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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 144364 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Luglio 24, 2009, 11:07:52 pm »

ECONOMIA     

L'intervista all'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo

Corrado Passera: le banche stanno facendo il loro dovere

"Italia ferma, serve una scossa o sarà la democrazia a logorarsi"

di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "Sarà un settembre difficile". Corrado Passera frena gli entusiasmi governativi. "Si stanno accumulando gli effetti di una recessione lunga e i prossimi mesi saranno inevitabilmente assai critici", dice l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. "Alcuni micro-segnali danno qualche speranza, a partire dagli indici di fiducia. Mi aspetto miglioramenti nella seconda parte dell'anno".

Dottor Passera, ma secondo lei quando usciremo dalla "tempesta perfetta"?
"Nessuno lo sa con certezza. Ma una cosa è sicura: la crisi colpirà in modi molto diversi i vari strati della società italiana. Ci sono le famiglie che hanno visto crescere il loro potere d'acquisto grazie alla stabilità dei redditi e al calo dell'inflazione, altre che hanno perso parzialmente o totalmente la fonte di reddito. Ci sono imprese che si stanno rafforzando, altre mantengono buone posizioni ma soffrono finanziariamente, altre ancora non ce la fanno proprio. E qui sta la parte più difficile del nostro lavoro di banchieri. La responsabilità di saper discernere le diverse categorie e fare il massimo possibile per stare vicini a tutte le aziende che possono attraversare la crisi".

Voi banchieri siete nel mirino. Tremonti cita Brecht: perché rapinare una banca, quando si può più facilmente fondarla...
"Certe banche in giro per il mondo si sono meritate giudizi molto duri. Se fosse però un giudizio rivolto alle banche italiane sarebbe sbagliato e ingeneroso sulla base dei fatti".

D'accordo, ma perché persino Draghi vi striglia, dicendo "è troppo facile fare i banchieri, quando le cose vanno bene"?
"I richiami di Draghi sono sempre equilibrati: assicurare supporto all'economia e tutelare la solidità dei nostri bilanci. Fare credito è la nostra ragion d'essere e fonte insostituibile di ricavi per noi. La grande crisi deriva dall'aver fatto, soprattutto negli Usa, cattivo credito, credito senza ritorno".

Allora Confindustria e Bankitalia hanno torto?
"Senta, Intesa Sanpaolo ha firmato il 3 luglio con Confindustria un grande accordo a favore delle Pmi, che prevede tra l'altro la moratoria sulle rate in scadenza e il finanziamento degli insoluti. Quanto a Bankitalia, l'invito ad avere più coraggio lo raccogliamo in pieno. Ma mi faccia dire che, almeno per la nostra banca, abbiamo la coscienza a posto. Abbiamo affidamenti in essere per 500 miliardi al sistema Italia, quasi un terzo del Pil. Anche nei progetti più difficili non ci siamo mai tirati indietro se c'era anche solo una possibilità di rilancio. Facciamo la nostra parte, e continueremo a farla".

Ma perché, nonostante i Tremonti bond, persiste la crisi di liquidità e le imprese soffrono di asfissia finanziaria?
"Per alcune aziende la liquidità è un grave problema e non sempre si può compensare con credito la mancanza di risultati e di patrimonio. Un'altra forte fonte di tensione finanziaria è l'ormai cronico ritardo dei pagamenti da parte sia dei privati che del pubblico: almeno 100 miliardi di indebitamento delle Pmi derivano da questo fenomeno. Spesso il credito non è il problema. Le dò due dati: quasi il 70% dei nostri 500 miliardi di linee di credito sono alle imprese: di questi i due terzi sono destinati alle Pmi. Oggi circa 61 miliardi di questi affidamenti deliberati non sono utilizzati. Attenzione quindi alle diagnosi affrettate perché ne possono derivare terapie sbagliate".

Secondo lei i soldi ci sono ma le imprese non li vogliono?
"Parliamoci chiaro: se le fatture da scontare diminuiscono o la sostituzione del tornio viene rimandata, il credito non può che ridursi. Oggi produzione, fatturato interno, export e investimenti sono tutti in drammatico calo: malgrado ciò il credito complessivo alle aziende, grandi e piccole, tiene ancora. Quelle che crescono vistosamente sono purtroppo le sofferenze e le perdite su questi crediti".

Ma allora che mi dice della situazione di Risanamento? Perché avete dato così tanti soldi a Zunino, sapendo che nuotava in pessime acque? Siamo ai figli e figliastri?
"Quando l'azienda ci farà le sue proposte le valuteremo: quello che è certo è che i suoi attivi sono superiori ai suoi debiti e sono di grande qualità. In questi anni abbiamo finanziato progetti di grande valenza per Milano e speriamo che possano essere portati in fondo".

Non può negare che sulle commissioni di massimo scoperto la vostra posizione è indifendibile.
"Non è facile gestire la tenaglia dei margini bancari ai minimi e delle perdite su crediti ai massimi. Siamo stati tra i primi ad appoggiare il superamento della Commissione di massimo scoperto con forme di remunerazione più trasparenti. Ma il numero di rapporti che non coprono più i costi della raccolta, del rischio, del capitale e operativi sta diventando preoccupante. E concordiamo con Confindustria che è sempre pericoloso regolare i rapporti tra privati per via legislativa".

A proposito, come va con i famigerati prefetti-controllori?
"Quando se ne parlò a suo tempo io dissi subito: cosa c'entrano i prefetti? Ora c'è una legge. Da parte nostra, quindi, massima collaborazione. Ci fa piacere che, per quanto ci riguarda, fino ad ora siano arrivati ai Prefetti mediamente meno di mezza segnalazione a provincia".

Altro nervo scoperto, i bonus miliardari per voi manager. Come li giustifica, in un mondo che tira la cinghia?
"Guardi, ci sono state vergogne così vergognose, in giro per il mondo, che ho trovato del tutto ovvia la reazione emotiva delle opinioni pubbliche. Anche questo è stato un sintomo del fallimento di un certo capitalismo di matrice anglosassone. Detto questo, non si può far finire tutto e tutti nello stesso calderone. Resto convinto che legare parte della remunerazione dei manager ai risultati è del tutto opportuno. È questione di parametri e di quantità: 300.000, 3 milioni, o 300 milioni di euro non sono la stessa cosa. In Italia non mi pare ci siano stati abusi clamorosi. E del resto le banche italiane si sono rivelate tra le più solide e le meglio gestite al mondo".

Tremonti sostiene che contro la crisi non si poteva fare di più. Marcegaglia e Draghi dicono che le riforme strutturali andrebbero fatte subito. Lei come la vede?
"Ciò che è stato fatto finora è nella direzione corretta. Il fondo di garanzia per le piccole imprese, le iniziative della Cdp, la premialità fiscale per le imprese che investono o che patrimonializzano. Ma perché queste misure, giuste in sé, abbiano effetto è necessario che le risorse messe a disposizione concretamente siano di portata adeguata. Di fronte a una recessione così grave serve davvero qualcosa di più. Serve uno shock positivo, che abbia effetto nel breve periodo, ma che al contempo modernizzi il Paese e lo metta strutturalmente in condizione di crescere molto più di prima".

E quale sarebbe questo shock positivo?
"L'Italia ha ritardi infrastrutturali gravissimi, dalle autostrade ai porti, dai termovalorizzatori ai rigassificatori, dalla banda larga alle energie rinnovabili, dalle scuole agli ospedali e ai musei. Accelerare in tutti questi campi potrebbe contribuire a creare lo shock positivo. Ci sono tantissimi lavori già finanziati, o co-finanziabili dai privati, che non partono solo per insopportabili lungaggini burocratiche. Abbiamo appena dato il via ai lavori della Brebemi, dopo 10 anni di fatiche malgrado i fondi fossero disponibili. La stessa cosa vale per mille altre opere, grandi e piccole, che possono diventare motori di crescita e occupazione".

Facile a dirsi: ma dove troviamo i soldi?
"E' ovviamente la parte difficile, ma non stiamo parlando di cifre che cambiano il profilo del nostro debito pubblico. Molte risorse ci sono già, e vanno solo scongelate o meglio utilizzate. Molte altre si possono trovare, se c'è la volontà politica. C'è un patrimonio pubblico ancora immenso da valorizzare. C'è una spesa corrente sulla quale si può risparmiare ancora molto. E soprattutto c'è un livello vergognoso di evasione fiscale: combattiamola, e usiamo un pezzetto del ricavato per modernizzare il Paese e per creare sviluppo".

Belle parole. Intanto variamo uno scudo fiscale che in realtà è un condono tombale.
"Senta, tutti i condoni sono diseducativi. Alcuni, negli ultimi anni, sono stati molto riprovevoli. Ma in questa situazione di crisi si può ragionare su un meccanismo di rimpatrio dei capitali, purché preveda una misura corretta di prelievo e non contribuisca a coprire reati gravi".

Non ha l'impressione che si stia perdendo una grande occasione? Un governo con una maggioranza bulgara, che vivacchia invece di cambiare la faccia del Paese.
"Dobbiamo tutti fare di più. Se la recessione continua, per evitare il peggio. Se la recessione finisce, per crescere quanto e più degli altri. Dobbiamo innalzare strutturalmente il nostro potenziale di crescita. Il successo di lungo periodo di un Paese corre su quattro ruote che devono muoversi all'unisono. La coesione sociale, in gran parte legata al Welfare che noi europei abbiamo, vivaddio, e va solo riformato; la competitività delle imprese che abbiamo in quantità come dimostrano le nostre esportazioni; l'efficienza del Sistema-Paese, che invece oggi è un grave vincolo. E poi il dinamismo della società che, a sua volta, viene da fattori che ci vedono in fondo a tutte le classifiche: mobilità, meritocrazia, capacità decisionale. Qui c'è il nostro problema maggiore che logora non solo l'economia ma, nel tempo, anche la democrazia".

Il suo sembra un manifesto politico. Dica la verità: si prepara o no alla "discesa in campo"?
"Di questa storia si parla da almeno 10 anni. Poi la realtà fa sempre giustizia di tutte le chiacchiere. E la realtà è che anche questa volta faccio un lavoro complicato, ma che mi da sempre un'enorme soddisfazione. Non ho nessuna voglia di smettere".

(24 luglio 2009)

da repubblica.it
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« Risposta #76 inserito:: Agosto 02, 2009, 02:59:06 pm »

ECONOMIA     

Francoforte pronta alla battaglia legale.

Se arriva il nuovo tributo, il ricorso alla Corte di Giustizia

Il no della Banca centrale europea

"Quella norma viola il Trattato Ue"

di MASSIMO GIANNINI


"L'oro alla Patria", grida Giulio Tremonti nel malcelato tentativo di allungare le mani sulle riserve auree della Banca d'Italia. "Giù le mani da quell'oro", rispondono all'unisono le autorità monetarie da Via Nazionale e dall'Eurotower di Francoforte. Il conflitto tra il governo italiano e l'Eurosistema delle banche centrali, invece di sciogliersi nel buon senso politico, continua a covare sotto le ceneri dell'irresponsabilità istituzionale.

Berlusconi ha deciso di andare avanti comunque, nonostante i paletti del Quirinale e i veti della Bce. Nel pasticciaccio brutto del decreto anticrisi, l'articolo 14 che introduce l'imposta sulle plusvalenze sull'oro non industriale di società ed enti è un capolavoro di ambiguità e ipocrisia. Il comma 4 prevede che la tassa una tantum sulle disponibilità in oro della Banca d'Italia, per un gettito fissato in 300 milioni di euro, possa essere applicato solo "previo parere non ostativo della Banca centrale europea" e comunque attraverso un decreto non regolamentare del ministero dell'Economia, "su conforme parere della Banca d'Italia". Il premier, con tanto di comunicato ufficiale accluso al decreto, spiega che la norma non si presta così a fraintendimenti: garantisce in ogni caso l'indipendenza istituzionale e finanziaria della Banca centrale.

Messo in questi termini, il caso sembrerebbe risolto. In realtà le cose non stanno così. Banca d'Italia e Bce assistono silenti ma attonite alle mosse del governo. Che senso ha introdurre una Golden Tax inattiva, vincolandone l'applicazione a "un parere non ostativo" che la Bce ha già negato, e a un "conforme parere" che la Banca d'Italia non emetterà mai? Questa, oggi, è la replica che si raccoglie presso le autorità monetarie. La Banca centrale europea ha già formulato ben due pareri, sul tema della tassazione delle plusvalenze sulle riserve auree, che non lasciano margini di dubbio. Il 24 luglio l'Eurotower ha scritto chiaro e tondo che quella forma di imposizione, tanto più se concepita come una tantum, viola l'indipendenza finanziaria e istituzionale della Banca d'Italia. Non solo: nella misura in cui prefigura un gettito con effetto retroattivo, su una plusvalenza non realizzata, da Banca d'Italia a Tesoro, configura una forma di finanziamento monetario al settore pubblico che è palesemente incompatibile con il Trattato di Maastricht. Dunque, è la linea dell'Eurosistema delle banche centrali, non ha senso scrivere una legge in cui si subordina il via libera a questa forma di imposizione fiscale a un "parere non ostativo della Bce", perché a invalidare alla radice una misura del genere non è un verdetto specifico di un'istituzione europea, ma una "grundnorm" del diritto costituzionale comunitario.

Per questo, adesso, tra Eurotower e Palazzo Koch si registra un preoccupato stupore per la scelta fatta da Berlusconi e Tremonti. Bce e Banca d'Italia non hanno nulla da aggiungere a quanto già non sia stato scritto negli atti ufficiali diffusi fino ad oggi. Non ci sono altri pareri da esprimere, perché quelli già espressi dicono tutto. La Golden Tax è illegittima, punto e basta. Se poi il governo italiano, per ragioni di strategia interna o di tattica comunitaria, deciderà di andare avanti lo stesso con la tassazione, se ne assumerà fino in fondo la responsabilità, e si metterà in moto la fisiologica dialettica istituzionale di "check and balance". Sul piano interno, il presidente della Repubblica Napolitano valuterà nelle prossime ore se il nuovo decreto anticrisi, così formulato e corredato dal comunicato di Palazzo Chigi, risponde ai requisiti di legittimità richiesti dalla Costituzione italiana. Sul piano comunitario, pare evidente e scontato che la Bce non esiterà a far ricorso alla Corte di Giustizia del Lussemburgo, ai sensi dell'articolo 230 del Trattato europeo.

La domanda che rimbalza tra Roma e Francoforte è la seguente: a chi giova, questa sfida agli equilibri istituzionali, in un momento di crisi economico-finanziaria ancora così acuta? E perché accentuare le tensioni, quando sul piatto della bilancia ci sono solo 300 milioni di gettito? Tremonti, con la consueta logica del bastone e carota, alterna minacce populiste e aperture riformiste. Da un lato dice "quell'oro è del popolo, non di Via Nazionale" (e qui, per inciso, si potrebbe chiosare: se è del popolo, e lo vuoi colpire con una nuova imposta, stai facendo pagare più tasse agli italiani, contraddicendo uno dei dogmi della tua ideologia politico-economica).

Dall'altro aggiunge "se ci saranno spazi per attivare la norma sull'oro senza forzature, c'è la possibilità di raccogliere fondi contro la crisi anche da lì". Dunque, ancora una volta, qual è il vero volto del ministro dell'Economia? Quello che intima o quello che dialoga? E un modestissimo "tesoretto" da 300 milioni di euro vale uno scontro istituzionale di portata globale? A Palazzo Koch e all'Eurotower si fa fatica a capire. C'è una possibile spiegazione nazionale. E' probabile che Tremonti abbia voluto tenere ancora carica la pistola della Golden Tax sulla tempia del governatore per non abbassare la guardia nel duello sotterraneo e strisciante, che lo induce a vedere in Mario Draghi un potenziale competitore politico, più che un naturale interlocutore economico. Ma c'è anche una possibile spiegazione sovra-nazionale. E' probabile che Tremonti voglia ritagliarsi il ruolo di capofila di un fronte inter-governativo europeo che, in nome del popolo che vota, punti a sottrarre legittimità (e quindi sovranità) alle tecnocrazie di Bruxelles e di Francoforte.

In questo scenario il governo italiano, con la sua norma sull'oro, inattiva ma attivabile, cercherebbe prima o poi di aprire una falla, nella quale si potrebbero inserire anche le altre cancellerie. Con l'obiettivo di rimettere in discussione il primato delle banche centrali, e in prospettiva gli equilibri stessi del Trattato Ue. Con il Cavaliere potrebbe essere schierato su questa linea Sarkozy, forse Zapatero e qualche altro primo ministro dell'Europa centro-orientale. Non la Merkel, visto che in Germania un analogo tentativo di rimettere in gioco le riserve auree è stato respinto senza appello dalla Bundesbank. Ma in ogni caso, se questa fosse la scommessa di Roma, sarebbe comunque ad altissimo rischio. Come già accadde nella legislatura 2001-2006, gli italiani tornerebbero a riproporsi alla comunità internazionale con la consueta, squalificante immagine di sempre: i soliti furbi. E in ogni caso, si dovrebbe passare comunque per uno strappo istituzionale con la Bce, e per un contenzioso costituzionale con la Corte di Giustizia.

Quello che ci si chiede, e non solo lungo l'asse Roma-Francoforte, è molto semplice. Se l'Italia va avanti sulla Golden Tax, rischia una procedura d'infrazione alla Ue e una condanna a Lussemburgo. Un presidente del Consiglio come Berlusconi, già così screditato dalle sue avventure personali, può far pagare al suo Paese anche il "supplemento" di un danno politico così devastante?

m. gianninirepubblica. it

(2 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #77 inserito:: Agosto 07, 2009, 11:39:21 am »

ECONOMIA     IL COMMENTO

La disfatta di Francoforte

di MASSIMO GIANNINI


L'autolesionistica battaglia persa sull'oro, per puro e insensato "arditismo" finanziario, è un paradigma del logorante declino politico cui l'esecutivo e la maggioranza di centrodestra si stanno condannando. Il "non expedit" della Bce sulla tassazione delle riserve auree della Banca d'Italia è qualcosa di più dell'inevitabile mannaia calata sulle velleitarie forzature del nostro ministro dell'Economia. Rappresenta, plasticamente e simbolicamente, l'inappellabile bocciatura di un metodo di governo fondato sullo strappo delle regole, più che sulla produzione di riforme. Sul salto nel cerchio di fuoco, più che sulla soluzione dei problemi. Sulla rappresentazione propagandistica, più che sull'azione pratica.

È stata una mossa allo stesso tempo arrogante e disperata. Che senso aveva inserire a tutti i costi in un decreto, già di per sé discutibile per forma e per contenuto, una norma palesemente contraria al Trattato Europeo, e quindi naturalmente illegittima anche rispetto alla Costituzione italiana? Che senso aveva esporre il Paese al giudizio negativo di un'importante istituzione comunitaria, che aveva già formalmente espresso in due diverse occasioni la sua netta opposizione giuridica rispetto alla famigerata Golden Tax? Nessun senso. Né economico: 300 milioni di gettito, per un Paese con un debito pubblico di 1.700 miliardi di euro, sono una goccia nel mare.
Né diplomatico: la speranza di portarsi dietro qualche altra cancelleria, su una crociata ideologica che minaccia l'autonomia delle banche centrali in un'Europa tuttora tedesco-centrica, è una pia illusione.
Eppure Berlusconi e Tremonti hanno voluto marciare lo stesso, contro il buon senso di Giorgio Napolitano e il dissenso di Jean Claude Trichet. In nome del "presidenzialismo di fatto" che il premier ha ormai introiettato nella sua inimitabile epopea leaderistica, dove non c'è posto per gli altri poteri repubblicani, per le istituzioni di controllo, per gli organi di garanzia. In nome del "populismo di comando" che il suo mago dei numeri ha ormai incarnato nella lotta ai tecnocrati e ai banchieri, dove non solo i Profumo e i Passera ma anche i Mario Draghi vengono implicitamente additati ai cittadini come "nemici pubblici".

Questa cronaca di una sconfitta annunciata la dice lunga sulle reali condizioni del Cavaliere e del suo Pdl. Forte dei suoi consensi bulgari, si era illuso di gestire il Paese come una sua televisione, e di comandare il governo come un consiglio di amministrazione. Ora l'asprezza della crisi economica e lo squilibrio dei conti pubblici, insieme alle sue disavventure personali e alle sue avventure sessuali, gli presentano il conto. Con tutta evidenza, Berlusconi sta perdendo il controllo della sua maggioranza. È un animale ferito, piagato dalla scandaleide pubblico-privata che non lo molla e che la stampa internazionale gli ricorda ormai tutti i giorni. E come la muta dei cani nella caccia, i suoi stessi alleati sembrano sentire l'odore di quel sangue. E lo tormentano, lo braccano, lo assediano. La Lega di Bossi e Calderoli, che al Nord detiene tuttora la "golden share" della coalizione, ormai ne inventa "una al giorno", per dirla con le parole del Secolo d'Italia. I "clientes" Lombardo e Micciché, che al Sud battono cassa in vista della sfida sul federalismo, paiono solo momentaneamente placati dall'assegno di 4 miliardi staccato dal Cipe una settimana fa. Ma ormai i rubinetti si sono aperti: oggi reclamano i siciliani, domani toccherà ai pugliesi, dopodomani ai calabresi e poi ancora a chissà quali altri cacicchi locali.
Tremonti ha capito l'antifona. E gioca a suo modo la guerra di potere che si scatena alle spalle del premier. Profilandosi come un leader a tutto tondo, capace di elaborare pensiero oltre che di gestire denaro. Di parlare ai popoli, in Italia e in Europa, contro tutte le nomenklature, autoreferenziali e irresponsabili. Chiudendo i cordoni della borsa ai ministri rivali, ma aprendo le porte dei "board" ai suoi uomini: alla Cassa Depositi e Prestiti, alla futura Cassa per il Mezzogiorno, alla prossima Banca per il Sud. Poco importa se, in questo conflitto sotterraneo, si perde qualche battaglia, come è successo sulla Golden Tax. L'importante è aver piazzato un'altra "bandierina" ideologica e demagogica, nel grande risiko del centrodestra in lenta decomposizione. Ormai, per chi ragiona già in una logica post-berlusconiana, quello che conta è vincere la guerra finale. Anche questo ci dice, la "disfatta di Francoforte". Durerà ancora, chissà quanto. Ma il dopo Berlusconi, forse, è già cominciato.

(7 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #78 inserito:: Settembre 04, 2009, 07:45:02 pm »

dal sito di "Repubblica"

di MASSIMO GIANNINI


"E ADESSO NIENTE SARA' PIU' COME PRIMA...". Non è un anatema. Piuttosto è una presa d'atto, dura ma netta, quella che si raccoglie Oltre Tevere in queste ore difficili e amare. Se è vero che Dino Boffo è "l'ultima vittima di Berlusconi", come scrive persino il New York Times, è chiaro che questa vicenda apre una doppia, profonda ferita. Sul corpo della Chiesa, già attraversato da divisioni latenti. E nel rapporto tra Santa Sede e governo, già destabilizzato da incomprensioni crescenti.

Per la Chiesa, il doloroso sacrificio di Boffo nasconde la frattura che si è aperta tra Segreteria di Stato e Conferenza Episcopale. Per rendersene conto basta ricostruire le tappe che hanno portato alla drammatica uscita di scena del direttore di Avvenire. Venerdì scorso si consuma il primo atto, con l'operazione di killeraggio del Giornale e il conseguente annullamento della Cena della Perdonanza tra Bertone e Berlusconi. Un colpo a freddo, che nelle alte gerarchie nessuno si aspettava, ma che innesca reazioni differenti. Nel fine settimana Boffo comincia a meditare sull'ipotesi delle dimissioni. L'idea prende materialmente corpo lunedì mattina, quando sul Corriere della Sera esce un'intervista al direttore dell'Osservatore Romano. Una sortita altrettanto inaspettata, quella di Gian Maria Vian, che giudica "imprudente ed esagerato" un certo modo di fare giornalismo dell'Avvenire e conclude con un sibillino "noi non ci occupiamo di polemiche politiche contingenti".

Per l'intera mattinata Boffo aspetta una correzione di tiro della Segreteria di Stato. Ma non arriva nulla. Oltre Tevere si racconta di una telefonata di Bagnasco: "Scusate, ma quell'intervista è cosa vostra?", avrebbe chiesto a Bertone. "Non lo è - sarebbe stata la risposta - e ci siamo anche lamentati con Vian, che ha impropriamente parlato in prima persona plurale". Ma questo è tutto. Dalla Segreteria di Stato non esce nulla di pubblico. Così, lunedì pomeriggio Boffo va personalmente da Bagnasco, e gli consegna la sua lettera di dimissioni. Mentre il direttore parla con il cardinale, arriva la telefonata di Ratzinger, che chiede: "Il dottor Boffo come sta? Mi raccomando, deve andare avanti...". Il presidente della Cei riferisce a Boffo, che di fronte al Papa non può certo tirarsi indietro.

Martedì mattina lo scenario in parte cambia. Repubblica dà la notizia: solidarietà del Pontefice a Boffo. Solo a quel punto, molte ore dopo, il direttore della Sala Stampa Vaticana padre Lombardi annuncia che Bertone ha effettivamente telefonato al direttore di Avvenire, per offrirgli il suo sostegno. Ma sono passati ben cinque giorni dal siluro di Feltri, prima che la Segreteria di Stato muovesse un passo ufficiale. Intanto Boffo è rimasto sulla graticola. E nel frattempo persino monsignor Fisichella, nel silenzio della Curia, contesta apertamente il quotidiano per le critiche al governo sull'immigrazione.

Mercoledì Feltri torna all'attacco, e sostiene che la "nota informativa" che getta fango sulla vita privata di Boffo è una velina uscita dal Vaticano. Padre Lombardi smentisce. E aggiunge l'ultima novità: papa Ratzinger ha chiamato il cardinal Bagnasco, per avere notizie "sulla situazione in atto". Ma dalla Segreteria di Stato ancora silenzio. Così si arriva al colpo di scena di ieri: dopo una settimana di fuoco incrociato, il direttore di Avvenire getta la spugna e se ne va.

Ma perché all'offensiva volgare e violenta del Giornale la Santa Sede ha fatto scudo in modo così discontinuo e frammentato? "Qui - secondo la ricostruzione che si raccoglie negli ambienti della Cei - si apre la frattura con l'episcopato". Il cardinal Bertone, due anni fa, aveva lanciato la candidatura di Bagnasco alla Conferenza episcopale con una convinzione, che la realtà dei fatti ha presto svilito in pia illusione: trasformare la conferenza dei vescovi in una "cinghia di trasmissione" della Santa Sede, dopo la stagione troppo lunga dell'autoreferenzialità ruiniana. Il tentativo è fallito, ben prima che scoppiasse il caso Avvenire e che scattasse l'imboscata mediatica ordita dal Cavaliere e dai suoi giornali ai danni del direttore.

"Lo stesso Bertone lo ha riconosciuto - raccontano Oltre Tevere - quando qualche settimana fa si è lasciato scappare che la nomina di Bagnasco è stato il suo errore più grave. E certe cose, in questi palazzi, si vengono a sapere molto presto...". Secondo questa stessa ricostruzione, il caso Boffo precipita proprio in questa faglia, che divide Bertone da Bagnasco. E in questa faglia si inserisce anche l'ultima, clamorosa indiscrezione di queste ore: cioè quello che Oltre Tevere qualcuno definisce "il Piano Esterno". Contrariamente a quello che si pensa - raccontano - "il Segretario di Stato non vuole una Cei schierata con Berlusconi, che considera ormai già fuori dai giochi. Il vero progetto che sta a cuore alla Santa Sede riguarda la nuova aggregazione di centro, che ora avrebbe Pierferdinando Casini come perno politico, e che in futuro vedrebbe Luca di Montezemolo come punto di riferimento finale".

A questo "Piano Esterno" si starebbe lavorando da tempo, tra Segreteria di Stato e una piccola, ristretta cerchia di intellettuali esterni, laici e cattolici, che orbitano intorno al Vaticano e allo stesso direttore dell'Osservatore Vian. Vera o falsa che sia, questa ipotesi spiega molto di quello che è accaduto e può ancora accadere. Bertone - sostengono ambienti vicini alla Cei - potrebbe aver gestito il caso Boffo proprio in questa logica: usare l'aggressione al direttore di Avvenire prima per rimettere in riga l'episcopato, e poi per assestare il colpo finale contro il presidente del Consiglio, aprendo le porte del paradiso alla Cosa Bianca di Casini e Montezemolo. Di qui, fino a ieri, la difesa intermittente e quasi forzata a Boffo. Di qui, da domani in poi, la rottura definitiva e irrimediabile con Berlusconi. "Niente sarà più come prima", appunto. Vale per la Chiesa di Roma, ma vale anche per il Cavaliere di Arcore.

m.giannini@repubblica.it
da repubblica.it
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« Risposta #79 inserito:: Settembre 09, 2009, 11:31:53 am »

ECONOMIA
 
IL COMMENTO

Gli ordini di guerra

di MASSIMO GIANNINI


Non è una novità. Silvio Berlusconi ha una visione imperiale della leadership, e una gestione militare del Partito delle Libertà. Ma quella a cui stiamo assistendo è un'ulteriore, drammatica evoluzione-involuzione del suo sistema di potere. Stiamo rapidamente passando dal classico "berlusconismo di lotta e di governo" a un vero e proprio "berlusconismo di guerra".

Il caso di Gianfranco Fini è l'ultimo paradigma di questa trasformazione. Prima lo fa impiombare dai suoi sicari, attraverso il giornale di famiglia. Poi, molte ore dopo il delitto, finge di prendere le distanze e chiede alla vittima di "fare squadra". Pensa così di convincere a "rientrare nei ranghi" (come da "consiglio non richiesto" di Vittorio Feltri) tutti quelli che non ci stanno. E di chiudere quella che Alessandro Campi definisce "la fase due del grande gioco al massacro" che si è aperta con i cattolici diffidenti, con la stampa dissidente e ora con l'alleato recalcitrante. Ma Fini resiste, almeno per ora. E rende visibile quello che il Cavaliere vuole occultare: i problemi politici esistono, ed è paradossale che il premier cerchi di negarli.

Cosa nasconde, lo scontro tra Berlusconi e Fini? In prospettiva c'è la partita sulla successione ereditaria del Pdl: il presidente della Camera ha qualche chance di vincerla. Ma qui ed ora c'è la battaglia sul profilo identitario della destra: e questa, con tutta evidenza, il presidente della Camera l'ha già persa. Non lo testimoniano solo l'assordante silenzio di molti esponenti della maggioranza o l'imbarazzante difesa d'ufficio di pochi luogotenenti dell'ex An, di fronte al killeraggio compiuto dal "Giornale". Prima ancora di questo, che pure conta, lo dice l'atto di nascita del nuovo centrodestra, che germoglia da quella "rivoluzione del predellino" che un Berlusconi esaltato ha imposto plebiscitariamente e che un Fini disperato ha subito passivamente. Lo urla il congresso fondativo del "partito unico", che vede un Berlusconi nei panni del federatore assoluto e un Fini nel ruolo del moderatore riluttante.

È lì che il presidente della Camera, nel definire "compiuta" la missione della costituzionalizzazione della destra ex-fascista finiana, ne traccia un profilo moderno e post-ideologico, già allora inconciliabile e antitetico con quello della destra populista berlusconiana. Una destra delle idee, che ruota intorno a tre perni valoriali: dignità della persona (e quindi tutela dei diritti, a prescindere dal colore della pelle), difesa delle istituzioni (quindi rispetto e bilanciamento dei poteri), laicità dello Stato (quindi libertà religiosa ma primato delle leggi). In questa piattaforma programmatica, a volerla vedere, c'era già la negazione del berlusconismo. E c'era già tutto ciò che l'impasto politico-culturale del forzaleghismo dominante non sarà e non potrà mai essere. Aveva un bel dire, allora, il presidente della Camera, che si entrava nel Pdl "con la schiena dritta". Come poteva, la sua idea di destra laica, istituzionale e repubblicana, convivere con la destra atea-devota, para-rivoluzionaria e a-repubblicana incarnata da Berlusconi e Bossi?

Infatti non può. Salvo cessare di esistere, prima ancora di aver messo radici in un gruppo dirigente, e forse anche in un corpo elettorale, che sembrano rifiutarla a priori, presi come sono nell'ossequiosa contemplazione delle virtù taumaturgiche del solito uomo solo al comando. E così, oggi, i pochi custodi del pensiero finiano, rimasti soli nella trincea del "Secolo" e di "Farefuturo", hanno un bel recriminare, contro "un partito becero, nevrastenico e con la bava alla bocca, che abbia contro gli avversari e adesso anche contro gli alleati, con un furore non giustificato dai fatti", o contro il disegno "di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato". Ed hanno un bel rimpiangere, le Flavia Perina e i Luciano Lanna, "una destra non ideologica, sobria e meritocratica, colta e risorgimentale, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, libertaria e attenta ai diritti, diffidente della società di massa e dell'antipolitica", o una grande forza plurale "che parli la lingua di Cameron e Sarkozy", "un grande partito dei moderati" ispirato ai "grandi numi tutelari della destra italiana nelle sue molte anime - da Gentile a Evola, da Prezzolini a Spirito, da Volpe a Martinelli - che sia lo sviluppo coerente ma non meccanico di questi ultimi quindici anni di storia".

Questa battaglia delle idee, Fini e lo sparuto drappello dei suoi intellettuali d'area, purtroppo l'hanno già perduta. Le appassionate prolusioni sul ruolo del Parlamento e sull'unità nazionale, le ottime intenzioni sulla civiltà dell'accoglienza per gli immigrati e sul testamento biologico, purtroppo non cambiano l'agenda del governo, non ne attenuano i furori ideologici, non ne minacciano la tenuta politica. Un'"altra destra" era possibile. Forse lo sarà, domani. Ma di sicuro non lo è oggi, nella fase cruciale del "berlusconismo da combattimento". Oggi il Pdl è proprio quella "casermetta in cui qualcuno comanda" e di cui lo stesso presidente della Camera si è lamentato una settimana fa a Mirabello, quando ha riaperto le ostilità con il Cavaliere e ha quasi anticipato ciò che gli sarebbe accaduto solo poche ore più tardi: "In Italia ormai non si tenta di demolire un'idea, ma colui che di quell'idea è portatore. Si va dritti al killeraggio delle persone... ". Dopo Boffo, è toccato a lui. E, per usare la formula di Stalin con i papi, quante "divisioni" ha Fini, per arginare questa deriva tecnicamente totalitaria e far vivere la sua idea di un'"altra destra" possibile in questa Italia berlusconizzata? Poche, a giudicare da ciò che si vede nel Palazzo e si sente al di fuori. Così, l'ex leader di An deve accontentarsi, ma anche preoccuparsi, del suo paradosso: essere apprezzato, e anche applaudito, solo dal centrosinistra. E per di più, proprio per questo, essere accusato dal suo centrodestra di essere un cinico opportunista, che si ingrazia i favori del nemico solo per puntare dritto al Quirinale.

La politica è una sapiente miscela di convinzione e di convenienza, gli ha ricordato qualche mese fa Angelo Panebianco. Se hai solo convenienze, sei un trasformista di professione. Se hai solo convinzioni, sei condannato alle prediche inutili. Il "buon politico" deve avere convinzioni precise, ma anche strategie che gli consentano di acquisire consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini, secondo Panebianco, si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza. Come dire: Fini predica bene, ma a quale parte del Paese intende parlare? Quella domanda, finora, non ha ancora una risposta chiara. E questo, per il presidente della Camera e per il suo ruolo all'interno della maggioranza, è effettivamente un problema. Panebianco concludeva con una previsione fallimentare, intorno al progetto finiano, secondo un assunto non meno cinico del cinismo che in molti rimproverano alla terza carica dello Stato: "politica e testimonianza morale sono incompatibili".
L'unica speranza è che, non adesso ma in un qualche futuro post-berlusconiano che prima o poi dovrà pur esserci, la "testimonianza morale" dell'ex capo di An, oggi palesemente minoritaria, possa tornare utile a far nascere una destra italiana finalmente compiuta, moderata ma moderna, conservatrice ma riformista. In una parola: una destra europea, che Berlusconi non rappresenta e non potrà mai rappresentare.

(9 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #80 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:22:13 am »

La prova del danno


di MASSIMO GIANNINI


Silvio Berlusconi, con l'incredibile show della Maddalena, è incappato nel primo, serio incidente internazionale del suo "premierato da combattimento". L'evocazione dei fantasmi che lo ossessionano -le escort, le inchieste giornalistiche e le indagini giudiziarie- gli costa la "sanzione" politica di un governo europeo.

Quella mezz'ora di soliloquio forsennato durante la conferenza stampa con il premier spagnolo - fuori da tutti gli schemi, le regole, le convenzioni, il buon senso e il decoro istituzionale - segna un punto di svolta non solo nel già deteriorato discorso pubblico italiano. Ma anche sul piano più delicato delle relazioni diplomatiche internazionali. Di fronte alle intemerate del Cavaliere - tra "il fascino della conquista" e le prestazioni sessuali mai pagate, tra l'autoelogio sul più grande statista degli ultimi 150 anni e l'attacco frontale non più solo a Repubblica e all'Unità ma stavolta anche al Pais - l'attonito Zapatero ha taciuto.

Ha taciuto nel durante, e ha taciuto anche nelle ore successive. È evidente che quel silenzio imbarazzato, soprattutto al cospetto di una minaccia inaudita nei confronti di un grande giornale spagnolo, ha destato indignazione e malumore anche a Madrid.

Questo spiega perché, il giorno dopo, il primo ministro spagnolo ha sentito il bisogno di tornare sul caso, anche per ragioni di convenienza interna: "coprirsi" dalle critiche della sua opinione pubblica, della sua comunità politica e di tutta la libera stampa del suo Paese. Ma le parole di Zapatero, ponderate e pesate fino alla virgola e pronunciate davanti al "collega" francese Sarkozy, gravano come macigni sulla coscienza (o sull'incoscienza) del premier italiano. Proviamo a rileggerle: "Se mantengo il silenzio è per un segno di rispetto e di cortesia istituzionale che mi impone una certa prudenza. Tutti conoscono la mia opinione sull'uguaglianza tra uomo e donna, ma tra governi abbiamo buone relazioni, abbiamo progetti comuni. Sono incontri istituzionali e dunque io rispetto sempre questi incontri e il ruolo che dobbiamo mantenere",

L'esegesi del testo è inequivoca. Zapatero, implicitamente, opera una distinzione netta nella valutazione su Berlusconi come capo di governo e sul Paese che il Cavaliere rappresenta. Ciò che pensa il premier spagnolo su quello italiano è chiarissimo: "Tutti conoscono la mia opinione sull'uguaglianza tra uomo e donna". Come dire: la sexual addiction del nostro presidente del Consiglio, e le logiche di scambio politico che la regolano, sono esecrabili e intollerabili. Ma Zapatero preferisce non parlarne pubblicamente, come preferisce non commentare gli anatemi contro il Pais, solo perché - in virtù di quella "scissione" nel giudizio - rispetta l'Italia che è partner della Spagna, come degli altri Paesi europei, in diversi "progetti comuni".

Il filo di questo ragionamento porta irrimediabilmente a una doppia, semplicissima conclusione, che conferma ciò che Repubblica sostiene da tempo. Primo: il premier è ormai drammaticamente "vulnerabile", e sistematicamente esposto al rischio di queste performance, poiché dovunque vada e con chiunque si incontri, anche oltre confine, inciampa in domande ineludibili (ancorché prive di risposte credibili) sui suoi scandali pubblico-privati. Secondo: per continuare a rispettare l'immagine del nostro Paese, le altre cancellerie d'Europa si sentono doverosamente e responsabilmente obbligate a differenziarla da quella dell'uomo che lo governa. È la prova che Berlusconi è ormai palesemente un "danno" per l'Italia. All'estero lo hanno capito quasi tutti. Prima o poi, probabilmente, lo capiranno anche gli italiani.

(12 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #81 inserito:: Settembre 17, 2009, 04:55:31 pm »

Un "governo di salvezza nazionale", alternativa per il 2013 o per l'emergenza

La Bonino si sbilancia: "Le probabilità che Berlusconi cada sono al 50%"

L'alleanza trasversale che lavora al dopo-Silvio

di MASSIMO GIANNINI


C'E' chi sostiene che il dopo-Berlusconi abbia già un nome. Si chiamerebbe "governo di salvezza nazionale". Ci lavorano in parecchi, nell'ombra e a cielo aperto. Per offrire al Paese un'alternativa nel 2013, nel caso in cui questo governo riuscisse miracolosamente a superare le colonne d'Ercole del Lodo Alfano, delle elezioni regionali, dei nuovi guai giudiziari e dei vecchi vizi personali del premier. Oppure per tenersi pronti all'emergenza immediata, nel caso in cui la legislatura incappasse in un traumatico incidente di percorso. Ieri, per i corridoi di Palazzo Madama, Emma Bonino si sbilanciava con un collega: "Le possibilità che per qualche ragione il governo cada, a questo punto, sono al 50%...". Alte, com'è evidente. Per questo, tra maggioranza e opposizione capita di sentire personaggi autorevoli che dicono "bisogna creare un campo più vasto di forze", capaci di reggere l'urto di una crisi e di "mettere in sicurezza il Paese".

Chi c'è dietro questo disegno? Per capirlo, basta seguire la "catena" degli attacchi forsennati che il Cavaliere sta menando in queste ore. Nel centrodestra il primo "anello" è Gianfranco Fini. Il presidente della Camera è in costante movimento. Indicativo l'incontro di ieri sera con Rutelli, insieme a lui destinatario dell'offerta di Casini, lanciata agli stati generali dell'Udc di domenica scorsa, a "sapersi prendere per mano nella diversità e guardare al futuro del Paese".

Chi gli ha parlato, in questi giorni, lo descrive più determinato che mai a combattere la battaglia politica contro il premier, e quella giudiziaria contro il suo "Giornale". "Stavolta Gianfranco non arretrerà...", ripete da giorni l'amico e ministro Andrea Ronchi. Se rispondesse solo al suo istinto, dopo il killeraggio di Feltri se ne sarebbe già andato via dal Pdl. Ma capisce che, come la vecchia talpa, è ancora in quel campo che deve "ben scavare". E sta scavando. Ciascuno dei temi sui quali affonda il colpo è un potenziale destabilizzante, che mette in mora il Cavaliere e in sofferenza la Lega. "Il Secolo" lo spalleggia. "Farefuturo" non cede di un millimetro sui temi sensibili. Anche la lettera dei "50 riservisti" è servita allo scopo. Ha confermato che Fini è minoritario, dentro il Pdl. Ma ha dimostrato che è in campo, e che al momento opportuno le sue "divisioni" degli ex di An le possiede, e le può schierare.

Poi c'è Giulio Tremonti. Il ministro dell'Economia, fino a qualche tempo fa, era il "genio dei numeri". Ora, per il Cavaliere, è già diventato il "difficile genio". Una sfumatura, ma da il segno di un distacco, o quanto meno di un sospetto. Tremonti non fa nulla di visibile, per alimentarlo. Ma continua a scontentare tutti i colleghi ministri che battono cassa al Tesoro, e soprattutto accumula nuovo potere, attraverso le nomine pubbliche. Intanto accresce progressivamente la sua "caratura". E i suoi "vezzi cattedratici - come dice Giuliano Ferrara - non fanno ombra al suo rango politico sempre più alto". In questi mesi ha curato a fondo i rapporti con la Chiesa. E non ha mai smesso di dialogare con una parte dell'opposizione. L'intervista di due giorni fa al "Corriere della Sera" è indicativa: il ministro fa il "pacificatore", apre a Fini e propone una "tregua" non solo e non tanto al Pdl, ma al Pd "che uscirà dal congresso", offrendogli "un ruolo preminente" da "interlocutore responsabile".

E qui sta il terzo anello di questa catena. È Massimo D'Alema. Da anni viene additato (anche nel centrosinistra) come potenziale "inciucista". Ma da giorni l'ex ministro degli Esteri è a sua volta sotto il fuoco incrociato di "Libero" e del "Giornale", per i suoi incontri in barca con Tarantini. E l'altroieri sera, a "Porta a Porta", il Cavaliere è tornato a sparargli contro, con una violenza che non si ricordava da tempo. "Un vecchio comunista, che usa espressioni da vero stalinista". Un'uscita quasi a freddo. Che non si spiega se non in nome del "solito sospetto" complottista. Ma al di là delle ossessioni berlusconiane, è vero che D'Alema è tornato a tessere la sua tela. Non solo nel suo partito, con l'obiettivo di far vincere Bersani. Ma anche con l'intenzione di giocare la partita in "campo avverso".

Con Fini il rapporto è sempre più stretto. Due giorni fa si sono parlati a lungo, perfino della comune querela contro il "Giornale". Intanto "Italianieuropei" e "Farefuturo" preparano un grande convegno sull'immigrazione, in una città leghista come Asolo. Con Tremonti il rapporto non si è mai interrotto. Associato proprio dal ministro all'Aspen Institute come "membro autorevole", D'Alema ha parlato ieri sera, con lo stesso Tremonti, Sacconi, monsignor Ravasi e Riccardi, in una tavola rotonda a porte chiuse sul tema "Dalla verità al dono: il bene comune". Intanto i due preparano un grande convegno sul Mezzogiorno, nel quale discuteranno di quella "questione meridionale che oggi è più mai questione nazionale".

Il quarto anello si chiama Pierferdinando Casini. Il leader dell'Udc sta lottando per non farsi risucchiare dal Pdl, come vorrebbe la logica inesorabile del potere. La riscoperta della vena rivoluzionaria delle camice verdi di Bossi lo aiuta, come dimostra la risposta "dura e pura" che i centristi hanno dato domenica a Chianciano. Ma Casini ha bisogno di sponde. Il Pd gliela offre. Nella versione di D'Alema, sul solito schema del "centro-sinistra col trattino". I due ne parlano quasi quotidianamente. "Casini - continua a ripetere da tempo il Lider Maximo - è interessato a trovare una soluzione comune per la fuoriuscita dal berlusconismo, e nel lungo periodo è pronto a un accordo strategico se gli offriamo una riforma elettorale sul modello proporzionale alla tedesca".

Queste sarebbero le forze in campo per l'ipotetica "alternativa". Ma è un'alternativa credibile? Le incognite sono tante. La prima, ed è gigantesca, si chiama proprio Silvio Berlusconi. È stato legittimamente eletto dagli italiani. Conserva un indice di fiducia elevato. Chi e che cosa dovrebbe farlo cadere non è ancora chiaro. Certo, appare sempre più debole, irascibile, vulnerabile. La decisione della Consulta sul Lodo Alfano può essere esiziale, benché Feltri abbia scritto che se ne può approvare un altro in un amen. Ma perché dovrebbe uscire di scena, se il processo Mills pur ripartendo finirebbe quasi certamente con l'ennesima prescrizione?

La seconda incognita si chiama Giorgio Napolitano. Che farebbe il Capo dello Stato, se il Cavaliere volesse usare l'arma, potenziata dall'esplosivo leghista, delle elezioni anticipate? Chi gli ha parlato, in questi giorni, racconta di un presidente della Repubblica molto più preoccupato dei danni che il premier può fare qui ed ora, tra la "strategia della tensione" e l'uso dei dossier, l'avvelenamento dei pozzi della politica e il totale "sgoverno" del Paese. Come ha ammesso qualche giorno fa un commensale che sedeva con il presidente a cena, al Quirinale, "la lenta agonia del berlusconismo potrebbe assumere forme non lineari".

Ad ogni modo, se per qualche motivo Berlusconi cadesse, il "governo di salvezza nazionale" sarebbe un governo politico, non tecnico. Dunque no a ipotesi alla Mario Draghi, semmai un incarico proprio a Fini, terza carica dello Stato. C'è persino chi sostiene che sarebbe già scritto un programma: riforma del sistema politico, con abbattimento del numero di parlamentari, consiglieri regionali e comunali; riforma del Welfare, con radicale riforma dei contratti di lavoro sul modello Ichino-Boeri; riforma della spesa pubblica, con massicci tagli e dirottamento di risorse verso la scuola, la ricerca e l'innovazione.

Sembra fantapolitica. Forse lo è. Ma anche di questi scenari, sia pure costruiti a tavolino, si discute in questi giorni. Il Cavaliere lo sa. Anche per questo è nervoso, e a tratti furioso. Raccontano che D'Alema lo abbia detto a Fini, qualche giorno fa: "Il tuo premier, ormai, non è più nelle condizioni, politiche e psicologiche, per negoziare alcunché...". Ma se questo è vero, c'è da essere ancora più allarmati sui destini del Paese.

(17 settembre 2009)
DA repubblica.it
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« Risposta #82 inserito:: Settembre 22, 2009, 08:33:01 am »

RETROSCENA.

La scelta dei vescovi, via alla fase dell'equidistanza tra i poli

Bagnasco ha respinto la "logica mercantile" del governo sui temi etici

Cei, la svolta dell'autonomia tramonta il feeling con Silvio


di MASSIMO GIANNINI


La Chiesa "di base" tira un sospiro di sollievo. "È fallito il tentativo di mettere le mani sulla Cei", si dice negli ambienti dell'episcopato. Nel circuito ecclesiastico, come anche nel circo politico, c'era grande attesa per la relazione che il cardinal Bagnasco avrebbe tenuto al Consiglio permanente della Cei. Dopo il caso Boffo, la prima uscita ufficiale del porporato che guida i presuli italiani. La prima occasione formale per misurare quanto quello strappo sul direttore di "Avvenire" avesse allontanato le due sponde del Tevere (nei rapporti tra Vaticano e governo) e avesse "normalizzato" le gerarchie interne alla Chiesa (nei rapporti tra Segreteria di Stato e Cei). Le parole di Bagnasco, secondo la lettura che se ne dà tra i vescovi, non lasciano margini di dubbio. In quel "la Chiesa non si fa coartare né intimidire" c'è già tutto.

1) Sul piano delle relazioni con la politica, come si ripete Oltre Tevere, c'è la conferma che la Chiesa "considera finito il riconoscimento istintivo, pregiudiziale, nei confronti del centrodestra". Non si possono interpretare diversamente i giudizi del capo dei vescovi sul caso Boffo: "Un passaggio amaro", come l'ha definito Bagnasco, un "attacco" la cui gravità "non può non essere ancora una volta stigmatizzata". E dunque la conferma di quanto si era capito subito, all'indomani dell'operazione di killeraggio compiuta contro il direttore di "Avvenire" attraverso i "sicari" del "Giornale": "Niente sarà più come prima".
È esattamente così. E non solo la Cei non arretra, nelle sue critiche alla condotta morale di Silvio Berlusconi e all'azione politica del suo governo. Semmai rilancia.
Il messaggio al Cavaliere, e al suo stile di vita non propriamente "cristiano", è netto: "Occorre che chiunque accetta di assumere un mandato politico sia consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell'onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda". Il segnale al centrodestra, e alle sue pretese di trattare con la Chiesa sui temi etici come si negozierebbe con Murdoch sulle tv, è inequivoco: la Chiesa intende dare il suo contributo "in tutta trasparenza, e fuori da ogni logica mercantile".
In questo riferimento esplicito alla "logica mercantile" sta tutta la distanza che, oggi, separa il berlusconismo dalla comunità dei vescovi e dei rappresentanti di Cristo nel territorio e nelle parrocchie. La tentazione del "collateralismo", se mai c'è stata all'inizio della legislatura, è ora archiviata. "L'episcopato italiano - e questa è la novità nient'affatto scontata della relazione di Bagnasco, secondo l'esegesi di un presule vicino al cardinale di Pontevico - vuole finalmente recuperare una posizione "terza"...". Nel solco del ruinismo, che nella sua forte autoreferenzialità aveva comunque costruito un "patrimonio" culturale e pastorale non automaticamente spendibile al mercato dei "due forni" della politica bipolare. E anche a costo di alimentare indirettamente gli appetiti "terzisti" di Casini e del Grande Centro, che fanno vedere al Cavaliere i fantasmi del complotto e della destabilizzazione.

2) Sul piano dei relazioni gerarchiche interne alla Santa Sede, le parole di Bagnasco confermano quanto era già emerso all'indomani della "caduta" di Boffo. "Il braccio di ferro tra la Segreteria di Stato e la Cei su chi debba reggere le posizioni della Chiesa di fronte alla politica italiana - come sostengono fonti vaticane - si è fatto più aspro". Ma anche qui c'è un fatto nuovo: l'arcivescovo metropolita di Genova, assurto al soglio di Ruini con la "longa manus" di Tarcisio Bertone imposta sulla fronte, se n'è ormai affrancato del tutto. Questo prelato mite nato nel bresciano - si osserva Oltre Tevere - "ha tenuto e sta tenendo dritta la barra del timone della Cei". Non si è fatto imporre "lo schema di comodo" che gli aveva cucito addosso il segretario di Stato Vaticano. E ha rivendicato "la piena autonomia dei vescovi italiani". Anche nella dialettica, a volte conflittuale, con i partiti nazionali.

Una rivendicazione che affonda nel terreno della fede vissuta, più che della politica praticata. Come si sostiene in ambienti vicini all'Istituto Toniolo, "i vescovi italiani sono davvero in sofferenza: chi, nella Chiesa di Roma, parla più di Vangelo?". Una posizione "ancillare" rispetto al Pdl ha nuociuto non poco. Per questo urge "un riposizionamento". Quanto Bagnasco si sia spinto lontano, su questa linea di orgogliosa autonomizzazione dell'episcopato, lo testimoniano almeno un paio di retroscena.
Il primo: venerdì scorso, come da prassi vaticana, il cardinale si è recato a Castel Gandolfo, per illustrare a Papa Ratzinger i contenuti del discorso. Qualche ora dopo la Segreteria di Stato ha fatto sapere alla Cei che avrebbe "molto gradito la cortesia" di poter prendere a sua volta "visione anticipata" della relazione. Bagnasco ha risposto picche. E Bertone ha potuto leggere quel testo solo ieri, quando è stato reso pubblico.

Il secondo retroscena. Nel suo "blog" Sandro Magister, vaticanista dell'Espresso, ha raccontato che dietro l'articolo uscito sabato sul "Giornale" e firmato Diana Alfieri - che difendeva "la giustezza della campagna di Feltri contro "l'idoneità morale" di Boffo" e accusava la Cei di aver messo "con ciò a repentaglio l'immagine della Chiesa agli occhi dei suoi stessi fedeli"" - si nasconderebbe in realtà Giovanni Maria Vian. La vera notizia, in questo caso, non è tanto il fatto che (secondo questa ricostruzione) il direttore dell'"Osservatore Romano", già protagonista di un severo attacco alla Cei e a Boffo in un'intervista al "Corsera", abbia firmato sotto pseudonimo un'altra violenta "requisitoria" contro Bagnasco e l'ex direttore di "Avvenire". Quanto il fatto che negli ambienti ecclesiastici vicini allo stesso quotidiano della Cei questa ricostruzione sia considerata "veritiera".

È il segno di quanto ormai siano compromessi i rapporti tra Segreteria di Stato e Conferenza episcopale. E di quanto Bagnasco intenda sottrarsi in via definitiva al "non expedit" imposto da Bertone. Per questo, oggi, ci sono presuli che si sentono più sollevati: "È fallito il tentativo di imporre le mani sulla Cei, e cade l'operazione di Bertone: mettere il cappello in testa ai vescovi italiani, come ai tempi di Giovanni Benelli...". Bagnasco tiene. Questa è la novità. E non è da poco, per gli attuali equilibri della Chiesa di Roma e i potenziali squilibri nella politica italiana.

(22 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #83 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:12:01 pm »

IL COMMENTO

La notte della Repubblica

di MASSIMO GIANNINI


 SAPPIAMO bene che la notte della Repubblica berlusconiana è appena agli inizi. E sappiamo altrettanto bene che, con il Cavaliere, a scommettere sul peggio non si sbaglia mai. Ma vorremmo rassicurare il presidente del Consiglio: non c'è bisogno di aspettare il prossimo strappo costituzionale, o la prossima intemperanza verbale, per vedere "di che pasta è fatto", come minaccia lui stesso. L'avevamo capito da un pezzo.

Abbiamo avuto una prima conferma due sere fa, subito dopo la sentenza che ha bocciato il Lodo Alfano, con le accuse infamanti contro Giorgio Napolitano. Poi una seconda conferma ieri sera, con il farneticante documento del Pdl che rilancia le accuse incongruenti contro la Consulta. A lasciare basiti non è solo la violenza politicamente distruttiva degli attacchi contro tutti gli organi di garanzia: presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, giudici ordinari. Ma è anche e soprattutto la valenza tecnicamente "eversiva" del ragionamento con il quale il premier #purtroppo sempre insieme ai docili maggiorenti del suo partito# sta delegittimando, in un colpo solo, le tre più alte magistrature della Repubblica. Di fronte a tanta irresponsabilità, conforta il comunicato col quale i presidenti di Camera e Senato hanno fatto quadrato intorno al Quirinale. Ma questo atto dovuto (voluto fermamente da Fini e a quanto si racconta subito passivamente da Schifani) non basta a ridimensionare la portata di uno scontro istituzionale inaudito e pericoloso.

Le parole che Berlusconi ha pronunciato l'altro ieri, prima in strada poi in diretta televisiva, andranno studiate a fondo. Servono a comprendere la vera essenza del moderno populismo plebiscitario che, in nome di un suffragio universale trasformato in ordalia personale, snatura lo Stato di diritto perché uccide, allo stesso tempo, sia lo Stato che il diritto. La prima affermazione del Cavaliere è la solita invettiva anti-comunista. "Napolitano, voi sapete da che parte sta... Poi abbiamo giudici della Corte costituzionale eletti da tre Capi di Stato della sinistra che fanno della Corte non un organo di garanzia ma un organo politico". Ma quando, poco più tardi, il presidente della Repubblica replica che lui "sta dalla parte della Costituzione", scatta l'escalation del premier: "Non mi interessa quello che dice Napolitano. Io mi sento preso in giro e non mi interessa, chiuso".

Quel "preso in giro" non può passare inascoltato. Infatti più tardi (nel confortevole salotto di Porta a Porta, dove il beato cerimoniere Bruno Vespa non si degna neanche di difendere Rosy Bindi dagli insulti da trivio del premier e di un inqualificabile Castelli) il Cavaliere rincara la dose dei veleni. "Su Napolitano ho detto quello che penso: non ho nulla da modificare sulle mie dichiarazioni che potrebbero essere anche più esplicite e più dirette". Un'allusione tanto vaga quanto pesante. E poi: "Il presidente della Repubblica aveva garantito con la sua firma che la legge sarebbe stata approvata dalla Consulta, posta la sua nota influenza sui giudici di sinistra della Corte". Vespa, ossequioso, tace. Parla il leader dell'Udc Casini, per fortuna: "È un'accusa inaccettabile nei riguardi di Napolitano". Ma il premier non arretra. Anzi, porta il colpo finale: "Non accuso il capo dello Stato, prendo atto di una situazione in cui c'erano certi suoi comportamenti e sappiamo tutti quali relazioni intercorrano tra i capi dello Stato e i membri della Consulta. Sono da anni in politica, so quali siano i rapporti che intercorrono".

Con questa micidiale miscela di allusioni e intimidazioni (indegnamente condita dalla ridicola accusa del Pdl alla Consulta per aver "sviato l'azione legislativa del Parlamento") si celebra la negazione della democrazia liberale. Non si scherza sulla pelle delle istituzioni repubblicane. Se Berlusconi è a conoscenza di trattative politiche avvenute sottobanco tra i palazzi del potere intorno al Lodo Alfano, ha il dovere di denunciarle con chiarezza, raccontando fatti e facendo nomi e cognomi davanti al Parlamento e al Paese. Ma poiché, con tutta evidenza, non ha in mano nulla se non il suo disperato furore ideologico, allora ha il dovere di tacere, e soprattutto di chiedere scusa. Ma non lo farà. Le sue parole dissennate tradiscono la sua visione "originale" e del tutto illiberale del costituzionalismo democratico.

Nello schema del Cavaliere, Napolitano (o perché aveva promulgato a suo tempo lo scudo salva-processi per il premier o perché gli aveva "promesso" riservatamente non si sa cosa) avrebbe dovuto fare ciò che la Costituzione gli vieta: interferire nella decisione dei giudici della Consulta, convincendoli a dare via libera al Lodo Alfano. Avrebbe dovuto, lui sì, chiedere ai giudici una "sentenza politica", che violasse apertamente la legge con l'unico obiettivo di proteggere il "sereno svolgimento" della legislatura. In questa logica, aberrante, non esiste la "leale collaborazione" tra istituzioni, ma il banale "collaborazionismo" tra complici. Non esistono il "nomos", le regole, la divisione dei poteri e il "check and balance". Esistono l'anomia, l'arbitrio, la potestà illimitata del leader consacrato per sempre dall'investitura popolare. Non esistono organi di garanzia sovrani e indipendenti, che decidono autonomamente, ciascuno nel proprio ambito e secondo i principi sanciti dalla Carta fondamentale. Esistono solo semplici emanazioni del potere esecutivo, che condiziona le altre istituzioni e comanda, in un meccanismo di pura cinghia di trasmissione, il legislativo e il giudiziario.

Quali altre estreme forzature del quadro politico-istituzionale dobbiamo attenderci, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi? Quale piano inclinato sta prendendo, questa anomala democrazia italiana dove l'"autoritas" del Principe rivendica il primato indiscusso sulla "potestas" delle istituzioni? Già si evocano nuove riforme della giustizia da usare come una clava contro i magistrati, e magari come ennesimo trucco "ad personam" per fermare qualche processo. Viene in mente Ehud Olmert che, sospettato per corruzione, si dimette dicendo: "Sono orgoglioso di aver guidato un Paese in cui anche un primo ministro può essere indagato come un semplice cittadino". Ma l'Italia non è Israele. Il coraggio dei giudici della Consulta, la tenuta del presidente della Repubblica, la tenacia del presidente della Camera, rappresentano una speranza. Ma non nascondiamocelo: il Potere, quando non vuole riconoscere che la democrazia è limite, fa anche un po' paura.
m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (9 ottobre 2009)
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« Risposta #84 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:49:05 pm »

L'insostenibile debolezza


da Massimo Giannini



"Deficit as usual", dice Giulio Tremonti. Ma di veramente "usual", stavolta, c'è solo la debolezza italiana. "Debolezza strutturale", come la definisce la Commissione Ue. E dunque debolezza insostenibile. Nell'avvio della procedura europea contro il nostro Paese non c'è tanto il "deficit eccessivo". Questo è davvero un male comune, nel Vecchio Continente: 20 paesi su 27 sono lontani da un indebitamento delle pubbliche amministrazioni pari al 3% del Pil. Una volta tanto, "todos caballeros". Dunque tutti colpevoli, nessun colpevole.

Ma fermare il giudizio a questo livello di "lettura" delle iniziative di Bruxelles sarebbe riduttivo e troppo comodo. E infatti, non a caso, il ministro dell'Economia si ferma qui. E si bea del fatto che, per la prima volta da molto tempo, il deficit italiano cresce meno della media Ue.

Su questo aspetto, puramente "quantitativo", non gli si può dare torto. È vero che Francia e Germania hanno deficit in fortissima espansione. Ma intanto quei Paesi hanno impegnato risorse molto più ingenti, a carico del bilancio pubblico, per fronteggiare la crisi. E poi, soprattutto, pesa a nostro svantaggio una differenza "qualitativa". L'Italia - anche a causa del limitato impatto delle sue manovre anticicliche pari ad appena lo 0,3% del Pil - cresce e crescerà molto meno degli altri Paesi fondatori. E qui sta l'insostenibile debolezza italiana. Se e quando la ripresa internazionale partirà - e sarà una ripresa fragile e incerta per tutti - Francia e Germania torneranno a correre come e più di prima. Mentre l'Italia, se va bene, tornerà a passeggiare agli stessi ritmi blandi di dieci anni fa.

Il governo Berlusconi ha detto più volte che, in questi mesi di tsunami planetario, non era tempo di pensare a riforme strutturali. Gli squilibri del Welfare State, le distorsioni della spesa corrente, le iniquità del mercato del lavoro: tutto può attendere, come il Paradiso di Warren Beatty. Ma almeno adesso che l'onda anomala della crisi comincia a ritirarsi, è il momento di sgombrare le macerie e ricostruire le fondamenta di una crescita economica sana, solida e durevole. Il vero motto berlusconian-tremontiano, più che "deficit", sembra "stand by as usual". Ma così non ci resta che aspettare, inermi, il prossimo disastro.

(7 ottobre 2009)
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« Risposta #85 inserito:: Ottobre 13, 2009, 09:25:05 am »

IL COMMENTO

Il potere liberale

di MASSIMO GIANNINI


"IL peggio deve ancora accadere". L'aveva scritto il direttore di questo giornale, solo cinque giorni fa. Mai profezia è stata più centrata. Il peggio sta accadendo.
Il presidente del Consiglio chiama alla "ribellione" le forze produttive contro "un giornale che getta discredito non solo su di me, ma sui nostri prodotti, sulle nostre imprese, sul made in Italy". Anche se stavolta Berlusconi non lo cita per nome, quel giornale è naturalmente Repubblica. Un capo di governo che invita gli imprenditori a "ribellarsi" contro un quotidiano, "colpevole" solo di rivolgergli dieci domande alle quali non è in grado di rispondere, non si era ancora visto in nessun Paese dell'Occidente.

È una deriva populista, e peggiorista, che non ha più limiti. Ma benché aberrante, c'è coerenza in questo delirio. Prima arringa gli industriali: rifiutate la pubblicità a questo giornale. Poi accusa il Corsera: sarebbe addirittura "anti-berlusconiano". Ora attacca di nuovo Repubblica: è "anti-italiana". Viene fuori, incontenibile, la natura illiberale e anti-istituzionale del Cavaliere. Non tollera le critiche della stampa, non accetta le regole della Costituzione. Da uomo politico nega lo Stato, da imprenditore nega il mercato.

L'"editto di Monza" lo conclude con una battuta che tradisce la dimensione tecnicamente totalitaria del suo "premierato di comando": "Alla democrazia ghe pensi mi". Lo dice. Lo pensa. Ecco perché siamo preoccupati per il futuro di questo Paese.

© Riproduzione riservata (13 ottobre 2009)
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« Risposta #86 inserito:: Ottobre 24, 2009, 06:18:16 pm »

IL COMMENTO

Governo al bivio senza via d'uscita


di MASSIMO GIANNINI

Silvio Berlusconi ha inventato una "tormenta di neve", per giustificare il suo mancato rientro da Mosca ed evitare la resa dei conti con il suo ministro dell'Economia. Giulio Tremonti ha evocato una "coltre di nebbia", per descrivere la condizione di confusione politica in cui versa il suo presidente del Consiglio. Che sia neve, o che sia nebbia, questo governo naviga a vista. Ed è una tragedia per il Paese, solo un anno e mezzo dopo il trionfo elettorale del 13 aprile 2008.

Il nuovo "caso Tremonti" riprecipita l'Italia nello stesso psicodramma del 2004. Secondo governo Berlusconi. Anche allora, di fronte a una crisi assai meno grave, c'era una parte di centrodestra che reclamava "una gestione collegiale" della politica economica", e soprattutto "una significativa inversione di rotta dell'azione dell'esecutivo". Anche allora, di fronte alle grida uguali e contrarie dei ceti deboli e delle categorie produttive, c'era un pezzo di maggioranza che invocava allo stesso tempo "tagli all'Irpef per le famiglie" e "sgravi Irap per le imprese". Cinque anni fa a stringere nella tenaglia il ministro dell'Economia (e a picconare l'asse di ferro Berlusconi-Bossi) erano gli alleati minori del cosiddetto "sub-governo", Fini e Follini. La fine della storia è nota: dopo tre mesi di un'estenuante lotta di potere, Tremonti gettò la spugna e si dimise, lasciando la poltrona a Domenico Siniscalco.

Oggi sono cambiati alcuni protagonisti, ma il senso degli avvenimenti è lo stesso. C'è un governo che, a parte i rifiuti a Napoli e l'avvio della ricostruzione a L'Aquila, giace inerte di fronte alla più grave recessione del dopoguerra. Un governo che non ha fatto nulla per le famiglie, e quasi nulla per le imprese. In questi venti mesi di galleggiamento, ci ha raccontato un alibi e una favola. Il primo: non possiamo far molto, il rigore dei conti pubblici ci impedisce grandi manovre. La seconda: reagiamo meglio alla crisi, e ne usciremo più forti di altri. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Non abbiamo risanato i conti (il deficit viaggia a quota 5%, il debito oltre quota 115% del Pil). Il nostro tasso di crescita è sotto zero, di gran lunga uno dei peggiori d'Europa.

Tremonti, per ragioni di equilibrio contabile ma anche politico, si è limitato al "surplace". Ai colleghi di governo non ha concesso quasi nulla, fermando l'assalto alla diligenza dei ministri di spesa. Ma non ha concesso quasi nulla ai cittadini contribuenti, riducendo al minimo il sostegno all'economia. Spiccioli ai poveri (social card). Mancette ai disoccupati (cassa integrazione in deroga). Così non si va lontano. L'economia reale agonizza. Il consenso sociale si vaporizza. L'ha capito Berlusconi, e l'ha capito anche il resto della coalizione. Serve una svolta. Il premier, sempre più ammaccato sul piano personale e delegittimato sul piano internazionale, sa che solo così questo governo può sopravvivere a se stesso. Ha di fronte a lui una doppia opportunità. Ci sono le elezioni regionali di primavera, che nelle condizioni date valgono come elezioni politiche per il Paese, e come referendum ad personam per il Cavaliere. C'è un nuovo "tesoretto" da spartire, che arriverà sotto forma di introiti dello scudo fiscale: 5 miliardi, forse di più.

L'assedio a Tremonti nasce da qui. Per quanto riguarda il palazzo, da qui nascono i documenti della Pdl, autentici o apocrifi che siano, in cui si parla di "scelte fin qui fatte insufficienti" e si invoca (come nel 2004) un abbattimento delle aliquote Irpef e della tassazione sulle imprese. Da qui nasce la contro-manovra dell'economista ex An Mario Baldassarri, che giudica quella tremontiana "una politica inerziale", che produce una "ripresa lenta", un recupero di crescita del Pil solo nel 2016 e un ritorno ai consumi del 2007 solo nel 2012. Per quanto riguarda il Paese, da qui nascono le pressioni di Confindustria, il malessere del Profondo Nord, la Vandea delle "partite Iva senza rappresentanza", la riemersione carsica della "Questione Settentrionale" che, per essere risolta, chiede non solo di essere riconosciuta come tale, ma anche di essere "risarcita" sul fronte fiscale.
Istanze giuste. Richieste legittime. Ma qui si annida, oggi, il pericolo più grande. Berlusconi e i nemici di Tremonti dentro il governo fanno due più due: ci sono le elezioni, c'è un tesoretto. Quale occasione migliore per un po' di "panem et circenes"? E dunque, via con le sparate demagogiche. Aboliamo l'Irap. Torniamo a due aliquote secche di Irpef. La prima ipotesi costa 37 miliardi. La seconda ne costa 85. Il ministro dell'Economia sarà pure troppo avaro, ma questi ordini di grandezza sarebbero proibitivi anche per le finanze pubbliche di Barack Obama. Figuriamoci per quelle della povera Italia. Tremonti resiste, per questo. Ma non solo per questo.

C'è un palese risvolto politico, in questa faida interna al centrodestra. Il ministro dell'Economia ragiona ormai su uno scenario post-berlusconiano, e si tiene pronto per una partita di potere che, dall'oggi al domani, potrebbe riaprirsi a un pezzo di Pdl dissidente, al Pd, all'Udc. Solo così si spiega la sua metamorfosi iper-statalista e il suo radicalismo neo-marxista. Ma in questa traversata in mare aperto si è bruciato tanti, forse troppi vascelli alle spalle. In molti, oggi, chiedono la sua testa (come nel 2004). Nel governo non ha più sponde. Persino Fini ha preso le distanze. Ma gli resta la Lega: "Noi lo difendiamo", annuncia Bossi. Questo conta: il Senatur conserva tuttora la "golden share" di questa maggioranza. Ecco perché Tremonti, un giorno si e l'altro pure, può difendersi minacciando sistematicamente le dimissioni. Ma quanto può durare, questo tira e molla? E un governo come questo può permettersi il lusso di perdere il superministro dell'Economia, senza perdere se stesso in Italia e senza perdere la faccia in Europa?

Dunque, oggi ci troviamo di fronte a questo bivio, agghiacciante, tra due disastri. Se in questo conflitto Tremonti vince, il Paese non distrugge il bilancio dello Stato ma continua a vivacchiare nell'accidia, in attesa di agganciare la chimera di una ripresa mondiale fragile e stentata. Se Tremonti perde, ci pioveranno addosso spot elettorali pirotecnici e annunci fiscali propagandistici. Irpef, Irap, e chi più ne ha più ne metta. Se fossero veri, l'Italia andrebbe in bancarotta domattina.

Poiché saranno falsi, l'Italia sarà presa in giro (come nel 2004). Così, ancora una volta, la storia si ripete. Fu già una farsa allora. Figuriamoci oggi.

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« Risposta #87 inserito:: Ottobre 30, 2009, 11:14:07 pm »

Fininvest, Eni e la scoperta dell’acqua calda

MASSIMO GIANNINI


Scopriamo l’acqua calda. L’Italia è la patria dei conflitti di interesse. Ne è portatore «insano» il capo del governo, felicemente collocato all’incrocio tra poteri privati e concessioni pubbliche. Ne sono portatori «sani» alcuni dei più grandi azionisti del Salotto Buono della Galassia del Nord, al riparo dalle commistioni con la politica ma nel gorgo degli intrecci della finanza. Nei Palazzi nessuno protesta o reclama. Nei mercati nessuno si scandalizza o si indigna. Così va l’Italia. Eppure, in questi ultimi giorni, è accaduto un fatto che non può non destare qualche stupore, e perché no, anche qualche sospetto.
Venerdì scorso, presso la Corte di appello di Milano, è stato depositato ufficialmente il ricorso del gruppo Fininvest contro la sentenza del Tribunale di Milano che il 3 ottobre ha inflitto alla stessa holding della famiglia Berlusconi l’obbligo di versare alla Cir di De Benedetti 750 milioni di euro, a titolo di risarcimento danni per il Lodo Mondadori. Fin qui nulla di nuovo. L’atto di appello era annunciato, e dunque scontato. Quello che colpisce è che la stessa Fininvest ha presentato, insieme al ricorso, due documenti. Un parere sulla stima del danno derivante dall’immediata esecuzione della sentenza di primo grado, e una relazione di consulenza tecnica sulla determinazione del danno riconosciuto alla Cir. Ebbene, quest’ultimo atto reca, in calce, la firma del «professor Roberto Poli» e quella del «professor Paolo Colombo».
Avete capito bene. Non si tratta di due casi di omonimia. Il primo è presidente dell’Eni. Il secondo è consigliere di amministrazione del medesimo «cane a sei zampe». Detto più chiaramente: nel ricorso sul Lodo Mondadori i consulenti tecnici della Fininvest, la cassaforte finanziaria della famiglia del presidente del Consiglio, siedono ai vertici del più grande gruppo industriale ed energetico del Paese, del quale per altro il governo (attraverso il Tesoro) è il maggiore azionista con il 20,3% del capitale. Nulla di illecito, per carità. È la solita acqua calda. Ma possiamo almeno dire che ha un brutto colore e un pessimo sapore?

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« Risposta #88 inserito:: Ottobre 31, 2009, 10:58:49 am »

Dalla Lega a Fini passando per l'Udc molti consensi sul nome dell'ex presidente del Consiglio

Telefonata "di sondaggio" del cancelliere austriaco al capo del governo

D'Alema: "Grato al governo per l'appoggio ma con il premier non farò inciuci"


di MASSIMO GIANNINI


"BASTA, basta, basta. Voglio uscire dal pollaio italiano...". Lo ripete da quell'11 ottobre all'Hotel Marriott, quando si incarognì il duello tra Bersani e Franceschini per la guida del Pd. Pierluigi parlò "da leader", Dario fece "un comiziaccio". Massimo D'Alema si infuriò: "Se vincono loro mi tocca fondare un altro partito, per salvare la sinistra italiana. Ma sono sicuro, vinciamo noi. E dopo nessuna resa dei conti: faccio un passo indietro. Mi piacerebbe un incarico internazionale...". Ora sembra finalmente arrivata, la grande occasione dell'eterno Lider Maximo, che sta sempre lì anche quando perde e decide tutto anche quando non comanda.

La candidatura a "Mister Pesc", il ministro degli Esteri dell'Unione, non è ancora formalizzata. In Europa la battaglia, soprattutto tra i Paesi fondatori, è ancora lunga e difficile. Ma da Roma arrivano segnali positivi. Berlusconi non ha posto veti. Anzi, Palazzo Chigi si dichiara pronto a sostenere l'eventuale candidatura italiana. Tanto basta, per l'ex premier ed ex titolare della Farnesina ai tempi del governo Prodi, per giocarsi la partita. Una partita dura, ai limiti del proibitivo: l'Italia è ininfluente e screditata nella comunità internazionale. Ma se per qualche fortunata combinazione del destino finisse bene, sarebbe un ottimo risultato per il Paese.

D'Alema tesse la sua ragnatela da tempo, con i suoi referenti nel Partito socialista europeo. "Pochi giorni fa", diceva ieri sera, ricostruendo con il suo staff le tappe delle trattative in corso, "c'è stato un primo accordo tra i capi di governo popolari e socialisti, da Zapatero alla Merkel, da Brown a Sarkozy: ai primi toccherà il presidente, ai secondi il ministro degli Esteri d'Europa. A quel punto il Pse ha incaricato un "terzetto", formato da Zapatero, Rassmussen e Werner Faymann, di formare una rosa di nomi per "Mister Pesc", e negoziarla con i popolari. Io sono in quella rosa, e questo è un primo passo, solo un primo passo...".

È il primo passo, perché il secondo non tocca all'Europa, ma all'Italia. I socialisti francesi e quelli tedeschi hanno chiesto a D'Alema: "Ma se noi ti designiamo, poi il tuo governo ti sostiene oppure no? Perché se ti scarica, allora è inutile che ti mettiamo nella rosa...". L'ex ministro, sul punto, ha alzato le mani. "Capisco il problema: Barroso viene nominato con l'appoggio del governo socialista, è chiaro. Io non so che cosa ha in testa Berlusconi. Una cosa è certa: io non gli chiedo niente. È lui che deve valutare se un italiano, seduto su quella poltrona, è una cosa buona per il nostro Paese oppure no". Il "terzetto" ha capito. E a quel punto si è mosso in autonomia.

Il cancelliere austriaco, ieri, ha telefonato personalmente a Berlusconi e Frattini, per sondare "in via preliminare" gli umori del governo italiano. E ha trovato una disponibilità inaspettata. Così è nata la nota di Palazzo Chigi in cui si dice che "il governo valuterà con serietà e responsabilità le candidature capaci di assicurare all'Italia un incarico di così alto prestigio". Così è nata la replica di D'Alema, che si dichiara "grato al governo italiano" per questa disponibilità.

Ma questo, ancora, è solo il secondo passo. Ora manca il terzo, quello decisivo. Il sostegno di Roma non basta. E anche questo D'Alema lo sa bene. "Adesso si apre il confronto tra i partner", raccontava ai suoi collaboratori ieri sera, "e lì la strada per me è tutta in salita...". Gli inglesi sono rimasti bruciati sulla presidenza per Blair, e ora cercano una compensazione su "Mister Pesc" con Miliband. Al tempo stesso i francesi sono sparati sul loro candidato, Hubert Vedrine, che è già stato ministro degli Esteri. Poi ci sono i tedeschi, con l'altro ex ministro, Frank Walter Steinmeier. "Insomma", ragionava D'Alema, "io rischio di essere il classico vaso di coccio...". E questo rischio, ovviamente, cresce nella misura in cui non c'è un sostegno convinto da parte del governo di Roma.

In attesa di capirlo meglio, D'Alema incassa intanto il "mancato veto", che nelle condizioni date è già qualcosa. La posta in gioco è alta, più che per il Lider Maximo, per l'Italia. In questi giorni è stato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a spiegarlo in tutti i modi al Cavaliere e a Gianni Letta, dopo aver parlato a lungo proprio con D'Alema, durante il convegno di Asolo sull'immigrazione: "Caro Silvio, metti da parte le logiche politiche: questa nomina conta per il Paese".

Forse il premier si è convinto. Ma come sempre (Bicamerale docet) quando in ballo ci sono Berlusconi e D'Alema si moltiplicano, inevitabili, i soliti sospetti. Quale "inciucio" c'è dietro, stavolta? Il dubbio alligna a destra, dove un ministro leghista come Calderoli lo alimenta: "Ora, finalmente, sarà possibile fumare il calumet della pace, e fare insieme le riforme che servono al Paese". Ma lavora come un tarlo anche a sinistra, dove un pezzo di Pd (Franceschini in testa) lo va ripetendo da due mesi: "Se vince Bersani, la grande tregua sarà cosa fatta. E la nomina di D'Alema a Mister Pesc sarà il suggello del nuovo patto...".

Adesso che il patto si profila, e secondo molti sa un'altra volta di "crostata", i malpensanti lavorano di fantasia, e cercano di immaginare su quale terreno sia avvenuto, o avverrà, lo "scambio" tra Silvio e Massimo. Fini lo ha predetto a D'Alema, sempre nei colloqui riservati di Asolo: "Capisco che aspiri a quell'incarico internazionale, ma sai meglio di me che, se Berlusconi te lo offrirà, un minuto dopo ti chiederà una contropartita. E tu, di nuovo, sai meglio di me che quella contropartita si chiama riforma della giustizia...". D'Alema era preparato, e non ci ha pensato un attimo: "E tu sai meglio di me, caro Gianfranco, che se il Cavaliere mi facesse un discorso del genere io non potrei che rispondergli un no grosso come una casa...".

Nonostante questo, nel Pd fa scuola la trita massima andreottiana: a pensar male... con tutto quel che segue. Anche su questo D'Alema sembra preparato: "Capisco tutto: la battaglia congressuale, lo scontro sulle primarie, tutto quello che volete. Ma io con Berlusconi non ho fatto e non farò mai nessun inciucio. Di "Mister Pesc" non gli ho mai parlato e non gli parlerò mai. Una nomina italiana a ministro degli Esteri d'Europa è una questione di grande interesse nazionale, non un pastrocchio da piccolo interesse di bottega. Se qualche imbecille non lo capisce, peggio per lui".
m. giannini@repubblica. it

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« Risposta #89 inserito:: Novembre 03, 2009, 06:32:28 pm »

La strategia della conservazione


di MASSIMO GIANNINI

L'Unione europea rivede al rialzo le stime di crescita. Moody's non corregge al ribasso la valutazione sul rating. Per l'Italia due notizie discrete non ne fanno ancora una buona. Nel 2009 il Pil segnerà un meno 4,7% (non più meno 5) e il giudizio sulla "qualità" del nostro debito pubblico resiste a quota "AA2". Di questi tempi bisogna accontentarsi di poco. Ma di qui a ripetere che "la ripresa è cominciata", come ha fatto il presidente del Consiglio una settimana fa, ce ne corre.

La politica economica "inerziale" del governo continua a non garantirci, contemporaneamente, né sviluppo economico né risanamento contabile. Il tasso di crescita resta negativo, e con buona pace delle frottole raccontate in tv dal viceministro Roberto Castelli i nostri maggiori partner internazionali vanno meglio di noi. Il deficit pubblico resta esponenziale, e con buona pace del ministro Giulio Tremonti chiuderemo l'anno sfondando il tetto degli 87 miliardi, cioè 32 miliardi in più rispetto al 2008. Dunque, torna il solito, epocale dubbio leninista: che fare?

Mi permetto di dubitare delle "magnifiche sorti e progressive" affidate agli "apparatciki" di sub-governo che andranno a formare il famoso "Comitato per la politica economica del Popolo delle libertà". Con lo stesso Tremonti, il suo braccio destro Marco Milanese, il triumvirato dei coordinatori del partito La Russa-Verdini-Gasparri e i due capi dei gruppi parlamentari. Cosa apsettarsi, da un simile "mostro" di nomenklatura politica, rispolverato direttamente da qualche vecchio armadio della Prima Repubblica? Poco o nulla. Se non il consueto e sterile braccio di ferro tra "rigoristi" e "sviluppisti", e la rituale resistenza del Tesoro di fronte agli assalti alla diligenza già programmati dall'intramontabile "partito della spesa pubblica". Il massimo che potrà venir fuori sarà un taglio marginale dell'Irap, come invocano un po' di ministri dissidenti e come pretende la Confindustria. Una modesta prebenda alle imprese, così "risarcite" dal piccolo obolo che gli è richiesto dallo scudo fiscale. Tutti gli altri, famiglie in testa, possono aspettare.

Ma è proprio in questa minimalista "strategia della conservazione" si annida il pericolo maggiore. Il governo, bloccato dal suo immobilismo, sceglie di non scegliere. Aspetta. E ripone tutte le sue speranze nel solito "stellone italiano": la ripresa che verrà. Questa è la scommessa berlusconiana. Tragicamente miope, perché questa ripresa, se mai verrà, sarà molto debole e poco durevole. All'orizzonte si profila una nuova, enorme bolla finanziaria che il premier non vede, o finge di non vedere. Ne parla diffusamente Nouriel Roubini, uno dei pochi economisti che in questi anni di buio pesto hanno previsto quasi tutto. La alimentano ogni giorno i fiumi di liquidità in cerca di nuovi sbocchi, ancora una volta rischiosissimi) e le politiche di tasso zero, di espansione e di acquisto su larga scala di strumenti di debito a lungo termine seguite dalla Federal Reserve. La nutrono la voluta debolezza del dollaro e la crescente forza nella quotazione delle materie prime. Quando la bolla planetaria esploderà, che ne sarà del risibile "terno al lotto" giocato dalla "piccola Italia"?

(3 novembre 2009)
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