran khomeinista degli ayatollah, il desiderio del potere si è materializzato in un vero e proprio Stato, potente tra le potenze e implicato nel gioco politico e militare.

L'esistenza del Regno pontificio spiega anche perché il cattolicesimo italiano sia stato così diverso da quello esistente negli altri paesi cattolici europei, più povero di indipendenza e di protagonismo religioso, più silente e succube della gerarchia.

Da questo punto di vista la caduta dello Stato pontificio fu un gran bene per la Chiesa. O almeno: avrebbe potuto esserlo se il papato l'avesse vissuto e accettato come una liberazione, come l'occasione per riconquistare la sua piena libertà di espressione, di predicazione, di testimonianza.

Purtroppo non fu così. Il papato si chiuse a riccio, i portoni dei palazzi romani furono sbarrati di fronte all'avvento dello Stato italiano, laico per definizione, come sono e debbono essere tutti gli Stati che non siano governati dai preti.

Si vietò ai cattolici di fare politica. L'Italia a Roma fu considerata un atto sacrilego. Ogni rapporto col potere civile fu interrotto. Questa situazione durò per almeno quarant'anni, dal 1870 al Patto Gentiloni del 1911, quando il Vaticano permise ai cattolici di esprimersi politicamente partecipando a liste elettorali di intonazione cattolica e moderata. Infine diciott'anni dopo si arrivò al Concordato del '29 con Lo Stato fascista.

Ma nessun Papa ebbe la forza di proclamare che la caduta del temporalismo era stato uno degli eventi più positivi per l'evoluzione della Chiesa, salvo Giovanni XXIII e i suoi successori, auspice il Concilio Vaticano II.

Purtroppo il Papa attuale mostra un gusto 'retrò' che può motivare lo spirito papalino del sindaco fascista che guida il Comune di Roma.

Stupisce tuttavia che il laicato cattolico non abbia fatto sentire con forza la sua voce dentro la Chiesa e fuori della Chiesa. Questo è uno dei segnali peggiori della tristizia dei tempi che stiamo attraversando.

(26 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #88 inserito:: Settembre 28, 2008, 12:12:15 pm »

IL COMMENTO

Quanto durerà il regno di Berlusconi


di EUGENIO SCALFARI


I PILOTI hanno firmato il contratto da dirigenti, gli assistenti di volo firmeranno da lunedì; gli uni e gli altri hanno ottenuto miglioramenti rispetto alle condizioni iniziali e hanno ceduto su alcuni privilegi che contrastavano con il buon senso e con la natura ormai interamente privata della nuova compagnia di volo. Che peraltro di volo ancora non è, tanto che non può ancora intestarsi gli "slot", le licenze necessarie per far decollare gli aeroplani.

La vicenda tempestosa e ardua dell'Alitalia è dunque arrivata al suo positivo esito finale? Positivo forse sì, finale non direi. Ci saranno, per Colaninno, per Fantozzi e per il governo ancora parecchie gatte da pelare e non sarà un quieto vivere.

Bisognerà anzitutto superare il giudizio della Commissione di Bruxelles sulla legittimità del contratto d'acquisto della polpa di Alitalia che dovrà essere stipulato entro il 30 ottobre tra la Cai di Colaninno e la vecchia Alitalia di Fantozzi.

Secondo le norme europee la scelta iniziale avrebbe dovuto esser fatta mettendo in pubblica gara i possibili acquirenti interessati, ma questa gara non c'è stata; il governo aveva l'idea fissa dell'italianità ed è andato dritto su quella strada, ma ora, prima che il contratto Colaninno-Fantozzi sia stipulato, l'Unione europea potrebbe eccepire e addirittura dichiarare nulla la procedura seguita. Sarebbe una vera catastrofe, non tanto per il Paese ma certamente per il governo; perciò non credo che la Commissione di Barroso e di Almunia si prenderà una simile responsabilità, ma il rischio in teoria esiste.

C'è tuttavia un secondo ostacolo: il prestito dei 300 milioni effettuato con due decreti rispettivamente dal governo Prodi già dimissionario e dal subentrante governo Berlusconi. Quel prestito deve essere rimborsato da Alitalia al Tesoro.

Chi lo deve rimborsare? Fantozzi o Colaninno? La "bad company" di Fantozzi è per il 49 per cento del Tesoro e in più è in liquidazione. Colaninno però quel prestito non l'ha ricevuto perché all'epoca la sua cordata ancora non esisteva. Dunque è discutibile individuare il debitore. Ma esistono dei beni materiali. Per esempio gli aerei e gli "slot".

Potrebbero essere sequestrati dal creditore Tesoro e rivenduti fino a realizzare i 300 milioni. Oppure, anche qui, Bruxelles potrebbe chiudere un occhio visto il buon esito della vicenda.

Infine c'è il problema dell'antitrust. Se e quando nel capitale di Cai entrerà un'impresa straniera il controllo dell'antitrust passerà dall'Autorità italiana a quella europea, rispetto alla quale non vale il decreto Tremonti che ha sospeso i controlli dell'antitrust sull'operato di Cai.

Infine c'è appunto il tema del socio straniero e della quota azionaria da riservargli. Berlusconi vorrebbe che l'arrivo dello straniero avvenisse il più tardi possibile per sfruttare a lungo la rinascita della Compagnia tricolore e desidererebbe che la quota non superasse il 15 per cento del capitale, ma su questo tema la scelta spetta soltanto alla Cai. Si sa che Colaninno preferirebbe Lufthansa che però vorrebbe una quota azionaria maggiore.

Si vedrà, ma questa comunque non è una questione che possa mettere a rischio l'operazione, semmai la rafforza in proporzione diretta alla maggiore o minore presenza straniera.

Gran parte di queste gatte da pelare Padoa-Schioppa, ai suoi tempi, le aveva evitate: la gara internazionale ci fu, la proposta di Air France non prevedeva che lo Stato si accollasse i debiti, non c'era dunque bisogno di alcun prestito se si fosse firmato quell'accordo. Eppure ancora oggi Tremonti svillaneggia il suo predecessore perché secondo lui condusse malissimo quel negoziato il cui fallimento - è bene ripeterlo - fu dovuto all'azione congiunta del personale di volo e di Berlusconi.

Questo è quanto e questo rimarrà agli atti.

* * *

Tuttavia la luna di miele tra il Cavaliere e una robusta maggioranza di italiani continua. Anzi si rafforza. Nonostante le ristrettezze economiche, nonostante alcuni buchi non da poco nella politica finanziaria del governo, nonostante un bel po' di misure oggettivamente sbagliate, nonostante il disagio crescente di vaste categorie sociali e professionali, la luna di miele perdura. Si consolida.

Diventa strutturale o almeno così sembra. Come mai? Alcuni osservatori si sono posti il problema e hanno dato le loro risposte. In particolare su questo giornale che per sua natura e per la qualità dei suoi lettori è il più sensibile a queste questioni e forse il meglio attrezzato per affrontarle.

Il ministro della Cultura, Sandro Bondi, in una lettera pubblicata ieri su Repubblica ci rimprovera perché secondo lui noi non abbiamo capito il fenomeno Berlusconi. Lo attribuiamo - erroneamente - alle sue capacità di demagogo, al suo dominio televisivo e/o alla dabbenaggine di tanti italiani che ripongono in lui la loro fiducia.

"Non avete capito niente" incalza Bondi. "Berlusconi avrà pure i difetti che voi gli avete cucito addosso, gli italiani saranno pure un popolo di allocchi al seguito di un pifferaio, ma la sua vera natura è di essere un modernizzatore e un semplificatore. Conserva le tradizioni ma le modernizza. Decide. Fa girare le ruote della storia. Insomma è uno statista. Se la sinistra non si rende conto di questo e non depone i suoi pregiudizi elitari, scomparirà". Così a un dipresso il nostro ministro della Cultura, che è assolutamente convinto di quanto ci scrive.

Non si stupisca Bondi se, dal canto mio, dico che c'è del vero nella sua visione berlusconista: un modernizzatore che conserva le tradizioni, trasforma l'antropologia sociale e riforma lo Stato. Non un fenomeno effimero ma durevole.

Ce n'è stato più d'uno nella storia dell'Italia moderna. Alcuni di grande livello, altri di mediocre spessore, altri ancora pessimi. Cavour, Giolitti, De Gasperi appartengono alla prima categoria; Bettino Craxi alla seconda. Alla terza - quella dei pessimi - Benito Mussolini. Dove collochiamo l'attuale "premier"?
Bisognerebbe lasciare il giudizio agli storici che rivisiteranno il passato a qualche decennio di distanza, ma anche noi contemporanei abbiamo il diritto di esprimerci. Secondo me Berlusconi va collocato a buon titolo tra i pessimi. La sua modernizzazione procede a ritroso, non è una riforma ma una controriforma. Il suo rispetto delle tradizioni riguarda la loro ritualità e non la loro viva sostanza. Basti guardare al suo rapporto con la Chiesa, che è addirittura blasfemo: non riguarda il cristianesimo ma gli interessi della gerarchia. La stessa cosa avviene quando affronta temi di fondo: la sicurezza, l'immigrazione, la giustizia, la scuola, l'economia, il federalismo, la Costituzione.

Nei primi anni del Novecento Sidney Sonnino lanciò lo slogan "torniamo allo Statuto" (quello promulgato mezzo secolo prima dal re di Sardegna Carlo Alberto). Credo che anche a Berlusconi piacerebbe tornare allo Statuto albertino mettendo se stesso al posto del re. Tutto il resto va di conseguenza.

Gli italiani sono un popolo di allocchi? Non più e non meno di tutti i popoli del mondo. Guardate alla campagna elettorale in corso negli Stati Uniti. Guardate a quella francese di un anno fa: può decidere una battuta, una foggia, un gossip, una promessa lanciata al momento giusto.

Il dominio dei "media" non conta? Non si capisce, se non contasse, perché chi quel dominio ce l'ha non se ne sbarazza nemmeno per tutto l'oro del mondo.

Gli individui di qualunque latitudine pensano innanzitutto alla propria felicità e si arrangiano per realizzarla. Poi, se hanno tempo e spazio, considerano anche la felicità del loro popolo, il bene comune.
"Quando il popolo si desta / Dio si mette alla sua testa / la sua folgore gli dà": così cantavano i poeti del nostro Risorgimento. Ma bisogna che il popolo si desti, cioè che gli individui divengano un popolo. Il che avviene molto di rado.

* * *

Immanuel Kant scrisse nella sua Critica della ragion pura che il peggior pregiudizio è non avere pregiudizi. Lo ricorda Todorov nel suo saggio sull'illuminismo. Sembra un paradosso ma coglie invece un aspetto importante della realtà perché il pre-giudizio è un'ipotesi di lavoro che serve ad orientare la ricerca di una soluzione. Chi non ha un'ipotesi di lavoro procede alla cieca, agisce e decide sulla base dell'emotività propria e di quella della folla. Dei sondaggi. Delle reazioni degli alleati e degli avversari.

Il modernizzatore-tradizionalista-controriformista non ha alcun pre-giudizio. La sua bussola sono i sondaggi e il favore della folla. La folla è la somma degli individui, non è un popolo. La folla è cera molle nelle mani di chi sappia manipolarla. Si tratta di un'arte, non di una scienza e in quell'arte il Nostro è maestro. Perciò è il massimo fautore d'una società "liquida", dove i nuclei associativi, i contropoteri, la pluralità organizzata siano ridotti al minimo.

* * *

La società liquida è un tipico aspetto della modernità a patto che i contropoteri e le istituzioni di garanzia siano in grado di tutelare l'eguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di accesso, l'esercizio dei diritti. Se questi presupposti mancano o sono deboli la società liquida non è un aspetto della modernità ma un ritorno all'antico, dal popolo alla plebe. Inoltre favorisce il rafforzamento di corporazioni e di mafie.

La globalizzazione porta con sé società liquide, professionalità ondivaghe e precarie, diritti incerti, mercati senza regole, contropoteri evanescenti. Le crisi assumono ampiezze e intensità mai viste prima, come avviene per gli uragani che sconvolgono i mari e le terre di pianura senza montagne che frenino il furore del vento.

Di fronte a crisi globali lo Stato si ripropone come l'assicuratore di ultima istanza. Riassume i pieni poteri. Non tollera controlli. Semplifica. Spazza via gli ostacoli. Confisca i diritti che possono frenarlo. In una società globale e liquida il potere si identifica con i governi nazionali. Il nazionalismo torna ad essere preminente nelle scale valoriali. I fondi sovrani diventano strumento di potenza e volontà di potenza.
Guardatevi intorno e vedrete che questa è la realtà che ci circonda. E per tornare ai casi nostri, di noi italiani, importa poco stabilire se il "format" berlusconiano sia una causa o un effetto, se sia duraturo o precario. Quel "format" c'è ed è all'opera da quindici anni. Non accenna a indebolirsi.

Dobbiamo unirci a chi lo applaude? Dobbiamo scegliere l'indifferenza e l'estraneità? Dobbiamo capirne la natura e resistergli? Il mio pre-giudizio è di resistergli avendone capito la natura. Sono molto affezionato ad un pre-giudizio che non mi impedisce di comprendere il diverso da me né di sognare e operare per una società dove i diritti e i doveri siano eguali per tutti e non ci sia solo tolleranza ma amore. In un mondo democraticamente ideale la tolleranza è offensiva rispetto all'amore e la tolleranza zero è una turpe bestemmia. Lo dicono anche i preti e questa volta sono d'accordo con loro.

(28 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #89 inserito:: Ottobre 05, 2008, 04:57:54 pm »

IL COMMENTO

Lo spot federalista ai tempi della crisi


di EUGENIO SCALFARI


I due temi hanno un sottofondo comune: la sovranità degli Stati nazionali e il mercato. Dopo anni di liberismo e di "deregulation" assistiamo ora ad un processo inverso: l'onda della crisi mondiale ha messo in moto un processo di rinazionalizzazione dell'economia. A Washington il Congresso ha finalmente approvato il provvedimento di 700 miliardi di dollari (aumentato a 850 miliardi) voluto da Bush per arginare la crisi del sistema bancario che nei giorni scorsi aveva coinvolto Wall Street.

A Parigi proprio in queste ore Sarkozy ha riunito le delegazioni dei quattro maggiori Paesi dell'Unione europea per una risposta comune e per sostenere le banche minacciate da illiquidità. Il punto sensibile, ancora una volta, è il funzionamento dei sistemi bancari, inquinati dal virus dei titoli-spazzatura. Ma c'è anche una pressione più che comprensibile a consentire gli aiuti di Stato alle imprese e a rendere più flessibile il patto europeo di stabilità.

Nel frattempo, mentre il nostro premier e il nostro ministro dell'Economia sono tra i più caldi fautori della rinazionalizzazione economica, quegli stessi due personaggi danno l'avvio al federalismo fiscale. Non c'è una notevole dose di incongruenza tra questi due processi così difformi, almeno in apparenza?

* * *

Le Borse americane non hanno dimostrato speciale entusiasmo per l'approvazione del provvedimento dei settecento miliardi di dollari sebbene esso abbia arginato il panico che si stava profilando sui mercati.
La ragione d'un tale scetticismo è tuttavia spiegabile: dipende dallo spettro sempre più visibile di una lunga recessione. Infatti sembra imminente a Washington un ribasso del tasso di sconto; si discute se sarà di mezzo punto o di tre quarti di punto.

Anche in Europa il timore d'una recessione-stagnazione è sempre più incombente. In Francia e in Spagna è già una realtà; in Italia l'andamento del Pil sarà lo zero nell'anno in corso e poco al di sopra dello zero nel 2009. Nonostante questa situazione la Banca centrale europea nicchia ancora su una diminuzione del tasso di sconto sebbene per la prima volta il presidente della Bce abbia aperto qualche spiraglio in proposito rinviandone la decisione al prossimo novembre.

Questa politica ha dell'incredibile, come abbiamo più volte segnalato. Il tasso di sconto è ormai da molto tempo fermo sul 4,25 per cento, più del doppio di quello americano. Nelle intenzioni di Trichet un livello così elevato doveva servire a fermare l'inflazione la quale però ha continuato ad aumentare. In pochi mesi siamo passati nell'area Ue da meno del 3 a più del 4 per cento.

Adesso, in settembre, quel tasso è sceso al 3,8 a causa d'una caduta della domanda e del prezzo del petrolio e ad una generale flessione dei consumi e degli investimenti. Il livello del tasso di sconto è dunque stato del tutto ininfluente sia per arrestare l'inflazione sia per determinarne una riduzione. Ma non è invece stato neutrale sugli oneri dei prestiti bancari alle piccole e medie imprese. Insomma una politica sciagurata che ancora persiste nonostante l'evidenza, senza più alcuna plausibile motivazione.

* * *

Dopo un anno e mezzo di sottovalutazione della crisi finanziaria mondiale, il richiamo al 1929 è diventato un luogo comune. Essendo stati tra i primi a segnalare questa analogia vogliamo qui ricordare alcuni strumenti che il "New Deal" rooseveltiano creò per risalire la china della grande depressione. Il primo fu il "Social Security Act" che pose le basi del "welfare"; il secondo fu il "Securities Act" che creò il sistema dei controlli sulle Borse e la trasparenza delle operazioni; ma il terzo e forse il più importante per impedire il ripetersi di crisi bancarie fu il "Glass Stengall Act" che separò le banche di credito ordinario dalle operazioni di credito finanziario.

Tra il 1932 e il '35 anche l'Italia fu investita dall'onda di crisi che travolse le nostre maggiori imprese industriali e l'intero sistema bancario nazionale. Gli strumenti messi in opera furono in parte simili a quelli rooseveltiani: le banche furono nazionalizzate attraverso il Crediop prima e l'Iri poi. La legge bancaria interdisse alle banche di praticare il credito a medio e lungo termine. Per soddisfare l'esigenza del finanziamento delle imprese nacquero Mediobanca e l'Imi, la prima di proprietà delle tre banche di interesse nazionale (Comit, Credit, Banco di Roma), il secondo come ente pubblico sotto la diretta vigilanza della Banca d'Italia.

Ricordo queste vicende poiché proprio in questi giorni sono stati e saranno abbattuti i paletti che la legge bancaria del '36 mise per impedire che le banche di credito ordinario fossero controllate da imprese private e - viceversa - che quelle banche prendessero il controllo di imprese. La separatezza fu cioè considerata un valore. Ora, non si capisce il perché, quella separatezza è diventata incongrua e viene attuata invece una vera e propria "deregulation" in materia di rapporti tra banche e imprese, patrocinata dall'Abi, da Confindustria e dal ministro Tremonti.
La crisi in corso ha rimesso in auge negli Usa la separatezza bancaria. Noi marciamo all'incontrario come già facemmo quando fu depenalizzato il reato di falso in bilancio. Non vi sembra un'altra non piccola anomalia italiana?

* * *

Tremonti vorrebbe un "fondo sovrano" europeo per le infrastrutture. L'Olanda ha proposto un fondo europeo sul modello americano per bonificare le banche dai titoli-spazzatura che hanno in corpo. Sarkozy ha probabilmente in testa qualche cosa di analogo e Berlusconi-Tremonti pure.

Forse sono buone intenzioni. Forse possono accelerare il processo verso un vero e proprio governo federale europeo. Ma allo stato dei fatti sono progetti acchiappanuvole. Qualunque fondo europeo che abbia così alte ambizioni non può che essere gestito da un governo che abbia alle sue spalle la sovranità e la legalità di uno Stato. Ma uno Stato europeo non esiste. Si può incaricare una banca o una qualsiasi agenzia di una missione del genere che dovrebbe mobilitare a dir poco il 3 per cento del Pil di ogni paese membro dell'Ue? Via, questo è uno sciocchezzaio con soli fini mediatici. Basta poco per capire che si tratta di bubbole senza alcun senso di realtà.

* * *

L'avvio del federalismo, avvenuto il 3 ottobre con l'approvazione del disegno di legge delega da parte del Consiglio di ministri, ha avuto un antefatto che merita di esser messo in evidenza. Le Regioni, i Comuni e le Province, hanno chiesto e ottenuto il rispetto da parte del governo di una serie di impegni finanziari che erano stati presi parecchio tempo fa ma fino ad oggi non onorati.

Si tratta del trasferimento alle Regioni di quanto loro spetta per evitare i ticket a carico dei cittadini; ai Comuni di quanto hanno perso per l'abolizione dell'Ici sulla prima casa e dell'Ici sulle seconde case ex rurali; alle Province per la totale mancanza di propri tributi con i quali sostenere i loro bilanci.

Il totale di queste richieste, riconosciute legittime e dovute, è di 3,5 miliardi. Una parte di questa cifra è stata "consacrata" in un ennesimo decreto legge varato dal Consiglio dei ministri nella stessa seduta dell'altro ieri. Un'altra parte dovrà trovar posto nella Finanziaria. Ma le richieste non sono finite perché l'Ici dovrà esser rimborsata ai Comuni anche nel 2008 e 2009. Forse anche nel 2010 fino a quando le finanze comunali non saranno definitivamente stabilizzate dai decreti delegati federativi. Non si tratta di piccole cifre ma di oltre un miliardo l'anno. Di tutte queste ingenti somme si ignora la copertura che tuttavia ci dovrà pur essere, come pure per le emergenze già versate al Comune di Roma e a quello di Catania.

I rappresentanti delle Regioni e degli Enti locali hanno vigorosamente negato che si sia trattato di un ricatto e di un "do ut des": erano impegni assunti dal governo molti mesi fa senza alcuna connessione col federalismo fiscale. Ma è pur vero che senza questo accordo preliminare la conferenza Stato-Regioni si sarebbe chiusa prima ancora di cominciare e il disegno di legge delega non ci sarebbe stato.

Quel disegno di legge è soltanto una scatola vuota, ma è già costata un bel po' di soldi. L'avevamo scritto più volte che l'abolizione dell'Ici era una totale sciocchezza populistica perché sarebbe comunque ricaduta sulle spalle dei contribuenti. Ed è esattamente ciò che è avvenuto e avverrà.

* * *

Una scatola vuota, riempita di principi generici e di buone intenzioni, cioè appunto di bubbole. Tuttavia qualche contenuto c'è. Per esempio il metodo legislativo scelto. E la tempistica.

Il disegno di legge sarà allegato alla Finanziaria e quindi approvato entro il 30 dicembre. Poiché nei due mesi e mezzo che ci stanno davanti bisognerà approvare anche la conversione di molti altri decreti in scadenza, le norme sulla scuola, la riforma della giustizia che il "premier" antepone ad ogni altra questione, l'esame della legge-quadro sul federalismo ne risulterà inevitabilmente limitato; la tentazione di strozzare il dibattito ci sarà e dipenderà dall'equità dei presidenti delle Camere. Non ci metterei la mano suo fuoco.

Ma il tema è grosso; si tratta infatti di una legge delega, approvata la quale il governo procederà con decreti attuativi del contenuto dei quali il Parlamento sarà semplicemente informato e neppure in assemblea ma nella commissione degli Affari Regionali. Assisteremo così alla trasformazione radicale del sistema tributario in assenza del Parlamento, come ha rilevato con giusto allarme Andrea Manzella sul numero di ieri di Repubblica.

Una soluzione ci sarebbe per evitare un "monstrum" di questo genere e l'hanno proposta lo stesso Manzella e il presidente dell'Anci, Leonardo Dominici: creare una commissione composta dal governo, dai rappresentanti delle Regioni ed Enti locali e dai rappresentanti della competente commissione parlamentare. Questa nuova entità sarebbe incaricata di raccogliere i dati necessari e preparare i decreti delegati.

È una soluzione un po' barocca ma almeno non confisca completamente i poteri di legislazione del Parlamento. Se non sarà accettata verrà compiuto un atto molto grave contro il Parlamento, ai limiti della costituzionalità. Quanto alla tempistica, il governo avrà due anni di tempo per emanare i decreti, poi ci vorranno da un minimo di cinque ad un massimo di dieci anni per rodare il sistema. La fine del processo si avrà insomma intorno al 2020 se tutto andrà bene.
* * *
I problemi di merito sono due: i costi standard e la perequazione. Ne ho parlato a lungo con il professor Giarda, che è forse il massimo esperto indipendente in materia di federalismo fiscale. Nella sua narrazione costruire il costo standard è un'operazione da far tremare i polsi al più attrezzato cervellone, qualche cosa non molto dissimile dalla macchina di accelerazione delle particelle nucleari costruita a Ginevra per simulare il "Big Bang".

Inoltre, ovviamente, c'è un costo standard per ogni servizio reso da una pubblica amministrazione e qui entra nel conto una quantità innumerevole di elementi: sociali, geografici, demografici, professionali, terapeutici, sessuali, culturali, censitari.
Naturalmente si andrà per larghe approssimazioni, ma nasce un problema sul quale si è espresso con efficacia Luca Ricolfi sulla Stampa: il raffronto tra costi standard e spesa storica.

È stata fin qui opinione corrente che la spesa storica, specie nelle Regioni povere, sarebbe stata superiore o eguale al costo standard. Di qui un risparmio significativo e un guadagno di efficienza. Invece non è così. In molte Regioni povere il costo standard risulta più elevato della spesa storica.

Per di più i risultati finanziari varieranno secondo la scelta del "benchmark" cioè della Regione o gruppo di Regioni assunto come punto di riferimento. Ricolfi ha calcolato che se il punto di riferimento fosse la Lombardia (per quanto riguarda la spesa sanitaria che rappresenta buona parte di quella regionale) ci sarebbe un'economia netta di 4,7 miliardi; se fosse l'Emilia il risparmio sarebbe in un paio di miliardi; se fosse la Toscana ci sarebbe invece una maggiore spesa di 5 miliardi e forse più. Come si vede si tratta di cifre ballerine e tutto è ancora aperto.

Il secondo problema è quello della perequazione, cioè dei trasferimenti che debbono esser fatti dalle Regioni con più alta capacità impositiva a quelle con più bassa capacità. Anche qui le difficoltà non sono poche poiché occorre calcolare la dimensione del "sommerso".
Il fondo perequativo dev'essere alimentato anche dalle Regioni a statuto speciale e questo è un altro problema aggiuntivo che si proporrà comunque alla fine dell'intero processo federalistico. Ha un senso mantenerle in uno Stato federale? Tanto più che alcune di quelle Regioni hanno un livello di spesa pro-capite più basso di Regioni a statuto ordinario. Insomma un guazzabuglio.

L'ipotesi più attendibile è che alla fine si procederà su uno schema a doppia velocità: alcune Regioni saranno in grado di entrare nel sistema federalistico mentre molte altre e probabilmente gran parte del Sud, ci arriverà quando potrà. Tutto ciò accade in una fase di grande difficoltà per la nostra finanza, per il nostro debito pubblico e per il nostro welfare. Se c'era un momento in cui sarebbe stato insensato parlare di federalismo fiscale, quel momento è esattamente l'autunno del 2008 cioè i giorni e i mesi che stiamo vivendo. Pensateci tutti molto bene e poi, almeno i credenti, si facciano il segno della croce prima che questo lungo viaggio cominci.

(5 ottobre 2008)

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