LA-U dell'OLIVO
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1  Forum Pubblico / OLIVO POLICONICO. PROSPEZIONE SOCIOLOGICA sui FUTURI POSSIBILI per il TERRITORIO. (Dopo 11 maggio 2024). / LIBERI OLTRE INCORAGGIA E FAVORISCE la COSTITUZIONE di GRUPPI LOCALI (capitoli) inserito:: Maggio 29, 2024, 01:21:07 pm
Liberi Oltre incoraggia e favorisce la costituzione di gruppi locali (capitoli) al fine di diffondere i principi dell’associazione, di sviluppare il dibattito intellettuale, di promuovere il metodo scientifico e tutti gli altri scopi sanciti dallo Statuto.

REGOLAMENTO DEI CAPITOLI
     I capitoli sono organizzati su base spontanea per iniziativa di uno o più iscritti all’Associazione e la partecipazione agli incontri organizzati è libera a tutti. Possono essere creati su base regionale, provinciale o cittadina. È consentita, oltre che raccomandata, la creazione di capitoli su base interzonale
    Perché un capitolo possa essere riconosciuto è previsto che
    i) Sia composto da almeno dieci iscritti a LO
    ii) Si doti dello statuto rilasciato dall’Associazione; eventuali modifiche devono essere approvate da direttivo
    iii) Indichi un referente locale
    iv) Il referente locale indicato dal Capitolo deve essere comunicato ed approvato dal Consiglio Direttivo dell’Associazione
    v) Rinnovi le cariche con cadenza almeno pari a quella prevista per gli organi direttivi di LO
     Il Capitolo può utilizzare per la comunicazione con gli iscritti e i simpatizzanti qualunque piattaforma social; tuttavia, la raccomandazione è quella di uniformarsi alle prassi seguite dai capitolo principali per numero di iscritti e dai canali ufficiali utilizzati dall’associazione (es. Telegram)
     Il Capitolo può organizzare eventi locali, dibattiti culturali, incontri sia formali che informali. Per gli incontri formali è raccomandato che riporti le decisioni al Direttivo dell’Associazione in modo che si possa, qualora ce ne siano le possibilità, coinvolgere esponenti del direttivo stesso o esperti individuati di comune accordo
     È consentita la raccolta di fondi. I fondi raccolti per mezzo di eventi vanno versati su un conto corrente e devono essere rendicontati al tesoriere dell’Associazione. Non è consentita la raccolta di contanti né attività di commerciale. In caso di organizzazione di eventi dove è prevista la raccolta di fondi e donazioni, il capitolo è tenuto ad informare il direttivo e a versare quanto raccolto in un conto corrente
     Su richiesta del referente, il Capitolo può far ospitare sulla newsletter di LO e sul sito la pubblicità dell’evento organizzato.
     È fatto divieto di utilizzare il marchio Liberi Oltre se non sono rispettati i punti 2. e 5. L’utilizzo del marchio può essere revocato con decisione del direttivo presa a maggioranza semplice dei componenti qualora il capitolo metta in atto comportamenti non conformi ai principi elencati nello statuto, qualora intenda partecipare a competizioni politiche, qualora determini un danno reputazionale per l’associazione
     La partecipazione agli eventi in qualità di ospiti di politici locali e nazionali va concordata con il Direttivo dell’associazione. Il Direttivo è obbligato ad esprimere un parere motivato in caso di diniego dell’autorizzazione
     
    I referenti locali eletti o nominati possono far richiesta di partecipazione alle riunioni di direttivo se all’ordine del giorno c’è la discussione sulle iniziative intraprese dal capitolo, o possono chiedere al presidente dell’associazione la convocazione di un consiglio direttivo straordinario per questioni che riguardino il Capitolo stesso
   Il referente del capitolo può chiedere che venga fornito l’elenco degli iscritti alla regione o alla zona per cui è competente. Può altresì organizzare la comunicazione agli iscritti della relativa zona dandone preavviso al Direttivo o all’organo da questi designato e può fare inviti all’iscrizione e alla partecipazione al capitolo di zona. Non è consentita l’iscrizione al capitolo di zona a titolo oneroso.
    È fatto divieto al referente locale di presentarsi a cariche elettive politiche; qualora intenda candidarsi a cariche politiche decade dalla carica di referente e il capitolo elegge o nomina un nuovo referente

GRUPPI TELEGRAM GIA’ COSTITUITI
Liberi Oltre - Canale Ufficiale   Liberi Oltre (link gruppi)
Liberi Oltre - Estero   Liberi Oltre - Piemonte
Liberi Oltre - Lazio   Liberi Oltre - Bergamo
Liberi Oltre - Campania   Liberi Oltre - Abruzzo
Liberi Oltre - Basilicata   Liberi Oltre - Puglia
Liberi Oltre - Emilia Romagna   Liberi Oltre - Calabria
Liberi Oltre - Friuli Venezia Giulia   Liberi Oltre - Liguria
Liberi Oltre - Lombardia   Liberi Oltre - Veneto
Liberi Oltre - Sardegna   Liberi Oltre - Sicilia
Liberi Oltre - Toscana   Liberi Oltre - Trentino Alto Adige
Liberi Oltre - Umbria   Liberi Oltre - Valle d’Aosta
Liberi Oltre - Marche   Liberi Oltre - Molise

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da - https://www.liberioltreleillusioni.it/chi-siamo/gruppi-locali
2  Forum Pubblico / LA NOSTRA COLLINA della più BELLA UMANITA', quella CURIOSA. / D'ora in poi Coloro che invadono saranno invasi. inserito:: Maggio 29, 2024, 01:14:13 pm
Gianni Gavioli
La ricerca della PACE DEVE essere per una Pace Attiva che deve coinvolgere le popolazioni delle varie Nazioni, non soltanto i vertici.
Perché la Pace Attiva non esclude la guerra!


Infatti, ai complici di Putin nella Federazione Russa, sarà necessario far saper che se Putin vuole la guerra mondiale, per l'Occidente Democratico sarà come se la Federazione l'avesse provocata, . . . la guerra.
Basta. considerare stupidamente che il MASSACRO DELL'UCRAINA sia un a lite di condominio!!
D'ora in poi Coloro che invadono sarà invaso.
Per molti di noi, spero presto moltissimi, il riferimento per la Pace Mondiale nel NUOVO ORDINE MONDIALE sarà l'Umanità prima di tutto il resto.

IO su FB
3  Forum Pubblico / ESTERO dopo il 19 agosto 2022. MONDO DIVISO IN OCCIDENTE, ORIENTE E ALTRE REALTA'. / Il sonno dell’Europa La Georgia, l’Ucraina e la fuga degli intellettuali inserito:: Maggio 29, 2024, 01:06:32 pm
Il sonno dell’Europa La Georgia, l’Ucraina e la fuga degli intellettuali
Quello che succede oggi a Tbilisi è la replica di quanto successo dieci anni fa nella piazza principale, Maidan, di Kyjiv. L’imperialismo russo stringe le maglie, ma il mondo libero pensa ad altro, e i giornali tacciono

Le straordinarie immagini della folla pacifica ed europea di Tbilisi, in Georgia, incredibilmente ignorate dalle televisioni e dai grandi giornali, sono la prova drammatica dell’ennesimo svarione morale che l’Europa e il mondo libero continuano a commettere, non riuscendo mai a imparare dal recente e tragico passato.
L’errore ricorrente è quello di trascurare il desiderio vitale dei popoli delle ex repubbliche sovietiche e dei paesi del defunto Patto di Varsavia di liberarsi dal giogo imperialista di Mosca, e di avvicinarsi ai valori europei fondati sulla democrazia liberale e sullo stato di diritto. Eppure questa che scende in piazza Tbilisi e resiste a Kyjiv è l’Europa in purezza, la definizione esatta di Occidente libero. Sarebbe sufficiente leggere i classici della letteratura ucraina, almeno quella sopravvissuta al genocidio culturale operato dai russi, dal cantico di Lesja Ukrajnka alle riflessioni del filosofo di Volodymyr Yermolenko, all’opera di Victoria Amelina. E sul perché i georgiani vogliono liberarsi dai russi basterebbe leggere la formidabile saga storica sul secolo rosso raccontata dalla scrittrice Nino Haratischwili in L’Ottava vita, un romanzo di oltre 1200 pagine edito da Marsilio.
E invece niente, il silenzio, anzi la fuga degli intellettuali dalla battaglia di idee più importante della nostra epoca. Neanche il precedente dell’invasione dell’Ucraina ha destato le coscienze europee.
Quello che sta succedendo oggi in Georgia è la replica, per il momento ancora senza vittime, ma temo ancora per poco, di quanto successo tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 nella piazza principale, Maidan, di Kyjiv. Allora gli ucraini scesero in piazza, sventolando le bandiere europee, per protestare contro il presidente Yanukovych, un fantoccio del Cremlino, che aveva rinunciato a firmare, su ordine di Mosca, gli Accordi di associazione dell’Ucraina con l’Unione europea.
Oggi, a Tbilisi, i georgiani riempiono le strade della capitale per protestare contro la cosiddetta “legge russa” imposta dal partito di governo, il cui nome orwelliano è “Sogno georgiano” mentre quello reale è “Incubo russo”, che reprimerà il dissenso interno e limiterà il raggio d’azione dell’opposizione. Putin ha ordinato il passaggio di questa legge non solo per reprimere la libertà di espressione, ma soprattutto perché sa benissimo che, adottando questa legge liberticida, la Georgia non potrà entrare in Europa, per ragioni evidenti di violazione dei diritti politici in una società democratica, da qui le proteste della popolazione civile che da settimane riempie le piazze della capitale senza riuscire a fare notizia in un’Europa che non vuole parlare di altri potenziali conflitti a un mese dal rinnovo del Parlamento europeo.
A Maidan, gli ucraini riuscirono a far dimettere il presidente fantoccio di Putin, al costo di decine e decine di vittime civili, e il Cremlino rispose occupando illegalmente la Crimea e due regioni dell’est ucraino nell’indifferenza generale del mondo libero, che poi otto anni dopo, il 24 febbraio 2022, si è stupito che la concessione territoriale alla Russia non avesse saziato gli appetiti imperialisti di Mosca.
Che tutto ciò non sia sulle prime pagine dei giornali né argomento principale della campagna elettorale europea è incredibile, ma c’è un’altra questione che su Linkiesta, da soli, abbiamo più volte sottolineato: l’assoluta apatia della popolazione russa, l’assenza di una collera di massa dei cittadini russi, limitatasi a cinque minuti di proteste contro la guerra e a mezza giornata di omaggio alla salma di Navalny.
E non raccontiamoci che fare opposizione in Russia è pericoloso, intanto perché le proteste russe non si vedono nemmeno tra la diaspora russa in Occidente (con eccezioni che si contano sulle dita di una mano, come la “russa libera” Maria Mikaelyan, che però è di origine armena, oggi candidata alle Europee con Renzi e Bonino nel nord-ovest).
Il governo georgiano non è così repressivo come quello russo, d’accordo, ma solo perché i georgiani sono sempre scesi in piazza a difendere la libertà e non hanno permesso a nessun governo di trasformarsi in quello che oggi è il Cremlino, esattamente come è successo in Ucraina con le proteste civili di Maidan. Al contrario, la passività russa ha permesso a Putin di diventare un dittatore sanguinario.
Andate a raccontare ai resistenti ucraini il pericolo che si corre a opporsi alla violenza russa, o ai commoventi georgiani che coraggiosamente sfilano per le vie di Tbilisi.

Da – l’Inchiesta

4  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Propongo un secondo carotaggio - da sciacallo d'argomenti quale sono - nella ... inserito:: Maggio 29, 2024, 01:04:34 pm
Post della sezione Notizie


Davide Castiglione

Propongo un secondo carotaggio - da sciacallo d'argomenti quale sono - nella polemica poetica recente, ormai così nota nella piccola bolla che quasi non occorre fare nomi.
Se nel post precedente riflettevo sulla natura bifronte del non-intervento, e se il tema andava ricondotto a dinamiche di psicologia e interazione sociale (o social, dove la scomparsa dello pseudoprefisso -e ironicamente andrebbe a indicare un possibile prefisso e-, che sta per 'elettronico', come in e-mail: 'social' sarebbe più correttamente comprensibile come 'e-sociale'), ora mi preme invece calarmi nel nodo accademico-metodologico del contendere - quello oscurato del tutto da una battuta sessista. Il nodo è questo, si articola in almeno due punti e a breve spiegherò perché mi tocca da vicino:
1. l'accusa o perplessità o ammonizione (non riesco a poggiarmi su una sola scelta paradigmatica senza far torto alle sfumature dei commenti) che nell'intervento di Francesco Brancati non figurassero nomi di autrici e
2. il rischio polarizzante-riduttivista (se non persino conservatore-reazionario, a livello di implicazioni politiche) di ricondurre le scritture ai generi (questa, se ricostruisco bene da alcuni commenti di Renata Morresi, la vera ammonizione, da prendere sul serio alla luce dei gender studies)
Quello che dirò qui riprende e rielabora un bel commento di Erardo Gliandoli nei commenti al mio post precedente: ogni convergenza è non solo voluta ma reale, per palingenesi più che per adesione post-hoc. Premetto che ci sono moltissimi livelli in questo nodo-ginepraio, livelli che non mi pare siano emersi esplicitamente nel dibattito. Cerco di esplicitarli qui.
a) Esiste, sul lato metodologico, anzitutto un problema epistemologico di 'operazionalizzazione':
concetti/fenomeni/costrutti/entità quali quelli di attitudine etica (il punto di partenza nello studio di Francesco) e di genere (e in misura forse minore di 'sesso', e comunque punto di arrivo, o meglio conseguenza osservata nello studio di Francesco) sono complessi, proprio nel senso tecnico di non essere atomici: sono multidimensionali, stratificati, per cui occorrerà (nel saggio, non certo in un post fb!) operazionalizzarli, ovvero definirli in maniera articolata, onde garantire la verificabilità degli assunti di partenza e di arrivo. Avendo io per anni lavorato su costrutti multidimensionali quali difficoltà, empatia e saggezza, credo di poterne dire qualcosa.
b) sempre sul lato metodologico, esiste una gerarchia di precedenza, e quindi di enfasi procedurale:
il fattore dell'attitudine etica pesa più che quello sul genere, semplicemente perché la ricerca è costruita in modo che, formalizzando un po', l'attitudine etica è l'explanandum, la cosa da spiegare, e il genere uno dei possibili explantia, cioè uno dei possibili fattori che spiegano/spiegherebbero i risultati. Questa gerarchia non è assiologica, non riflette cioè consapevolmente una scala di valori, ma è un semplice prodotto del metodo di ricerca (che poi sia assiologica a livello 'latente', cioè a livello della scelta di explanandum ed explanans, è un altro discorso, e diventa un discorso di critica cultural-ideologica del metodo scientifico). Tanto è vero che sarebbe possibile, in un tipo diverso di ricerca, invertire le parti, e indagare per esempio se esista una correlazione tra genere e postura etica, e non tra postura etica e genere. Com'è ovvio, invertire la variabile dipendente e quella indipendente in uno studio è rivoluzionare lo studio, l'ordine è significativo come nella lingua e non come nelle sommatorie dove 4+1 è equivalente a 1+4.
c) la critica letteraria autentica è per sua natura induttivista, non parte con degli apriori:
se formula leggi generali (come nell'ambito di poetica e semiotica), lo fa partendo dalla lettura di un bacino o dataset di testi. Francesco, da lettore specialista qual è, ha formulato-proposto un'ipotesi, che, come tutte le ipotesi, è un qualcosa da sottoporre all'interrogazione dei dati (e della loro interpretazione) ed eventualmente da affinare o confutare (se scrivo come un seguace di Popper, è perché lo sono, e lo ero ante-litteram anche prima di leggerlo). Ciò che conta, dunque, oltre all'operazionalizzazione dei concetti di cui ho discusso in a), e della 'sintassi' della formula di ricerca discussa in b), è che il dataset in c) sia il più possibile differenziato, tale da riflettere con buona approssimazione la biodiversità delle scritture esistenti. Francesco si è mostrato apertissimo a suggerimenti e integrazioni, e (giustamente, credo, per quelle che sono le mie conoscenze) solo i nomi di Valentina Murrocu e di Claudia Crocco sono stati suggeriti, in base all'esplicitazione delle premesse di cui al punto a).
d) la scrittura creativa non è per sua natura determinista ma probabilista, il suo modello non è la fisica classica ma la sociologia o l'economia.
Pertanto, l'inferenza, che so, 'le donne/gli uomini non scrivono così' è assurda, quasi quanto la variante fatalista 'le donne/gli uomini non possono scrivere così'. Va riformulata, come mi pare Francesco abbia fatto, in termini probabilistici: 'esiste una tendenza più forte negli autori di sesso maschile (dove non si dia iato fra sesso e genere) a scrivere con questa attitudine, rispetto alle autrici, o a chi comunque non si identifica nel paradigma dell'uomo bianco cis-gender rappresentato dagli autori presi in esame'. Parlare di tendenze è diagnostico, ma non esclude la possibilità di controesempi, proprio perché il controesempio invalida solo le leggi scientifiche.
Non ha senso, per confutare la proposta, fare nomi di autori uomini che scrivono diversamente, o di autrici donne che scrivono in maniera simile. Il paradigma è quello probabilista, non quello determinista.
e) resta il problema delle conseguenze 'politiche' dei risultati o perfino delle premesse,
ovvero, del rischio che una descrizione dell'esistente possa scivolare in una prescrizione dell'esistente. Questo rischio non dovrebbe però limitare a monte la libertà di ricerca, non dovrebbe insomma agire come un'autocensura preventiva. Immaginiamo che il team di un politico neo-fascista si ispiri, per scrivere i discorsi del proprio candidato, a studi che analizzano retoricamente le strategie discorsive dei candidati avversari: dovrebbero forse i linguisti sentirsi corresponsabili di conseguenze al di fuori del proprio controllo? Dovevano preventivamente autocensurarsi? No, perché ricercare è la loro professione, e qualsiasi prodotto della ricerca, una volta pubblico (e quindi una volta entrato nel mondo 3 di Popper, il mondo semiotico) è manipolabile, strumentalizzabile, e si può solo sperare in anticorpi sociali e contronarrazioni. Lo intuì benissimo WH Auden quando di Yeats (e di sé, in filigrana), disse che le parole di un morto si trasformano nelle viscere dei vivi.
f) ultimo punto/aneddoto personale.
Anni fa scrissi un saggio sul realismo empatico in poesia (lo potete trovare su academia.edu). Volevo affrontare una gamma di scritture accumunate da una narratività estroflessa, oggettivante, omodiegetica o extradiegetica ma non psichica, e mi sono stupito, a cose fatte, di non aver quasi incluso nessuna autrice (lo sottolineo in coda al saggio). Ora, è possibilissimo che io abbia sbagliato in a) (nel rendere operativi i concetti di empatia e narratività secondo criteri troppo stringenti o selettivi quando non fuorvianti) o in c) (nell'attingere a un bacino troppo omogeneo), però non mi sembra un'ipotesi campata del tutto in aria quella di ipotizzare una tendenza maggioritaria in autori uomini verso l'estroflessione narrativa (archetipi: Dante, Whitman) e una tendenza verso l'introflessione psichica (archetipi: Petrarca, Dickinson) nelle autrici. Ipotesi ( = non affermazione ma postulato di realtà) e probabilistica ( = non affermazione né implicazione di determinismo - tanto più che autrici come Marianne Moore, Elizebeth Bishop, Cristina Annino, ma anche Rosaria Lo Russo nel 'Nosocomio' e in parte Giulia Rusconi in Linoleum, hanno forti tratti 'estroflessivi')
Da FB del 11 marzo 2024
5  Forum Pubblico / OLIVO POLICONICO. PROSPEZIONE SOCIOLOGICA sui FUTURI POSSIBILI per il TERRITORIO. (Dopo 11 maggio 2024). / Mettiamo ordine, perché INTESA OLIVO POLICONICO e NON PIU' ULIVO. inserito:: Maggio 29, 2024, 01:02:17 pm
Mettiamo ordine, almeno nei concetti base, perché INTESA OLIVO POLICONICO e NON PIU' ULIVO.
 Noi ForumUlivisti che l'abbiamo visto nascere e sparire, sappiamo che non fu l'ULIVO a spegnersi nel PD e Altri.
 Nella realtà dell'allora CentroSinistra furono i Partiti a RICOMPORSI, nel caso del PD e/o consumarsi sino a sparire, di fatto, sminuzzandosi in decine di mini-partiti intorno a MINI-LEADER.
 L'INTESA OLIVO POLICONICO da me immaginato NON È UN PARTITO ma, invero, mantenendo le radici nell'Idea Ulivista (Cattolici Progressisti e Socialisti Democratici Uniti) vogliamo farne un PROGETTO DI SVILUPPO COMPATIBILE DECENNALE, tra Progressisti Revisionisti, Europeisti Occidentali e Atlantisti, sarà UNA INTESA CONCORDATA tra diverse linee di pensiero coincidenti verso un unico FINE POLITICO, SOCIALE E CULTURALE.
 In questa INTESA la Politica dovrà essere in grado di garantire il Bene dei Cittadini come suo FINE UNICO.
 La Forma di Governo sarà la Repubblica, unica forma che garantisce il "vivere libero" e la partecipazione di tutti i Cittadini alle decisioni politiche (Machiavelli).
  Nel futuro dell'Intesa Olivo Policonico, quindi NON PIU' CORRENTI ma singoli progetti sociali e politici uniti e CONCORDANTI in un  PROGETTO ORGANIZZATIVO E SOCIALE.
Appunto: L'INTESA OLIVO POLICONICO.

ggiannig

P.S.: siamo in questo inizio di lavori e di studio, in POCHISSIME persone (insufficienti all’opera) ma resta inteso che in questa fase e sino alla stesura del progetto e dello statuto, NON ammetteremo la presenza di Movimenti o Partiti oggi esistenti e attivi. Ovviamente non ci chiuderemo in una torre (o sgabuzzino) e accetteremo pareri soltanto consultivi segnalandoli per chiarezza al pubblico.   
6  Forum Pubblico / O.P.O.N. - OPINIONE PUBBLICA ORGANIZZATA NAZIONALE. (Dopo 11 maggio 2024). / “Viviamo in un’età dell’oro della lamentela per i torti subiti. … inserito:: Maggio 28, 2024, 06:54:00 pm
Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, l'attuale e la precedente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at..."
 Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte.

Classe 2024 o Generazione Gaza: e ora cosa succede all'America?
Prima di giudicare, cerchiamo di capire  i campus
Classe 2024 ovvero Generazione Gaza. Per i disagi e le perturbazioni che provocano nella vita quotidiana di molte famiglie e in molte città, le proteste studentesche di questi giorni forse sono il tema più dibattuto fra gli americani (molto più del processo newyorchese a Donald Trump). L’America intera s’interroga sul significato di quest’agitazione, le sue ragioni o i suoi torti, l’impatto e le conseguenze che potrà avere in varie direzioni. Politica interna, politica estera, battaglia delle idee, egemonia culturale: tutto s’intreccia. Oltre ovviamente alla tragedia in corso in Medio Oriente. Vorrei cercare di vederci chiaro al di là del giudizio specifico sui contenuti di questo movimento, i suoi slogan, i suoi metodi di lotta.
La protesta si sta allargando
Prima constatazione, obiettiva: la protesta dilaga. Era cominciata in alcuni bastioni dell’accademia più élitaria come Harvard Columbia Yale, luoghi dove – nonostante la meritocrazia e le borse di studio – si formano soprattutto i figli della classe dirigente, con rette dai settantamila dollari annui in su (ormai si arriva facilmente a quota centomila). Ora le manifestazioni, gli accampamenti di occupazione, gli scontri con la polizia (quando questa viene chiamata a intervenire dalle autorità) si estendono ben oltre. A New York è entrato in agitazione anche il City College, che costa poco ed è frequentato dai figli dei ceti medio-bassi inclusi molti immigrati. Se i focolai iniziali erano concentrati soprattutto nell’America delle due coste dove domina la sinistra, ora si segnalano proteste in Stati del Sud che votano repubblicano.
Classi in remoto come nella pandemia
Le prime conseguenze, più immediate e facilmente verificabili, incidono sullo studio. Queste ragazze e ragazzi, appartenenti alla più ampia Generazione Z (i nati fra il 1997 e il 2012), spesso sono gli stessi che finirono il liceo o iniziarono il percorso universitario con la pandemia; pertanto hanno già sofferto un deficit di apprendimento oltre che di socializzazione. Ora alcuni atenei tornano ai corsi in remoto, quindi si rischia una sorta di prolungamento dell’esperimento Covid che non fu certo felice. In certe università si discute se cancellare la cerimonia della “graduation”, la consegna solenne e festosa dei titoli di laurea, un appuntamento molto sentito nella tradizione e molto partecipato dalle famiglie. Tutto ciò contribuisce a creare un’atmosfera di emergenza, che resterà scolpita nella memoria della Generazione 2024 o Generazione Gaza.
Autorità accademiche nella tempesta
Attorno a queste turbolenze, a cerchi concentrici, si agitano anche la vita politica e la classe di governo, a livello locale e nazionale. Presidenti e rettori delle università sono sotto assedio da più parti. Molti di questi leader sono donne, appartenenti a minoranze etniche, ed erano abituati ad amministrare sofficemente le regole del gioco della cultura “woke”, in ambienti accademici dall’egemonia culturale progressista. Gli studenti filo-palestinesi ora accusano presidenti/rettori di limitare la libertà di espressione se cercano di sgomberare i campus e di garantire l’agibilità delle aule. Fino a ieri però le stesse autorità accademiche erano accusate di aver consentito un clima di censura e intimidazione imposto dalla sinistra radicale, l’esclusione di voci conservatrici, e dal 7 ottobre 2023 avevano tollerato un’escalation di aggressioni antisemite. Se chiamano la polizia le autorità accademiche sono descritte come repressive, se non la chiamano sono succubi di frange estremiste e violente. Un altro argomento polemico che affiora da sinistra è il "ricatto" esercitato dai ricchi donatori della Jewish community per penalizzare università che hanno condonato l'antisemitismo. Ma nessuno storceva il naso quando gli stessi miliardari ebrei finanziavano centri studi e cattedre controllati dalla sinistra radicale. Su Gaza si sta consumando, tra l'altro, anche un divorzio tra due anime storiche del partito democratico Usa: ebrei progressisti e sinistra filo-araba.
Il mondo politico è coinvolto in tutti i modi. A New York è stato un sindaco democratico e black, Eric Adams, a chiamare la polizia al City College. Poco prima il presidente della Camera, il repubblicano Mike Johnson, aveva visitato la Columbia University per denunciarvi l’antisemitismo.
L' "altro Sessantotto" fece avanzare le destre
Nei sei mesi da qui alle elezioni l’uso politico di queste proteste è destinato a crescere. A metà strada (agosto) c’è un appuntamento come la convention democratica di Chicago che evoca inquietanti analogie con quella convention che nella stessa città si tenne nel 1968, in un crescendo di scontri fra la polizia e i manifestanti contro la guerra del Vietnam.
Se questo sia destinato a passare alla storia come un nuovo Sessantotto americano, oppure qualcosa di meno importante, è presto per dirlo. I bilanci sono prematuri e del resto anche la storia di 56 anni fa continua ad essere reinterpretata da revisionismi di ogni colore ideologico. Di sicuro quello che sta accadendo quest’anno è rilevante. A prescindere dalle nostre opinioni sul merito della questione – cioè su Gaza – questo movimento ci dice qualcosa sullo stato della società americana, e sullo stato dell’America nel mondo. L’agitazione studentesca rafforza l’influenza che la politica estera può avere nell’elezione del 5 novembre. D’altronde non riesco a ricordare in vita mia un anno elettorale con due guerre della gravità di Ucraina e Medio Oriente. I cortei violenti e gli scontri rilanciano anche temi più domestici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Qui ricordo che il Sessantotto originario fa vincere le elezioni americane al conservatore Richard Nixon e quelle francesi al conservatore Charles De Gaulle: allora si parlava di una rivincita della “maggioranza silenziosa” contro la minoranza che occupava le piazze. In Italia il riflusso a destra arriva solo un po’ più tardi, con il governo Andreotti-Malagodi nel 1972.
Politica estera Usa, i problemi sono reali
La politica estera americana è un bersaglio proclamato di questo movimento studentesco. Non l’Ucraina, che lascia indifferenti i giovani, ma la Palestina. Sorvolo qui sui tanti (troppi) segnali di ignoranza o disinformazione tra i ragazzi di questa generazione (onestamente non erano meglio istruiti i ragazzi del ’68 né quelli del ’77). Invece voglio sottolineare due questioni serie e ineludibili, che sollevano i meglio preparati tra di loro. La prima va al cuore di una contraddizione di Joe Biden. Questo presidente eredita decenni di una politica di sostegno “incondizionato” a Israele (dal 1967). Quell’aggettivo messo tra virgolette è stato contestato a lungo e da più parti: l’America ha continuato a fornire aiuti militari ed economici a Israele anche quando i governi di Tel Aviv ignoravano le pressanti richieste di Washington e facevano scelte contrarie agli interessi veri degli Stati Uniti. Oggi quella contraddizione è esplosa più che mai. Pur difendendo il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, Biden è in forte contrasto con Netanyahu, sulla questione dello Stato palestinese, sugli aiuti umanitari, sulla condotta della guerra contro Hamas e sugli insediamenti di coloni in Cisgiordania. Però Biden non osa cancellare nei fatti l’aggettivo “incondizionato”: da una parte critica duramente Netanyahu, dall’altra continua a fornire aiuti militari decisivi alle forze armate israeliane. Gli studenti vorrebbero farli cessare subito. I contestatori considerano Biden politicamente e moralmente corresponsabile di quello che definiscono il genocidio dei civili a Gaza. Comunque si veda la questione, è un dato oggettivo che Gaza sta diventando “la guerra di Biden” come il Vietnam fu “la guerra di Lyndon Johnson”. Con le dovute e significative differenze: dal Vietnam ogni giorno tornavano delle bare con salme di giovani americani caduti al fronte. Nel 2024 l’America non combatte direttamente, o almeno non a Gaza, anche se alcune sue basi militari e le sue flotte sono intervenute: contro i missili e droni iraniani, contro gli Hezbollah, contro gli Houthi nel Mar Rosso.
"Disinvestimento" come in Sudafrica contro l'apartheid
In parallelo alle accuse a Biden, c’è un’altra campagna portata avanti dal movimento studentesco, quella sui “disinvestimenti”: i manifestanti esigono dalle loro ricchissime istituzioni universitarie (e in prospettiva dall’America tutta intera: aziende, banche) che chiudano ogni investimento suscettibile di aiutare gli insediamenti illegali di coloni israeliani in Cisgiordania o altre forme di sfruttamento della popolazione palestinese. Si ispirano esplicitamente alla campagna di disinvestimento che colpì il Sudafrica ai tempi del dominio razzista della minoranza bianca. Quel movimento di boicottaggio economico contribuì alla fine dell’apartheid e alla vittoria di Nelson Mandela contro l’apartheid (anche se non fu così decisivo come si tende a credere).
A ispirare la Classe 2024 o Generazione Gaza c’è una visione etica della politica estera: l’America dovrebbe comportarsi nel mondo intero in conformità con i valori e gli ideali a cui dice di ispirarsi nella sua Costituzione. Questo movimento si iscrive in una tradizione antica e nobile, radicata soprattutto nel partito democratico. E’ quella che ispirò il presidente Woodrow Wilson a fondare la Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale e il presidente Franklin Roosevelt a fondare le Nazioni Unite dopo la seconda, per far rispettare principi di legalità a livello globale.
I peccati originali di questo movimento
All’interno di questa ispirazione molto apprezzabile, il movimento studentesco però si è macchiato di un peccato originale, o più d’uno. Il primo è ben noto e divenne evidente fin dalle prime ore successive al massacro di Hamas il 7 ottobre. Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, l'attuale e la precedente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at..."
 Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte.

Classe 2024 o Generazione Gaza: e ora cosa succede all'America?
Prima di giudicare, cerchiamo di capire  i campus
Classe 2024 ovvero Generazione Gaza. Per i disagi e le perturbazioni che provocano nella vita quotidiana di molte famiglie e in molte città, le proteste studentesche di questi giorni forse sono il tema più dibattuto fra gli americani (molto più del processo newyorchese a Donald Trump). L’America intera s’interroga sul significato di quest’agitazione, le sue ragioni o i suoi torti, l’impatto e le conseguenze che potrà avere in varie direzioni. Politica interna, politica estera, battaglia delle idee, egemonia culturale: tutto s’intreccia. Oltre ovviamente alla tragedia in corso in Medio Oriente. Vorrei cercare di vederci chiaro al di là del giudizio specifico sui contenuti di questo movimento, i suoi slogan, i suoi metodi di lotta.
La protesta si sta allargando
Prima constatazione, obiettiva: la protesta dilaga. Era cominciata in alcuni bastioni dell’accademia più élitaria come Harvard Columbia Yale, luoghi dove – nonostante la meritocrazia e le borse di studio – si formano soprattutto i figli della classe dirigente, con rette dai settantamila dollari annui in su (ormai si arriva facilmente a quota centomila). Ora le manifestazioni, gli accampamenti di occupazione, gli scontri con la polizia (quando questa viene chiamata a intervenire dalle autorità) si estendono ben oltre. A New York è entrato in agitazione anche il City College, che costa poco ed è frequentato dai figli dei ceti medio-bassi inclusi molti immigrati. Se i focolai iniziali erano concentrati soprattutto nell’America delle due coste dove domina la sinistra, ora si segnalano proteste in Stati del Sud che votano repubblicano.
Classi in remoto come nella pandemia
Le prime conseguenze, più immediate e facilmente verificabili, incidono sullo studio. Queste ragazze e ragazzi, appartenenti alla più ampia Generazione Z (i nati fra il 1997 e il 2012), spesso sono gli stessi che finirono il liceo o iniziarono il percorso universitario con la pandemia; pertanto hanno già sofferto un deficit di apprendimento oltre che di socializzazione. Ora alcuni atenei tornano ai corsi in remoto, quindi si rischia una sorta di prolungamento dell’esperimento Covid che non fu certo felice. In certe università si discute se cancellare la cerimonia della “graduation”, la consegna solenne e festosa dei titoli di laurea, un appuntamento molto sentito nella tradizione e molto partecipato dalle famiglie. Tutto ciò contribuisce a creare un’atmosfera di emergenza, che resterà scolpita nella memoria della Generazione 2024 o Generazione Gaza.
Autorità accademiche nella tempesta
Attorno a queste turbolenze, a cerchi concentrici, si agitano anche la vita politica e la classe di governo, a livello locale e nazionale. Presidenti e rettori delle università sono sotto assedio da più parti. Molti di questi leader sono donne, appartenenti a minoranze etniche, ed erano abituati ad amministrare sofficemente le regole del gioco della cultura “woke”, in ambienti accademici dall’egemonia culturale progressista. Gli studenti filo-palestinesi ora accusano presidenti/rettori di limitare la libertà di espressione se cercano di sgomberare i campus e di garantire l’agibilità delle aule. Fino a ieri però le stesse autorità accademiche erano accusate di aver consentito un clima di censura e intimidazione imposto dalla sinistra radicale, l’esclusione di voci conservatrici, e dal 7 ottobre 2023 avevano tollerato un’escalation di aggressioni antisemite. Se chiamano la polizia le autorità accademiche sono descritte come repressive, se non la chiamano sono succubi di frange estremiste e violente. Un altro argomento polemico che affiora da sinistra è il "ricatto" esercitato dai ricchi donatori della Jewish community per penalizzare università che hanno condonato l'antisemitismo. Ma nessuno storceva il naso quando gli stessi miliardari ebrei finanziavano centri studi e cattedre controllati dalla sinistra radicale. Su Gaza si sta consumando, tra l'altro, anche un divorzio tra due anime storiche del partito democratico Usa: ebrei progressisti e sinistra filo-araba.
Il mondo politico è coinvolto in tutti i modi. A New York è stato un sindaco democratico e black, Eric Adams, a chiamare la polizia al City College. Poco prima il presidente della Camera, il repubblicano Mike Johnson, aveva visitato la Columbia University per denunciarvi l’antisemitismo.
L' "altro Sessantotto" fece avanzare le destre
Nei sei mesi da qui alle elezioni l’uso politico di queste proteste è destinato a crescere. A metà strada (agosto) c’è un appuntamento come la convention democratica di Chicago che evoca inquietanti analogie con quella convention che nella stessa città si tenne nel 1968, in un crescendo di scontri fra la polizia e i manifestanti contro la guerra del Vietnam.
Se questo sia destinato a passare alla storia come un nuovo Sessantotto americano, oppure qualcosa di meno importante, è presto per dirlo. I bilanci sono prematuri e del resto anche la storia di 56 anni fa continua ad essere reinterpretata da revisionismi di ogni colore ideologico. Di sicuro quello che sta accadendo quest’anno è rilevante. A prescindere dalle nostre opinioni sul merito della questione – cioè su Gaza – questo movimento ci dice qualcosa sullo stato della società americana, e sullo stato dell’America nel mondo. L’agitazione studentesca rafforza l’influenza che la politica estera può avere nell’elezione del 5 novembre. D’altronde non riesco a ricordare in vita mia un anno elettorale con due guerre della gravità di Ucraina e Medio Oriente. I cortei violenti e gli scontri rilanciano anche temi più domestici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Qui ricordo che il Sessantotto originario fa vincere le elezioni americane al conservatore Richard Nixon e quelle francesi al conservatore Charles De Gaulle: allora si parlava di una rivincita della “maggioranza silenziosa” contro la minoranza che occupava le piazze. In Italia il riflusso a destra arriva solo un po’ più tardi, con il governo Andreotti-Malagodi nel 1972.
Politica estera Usa, i problemi sono reali
La politica estera americana è un bersaglio proclamato di questo movimento studentesco. Non l’Ucraina, che lascia indifferenti i giovani, ma la Palestina. Sorvolo qui sui tanti (troppi) segnali di ignoranza o disinformazione tra i ragazzi di questa generazione (onestamente non erano meglio istruiti i ragazzi del ’68 né quelli del ’77). Invece voglio sottolineare due questioni serie e ineludibili, che sollevano i meglio preparati tra di loro. La prima va al cuore di una contraddizione di Joe Biden. Questo presidente eredita decenni di una politica di sostegno “incondizionato” a Israele (dal 1967). Quell’aggettivo messo tra virgolette è stato contestato a lungo e da più parti: l’America ha continuato a fornire aiuti militari ed economici a Israele anche quando i governi di Tel Aviv ignoravano le pressanti richieste di Washington e facevano scelte contrarie agli interessi veri degli Stati Uniti. Oggi quella contraddizione è esplosa più che mai. Pur difendendo il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, Biden è in forte contrasto con Netanyahu, sulla questione dello Stato palestinese, sugli aiuti umanitari, sulla condotta della guerra contro Hamas e sugli insediamenti di coloni in Cisgiordania. Però Biden non osa cancellare nei fatti l’aggettivo “incondizionato”: da una parte critica duramente Netanyahu, dall’altra continua a fornire aiuti militari decisivi alle forze armate israeliane. Gli studenti vorrebbero farli cessare subito. I contestatori considerano Biden politicamente e moralmente corresponsabile di quello che definiscono il genocidio dei civili a Gaza. Comunque si veda la questione, è un dato oggettivo che Gaza sta diventando “la guerra di Biden” come il Vietnam fu “la guerra di Lyndon Johnson”. Con le dovute e significative differenze: dal Vietnam ogni giorno tornavano delle bare con salme di giovani americani caduti al fronte. Nel 2024 l’America non combatte direttamente, o almeno non a Gaza, anche se alcune sue basi militari e le sue flotte sono intervenute: contro i missili e droni iraniani, contro gli Hezbollah, contro gli Houthi nel Mar Rosso.
"Disinvestimento" come in Sudafrica contro l'apartheid
In parallelo alle accuse a Biden, c’è un’altra campagna portata avanti dal movimento studentesco, quella sui “disinvestimenti”: i manifestanti esigono dalle loro ricchissime istituzioni universitarie (e in prospettiva dall’America tutta intera: aziende, banche) che chiudano ogni investimento suscettibile di aiutare gli insediamenti illegali di coloni israeliani in Cisgiordania o altre forme di sfruttamento della popolazione palestinese. Si ispirano esplicitamente alla campagna di disinvestimento che colpì il Sudafrica ai tempi del dominio razzista della minoranza bianca. Quel movimento di boicottaggio economico contribuì alla fine dell’apartheid e alla vittoria di Nelson Mandela contro l’apartheid (anche se non fu così decisivo come si tende a credere).
A ispirare la Classe 2024 o Generazione Gaza c’è una visione etica della politica estera: l’America dovrebbe comportarsi nel mondo intero in conformità con i valori e gli ideali a cui dice di ispirarsi nella sua Costituzione. Questo movimento si iscrive in una tradizione antica e nobile, radicata soprattutto nel partito democratico. E’ quella che ispirò il presidente Woodrow Wilson a fondare la Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale e il presidente Franklin Roosevelt a fondare le Nazioni Unite dopo la seconda, per far rispettare principi di legalità a livello globale.
I peccati originali di questo movimento
All’interno di questa ispirazione molto apprezzabile, il movimento studentesco però si è macchiato di un peccato originale, o più d’uno. Il primo è ben noto e divenne evidente fin dalle prime ore successive al massacro di Hamas il 7 ottobre. Una miriade di associazioni studentesche presero posizioni ignobili, immorali, inaccettabili: approvarono subito e con entusiasmo la strage di civili israeliani, lo stupro in massa di donne, il rapimento di bambini. Molto prima che arrivasse la controffensiva israeliana a fare un'ecatombe a Gaza. La violenza feroce, le torture crudeli, gli stupri, tutto fu assolto in quanto giusta vendetta per i torti subiti dai palestinesi. Quell’usare due pesi e due misure – la violenza israeliana è orribile, quella di Hamas è sacrosanta – continua tuttora e perseguita il movimento. Lo espone alle accuse di antisemitismo, che sono giustificate da innumerevoli atti di aggressione avvenuti nei campus, molti dei quali sono diventati dei luoghi non solo inospitali ma perfino insicuri per studenti di origini ebraiche o di nazionalità israeliana. 
Indottrinamento e fanatismo
Questa macchia si collega ad un altro peccato originale, che non si riferisce solo a Gaza ma all’ideologia prevalente nella Generazione 2024. Ne ho scritto altre volte, è un’ideologia che risale a cattivi maestri come Michel Foucault o Toni Negri. Interpreta l’intera storia delle civiltà e l’universo mondo attraverso il trittico Potere Oppressione Privilegio; divide l’umanità in oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori; schiaccia la complessità dentro categorie manichee (buoni-cattivi, bianco-nero); riduce quindi il mondo contemporaneo a una massa di vittime (il Grande Sud globale, gli ex-colonizzati, le minoranze etniche dei nostri paesi) e un unico carnefice che è la razza bianca, dominatrice, aggressiva. Fanatismo, intolleranza, perfino l’apologia della violenza (quella di Hamas) derivano da questa visione del mondo.
Non è una novità. Tutte le rivoluzioni di ogni colore, dai giacobini di Robespierre ai bolscevichi di Lenin, dagli squadristi di Mussolini nella marcia su Roma alle Guardie rosse di Mao Zedong, fino alle rivoluzioni religiose come quella di Khomeini in Iran, tutte senza eccezioni hanno avuto bisogno di disumanizzare la storia, demonizzare l’avversario, dividere il mondo in buoni e cattivi, per aizzare le masse e giustificare la violenza.
Leggete questa intellettuale progressista, e poi Musk
Se pensate che esagero nell’avvicinare quel tipo di precedenti storici alla società americana del 2024, ecco cosa scrive una brava opinionista del New York Times, una “progressista critica”, Pamela Paul, in un commento efficacemente intitolato Hai subito un torto, non vuol dire che tu abbia ragione.: “Viviamo in un’età dell’oro della lamentela per i torti subiti. … Se sei di sinistra sei stato oppresso, escluso, emarginato, silenziato, cancellato, ferito, sottorappresentato, traumatizzato e danneggiato. Se sei di destra sei stato ignorato, disprezzato, sottovalutato, zittito, caricaturizzato e irriso. … Gli esseri umani si sono sempre combattuti per l’accesso ineguale a risorse scarse. Però mai come oggi la nostra cultura ha fatto della lamentela una forza motrice così vigorosa, e un gioco a somma zero in cui ciascuna parte si sente lesa. … Riflettiamo su un fenomeno progressista: la gerarchia del privilegio viene rovesciata così che le voci marginalizzate in precedenza ora hanno la priorità. Valido, in teoria. Ma chi decide, e su quali basi? Chi è più oppresso: un vecchio bianco veterano dell’esercito e portatore di handicap, o un giovane gay di origini latinos? Individui o tribù vengono classificati secondo categorie binarie: colonizzatore contro colonizzato, oppressore contro oppresso, privilegiato e non. Nelle università e nelle ong, nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni statali, la gente può recitare la propria lamentela e vittimizzazione, trasformandola in un’arma, sa che può appellarsi allo Stato, all’ufficio del personale o al tribunale dei social, dove sarà ricompensata con attenzione”.
Sul versante opposto dello spettro politico rispetto a Pamela Paul, l’anarco-libertario-capitalista Elon Musk scrive su X: “L’assiomatico errore che mina alle fondamenta gran parte della civiltà occidentale è il concetto che la debolezza ti dà ragione. Se si accetta che gli oppressi sono sempre i buoni la conclusione naturale è che i forti sono cattivi”.
Se sei ricco hai rubato a un povero? Marx se la ride...
L’assioma descritto da Musk comanda la Generazione Gaza. Di fronte a qualsiasi evento storico ci si chiede prima di tutto qual è la parte meno forte o meno ricca; quindi, ci si schiera in sua difesa perché quella è la parte moralmente superiore.
Traducendo Musk, la Generazione Gaza è cresciuta nella certezza che “se sei ricco devi aver derubato un povero”: grottesca caricatura del marxismo, che non è così banale. Da quando le università hanno smesso di insegnare una storia positiva del Progresso? (Risposta: dagli anni Sessanta, basta verificare l’evoluzione dei programmi e dei titoli dei corsi nelle università Usa). Nella demonizzazione del Progresso, oggi obbligatoria, è proibito studiare se alcune nazioni, civiltà, classi dirigenti abbiano adottato ricette efficaci per creare e diffondere prosperità e diritti; mentre i popoli poveri possono anche essere vittime di leader oppressivi autoctoni, sistemi di valori retrogradi.
Applicato ai palestinesi questo meccanismo impedisce di addentrarsi nei meandri di una storia labirintica, evita di fare i conti con i molteplici errori commessi dagli stessi palestinesi (leader e popolo) fino alla tragica impasse attuale, sorvola su forze potentissime che aizzano i deboli (l’Iran con il suo petrolio, i suoi arsenali e il suo fanatismo religioso, le varie milizie terroristiche che hanno fatto della violenza una rendita politica). Ignora che gli ebrei residenti nel territorio d’Israele non sono tutti “bianchi”. Eccetera eccetera. Non è questo il luogo per accennare ai mille capitoli controversi della storia mediorientale e della questione israelo-palestinese. Il luogo adatto sarebbero proprio le aule universitarie. Dove però da molti anni non si dibatte, si indottrina e si fa lavaggio del cervello.
Quella situazione descritta da Pamela Paul chiama in causa non solo la Generazione Gaza bensì pure i suoi cattivi maestri.
6 gennaio 2021, la destra "legittimata"?
Richiamo l’attenzione su un passaggio iniziale della Paul, in cui si riferisce alla destra trumpiana. Lei ci torna con questa frase: “Cosa fu in fondo il 6 gennaio 2021 se non una gigantesca esplosione di rabbia da parte di coloro che si sentivano ingannati e volevano ottenere risarcimenti, con qualsiasi mezzo?”
Ecco, quel che accade nei campus universitari in questi giorni come viene visto dagli elettori repubblicani? Come una conferma che la sinistra in fatto di violenza ha due pesi e due misure, vede una violenza “fascista” e una violenza “giusta” perché viene dagli “oppressi”. Fu così anche in quella terribile estate del 2020 che precedette l’insurrezione del 6 gennaio al Campidoglio. Dopo l’assassinio dell’afroamericano George Floyd per settimane fu normale vedere commissariati di polizia e altre sedi istituzionali assaltati e incendiati da manifestanti di Black Lives Matter. Poi per altri mesi alcune zone del paese (ad esempio il centro di Portland nell’Oregon) divennero ufficialmente delle zone “liberate dalla polizia”, dove le forze dell’ordine non potevano più mettere piede.

Oggi corriamo il rischio che la Generazione Gaza si senta legittimata all’uso della violenza, a tal punto da farvi ricorso in modo sistematico? L’altro Sessantotto, quello di 56 anni fa, vide la diffusione della lotta armata negli Stati Uniti, in Italia, Francia, Germania. Onestamente, non siamo ancora arrivati a questo punto, non mi pare proprio.

Forza dell'economia Usa, un fattore di pace sociale

Una delle ragioni che prevengono il contagio delle proteste e della violenza, forse, è l’ottima situazione economica di cui l’America ha goduto finora: alta crescita, piena occupazione. L'altroieri è uscito un dato che segnala un rallentamento della crescita, e l'inflazione non è stata debellata. Però nell'insieme il quadro rimane positivo, migliore che in molte parti del mondo. E ne beneficiano un po' tutti.

La Generazione Z è ricca, economicamente sta meglio di come stavano le generazioni dei suoi fratelli maggiori o dei suoi genitori quando avevano la stessa età. E’ turbata, è sofferente, per mille motivi, ma non vive in un periodo di crisi economica o di ingiustizie sociali acute. Gli aumenti salariali e gli aiuti pubblici del periodo pandemico hanno perfino attenuato certe diseguaglianze. I lavoratori appartenenti a minoranze etniche – black, latinos – non sono mai stati così bene. Le tensioni politiche e culturali sono acute, ma non poggiano su problemi materiali.

Non è detto che questa situazione duri, però. La forza dell’economia americana in parte è virtuosa, è legata alla sua capacità d’innovazione e al dinamismo delle sue imprese. In parte invece è drogata da una spesa pubblica in deficit che aumentò a dismisura sotto Trump per il Covid, e ha continuato a crescere sotto Biden (ivi compreso per un “voto di scambio” a vantaggio degli studenti universitari: la generosa, costosa e iniqua cancellazione dei loro debiti a carico del contribuente). Non ho la capacità di distinguere quanta parte della crescita economica Usa sia “sana” e quanta “malsana”.

Il quadro mondiale: perdita di consensi

Alla forza di questa economia si contrappone un crescente isolamento dell’America rispetto al resto del mondo. Isolamento relativo, s’intende: la comunità transatlantica rimane un blocco straordinariamente ricco e influente. Se all’Europa si aggiungono i numerosi alleati asiatici – Giappone, Corea del Sud, Filippine – più Australia e Nuova Zelanda, “l’Occidente allargato” è molto grosso. Però in termini di popolazione il resto del mondo è ancora più grosso, e cresce di più.

Come il Vietnam negli anni Sessanta segnò una ferita grave per la legittimità, credibilità, autorevolezza degli Stati Uniti nel mondo, così in una certa misura sta avvenendo oggi per Gaza. “La guerra di Biden” fa perdere all’America consensi preziosi nel Grande Sud globale. Non è del tutto casuale che altri due paesi africani – Niger e Ciad – abbiano appena cacciato i militari americani.

La sorpresa "finale" degli anni Sessanta

I paragoni storici vanno maneggiati con prudenza e umiltà. Voglio ricordare tuttavia che negli anni Sessanta l’America sembrava “perduta”: sia agli occhi della sua Generazione Sessantotto, sia agli occhi di gran parte del mondo affascinato dal comunismo sovietico o cubano, dal maoismo cinese, dalle varie rivoluzioni post-coloniali, dalle rivolte studentesche. Poi invece dell’America fu l’Unione sovietica a implodere, e fu la Cina ad abbandonare il maoismo.

L’America lacerata e sgomenta degli anni Sessanta senza saperlo stava soffrendo anche le doglie di un parto molto speciale: la rivoluzione informatica, l’avvento del computer, la primavera della Silicon Valley. Nonché tante forme di ambientalismo, femminismo, anti-razzismo che la Generazione Gaza forse crede di avere inventato.

Il confronto-sfida tra l’America di questi giorni e i suoi grandi rivali come la Cina, continuerà a dipanarsi per anni, con chissà quanti colpi di scena. Un frammento di lezione dagli anni Sessanta forse è questo: le crisi che esplodono alla luce del sole, quelle crisi visibili e rumorose che vengono recitate in piazza nelle nostre democrazie, non sono necessariamente quelle più pericolose per la sopravvivenza di un sistema. Quando un sistema è stato disegnato all'origine per essere elastico e assorbire gli urti.
 
Perché non ci sono "cure economiche" per la denatalità (e cosa ci unisce alla Cina)

Gli allarmi sulla denatalità si susseguono e si assomigliano: in Italia come in tante altre parti del mondo, Cina inclusa. In genere nei paesi democratici chi sta all’opposizione accusa chi sta al governo di non fare abbastanza per aiutare le donne, per sostenere le famiglie, per promuovere le nascite. (In Cina non può esistere un’opposizione, ma il governo è preoccupato lo stesso).

I cosiddetti esperti, che pochi anni prima gridavano al disastro per la “bomba demografica” e la “sovrappopolazione”, ora lanciano urli di terrore per lo “spopolamento”, e così via.

In mezzo a tanto frastuono inutile, è una bella sorpresa trovare un’analisi lucida, precisa, fattuale. L’ha scritta John Burn Murdoch sul Financial Times. E’ una sintesi di vari studi sulla denatalità, che convergono su questa conclusione: gli aiuti alle giovani donne, alle future mamme, o alle coppie, sono una bella cosa in sé ma non influenzano affatto la decisione di fare figli. L’aspetto economico è irrilevante, in quella decisione.

Questo del resto dovrebbe essere abbastanza ovvio, è una conclusione di buon senso, di fronte a un’osservazione empirica: i tassi di fertilità e natalità rimangono più elevati in paesi più poveri, quindi non è certo la mancanza di mezzi a giustificare il crollo delle nascite nei paesi ricchi.

Sono fondamentali invece dei fattori culturali. Il più importante di tutti sembra essere la fiducia nel futuro. Una generazione convinta di essere alla vigilia dell’Apocalisse, o di vivere in una civiltà malvagia, in un mondo infernale segnato dalle peggiori ingiustizie, perché mai dovrebbe fare figli? Per condannarli all’inferno?

Un altro fattore culturale si può riassumere nel concetto esagerato e iperprotettivo dei diritti del nascituro: se questa creatura deve assorbire il massimo dell’attenzione, delle cure, degli investimenti in educazione, l’asticella forse è un po’ troppo alta, la responsabilità genitoriale fa tremare le vene ai polsi. Fin qui ho riassunto con parole mie.

Ecco invece la sintesi degli studi su natalità e demografia raccolti da Burn-Murdoch. Dal 1980 al 2019 l’insieme dei paesi ricchi e sviluppati ha triplicato (al netto dell’inflazione, quindi in potere d’acquisto reale) gli aiuti pro-capite per la natalità: assegni familiari, asili nido gratuiti, permessi di maternità-paternità, e altri sussidi pubblici. Nello stesso periodo il numero di nascite è sceso inesorabilmente, in media da 1,85 a 1,53 per ogni donna.

La Finlandia è un paese egualitario, con un Welfare generosissimo. Ha uno dei sistemi più avanzati al mondo per assistere e sostenere le famiglie (tradizionali e non) che vogliono avere figli. Nonostante questo il tasso di fertilità finlandese è caduto di un terzo dal 2010. L’Ungheria, che per motivi ideologici fa di tutto per promuovere le nascite, ha toccato il suo minimo storico. In Corea del Sud il governo ha lanciato un programma munifico di pagamenti a chi fa figli, detto “baby bonus”: il bilancio è semplice, quel programma ha pagato donne che avevano già deciso di farli per conto proprio, mentre non ha spostato il trend di calo della natalità che prosegue imperterrito. Come si vede non ci sono differenze tra politiche di sinistra (Finlandia) e di destra (Ungheria), né tra Oriente e Occidente.

L’autore di questa sintesi commenta: “Il legame tra le nascite e la spesa pubblica per politiche in favore della famiglia, è trascurabile. Si scopre che la decisione se avere figli oppure no, e quanti farne, è influenzata da molte altre cose anziché dal denaro”. Questo non significa che sia sbagliato dare aiuti alle mamme o future mamme. Può essere giusto per tante ragioni. Può rendere la vita un po’ più facile a quelle donne che hanno comunque deciso di avere figli, un obiettivo in sé lodevole. Può servire a ridurre la povertà infantile nelle famiglie a basso reddito. Tutte cose buone, basta non illudersi che servano a invertire la tendenza alla denatalità. “I fattori culturali intervengono a monte nelle decisioni, molto prima che i costi di allevare un figlio siano presi in considerazione”.

Uno studio di Matthias Doepke e Fabrizio Zillibotti del 2019, intitolato “Money and Parenting: How Economics Explain the Way We Raise Our Kids”, viene usato per le sue conclusioni illuminanti. Cita la convinzione diffusa tra le giovani generazioni, che per dare a un figlio un futuro soddisfacente bisogna occuparsi moltissimo di lui o lei, garantirgli la massima attenzione dei genitori, e investire in un’istruzione di livello superlativo, in concorrenza sfrenata con i figli degli altri. La sfida, descritta in termini così impegnativi da risultare quasi spaventosi, finisce per apparire irraggiungibile a molti. Meglio accontentarsi di una vita “normale”, da single o da sposati senza figli, anziché sobbarcarsi una responsabilità simile. In parallelo, un’altra evoluzione culturale ha spostato le priorità della vita per i giovani adulti. Nel 1993 il 61% degli americani intervistati in un’indagine del Pew Research diceva che avere figli è importante per una vita appagante; oggi solo il 26% condivide quell’affermazione. Le giovani donne in particolare hanno spostato le priorità mettendo al vertice la “crescita personale” e la “carriera professionale”. Le paure legate all’eccesso di responsabilità come genitori figurano in modo rilevante tra le ragioni per non avere figli. I costi economici appaiono solo al 14esimo posto.

Infine interviene il livello di angoscia delle giovani generazioni. “Più una potenziale mamma è preoccupata sul futuro, meno vuole avere figli. In America, in Europa, in Estremo Oriente, la generazione sotto i trent’anni è più impaurita dal futuro e più stressata rispetto alle altre generazioni”.

Concludo con la Cina, stavolta attingendo al racconto di Peter Hessler sul magazine The New Yorker dell’8 aprile 2024. Prima ancora di essere stato un corrispondente in Cina per quel settimanale, Hessler aveva insegnato l’inglese in una università del Sichuan. E’ rimasto in contatto con i suoi ex-studenti e spesso li consulta per capire lo stato d’animo della gioventù cinese. Quasi nessuno di loro ha avuto o vuole avere figli. Le risposte negative raggiungono il massimo tra le ragazze: 76%. Questo suo sondaggio empirico, su un campione limitato, coincide con i risultati di altre indagini più vaste. Del resto è noto che la Cina è entrata in una fase di decrescita della popolazione per effetto di un crollo delle nascite. A nulla sono serviti i provvedimenti presi dal governo. Le autorità di Pechino sono passate a gran velocità dalla politica del “figlio unico” alla libertà di fare due, tre figli. Infine dalla libertà il regime è passato agli incentivi: ora paga le mamme perché facciano bambini. I risultati sono insignificanti. Ecco la spiegazione offerta da una ex-studentessa di Hassler: “Io penso che i bambini cinesi sono stressati e turbati. Siamo già noi una generazione turbata. Allevare dei figli richiede lunghi periodi di affiatamento e di osservazione e di guida, tutte cose difficili da garantire in un contesto di pressione sociale intensa. Il futuro della società cinese è un’incognita. I bambini non ci chiedono di essere messi al mondo. Io ho paura che i miei figli potenziali non siano dei guerrieri, e finiscano per perdersi”.

La Cina in cui abitai io era una nazione molto più ottimista e fiduciosa nel suo futuro. Quella di oggi, nella mentalità dei giovani, sembra molto più simile all’Occidente. Le politiche in favore della natalità sono un falso problema.           

Perché l'Africa caccia gli americani (c'entra Putin)

In poco più di una settimana, l'America ha perso due alleati africani, o quantomeno due presenze militari in questo continente. Prima il Niger poi il Ciad hanno dato il benservito ai militari Usa. Sono destinati a essere sostituiti dai russi: quasi certamente in Niger, mentre la situazione in Ciad è più aperta.

Il contraccolpo è stato sentito a Washington che vede arretrare la sua strategia africana. Accade in parallelo con le bocciature subite nei mesi e anni precedenti dalla Francia, i cui militari sono stati anch'essi espulsi da molti paesi. Spesso per essere sostituiti dai russi o dal Gruppo Wagner, i mercenari controllati da Mosca.

L'espulsione dei militari americani dal Niger è stata definita da diversi esperti Usa come un duro colpo alla strategia di Washington contro le forze jihadiste in Africa occidentale. Il Niger era un pilastro di quella strategia, ospitava la più grossa base militare Usa di tutta l'Africa occidentale, con mille soldati; e una base di droni costruita ad Agadez con un investimento di 110 milioni di dollari. Fino all'anno scorso i Berretti Verdi americani di stanza in Niger addestravano le truppe locali a combattere contro una delle più ampie guerriglie jihadiste del mondo, e i droni made in Usa contribuivano a spiare le milizie islamiste. A questo punto l'America deve ripiegare su un piano B, più limitato e difensivo: cercando di arginare il contagio jihadista in paesi vicini che ancora accolgono la presenza Usa, anziché andare all'offensiva contro il cuore delle forze islamiste.

Cos'ha provocato la cacciata? L'anno scorso in Niger c'è stato un colpo di Stato militare, condannato dalla Casa Bianca. L'Amministrazione Biden ha fatto pressione sulla giunta golpista perché ristabilisca un governo civile e legittimo. A quel punto i generali, guidati dal presidente Mohamed Bazoum, hanno cominciato a spostarsi verso un'alleanza con Mosca. Di recente la capitale del Niger Niamey è stata il teatro di manifestazioni anti-americane, probabilmente orchestrate dal regime. Ed è arrivata la richiesta formale di riportare a casa i mille soldati americani.

La situazione nel Ciad sembra più fluida. Lì la presenza militare Usa era molto più limitata: 75 soldati dei reparti speciali a Ndjamena, capitale del Ciad. Al momento sono stati rimpatriati anche loro. Come nel Niger, pure questi Berretti Verdi (del 20th Special Forces Group, un reparto della Guardia Nazionale dell'Alabama) erano lì come consiglieri e addestratori anti-terrorismo. Il Ciad ha un ruolo essenziale nelle operazioni contro Boko Haram. Pentagono e Dipartimento di Stato hanno l'impressione che la loro cacciata possa essere temporanea, una mossa negoziale con cui il presidente del Ciad potrebbe alzare il prezzo della sua cooperazione, mettendo in concorrenza Stati Uniti e Russia.
La Francia a sua volta era stata allontanata da Mali e Burkina Faso, in favore dei russi.

Federico Rampini, New York 27 aprile 2024

 
 
approvarono subito e con entusiasmo la strage di civili israeliani, lo stupro in massa di donne, il rapimento di bambini. Molto prima che arrivasse la controffensiva israeliana a fare un'ecatombe a Gaza. La violenza feroce, le torture crudeli, gli stupri, tutto fu assolto in quanto giusta vendetta per i torti subiti dai palestinesi. Quell’usare due pesi e due misure – la violenza israeliana è orribile, quella di Hamas è sacrosanta – continua tuttora e perseguita il movimento. Lo espone alle accuse di antisemitismo, che sono giustificate da innumerevoli atti di aggressione avvenuti nei campus, molti dei quali sono diventati dei luoghi non solo inospitali ma perfino insicuri per studenti di origini ebraiche o di nazionalità israeliana. 
Indottrinamento e fanatismo
Questa macchia si collega ad un altro peccato originale, che non si riferisce solo a Gaza ma all’ideologia prevalente nella Generazione 2024. Ne ho scritto altre volte, è un’ideologia che risale a cattivi maestri come Michel Foucault o Toni Negri. Interpreta l’intera storia delle civiltà e l’universo mondo attraverso il trittico Potere Oppressione Privilegio; divide l’umanità in oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori; schiaccia la complessità dentro categorie manichee (buoni-cattivi, bianco-nero); riduce quindi il mondo contemporaneo a una massa di vittime (il Grande Sud globale, gli ex-colonizzati, le minoranze etniche dei nostri paesi) e un unico carnefice che è la razza bianca, dominatrice, aggressiva. Fanatismo, intolleranza, perfino l’apologia della violenza (quella di Hamas) derivano da questa visione del mondo.

Non è una novità. Tutte le rivoluzioni di ogni colore, dai giacobini di Robespierre ai bolscevichi di Lenin, dagli squadristi di Mussolini nella marcia su Roma alle Guardie rosse di Mao Zedong, fino alle rivoluzioni religiose come quella di Khomeini in Iran, tutte senza eccezioni hanno avuto bisogno di disumanizzare la storia, demonizzare l’avversario, dividere il mondo in buoni e cattivi, per aizzare le masse e giustificare la violenza.
Leggete questa intellettuale progressista, e poi Musk
Se pensate che esagero nell’avvicinare quel tipo di precedenti storici alla società americana del 2024, ecco cosa scrive una brava opinionista del New York Times, una “progressista critica”, Pamela Paul, in un commento efficacemente intitolato Hai subito un torto, non vuol dire che tu abbia ragione.: “Viviamo in un’età dell’oro della lamentela per i torti subiti. … Se sei di sinistra sei stato oppresso, escluso, emarginato, silenziato, cancellato, ferito, sottorappresentato, traumatizzato e danneggiato. Se sei di destra sei stato ignorato, disprezzato, sottovalutato, zittito, caricaturizzato e irriso. … Gli esseri umani si sono sempre combattuti per l’accesso ineguale a risorse scarse. Però mai come oggi la nostra cultura ha fatto della lamentela una forza motrice così vigorosa, e un gioco a somma zero in cui ciascuna parte si sente lesa. … Riflettiamo su un fenomeno progressista: la gerarchia del privilegio viene rovesciata così che le voci marginalizzate in precedenza ora hanno la priorità. Valido, in teoria. Ma chi decide, e su quali basi? Chi è più oppresso: un vecchio bianco veterano dell’esercito e portatore di handicap, o un giovane gay di origini latinos? Individui o tribù vengono classificati secondo categorie binarie: colonizzatore contro colonizzato, oppressore contro oppresso, privilegiato e non. Nelle università e nelle ong, nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni statali, la gente può recitare la propria lamentela e vittimizzazione, trasformandola in un’arma, sa che può appellarsi allo Stato, all’ufficio del personale o al tribunale dei social, dove sarà ricompensata con attenzione”.
Sul versante opposto dello spettro politico rispetto a Pamela Paul, l’anarco-libertario-capitalista Elon Musk scrive su X: “L’assiomatico errore che mina alle fondamenta gran parte della civiltà occidentale è il concetto che la debolezza ti dà ragione. Se si accetta che gli oppressi sono sempre i buoni la conclusione naturale è che i forti sono cattivi”.
Se sei ricco hai rubato a un povero? Marx se la ride...
L’assioma descritto da Musk comanda la Generazione Gaza. Di fronte a qualsiasi evento storico ci si chiede prima di tutto qual è la parte meno forte o meno ricca; quindi, ci si schiera in sua difesa perché quella è la parte moralmente superiore.
Traducendo Musk, la Generazione Gaza è cresciuta nella certezza che “se sei ricco devi aver derubato un povero”: grottesca caricatura del marxismo, che non è così banale. Da quando le università hanno smesso di insegnare una storia positiva del Progresso? (Risposta: dagli anni Sessanta, basta verificare l’evoluzione dei programmi e dei titoli dei corsi nelle università Usa). Nella demonizzazione del Progresso, oggi obbligatoria, è proibito studiare se alcune nazioni, civiltà, classi dirigenti abbiano adottato ricette efficaci per creare e diffondere prosperità e diritti; mentre i popoli poveri possono anche essere vittime di leader oppressivi autoctoni, sistemi di valori retrogradi.
Applicato ai palestinesi questo meccanismo impedisce di addentrarsi nei meandri di una storia labirintica, evita di fare i conti con i molteplici errori commessi dagli stessi palestinesi (leader e popolo) fino alla tragica impasse attuale, sorvola su forze potentissime che aizzano i deboli (l’Iran con il suo petrolio, i suoi arsenali e il suo fanatismo religioso, le varie milizie terroristiche che hanno fatto della violenza una rendita politica). Ignora che gli ebrei residenti nel territorio d’Israele non sono tutti “bianchi”. Eccetera eccetera. Non è questo il luogo per accennare ai mille capitoli controversi della storia mediorientale e della questione israelo-palestinese. Il luogo adatto sarebbero proprio le aule universitarie. Dove però da molti anni non si dibatte, si indottrina e si fa lavaggio del cervello.
Quella situazione descritta da Pamela Paul chiama in causa non solo la Generazione Gaza bensì pure i suoi cattivi maestri.
6 gennaio 2021, la destra "legittimata"?
Richiamo l’attenzione su un passaggio iniziale della Paul, in cui si riferisce alla destra trumpiana. Lei ci torna con questa frase: “Cosa fu in fondo il 6 gennaio 2021 se non una gigantesca esplosione di rabbia da parte di coloro che si sentivano ingannati e volevano ottenere risarcimenti, con qualsiasi mezzo?”
Ecco, quel che accade nei campus universitari in questi giorni come viene visto dagli elettori repubblicani? Come una conferma che la sinistra in fatto di violenza ha due pesi e due misure, vede una violenza “fascista” e una violenza “giusta” perché viene dagli “oppressi”. Fu così anche in quella terribile estate del 2020 che precedette l’insurrezione del 6 gennaio al Campidoglio. Dopo l’assassinio dell’afroamericano George Floyd per settimane fu normale vedere commissariati di polizia e altre sedi istituzionali assaltati e incendiati da manifestanti di Black Lives Matter. Poi per altri mesi alcune zone del paese (ad esempio il centro di Portland nell’Oregon) divennero ufficialmente delle zone “liberate dalla polizia”, dove le forze dell’ordine non potevano più mettere piede.

Oggi corriamo il rischio che la Generazione Gaza si senta legittimata all’uso della violenza, a tal punto da farvi ricorso in modo sistematico? L’altro Sessantotto, quello di 56 anni fa, vide la diffusione della lotta armata negli Stati Uniti, in Italia, Francia, Germania. Onestamente, non siamo ancora arrivati a questo punto, non mi pare proprio.

Forza dell'economia Usa, un fattore di pace sociale

Una delle ragioni che prevengono il contagio delle proteste e della violenza, forse, è l’ottima situazione economica di cui l’America ha goduto finora: alta crescita, piena occupazione. L'altroieri è uscito un dato che segnala un rallentamento della crescita, e l'inflazione non è stata debellata. Però nell'insieme il quadro rimane positivo, migliore che in molte parti del mondo. E ne beneficiano un po' tutti.

La Generazione Z è ricca, economicamente sta meglio di come stavano le generazioni dei suoi fratelli maggiori o dei suoi genitori quando avevano la stessa età. E’ turbata, è sofferente, per mille motivi, ma non vive in un periodo di crisi economica o di ingiustizie sociali acute. Gli aumenti salariali e gli aiuti pubblici del periodo pandemico hanno perfino attenuato certe diseguaglianze. I lavoratori appartenenti a minoranze etniche – black, latinos – non sono mai stati così bene. Le tensioni politiche e culturali sono acute, ma non poggiano su problemi materiali.

Non è detto che questa situazione duri, però. La forza dell’economia americana in parte è virtuosa, è legata alla sua capacità d’innovazione e al dinamismo delle sue imprese. In parte invece è drogata da una spesa pubblica in deficit che aumentò a dismisura sotto Trump per il Covid, e ha continuato a crescere sotto Biden (ivi compreso per un “voto di scambio” a vantaggio degli studenti universitari: la generosa, costosa e iniqua cancellazione dei loro debiti a carico del contribuente). Non ho la capacità di distinguere quanta parte della crescita economica Usa sia “sana” e quanta “malsana”.

Il quadro mondiale: perdita di consensi

Alla forza di questa economia si contrappone un crescente isolamento dell’America rispetto al resto del mondo. Isolamento relativo, s’intende: la comunità transatlantica rimane un blocco straordinariamente ricco e influente. Se all’Europa si aggiungono i numerosi alleati asiatici – Giappone, Corea del Sud, Filippine – più Australia e Nuova Zelanda, “l’Occidente allargato” è molto grosso. Però in termini di popolazione il resto del mondo è ancora più grosso, e cresce di più.

Come il Vietnam negli anni Sessanta segnò una ferita grave per la legittimità, credibilità, autorevolezza degli Stati Uniti nel mondo, così in una certa misura sta avvenendo oggi per Gaza. “La guerra di Biden” fa perdere all’America consensi preziosi nel Grande Sud globale. Non è del tutto casuale che altri due paesi africani – Niger e Ciad – abbiano appena cacciato i militari americani.

La sorpresa "finale" degli anni Sessanta

I paragoni storici vanno maneggiati con prudenza e umiltà. Voglio ricordare tuttavia che negli anni Sessanta l’America sembrava “perduta”: sia agli occhi della sua Generazione Sessantotto, sia agli occhi di gran parte del mondo affascinato dal comunismo sovietico o cubano, dal maoismo cinese, dalle varie rivoluzioni post-coloniali, dalle rivolte studentesche. Poi invece dell’America fu l’Unione sovietica a implodere, e fu la Cina ad abbandonare il maoismo.

L’America lacerata e sgomenta degli anni Sessanta senza saperlo stava soffrendo anche le doglie di un parto molto speciale: la rivoluzione informatica, l’avvento del computer, la primavera della Silicon Valley. Nonché tante forme di ambientalismo, femminismo, anti-razzismo che la Generazione Gaza forse crede di avere inventato.

Il confronto-sfida tra l’America di questi giorni e i suoi grandi rivali come la Cina, continuerà a dipanarsi per anni, con chissà quanti colpi di scena. Un frammento di lezione dagli anni Sessanta forse è questo: le crisi che esplodono alla luce del sole, quelle crisi visibili e rumorose che vengono recitate in piazza nelle nostre democrazie, non sono necessariamente quelle più pericolose per la sopravvivenza di un sistema. Quando un sistema è stato disegnato all'origine per essere elastico e assorbire gli urti.
 
Perché non ci sono "cure economiche" per la denatalità (e cosa ci unisce alla Cina)

Gli allarmi sulla denatalità si susseguono e si assomigliano: in Italia come in tante altre parti del mondo, Cina inclusa. In genere nei paesi democratici chi sta all’opposizione accusa chi sta al governo di non fare abbastanza per aiutare le donne, per sostenere le famiglie, per promuovere le nascite. (In Cina non può esistere un’opposizione, ma il governo è preoccupato lo stesso).

I cosiddetti esperti, che pochi anni prima gridavano al disastro per la “bomba demografica” e la “sovrappopolazione”, ora lanciano urli di terrore per lo “spopolamento”, e così via.

In mezzo a tanto frastuono inutile, è una bella sorpresa trovare un’analisi lucida, precisa, fattuale. L’ha scritta John Burn Murdoch sul Financial Times. E’ una sintesi di vari studi sulla denatalità, che convergono su questa conclusione: gli aiuti alle giovani donne, alle future mamme, o alle coppie, sono una bella cosa in sé ma non influenzano affatto la decisione di fare figli. L’aspetto economico è irrilevante, in quella decisione.

Questo del resto dovrebbe essere abbastanza ovvio, è una conclusione di buon senso, di fronte a un’osservazione empirica: i tassi di fertilità e natalità rimangono più elevati in paesi più poveri, quindi non è certo la mancanza di mezzi a giustificare il crollo delle nascite nei paesi ricchi.

Sono fondamentali invece dei fattori culturali. Il più importante di tutti sembra essere la fiducia nel futuro. Una generazione convinta di essere alla vigilia dell’Apocalisse, o di vivere in una civiltà malvagia, in un mondo infernale segnato dalle peggiori ingiustizie, perché mai dovrebbe fare figli? Per condannarli all’inferno?

Un altro fattore culturale si può riassumere nel concetto esagerato e iperprotettivo dei diritti del nascituro: se questa creatura deve assorbire il massimo dell’attenzione, delle cure, degli investimenti in educazione, l’asticella forse è un po’ troppo alta, la responsabilità genitoriale fa tremare le vene ai polsi. Fin qui ho riassunto con parole mie.

Ecco invece la sintesi degli studi su natalità e demografia raccolti da Burn-Murdoch. Dal 1980 al 2019 l’insieme dei paesi ricchi e sviluppati ha triplicato (al netto dell’inflazione, quindi in potere d’acquisto reale) gli aiuti pro-capite per la natalità: assegni familiari, asili nido gratuiti, permessi di maternità-paternità, e altri sussidi pubblici. Nello stesso periodo il numero di nascite è sceso inesorabilmente, in media da 1,85 a 1,53 per ogni donna.

La Finlandia è un paese egualitario, con un Welfare generosissimo. Ha uno dei sistemi più avanzati al mondo per assistere e sostenere le famiglie (tradizionali e non) che vogliono avere figli. Nonostante questo il tasso di fertilità finlandese è caduto di un terzo dal 2010. L’Ungheria, che per motivi ideologici fa di tutto per promuovere le nascite, ha toccato il suo minimo storico. In Corea del Sud il governo ha lanciato un programma munifico di pagamenti a chi fa figli, detto “baby bonus”: il bilancio è semplice, quel programma ha pagato donne che avevano già deciso di farli per conto proprio, mentre non ha spostato il trend di calo della natalità che prosegue imperterrito. Come si vede non ci sono differenze tra politiche di sinistra (Finlandia) e di destra (Ungheria), né tra Oriente e Occidente.

L’autore di questa sintesi commenta: “Il legame tra le nascite e la spesa pubblica per politiche in favore della famiglia, è trascurabile. Si scopre che la decisione se avere figli oppure no, e quanti farne, è influenzata da molte altre cose anziché dal denaro”. Questo non significa che sia sbagliato dare aiuti alle mamme o future mamme. Può essere giusto per tante ragioni. Può rendere la vita un po’ più facile a quelle donne che hanno comunque deciso di avere figli, un obiettivo in sé lodevole. Può servire a ridurre la povertà infantile nelle famiglie a basso reddito. Tutte cose buone, basta non illudersi che servano a invertire la tendenza alla denatalità. “I fattori culturali intervengono a monte nelle decisioni, molto prima che i costi di allevare un figlio siano presi in considerazione”.

Uno studio di Matthias Doepke e Fabrizio Zillibotti del 2019, intitolato “Money and Parenting: How Economics Explain the Way We Raise Our Kids”, viene usato per le sue conclusioni illuminanti. Cita la convinzione diffusa tra le giovani generazioni, che per dare a un figlio un futuro soddisfacente bisogna occuparsi moltissimo di lui o lei, garantirgli la massima attenzione dei genitori, e investire in un’istruzione di livello superlativo, in concorrenza sfrenata con i figli degli altri. La sfida, descritta in termini così impegnativi da risultare quasi spaventosi, finisce per apparire irraggiungibile a molti. Meglio accontentarsi di una vita “normale”, da single o da sposati senza figli, anziché sobbarcarsi una responsabilità simile. In parallelo, un’altra evoluzione culturale ha spostato le priorità della vita per i giovani adulti. Nel 1993 il 61% degli americani intervistati in un’indagine del Pew Research diceva che avere figli è importante per una vita appagante; oggi solo il 26% condivide quell’affermazione. Le giovani donne in particolare hanno spostato le priorità mettendo al vertice la “crescita personale” e la “carriera professionale”. Le paure legate all’eccesso di responsabilità come genitori figurano in modo rilevante tra le ragioni per non avere figli. I costi economici appaiono solo al 14esimo posto.

Infine interviene il livello di angoscia delle giovani generazioni. “Più una potenziale mamma è preoccupata sul futuro, meno vuole avere figli. In America, in Europa, in Estremo Oriente, la generazione sotto i trent’anni è più impaurita dal futuro e più stressata rispetto alle altre generazioni”.

Concludo con la Cina, stavolta attingendo al racconto di Peter Hessler sul magazine The New Yorker dell’8 aprile 2024. Prima ancora di essere stato un corrispondente in Cina per quel settimanale, Hessler aveva insegnato l’inglese in una università del Sichuan. E’ rimasto in contatto con i suoi ex-studenti e spesso li consulta per capire lo stato d’animo della gioventù cinese. Quasi nessuno di loro ha avuto o vuole avere figli. Le risposte negative raggiungono il massimo tra le ragazze: 76%. Questo suo sondaggio empirico, su un campione limitato, coincide con i risultati di altre indagini più vaste. Del resto è noto che la Cina è entrata in una fase di decrescita della popolazione per effetto di un crollo delle nascite. A nulla sono serviti i provvedimenti presi dal governo. Le autorità di Pechino sono passate a gran velocità dalla politica del “figlio unico” alla libertà di fare due, tre figli. Infine dalla libertà il regime è passato agli incentivi: ora paga le mamme perché facciano bambini. I risultati sono insignificanti. Ecco la spiegazione offerta da una ex-studentessa di Hassler: “Io penso che i bambini cinesi sono stressati e turbati. Siamo già noi una generazione turbata. Allevare dei figli richiede lunghi periodi di affiatamento e di osservazione e di guida, tutte cose difficili da garantire in un contesto di pressione sociale intensa. Il futuro della società cinese è un’incognita. I bambini non ci chiedono di essere messi al mondo. Io ho paura che i miei figli potenziali non siano dei guerrieri, e finiscano per perdersi”.

La Cina in cui abitai io era una nazione molto più ottimista e fiduciosa nel suo futuro. Quella di oggi, nella mentalità dei giovani, sembra molto più simile all’Occidente. Le politiche in favore della natalità sono un falso problema.           

Perché l'Africa caccia gli americani (c'entra Putin)

In poco più di una settimana, l'America ha perso due alleati africani, o quantomeno due presenze militari in questo continente. Prima il Niger poi il Ciad hanno dato il benservito ai militari Usa. Sono destinati a essere sostituiti dai russi: quasi certamente in Niger, mentre la situazione in Ciad è più aperta.

Il contraccolpo è stato sentito a Washington che vede arretrare la sua strategia africana. Accade in parallelo con le bocciature subite nei mesi e anni precedenti dalla Francia, i cui militari sono stati anch'essi espulsi da molti paesi. Spesso per essere sostituiti dai russi o dal Gruppo Wagner, i mercenari controllati da Mosca.

L'espulsione dei militari americani dal Niger è stata definita da diversi esperti Usa come un duro colpo alla strategia di Washington contro le forze jihadiste in Africa occidentale. Il Niger era un pilastro di quella strategia, ospitava la più grossa base militare Usa di tutta l'Africa occidentale, con mille soldati; e una base di droni costruita ad Agadez con un investimento di 110 milioni di dollari. Fino all'anno scorso i Berretti Verdi americani di stanza in Niger addestravano le truppe locali a combattere contro una delle più ampie guerriglie jihadiste del mondo, e i droni made in Usa contribuivano a spiare le milizie islamiste. A questo punto l'America deve ripiegare su un piano B, più limitato e difensivo: cercando di arginare il contagio jihadista in paesi vicini che ancora accolgono la presenza Usa, anziché andare all'offensiva contro il cuore delle forze islamiste.

Cos'ha provocato la cacciata? L'anno scorso in Niger c'è stato un colpo di Stato militare, condannato dalla Casa Bianca. L'Amministrazione Biden ha fatto pressione sulla giunta golpista perché ristabilisca un governo civile e legittimo. A quel punto i generali, guidati dal presidente Mohamed Bazoum, hanno cominciato a spostarsi verso un'alleanza con Mosca. Di recente la capitale del Niger Niamey è stata i
7  Forum Pubblico / ESTERO dopo il 19 agosto 2022. MONDO DIVISO IN OCCIDENTE, ORIENTE E ALTRE REALTA'. / Classe 2024 o Generazione Gaza: e ora cosa succede all'America? Prima di ... inserito:: Maggio 28, 2024, 06:49:50 pm
Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, l'attuale e la precedente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at..."
 Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte.

Classe 2024 o Generazione Gaza: e ora cosa succede all'America?
Prima di giudicare, cerchiamo di capire  i campus
Classe 2024 ovvero Generazione Gaza. Per i disagi e le perturbazioni che provocano nella vita quotidiana di molte famiglie e in molte città, le proteste studentesche di questi giorni forse sono il tema più dibattuto fra gli americani (molto più del processo newyorchese a Donald Trump). L’America intera s’interroga sul significato di quest’agitazione, le sue ragioni o i suoi torti, l’impatto e le conseguenze che potrà avere in varie direzioni. Politica interna, politica estera, battaglia delle idee, egemonia culturale: tutto s’intreccia. Oltre ovviamente alla tragedia in corso in Medio Oriente. Vorrei cercare di vederci chiaro al di là del giudizio specifico sui contenuti di questo movimento, i suoi slogan, i suoi metodi di lotta.
La protesta si sta allargando
Prima constatazione, obiettiva: la protesta dilaga. Era cominciata in alcuni bastioni dell’accademia più élitaria come Harvard Columbia Yale, luoghi dove – nonostante la meritocrazia e le borse di studio – si formano soprattutto i figli della classe dirigente, con rette dai settantamila dollari annui in su (ormai si arriva facilmente a quota centomila). Ora le manifestazioni, gli accampamenti di occupazione, gli scontri con la polizia (quando questa viene chiamata a intervenire dalle autorità) si estendono ben oltre. A New York è entrato in agitazione anche il City College, che costa poco ed è frequentato dai figli dei ceti medio-bassi inclusi molti immigrati. Se i focolai iniziali erano concentrati soprattutto nell’America delle due coste dove domina la sinistra, ora si segnalano proteste in Stati del Sud che votano repubblicano.
Classi in remoto come nella pandemia
Le prime conseguenze, più immediate e facilmente verificabili, incidono sullo studio. Queste ragazze e ragazzi, appartenenti alla più ampia Generazione Z (i nati fra il 1997 e il 2012), spesso sono gli stessi che finirono il liceo o iniziarono il percorso universitario con la pandemia; pertanto hanno già sofferto un deficit di apprendimento oltre che di socializzazione. Ora alcuni atenei tornano ai corsi in remoto, quindi si rischia una sorta di prolungamento dell’esperimento Covid che non fu certo felice. In certe università si discute se cancellare la cerimonia della “graduation”, la consegna solenne e festosa dei titoli di laurea, un appuntamento molto sentito nella tradizione e molto partecipato dalle famiglie. Tutto ciò contribuisce a creare un’atmosfera di emergenza, che resterà scolpita nella memoria della Generazione 2024 o Generazione Gaza.
Autorità accademiche nella tempesta
Attorno a queste turbolenze, a cerchi concentrici, si agitano anche la vita politica e la classe di governo, a livello locale e nazionale. Presidenti e rettori delle università sono sotto assedio da più parti. Molti di questi leader sono donne, appartenenti a minoranze etniche, ed erano abituati ad amministrare sofficemente le regole del gioco della cultura “woke”, in ambienti accademici dall’egemonia culturale progressista. Gli studenti filo-palestinesi ora accusano presidenti/rettori di limitare la libertà di espressione se cercano di sgomberare i campus e di garantire l’agibilità delle aule. Fino a ieri però le stesse autorità accademiche erano accusate di aver consentito un clima di censura e intimidazione imposto dalla sinistra radicale, l’esclusione di voci conservatrici, e dal 7 ottobre 2023 avevano tollerato un’escalation di aggressioni antisemite. Se chiamano la polizia le autorità accademiche sono descritte come repressive, se non la chiamano sono succubi di frange estremiste e violente. Un altro argomento polemico che affiora da sinistra è il "ricatto" esercitato dai ricchi donatori della Jewish community per penalizzare università che hanno condonato l'antisemitismo. Ma nessuno storceva il naso quando gli stessi miliardari ebrei finanziavano centri studi e cattedre controllati dalla sinistra radicale. Su Gaza si sta consumando, tra l'altro, anche un divorzio tra due anime storiche del partito democratico Usa: ebrei progressisti e sinistra filo-araba.
Il mondo politico è coinvolto in tutti i modi. A New York è stato un sindaco democratico e black, Eric Adams, a chiamare la polizia al City College. Poco prima il presidente della Camera, il repubblicano Mike Johnson, aveva visitato la Columbia University per denunciarvi l’antisemitismo.
L' "altro Sessantotto" fece avanzare le destre
Nei sei mesi da qui alle elezioni l’uso politico di queste proteste è destinato a crescere. A metà strada (agosto) c’è un appuntamento come la convention democratica di Chicago che evoca inquietanti analogie con quella convention che nella stessa città si tenne nel 1968, in un crescendo di scontri fra la polizia e i manifestanti contro la guerra del Vietnam.
Se questo sia destinato a passare alla storia come un nuovo Sessantotto americano, oppure qualcosa di meno importante, è presto per dirlo. I bilanci sono prematuri e del resto anche la storia di 56 anni fa continua ad essere reinterpretata da revisionismi di ogni colore ideologico. Di sicuro quello che sta accadendo quest’anno è rilevante. A prescindere dalle nostre opinioni sul merito della questione – cioè su Gaza – questo movimento ci dice qualcosa sullo stato della società americana, e sullo stato dell’America nel mondo. L’agitazione studentesca rafforza l’influenza che la politica estera può avere nell’elezione del 5 novembre. D’altronde non riesco a ricordare in vita mia un anno elettorale con due guerre della gravità di Ucraina e Medio Oriente. I cortei violenti e gli scontri rilanciano anche temi più domestici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Qui ricordo che il Sessantotto originario fa vincere le elezioni americane al conservatore Richard Nixon e quelle francesi al conservatore Charles De Gaulle: allora si parlava di una rivincita della “maggioranza silenziosa” contro la minoranza che occupava le piazze. In Italia il riflusso a destra arriva solo un po’ più tardi, con il governo Andreotti-Malagodi nel 1972.
Politica estera Usa, i problemi sono reali
La politica estera americana è un bersaglio proclamato di questo movimento studentesco. Non l’Ucraina, che lascia indifferenti i giovani, ma la Palestina. Sorvolo qui sui tanti (troppi) segnali di ignoranza o disinformazione tra i ragazzi di questa generazione (onestamente non erano meglio istruiti i ragazzi del ’68 né quelli del ’77). Invece voglio sottolineare due questioni serie e ineludibili, che sollevano i meglio preparati tra di loro. La prima va al cuore di una contraddizione di Joe Biden. Questo presidente eredita decenni di una politica di sostegno “incondizionato” a Israele (dal 1967). Quell’aggettivo messo tra virgolette è stato contestato a lungo e da più parti: l’America ha continuato a fornire aiuti militari ed economici a Israele anche quando i governi di Tel Aviv ignoravano le pressanti richieste di Washington e facevano scelte contrarie agli interessi veri degli Stati Uniti. Oggi quella contraddizione è esplosa più che mai. Pur difendendo il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, Biden è in forte contrasto con Netanyahu, sulla questione dello Stato palestinese, sugli aiuti umanitari, sulla condotta della guerra contro Hamas e sugli insediamenti di coloni in Cisgiordania. Però Biden non osa cancellare nei fatti l’aggettivo “incondizionato”: da una parte critica duramente Netanyahu, dall’altra continua a fornire aiuti militari decisivi alle forze armate israeliane. Gli studenti vorrebbero farli cessare subito. I contestatori considerano Biden politicamente e moralmente corresponsabile di quello che definiscono il genocidio dei civili a Gaza. Comunque si veda la questione, è un dato oggettivo che Gaza sta diventando “la guerra di Biden” come il Vietnam fu “la guerra di Lyndon Johnson”. Con le dovute e significative differenze: dal Vietnam ogni giorno tornavano delle bare con salme di giovani americani caduti al fronte. Nel 2024 l’America non combatte direttamente, o almeno non a Gaza, anche se alcune sue basi militari e le sue flotte sono intervenute: contro i missili e droni iraniani, contro gli Hezbollah, contro gli Houthi nel Mar Rosso.
"Disinvestimento" come in Sudafrica contro l'apartheid
In parallelo alle accuse a Biden, c’è un’altra campagna portata avanti dal movimento studentesco, quella sui “disinvestimenti”: i manifestanti esigono dalle loro ricchissime istituzioni universitarie (e in prospettiva dall’America tutta intera: aziende, banche) che chiudano ogni investimento suscettibile di aiutare gli insediamenti illegali di coloni israeliani in Cisgiordania o altre forme di sfruttamento della popolazione palestinese. Si ispirano esplicitamente alla campagna di disinvestimento che colpì il Sudafrica ai tempi del dominio razzista della minoranza bianca. Quel movimento di boicottaggio economico contribuì alla fine dell’apartheid e alla vittoria di Nelson Mandela contro l’apartheid (anche se non fu così decisivo come si tende a credere).
A ispirare la Classe 2024 o Generazione Gaza c’è una visione etica della politica estera: l’America dovrebbe comportarsi nel mondo intero in conformità con i valori e gli ideali a cui dice di ispirarsi nella sua Costituzione. Questo movimento si iscrive in una tradizione antica e nobile, radicata soprattutto nel partito democratico. E’ quella che ispirò il presidente Woodrow Wilson a fondare la Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale e il presidente Franklin Roosevelt a fondare le Nazioni Unite dopo la seconda, per far rispettare principi di legalità a livello globale.
I peccati originali di questo movimento
All’interno di questa ispirazione molto apprezzabile, il movimento studentesco però si è macchiato di un peccato originale, o più d’uno. Il primo è ben noto e divenne evidente fin dalle prime ore successive al massacro di Hamas il 7 ottobre. Una miriade di associazioni studentesche presero posizioni ignobili, immorali, inaccettabili: approvarono subito e con entusiasmo la strage di civili israeliani, lo stupro in massa di donne, il rapimento di bambini. Molto prima che arrivasse la controffensiva israeliana a fare un'ecatombe a Gaza. La violenza feroce, le torture crudeli, gli stupri, tutto fu assolto in quanto giusta vendetta per i torti subiti dai palestinesi. Quell’usare due pesi e due misure – la violenza israeliana è orribile, quella di Hamas è sacrosanta – continua tuttora e perseguita il movimento. Lo espone alle accuse di antisemitismo, che sono giustificate da innumerevoli atti di aggressione avvenuti nei campus, molti dei quali sono diventati dei luoghi non solo inospitali ma perfino insicuri per studenti di origini ebraiche o di nazionalità israeliana. 
Indottrinamento e fanatismo
Questa macchia si collega ad un altro peccato originale, che non si riferisce solo a Gaza ma all’ideologia prevalente nella Generazione 2024. Ne ho scritto altre volte, è un’ideologia che risale a cattivi maestri come Michel Foucault o Toni Negri. Interpreta l’intera storia delle civiltà e l’universo mondo attraverso il trittico Potere Oppressione Privilegio; divide l’umanità in oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori; schiaccia la complessità dentro categorie manichee (buoni-cattivi, bianco-nero); riduce quindi il mondo contemporaneo a una massa di vittime (il Grande Sud globale, gli ex-colonizzati, le minoranze etniche dei nostri paesi) e un unico carnefice che è la razza bianca, dominatrice, aggressiva. Fanatismo, intolleranza, perfino l’apologia della violenza (quella di Hamas) derivano da questa visione del mondo.
Non è una novità. Tutte le rivoluzioni di ogni colore, dai giacobini di Robespierre ai bolscevichi di Lenin, dagli squadristi di Mussolini nella marcia su Roma alle Guardie rosse di Mao Zedong, fino alle rivoluzioni religiose come quella di Khomeini in Iran, tutte senza eccezioni hanno avuto bisogno di disumanizzare la storia, demonizzare l’avversario, dividere il mondo in buoni e cattivi, per aizzare le masse e giustificare la violenza.
Leggete questa intellettuale progressista, e poi Musk
Se pensate che esagero nell’avvicinare quel tipo di precedenti storici alla società americana del 2024, ecco cosa scrive una brava opinionista del New York Times, una “progressista critica”, Pamela Paul, in un commento efficacemente intitolato Hai subito un torto, non vuol dire che tu abbia ragione.: “Viviamo in un’età dell’oro della lamentela per i torti subiti. … Se sei di sinistra sei stato oppresso, escluso, emarginato, silenziato, cancellato, ferito, sottorappresentato, traumatizzato e danneggiato. Se sei di destra sei stato ignorato, disprezzato, sottovalutato, zittito, caricaturizzato e irriso. … Gli esseri umani si sono sempre combattuti per l’accesso ineguale a risorse scarse. Però mai come oggi la nostra cultura ha fatto della lamentela una forza motrice così vigorosa, e un gioco a somma zero in cui ciascuna parte si sente lesa. … Riflettiamo su un fenomeno progressista: la gerarchia del privilegio viene rovesciata così che le voci marginalizzate in precedenza ora hanno la priorità. Valido, in teoria. Ma chi decide, e su quali basi? Chi è più oppresso: un vecchio bianco veterano dell’esercito e portatore di handicap, o un giovane gay di origini latinos? Individui o tribù vengono classificati secondo categorie binarie: colonizzatore contro colonizzato, oppressore contro oppresso, privilegiato e non. Nelle università e nelle ong, nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni statali, la gente può recitare la propria lamentela e vittimizzazione, trasformandola in un’arma, sa che può appellarsi allo Stato, all’ufficio del personale o al tribunale dei social, dove sarà ricompensata con attenzione”.
Sul versante opposto dello spettro politico rispetto a Pamela Paul, l’anarco-libertario-capitalista Elon Musk scrive su X: “L’assiomatico errore che mina alle fondamenta gran parte della civiltà occidentale è il concetto che la debolezza ti dà ragione. Se si accetta che gli oppressi sono sempre i buoni la conclusione naturale è che i forti sono cattivi”.
Se sei ricco hai rubato a un povero? Marx se la ride...
L’assioma descritto da Musk comanda la Generazione Gaza. Di fronte a qualsiasi evento storico ci si chiede prima di tutto qual è la parte meno forte o meno ricca; quindi, ci si schiera in sua difesa perché quella è la parte moralmente superiore.
Traducendo Musk, la Generazione Gaza è cresciuta nella certezza che “se sei ricco devi aver derubato un povero”: grottesca caricatura del marxismo, che non è così banale. Da quando le università hanno smesso di insegnare una storia positiva del Progresso? (Risposta: dagli anni Sessanta, basta verificare l’evoluzione dei programmi e dei titoli dei corsi nelle università Usa). Nella demonizzazione del Progresso, oggi obbligatoria, è proibito studiare se alcune nazioni, civiltà, classi dirigenti abbiano adottato ricette efficaci per creare e diffondere prosperità e diritti; mentre i popoli poveri possono anche essere vittime di leader oppressivi autoctoni, sistemi di valori retrogradi.
Applicato ai palestinesi questo meccanismo impedisce di addentrarsi nei meandri di una storia labirintica, evita di fare i conti con i molteplici errori commessi dagli stessi palestinesi (leader e popolo) fino alla tragica impasse attuale, sorvola su forze potentissime che aizzano i deboli (l’Iran con il suo petrolio, i suoi arsenali e il suo fanatismo religioso, le varie milizie terroristiche che hanno fatto della violenza una rendita politica). Ignora che gli ebrei residenti nel territorio d’Israele non sono tutti “bianchi”. Eccetera eccetera. Non è questo il luogo per accennare ai mille capitoli controversi della storia mediorientale e della questione israelo-palestinese. Il luogo adatto sarebbero proprio le aule universitarie. Dove però da molti anni non si dibatte, si indottrina e si fa lavaggio del cervello.
Quella situazione descritta da Pamela Paul chiama in causa non solo la Generazione Gaza bensì pure i suoi cattivi maestri.
6 gennaio 2021, la destra "legittimata"?
Richiamo l’attenzione su un passaggio iniziale della Paul, in cui si riferisce alla destra trumpiana. Lei ci torna con questa frase: “Cosa fu in fondo il 6 gennaio 2021 se non una gigantesca esplosione di rabbia da parte di coloro che si sentivano ingannati e volevano ottenere risarcimenti, con qualsiasi mezzo?”
Ecco, quel che accade nei campus universitari in questi giorni come viene visto dagli elettori repubblicani? Come una conferma che la sinistra in fatto di violenza ha due pesi e due misure, vede una violenza “fascista” e una violenza “giusta” perché viene dagli “oppressi”. Fu così anche in quella terribile estate del 2020 che precedette l’insurrezione del 6 gennaio al Campidoglio. Dopo l’assassinio dell’afroamericano George Floyd per settimane fu normale vedere commissariati di polizia e altre sedi istituzionali assaltati e incendiati da manifestanti di Black Lives Matter. Poi per altri mesi alcune zone del paese (ad esempio il centro di Portland nell’Oregon) divennero ufficialmente delle zone “liberate dalla polizia”, dove le forze dell’ordine non potevano più mettere piede.

Oggi corriamo il rischio che la Generazione Gaza si senta legittimata all’uso della violenza, a tal punto da farvi ricorso in modo sistematico? L’altro Sessantotto, quello di 56 anni fa, vide la diffusione della lotta armata negli Stati Uniti, in Italia, Francia, Germania. Onestamente, non siamo ancora arrivati a questo punto, non mi pare proprio.

Forza dell'economia Usa, un fattore di pace sociale

Una delle ragioni che prevengono il contagio delle proteste e della violenza, forse, è l’ottima situazione economica di cui l’America ha goduto finora: alta crescita, piena occupazione. L'altroieri è uscito un dato che segnala un rallentamento della crescita, e l'inflazione non è stata debellata. Però nell'insieme il quadro rimane positivo, migliore che in molte parti del mondo. E ne beneficiano un po' tutti.

La Generazione Z è ricca, economicamente sta meglio di come stavano le generazioni dei suoi fratelli maggiori o dei suoi genitori quando avevano la stessa età. E’ turbata, è sofferente, per mille motivi, ma non vive in un periodo di crisi economica o di ingiustizie sociali acute. Gli aumenti salariali e gli aiuti pubblici del periodo pandemico hanno perfino attenuato certe diseguaglianze. I lavoratori appartenenti a minoranze etniche – black, latinos – non sono mai stati così bene. Le tensioni politiche e culturali sono acute, ma non poggiano su problemi materiali.

Non è detto che questa situazione duri, però. La forza dell’economia americana in parte è virtuosa, è legata alla sua capacità d’innovazione e al dinamismo delle sue imprese. In parte invece è drogata da una spesa pubblica in deficit che aumentò a dismisura sotto Trump per il Covid, e ha continuato a crescere sotto Biden (ivi compreso per un “voto di scambio” a vantaggio degli studenti universitari: la generosa, costosa e iniqua cancellazione dei loro debiti a carico del contribuente). Non ho la capacità di distinguere quanta parte della crescita economica Usa sia “sana” e quanta “malsana”.

Il quadro mondiale: perdita di consensi

Alla forza di questa economia si contrappone un crescente isolamento dell’America rispetto al resto del mondo. Isolamento relativo, s’intende: la comunità transatlantica rimane un blocco straordinariamente ricco e influente. Se all’Europa si aggiungono i numerosi alleati asiatici – Giappone, Corea del Sud, Filippine – più Australia e Nuova Zelanda, “l’Occidente allargato” è molto grosso. Però in termini di popolazione il resto del mondo è ancora più grosso, e cresce di più.

Come il Vietnam negli anni Sessanta segnò una ferita grave per la legittimità, credibilità, autorevolezza degli Stati Uniti nel mondo, così in una certa misura sta avvenendo oggi per Gaza. “La guerra di Biden” fa perdere all’America consensi preziosi nel Grande Sud globale. Non è del tutto casuale che altri due paesi africani – Niger e Ciad – abbiano appena cacciato i militari americani.

La sorpresa "finale" degli anni Sessanta

I paragoni storici vanno maneggiati con prudenza e umiltà. Voglio ricordare tuttavia che negli anni Sessanta l’America sembrava “perduta”: sia agli occhi della sua Generazione Sessantotto, sia agli occhi di gran parte del mondo affascinato dal comunismo sovietico o cubano, dal maoismo cinese, dalle varie rivoluzioni post-coloniali, dalle rivolte studentesche. Poi invece dell’America fu l’Unione sovietica a implodere, e fu la Cina ad abbandonare il maoismo.

L’America lacerata e sgomenta degli anni Sessanta senza saperlo stava soffrendo anche le doglie di un parto molto speciale: la rivoluzione informatica, l’avvento del computer, la primavera della Silicon Valley. Nonché tante forme di ambientalismo, femminismo, anti-razzismo che la Generazione Gaza forse crede di avere inventato.

Il confronto-sfida tra l’America di questi giorni e i suoi grandi rivali come la Cina, continuerà a dipanarsi per anni, con chissà quanti colpi di scena. Un frammento di lezione dagli anni Sessanta forse è questo: le crisi che esplodono alla luce del sole, quelle crisi visibili e rumorose che vengono recitate in piazza nelle nostre democrazie, non sono necessariamente quelle più pericolose per la sopravvivenza di un sistema. Quando un sistema è stato disegnato all'origine per essere elastico e assorbire gli urti.
 
Perché non ci sono "cure economiche" per la denatalità (e cosa ci unisce alla Cina)

Gli allarmi sulla denatalità si susseguono e si assomigliano: in Italia come in tante altre parti del mondo, Cina inclusa. In genere nei paesi democratici chi sta all’opposizione accusa chi sta al governo di non fare abbastanza per aiutare le donne, per sostenere le famiglie, per promuovere le nascite. (In Cina non può esistere un’opposizione, ma il governo è preoccupato lo stesso).

I cosiddetti esperti, che pochi anni prima gridavano al disastro per la “bomba demografica” e la “sovrappopolazione”, ora lanciano urli di terrore per lo “spopolamento”, e così via.

In mezzo a tanto frastuono inutile, è una bella sorpresa trovare un’analisi lucida, precisa, fattuale. L’ha scritta John Burn Murdoch sul Financial Times. E’ una sintesi di vari studi sulla denatalità, che convergono su questa conclusione: gli aiuti alle giovani donne, alle future mamme, o alle coppie, sono una bella cosa in sé ma non influenzano affatto la decisione di fare figli. L’aspetto economico è irrilevante, in quella decisione.

Questo del resto dovrebbe essere abbastanza ovvio, è una conclusione di buon senso, di fronte a un’osservazione empirica: i tassi di fertilità e natalità rimangono più elevati in paesi più poveri, quindi non è certo la mancanza di mezzi a giustificare il crollo delle nascite nei paesi ricchi.

Sono fondamentali invece dei fattori culturali. Il più importante di tutti sembra essere la fiducia nel futuro. Una generazione convinta di essere alla vigilia dell’Apocalisse, o di vivere in una civiltà malvagia, in un mondo infernale segnato dalle peggiori ingiustizie, perché mai dovrebbe fare figli? Per condannarli all’inferno?

Un altro fattore culturale si può riassumere nel concetto esagerato e iperprotettivo dei diritti del nascituro: se questa creatura deve assorbire il massimo dell’attenzione, delle cure, degli investimenti in educazione, l’asticella forse è un po’ troppo alta, la responsabilità genitoriale fa tremare le vene ai polsi. Fin qui ho riassunto con parole mie.

Ecco invece la sintesi degli studi su natalità e demografia raccolti da Burn-Murdoch. Dal 1980 al 2019 l’insieme dei paesi ricchi e sviluppati ha triplicato (al netto dell’inflazione, quindi in potere d’acquisto reale) gli aiuti pro-capite per la natalità: assegni familiari, asili nido gratuiti, permessi di maternità-paternità, e altri sussidi pubblici. Nello stesso periodo il numero di nascite è sceso inesorabilmente, in media da 1,85 a 1,53 per ogni donna.

La Finlandia è un paese egualitario, con un Welfare generosissimo. Ha uno dei sistemi più avanzati al mondo per assistere e sostenere le famiglie (tradizionali e non) che vogliono avere figli. Nonostante questo il tasso di fertilità finlandese è caduto di un terzo dal 2010. L’Ungheria, che per motivi ideologici fa di tutto per promuovere le nascite, ha toccato il suo minimo storico. In Corea del Sud il governo ha lanciato un programma munifico di pagamenti a chi fa figli, detto “baby bonus”: il bilancio è semplice, quel programma ha pagato donne che avevano già deciso di farli per conto proprio, mentre non ha spostato il trend di calo della natalità che prosegue imperterrito. Come si vede non ci sono differenze tra politiche di sinistra (Finlandia) e di destra (Ungheria), né tra Oriente e Occidente.

L’autore di questa sintesi commenta: “Il legame tra le nascite e la spesa pubblica per politiche in favore della famiglia, è trascurabile. Si scopre che la decisione se avere figli oppure no, e quanti farne, è influenzata da molte altre cose anziché dal denaro”. Questo non significa che sia sbagliato dare aiuti alle mamme o future mamme. Può essere giusto per tante ragioni. Può rendere la vita un po’ più facile a quelle donne che hanno comunque deciso di avere figli, un obiettivo in sé lodevole. Può servire a ridurre la povertà infantile nelle famiglie a basso reddito. Tutte cose buone, basta non illudersi che servano a invertire la tendenza alla denatalità. “I fattori culturali intervengono a monte nelle decisioni, molto prima che i costi di allevare un figlio siano presi in considerazione”.

Uno studio di Matthias Doepke e Fabrizio Zillibotti del 2019, intitolato “Money and Parenting: How Economics Explain the Way We Raise Our Kids”, viene usato per le sue conclusioni illuminanti. Cita la convinzione diffusa tra le giovani generazioni, che per dare a un figlio un futuro soddisfacente bisogna occuparsi moltissimo di lui o lei, garantirgli la massima attenzione dei genitori, e investire in un’istruzione di livello superlativo, in concorrenza sfrenata con i figli degli altri. La sfida, descritta in termini così impegnativi da risultare quasi spaventosi, finisce per apparire irraggiungibile a molti. Meglio accontentarsi di una vita “normale”, da single o da sposati senza figli, anziché sobbarcarsi una responsabilità simile. In parallelo, un’altra evoluzione culturale ha spostato le priorità della vita per i giovani adulti. Nel 1993 il 61% degli americani intervistati in un’indagine del Pew Research diceva che avere figli è importante per una vita appagante; oggi solo il 26% condivide quell’affermazione. Le giovani donne in particolare hanno spostato le priorità mettendo al vertice la “crescita personale” e la “carriera professionale”. Le paure legate all’eccesso di responsabilità come genitori figurano in modo rilevante tra le ragioni per non avere figli. I costi economici appaiono solo al 14esimo posto.

Infine interviene il livello di angoscia delle giovani generazioni. “Più una potenziale mamma è preoccupata sul futuro, meno vuole avere figli. In America, in Europa, in Estremo Oriente, la generazione sotto i trent’anni è più impaurita dal futuro e più stressata rispetto alle altre generazioni”.

Concludo con la Cina, stavolta attingendo al racconto di Peter Hessler sul magazine The New Yorker dell’8 aprile 2024. Prima ancora di essere stato un corrispondente in Cina per quel settimanale, Hessler aveva insegnato l’inglese in una università del Sichuan. E’ rimasto in contatto con i suoi ex-studenti e spesso li consulta per capire lo stato d’animo della gioventù cinese. Quasi nessuno di loro ha avuto o vuole avere figli. Le risposte negative raggiungono il massimo tra le ragazze: 76%. Questo suo sondaggio empirico, su un campione limitato, coincide con i risultati di altre indagini più vaste. Del resto è noto che la Cina è entrata in una fase di decrescita della popolazione per effetto di un crollo delle nascite. A nulla sono serviti i provvedimenti presi dal governo. Le autorità di Pechino sono passate a gran velocità dalla politica del “figlio unico” alla libertà di fare due, tre figli. Infine dalla libertà il regime è passato agli incentivi: ora paga le mamme perché facciano bambini. I risultati sono insignificanti. Ecco la spiegazione offerta da una ex-studentessa di Hassler: “Io penso che i bambini cinesi sono stressati e turbati. Siamo già noi una generazione turbata. Allevare dei figli richiede lunghi periodi di affiatamento e di osservazione e di guida, tutte cose difficili da garantire in un contesto di pressione sociale intensa. Il futuro della società cinese è un’incognita. I bambini non ci chiedono di essere messi al mondo. Io ho paura che i miei figli potenziali non siano dei guerrieri, e finiscano per perdersi”.

La Cina in cui abitai io era una nazione molto più ottimista e fiduciosa nel suo futuro. Quella di oggi, nella mentalità dei giovani, sembra molto più simile all’Occidente. Le politiche in favore della natalità sono un falso problema.           

Perché l'Africa caccia gli americani (c'entra Putin)

In poco più di una settimana, l'America ha perso due alleati africani, o quantomeno due presenze militari in questo continente. Prima il Niger poi il Ciad hanno dato il benservito ai militari Usa. Sono destinati a essere sostituiti dai russi: quasi certamente in Niger, mentre la situazione in Ciad è più aperta.

Il contraccolpo è stato sentito a Washington che vede arretrare la sua strategia africana. Accade in parallelo con le bocciature subite nei mesi e anni precedenti dalla Francia, i cui militari sono stati anch'essi espulsi da molti paesi. Spesso per essere sostituiti dai russi o dal Gruppo Wagner, i mercenari controllati da Mosca.

L'espulsione dei militari americani dal Niger è stata definita da diversi esperti Usa come un duro colpo alla strategia di Washington contro le forze jihadiste in Africa occidentale. Il Niger era un pilastro di quella strategia, ospitava la più grossa base militare Usa di tutta l'Africa occidentale, con mille soldati; e una base di droni costruita ad Agadez con un investimento di 110 milioni di dollari. Fino all'anno scorso i Berretti Verdi americani di stanza in Niger addestravano le truppe locali a combattere contro una delle più ampie guerriglie jihadiste del mondo, e i droni made in Usa contribuivano a spiare le milizie islamiste. A questo punto l'America deve ripiegare su un piano B, più limitato e difensivo: cercando di arginare il contagio jihadista in paesi vicini che ancora accolgono la presenza Usa, anziché andare all'offensiva contro il cuore delle forze islamiste.

Cos'ha provocato la cacciata? L'anno scorso in Niger c'è stato un colpo di Stato militare, condannato dalla Casa Bianca. L'Amministrazione Biden ha fatto pressione sulla giunta golpista perché ristabilisca un governo civile e legittimo. A quel punto i generali, guidati dal presidente Mohamed Bazoum, hanno cominciato a spostarsi verso un'alleanza con Mosca. Di recente la capitale del Niger Niamey è stata il teatro di manifestazioni anti-americane, probabilmente orchestrate dal regime. Ed è arrivata la richiesta formale di riportare a casa i mille soldati americani.

La situazione nel Ciad sembra più fluida. Lì la presenza militare Usa era molto più limitata: 75 soldati dei reparti speciali a Ndjamena, capitale del Ciad. Al momento sono stati rimpatriati anche loro. Come nel Niger, pure questi Berretti Verdi (del 20th Special Forces Group, un reparto della Guardia Nazionale dell'Alabama) erano lì come consiglieri e addestratori anti-terrorismo. Il Ciad ha un ruolo essenziale nelle operazioni contro Boko Haram. Pentagono e Dipartimento di Stato hanno l'impressione che la loro cacciata possa essere temporanea, una mossa negoziale con cui il presidente del Ciad potrebbe alzare il prezzo della sua cooperazione, mettendo in concorrenza Stati Uniti e Russia.
La Francia a sua volta era stata allontanata da Mali e Burkina Faso, in favore dei russi.

Federico Rampini, New York 27 aprile 2024

 
 
8  Forum Pubblico / O.P.O.N. OPINIONE PUBBLICA ORGANIZZAZIONE NAZIONALE. / Arthur Schopenhauer, "L'arte di ignorare il giudizio degli altri " inserito:: Maggio 28, 2024, 06:44:48 pm
Etica e morale  ·

"L’opinione su noi stessi è, e dovrebbe essere, per noi indifferente. Eppure, ancora oggi, non è così"
Arthur Schopenhauer, "L'arte di ignorare il giudizio degli altri "

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Schopenhauer esamina le cause e gli effetti dell'opinione altrui sulla nostra felicità e ci offre dei consigli su come liberarcene.
Molti di noi si preoccupano troppo di ciò che gli altri pensano nei nostri confronti.
Questa preoccupazione ci rende infelici, insicuri, ansiosi. Ci fa dipendere dalla valutazione altrui che spesso è superficiale, ingiusta, invidiosa. Ci fa perdere di vista ciò che conta davvero: la nostra essenza, i nostri valori, i nostri obiettivi.
Schopenhauer, il grande filosofo tedesco, ci insegna che l'opinione su noi stessi è, e dovrebbe essere, per noi indifferente. Eppure, ancora oggi, non è così. Perché? Perché siamo esseri sociali e abbiamo bisogno di appartenere, di essere accettati, di essere amati. Ma questo non significa che dobbiamo sacrificare la nostra autenticità, la nostra libertà, la nostra felicità.
Come possiamo allora ignorare il giudizio degli altri e vivere secondo la nostra natura? Schopenhauer ci suggerisce alcune strategie:
- Sviluppare la nostra autostima, basata su ciò che siamo e non su ciò che rappresentiamo. L'autostima è la consapevolezza del nostro valore, delle nostre qualità, dei nostri talenti. È la fiducia nelle nostre capacità, nei nostri sogni, nelle nostre scelte. È la fonte della nostra forza interiore che ci permette di affrontare le sfide, i fallimenti, le critiche.
- Concentrarci sui nostri bisogni primari, ovvero quelli più vicini alla nostra sopravvivenza. Schopenhauer ci ricorda che siamo innanzitutto "dentro la nostra pelle, e non nell'opinione delle persone". I bisogni primari sono quelli che riguardano la nostra salute, la nostra sicurezza, il nostro benessere. Sono quelli che ci fanno sentire vivi, soddisfatti, grati. Sono quelli che ci fanno apprezzare le piccole cose, le bellezze della vita, le gioie semplici.
- Coltivare la nostra saggezza, basata su ciò che sappiamo e non su ciò che crediamo. La saggezza è la conoscenza approfondita della realtà, di noi stessi, degli altri. È la capacità di discernere il vero dal falso, il bene dal male, l'essenziale dal superfluo. È la virtù che ci guida verso la verità, la giustizia, la bontà. È la luce che ci illumina il cammino, che ci mostra la via, che ci fa vedere il senso.
Queste sono alcune delle vie che Schopenhauer ci propone per ignorare il giudizio degli altri e vivere felici. Non sono facili, non sono immediate, non sono scontate. Richiedono impegno, coraggio, pazienza. Ma sono possibili e realizzabili.

Da FB 19 maggio 2024


9  Forum Pubblico / O.P.O.N. Opinione Pubblica Organizzata Nazionale, di DEMOCRATICI PROGRESSISTI. (Dopo 11 maggio 2024). / Qualità della Vita dei Cittadini Italiani dovrà essere una priorità da studiare. inserito:: Maggio 28, 2024, 06:42:36 pm
Quando si tratterà di dare forma alla O.P.O.N. occorrerà rendere chiare, appunto alla Opinione Pubblica, le intenzioni dell'Organizzazione circa le aree di interesse, di cui si dovranno stabilire regole e motivazioni nelle differenti operatività.

La Qualità della Vita dei Cittadini Italiani dovrà essere una priorità da studiare e progettare, da subito.

ggiannig
10  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Arthur Schopenhauer, "L'arte di ignorare il giudizio degli altri ". inserito:: Maggio 27, 2024, 05:23:21 pm
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Schopenhauer esamina le cause e gli effetti dell'opinione altrui sulla nostra felicità e ci offre dei consigli su come liberarcene.
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Questa preoccupazione ci rende infelici, insicuri, ansiosi. Ci fa dipendere dalla valutazione altrui che spesso è superficiale, ingiusta, invidiosa. Ci fa perdere di vista ciò che conta davvero: la nostra essenza, i nostri valori, i nostri obiettivi.
Schopenhauer, il grande filosofo tedesco, ci insegna che l'opinione su noi stessi è, e dovrebbe essere, per noi indifferente. Eppure, ancora oggi, non è così. Perché? Perché siamo esseri sociali e abbiamo bisogno di appartenere, di essere accettati, di essere amati. Ma questo non significa che dobbiamo sacrificare la nostra autenticità, la nostra libertà, la nostra felicità.
Come possiamo allora ignorare il giudizio degli altri e vivere secondo la nostra natura? Schopenhauer ci suggerisce alcune strategie:
- Sviluppare la nostra autostima, basata su ciò che siamo e non su ciò che rappresentiamo. L'autostima è la consapevolezza del nostro valore, delle nostre qualità, dei nostri talenti. È la fiducia nelle nostre capacità, nei nostri sogni, nelle nostre scelte. È la fonte della nostra forza interiore che ci permette di affrontare le sfide, i fallimenti, le critiche.
- Concentrarci sui nostri bisogni primari, ovvero quelli più vicini alla nostra sopravvivenza. Schopenhauer ci ricorda che siamo innanzitutto "dentro la nostra pelle, e non nell'opinione delle persone". I bisogni primari sono quelli che riguardano la nostra salute, la nostra sicurezza, il nostro benessere. Sono quelli che ci fanno sentire vivi, soddisfatti, grati. Sono quelli che ci fanno apprezzare le piccole cose, le bellezze della vita, le gioie semplici.
- Coltivare la nostra saggezza, basata su ciò che sappiamo e non su ciò che crediamo. La saggezza è la conoscenza approfondita della realtà, di noi stessi, degli altri. È la capacità di discernere il vero dal falso, il bene dal male, l'essenziale dal superfluo. È la virtù che ci guida verso la verità, la giustizia, la bontà. È la luce che ci illumina il cammino, che ci mostra la via, che ci fa vedere il senso.
Queste sono alcune delle vie che Schopenhauer ci propone per ignorare il giudizio degli altri e vivere felici. Non sono facili, non sono immediate, non sono scontate. Richiedono impegno, coraggio, pazienza. Ma sono possibili e realizzabili.

Da FB 19 maggio 2024

11  Forum Pubblico / DEMOCRATICI PROGRESSISTI e O.P.O.N. Opinione Pubblica Organizzazione Nazionale. / ... marxismo, comunismo, socialismo da una parte e, dall’altra, il capitalismo. inserito:: Maggio 27, 2024, 05:16:31 pm

Centro Casa Severino - Associazione Studi Emanuele Severino

Si è sempre abituati a vedere marxismo, comunismo, socialismo da una parte e, dall’altra, il capitalismo. Severino, però, sia ne “La tendenza fondamentale del nostro tempo”, che ne "Gli abitatori del tempo”, ma anche in altre opere come “Téchne. Le radici della violenza” (1979) dimostra come entrambe le parti non siano poi così diverse.

La contraddittorietà del marxismo non è solamente la sua incapacità di critica radicale al capitalismo, perché, in fondo, condividono gli stessi presupposti (entrambi sono espressioni del nichilismo occidentale), ma è anche il fatto che nasca in un orizzonte in cui viene meno la possibilità di un epistéme. Il marxismo si pone come scienza, e, in quanto tale, è ipotetico, ma, allo stesso tempo, pretende che la propria analisi della società sia vera, volendo porla, quindi, come una verità indiscutibile. L’oscillazione del marxismo tra sapere filosofico e sapere scientifico implica un’altra contraddizione: da un lato rifiuta qualsiasi immutabile o verità assoluta ma, al contempo, si edifica proprio su un immutabile, cioè l’esistenza della lotta tra capitale e proletariato. Se il terreno in cui cammina il marxismo è la caduta dell’idea di un sapere epistemico, questo comporta un ulteriore problema: se non si ha un punto fermo a cui far riferimento, come è possibile distinguere la verità dall’errore? Come può la filosofia giudicare la nostra società? E, soprattutto, la filosofia si deve porre necessariamente o dalla parte della borghesia o da quella del proletariato? Il marxismo è solo una delle forme del nichilismo occidentale, la fede che l’ente è niente, e che quindi appartiene a quello che Severino chiama “terra isolata", cioè la terra isolata dal destino della verità.
Ma non per questo la filosofia deve tacere, anzi, per Severino l’ultima parola spetta proprio alla filosofia stessa testimoniando il destino: la filosofia che, smascherando la follia del divenir altro e della volontà di potenza, indica quel contenuto (l’incontrovertibile destino della necessità) che, mantenendosi al di fuori della terra isolata, circondandola, si mantiene al di fuori della volontà di potenza e quindi anche dell’opposizione marxismo-capitalismo.

Da -  Fb del 30 aprile 2024
12  Forum Pubblico / SOCIALESIMO Prolegomeni della DEMOCRAZIA prima del SOCIALISMO. 20/02/2022 / Essere Comunisti marxisti … inserito:: Maggio 27, 2024, 05:11:24 pm
Essere Comunisti marxisti …
Ancorati ad un passato mortifero può essere una scelta personale, NON sociale.

Libere Utopie in uno Stato Democratico, Costituzionale, Forte, sono accettabili.
In una democrazia debole e tradita da molti al suo interno, sono pericolosissime!

Lo Sfascismo oggi dominante vuole distruggere, non modificare e migliorare i Sistemi Occidentali.
A questo sono comandati.

ggg

Io su FB oggi 28 maggio 2024
13  Forum Pubblico / LA NOSTRA COLLINA della più BELLA UMANITA', quella CURIOSA. / La realtà raccontata dagli addetti ai lavori. inserito:: Maggio 27, 2024, 05:07:36 pm
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Addetta alle pulizie in albergo rivela: "Queste sono le parti della stanza che non puliamo mai"

da - https://forumagricolturasociale.it/2024/05/26/addetta-alle-pulizie-in-albergo-rivela-queste-sono-le-parti-della-stanza-che-non-puliamo-mai/
 
14  Forum Pubblico / DEMOCRATICI PROGRESSISTI e O.P.O.N. Opinione Pubblica Organizzazione Nazionale. / Immoderati è una rivista online di informazione, cultura e società. - (Altri). inserito:: Maggio 23, 2024, 07:53:59 pm
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Da - https://www.immoderati.it/manifesto-immoderati/
15  Forum Pubblico / ESTERO dopo il 19 agosto 2022. MONDO DIVISO IN OCCIDENTE, ORIENTE E ALTRE REALTA'. / Il protezionismo non è una novità. Ma per la Cina apre una nuova epoca inserito:: Maggio 23, 2024, 07:51:13 pm

 
18 maggio 2024   Versione web
 
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Il protezionismo non è una novità. Ma per la Cina apre una nuova epoca
30 anni di crescita cinese trainata dagli Usa: e ora?
La raffica di nuovi dazi che Joe Biden ha imposto su certe importazioni dalla Cina (o l’aumento di dazi che erano già stati varati da Donald Trump) rappresenta davvero “la fine di un mondo”, l’ingresso in una nuova era segnata dal protezionismo? Se sì, quali saranno le conseguenze? Come reagirà la Cina? E quanto di questa manovra protezionista è legato alla scadenza elettorale del 5 novembre? Sono temi importanti di cui dovremo occuparci per forza nei prossimi mesi.
Anticipo una conclusione (provvisoria): non sarà facile per la Cina riconvertire il suo modello di sviluppo che per trent’anni ha fatto affidamento sulle esportazioni come traino e sull’America come mercato di sbocco principale; tanto più che Xi Jinping è prigioniero di un’ideologia “anti-consumista” che gli preclude di sostenere la domanda interna. Il Grande Sud globale può offrigli delle alternative solo parziali, e alcune di queste forse si stanno già chiudendo.
Tasse doganali fino al 100%, ecco la lista
Comincio col ricordare i dati. Cioè i dazi. Sono tasse prelevate alla dogana, con l’effetto di aumentare i prezzi delle importazioni quindi renderle meno competitive rispetto allo stesso prodotto nazionale. Biden li ha alzati al 100% sulle auto elettriche che equivale a raddoppiarne il prezzo finale per l’acquirente americano; al 50% per cellule solari, semiconduttori, siringhe e aghi sanitari; al 25% su batterie al litio, acciaio, alluminio, e minerali strategici. Su alcuni di questi prodotti esistevano già dazi varati dall’Amministrazione Trump. In certi casi Biden è arrivato a quadruplicarli.
Le reazioni, soprattutto degli esperti e dei media, in America sono state segnate dal solito riflesso di appartenenza politico-ideologica. Fra gli economisti, alcuni che avevano condannato il protezionismo di Trump si affrettano ad applaudire quello di Biden. Idem per i media vicini al partito democratico, speranzosi che la sterzata protezionista serva ad arginare le perdite di voti in Stati industriali come il Michigan. Ci sono per fortuna delle eccezioni. Un omaggio va reso alla coerenza dell’Economist, per esempio: fedele al suo Dna liberista, il settimanale britannico condannava i dazi di Trump e oggi applica lo stesso giudizio negativo ai super-dazi di Biden.
"Le barriere ci impoveriscono". Ma non hanno impedito i miracoli economici
I liberisti sinceri e tenaci, quelli che non cambiano giudizio a seconda di chi sta applicando i dazi, ripropongono una dottrina classica: il protezionismo fa male a tutti, danneggia anche chi lo applica, riduce i vantaggi del commercio internazionale, impoverisce i consumatori e quindi alla lunga anche i lavoratori. E’ l’abc delle teorie economiche insegnate sui manuali universitari. Ma è teoria pura, con scarsi agganci alla realtà.
Noi non stiamo assistendo alla fine di un’epoca, perché non siamo mai vissuti in un mondo dalle frontiere veramente aperte. Per limitarsi al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, basta ricordare che la Comunità economica europea (detta anche “mercato comune”, era l’antenata dell’Unione europea) fu un esperimento di apertura delle frontiere molto graduale, controllato, e riservato ai membri del club. Verso l’esterno l’Europa è stata a lungo un mercato chiuso e difeso da alte barriere, con punte massime di protezionismo nel settore agricolo. Eppure gli anni della Cee furono quelli dei miracoli economici: tedesco e italiano fra gli altri. Il protezionismo europeo non impedì la crescita dell’occupazione e la diffusione del benessere.
Parlando di miracoli economici, che dire di quelli asiatici? Sempre a partire dal dopoguerra, ci furono dei boom spettacolari prima in Giappone, poi nei cosiddetti “dragoni” o “tigri” come Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan. Infine il contagio positivo dello sviluppo economico e del progresso sociale si estese alla Cina, all’India. Tutte queste nazioni, tutte senza eccezioni, adottarono e in parte praticano tuttora robuste dosi di protezionismo.
Esportare in Cina non è mai stato facile, salvo nei settori dove il governo cinese aveva bisogno dei prodotti stranieri per qualche strutturale impossibilità di raggiungere l’autosufficienza; oppure non era ancora capace di produrli a casa propria: queste due definizioni hanno incluso la soia e la carne di maiale del Midwest americano, il lusso di Armani Vuitton Hermès Gucci Prada, e tante tecnologie strategiche che i cinesi compravano da noi per copiarle e poi sostituirle con produzioni nazionali appena possibile.
Protezionismo Usa con Reagan, liberismo con Bush-Clinton
Poiché i miracoli economici asiatici sono stati quasi sempre trainati dalle esportazioni (con la parziale eccezione dell’India), e visto che quei paesi praticavano il protezionismo, a chi riuscivano a vendere? Prevalentemente all’America, in subordine anche all’Europa, infine ai paesi emergenti i quali però non hanno ancora raggiunto lo stesso potere d’acquisto dell’Occidente.
Gli Stati Uniti di norma sono stati il mercato più aperto dalla seconda guerra mondiale in poi. Tuttavia hanno praticato anche loro il protezionismo a fasi alterne – il caso più eclatante furono le restrizioni sulle automobili ed elettrodomestici giapponesi imposte dal repubblicano Ronald Reagan negli anni Ottanta – però nel complesso sono stati un mercato meno difeso di altri. Salvo pagarne dei prezzi. I primi prezzi a diventare visibili e politicamente scottanti furono quelli sociali, che hanno determinato le scelte di voto della classe operaia danneggiata dalla globalizzazione. Più di recente sono diventati visibili e preoccupanti i prezzi strategici, in termini di sicurezza nazionale: pandemia, guerra in Ucraina, crescente ostilità geopolitica della Cina, hanno fatto capire quanto sia pericoloso dipendere in modo eccessivo da fornitori come Pechino. Per le siringhe come per i semiconduttori, o le batterie.
Quando gli Usa volevano la divisione dei compiti con la Cina
Faccio un breve salto indietro per spendere almeno qualche parola in favore del liberismo. Voglio ricordare il dibattito americano degli anni Novanta, quando i due George Bush padre e figlio (repubblicani) e Bill Clinton (democratico) stavano accogliendo la Cina nella Wto (World Trade Organization, l’organizzazione mondiale del commercio). Già allora c’erano obiezioni sia di tipo sociale sia di tipo ambientalista, che esplosero in modo virulento con le celebri proteste di Seattle nel 1999 in occasione di un summit Wto. I sindacati obiettavano, a chi esaltava lo “sconto cinese” che avrebbe regalato al consumatore americano merci abbondanti a poco prezzo: che me ne faccio dello sconto se intanto ho perso il salario perché la mia fabbrica ha chiuso, mi ha licenziato, e al mio posto hanno assunto in Cina operai cinesi? L’obiezione ecologista riguardava la concorrenza al ribasso sulle normative a tutela dell’ambiente.
Cosa rispondevano allora a queste obiezioni i Bush, Clinton, gli economisti liberisti e l’establishment capitalistico? Il progetto positivo della globalizzazione prevedeva che gli americani si spostassero su attività e mestieri sempre più qualificati, lasciando ben volentieri ai cinesi le mansioni operaie. In parte quella transizione ha funzionato e la Silicon Valley californiana ne è l’incarnazione virtuosa: i giovani informatici lì guadagnano super-stipendi progettando gli iPhone o i semiconduttori; mentre lasciano agli operai cinesi il compito di assemblare quei prodotti nella “fabbrica del pianeta”.
Però non tutta l’America si è trasformata in una Silicon Valley, ci sono settori economici e categorie sociali e zone geografiche che dalla globalizzazione hanno ricavato più danni che benefici. Inoltre la stessa Silicon Valley nel 2024 vede il mondo in una luce diversa rispetto a come lo vedeva nel 2004. Oggi anche Big Tech si rende conto che le tensioni strategiche con la Cina hanno reso aleatoria e pericolosa una divisione del lavoro in cui tutto ciò che è fisico e materiale deve traversare il Pacifico per arrivare in America.
Pericolo: una sostenibilità "made in China"
In quanto all’ambientalismo, molta strada è stata fatta rispetto alle giornate di Seattle nel 1999, quando a protestare contro il Wto c’erano anche i Verdi. Oggi l’ambientalismo è la dottrina ufficiale di Biden. Una delle ragioni per cui tartassa di dazi le auto elettriche cinesi, è che non può permettersi di consegnare a Pechino il monopolio di tutte le tecnologie indispensabili alla sostenibilità. All’interno degli Stati Uniti, l’adozione dell’auto elettrica sta incontrando forti venti avversi. La quota di mercato delle elettriche ristagna. Per seguire le direttive Biden la Ford nel primo trimestre di quest’anno ha perso 100.000 dollari su ogni vettura elettrica fabbricata. Tutto si regge su un fiume di sovvenzioni pubbliche, che peraltro potrebbero venire meno se Trump vince le elezioni. Su questo precario equilibrio potrebbe abbattersi come un uragano l’invasione delle cinesi. Non accadrà, perché di fatto le auto elettriche cinesi già oggi (prima ancora che entrino in vigore i nuovi dazi) hanno una quota di mercato infima negli Usa. Il problema è più serio per le batterie. Qui subentra la politica industriale di Biden, che sempre a colpi di aiuti di Stato riesce a riportare gradualmente sul territorio Usa una parte della produzione di batterie. Anche qui però Biden pratica la prevenzione: vuole evitare che il suo esperimento di reindustrializzazione assistita venga ucciso sul nascere da un’invasione di “made in China”.
Le contromisure di Xi Jinping e dei suoi industriali
Come reagirà Pechino a queste barriere? La risposta cinese sarà articolata. Da un lato, le case automobilistiche cinesi cercheranno semplicemente di riorientare le loro esportazioni verso mercati meno protetti di quello americano.
Tanto più che i prodotti cinesi oltre ad essere meno cari (grazie alle sovvenzioni del loro governo) sono anche di buona qualità. Per esempio: l’innovazione “made in China” sull’elettronica di bordo ha fatto progressi spettacolari. Al punto che marche tedesche giapponesi sudcoreane si sono dovute rassegnare a fare accordi con colossi cinesi come Baidu e Tencent per installare sui propri modelli venduti in Cina schermi tv, Gps, software di pilotaggio automatico. Di fronte al duplice vantaggio – prezzi bassi e qualità alta – l’Europa è il primo mercato che la Cina può conquistare per compensare l’inaccessibilità di quello americano. Proprio per questo Bruxelles sta per correre ai ripari e presto adotterà probabilmente i suoi dazi. Dovranno essere alti quanto quelli americani, per funzionare.
Il Grande Sud è ricettivo... con dei limiti
Un altro sbocco per le esportazioni cinesi (non solo di auto) è l’Asia, più il Grande Sud globale. La penetrazione cinese in tutti i mercati extra-occidentali è già forte. Però anche lì stanno cominciando le resistenze. In certi casi il protezionismo si tinge di diffidenza geopolitica verso la Cina: è il caso di India e Giappone. In altri casi, come il Brasile, i paesi emergenti vedono le proprie industrie nazionali minacciate dalla concorrenza cinese e devono rispondere alle stesse pressioni a cui risponde Biden in casa propria.
Un’opzione per l’industria cinese è quella di aggirare i protezionismi altrui andando a produrre altrove. In parte lo stanno già facendo da anni con il Sud-est asiatico: una parte del "made in China" oggi ci arriva con l'etichetta "made in Vietnam", perché una fase della produzione è stata delocalizzata in un paese con salari più bassi di quelli cinesi, ed esente dai dazi americani.
Il Messico è un altro candidato ideale, perché fa parte del mercato unico nordamericano e quindi non è colpito dai dazi. O addirittura i cinesi potrebbero costruire fabbriche sul territorio degli Stati Uniti e assumere manodopera locale.  Questo rappresenterebbe una “soluzione alla giapponese”: negli anni Ottanta e Novanta, in seguito al protezionismo di Reagan, i colossi nipponici dell’automobile e dell’elettronica cominciarono a investire negli Stati Uniti trasferendovi una parte della loro capacità produttiva e creando occupazione. Giappone e Corea del Sud fecero lo stesso anche in Messico dopo la sua adesione al Nafta (la prima versione del mercato unico nordamericano): donde la proliferazione di “maquiladoras”, come vengono chiamate le fabbriche di multinazionali a Sud del Rio Grande-Rio Bravo, soprattutto nella zona di Tijuana.
L'espediente messicano già denunciato da Trump
La Cina però non è il Giappone né la Corea del Sud. Viene percepita come un antagonista geostrategico dagli Stati Uniti, e Xi Jinping non ha fatto nulla per rassicurarli (vedi alla voce: Putin in Ucraina; ma anche Hong Kong, Taiwan, Filippine). Perciò non è detto che gli Stati Uniti accettino di accogliere investimenti cinesi sul proprio territorio come lo fecero con i giapponesi. In quanto al Messico: Trump ha già detto che se verrà eletto lui colpirà con un dazio del 200% le auto cinesi ovunque siano fabbricate, Messico incluso.
In definitiva Xi Jinping non può dare per scontato che il resto del mondo continuerà ad essere accogliente verso le sue esportazioni, come lo è stato negli ultimi trent’anni. Certo, in alcuni settori i cinesi sono stati talmente bravi (e spregiudicati) da conquistarsi posizioni dominanti, per cui non è facile fare a meno dei loro prodotti. Però si vede nel caso degli Usa che una reindustrializzazione domestica è possibile, ancorché lenta e costosa.
La "trappola di Xi": chi disprezza il consumismo è obbligato a esportare
Il problema della Cina, è che la sua dipendenza dall’export è addirittura cresciuta negli ultimi anni. La percentuale che le esportazioni rappresentano sul suo Pil supera addirittura i massimi storici che vennero raggiunti dal Giappone o dalla Germania all’apice del loro successo commerciale. E proprio i casi di Giappone e Germania stanno a dimostrare quanto sia difficile riconvertirsi, quando si è costruito un modello economico dove la crescita viene trainata dalle esportazioni. Per cambiare sistema bisognerebbe stimolare in modo poderoso i consumi interni. Perché la Cina non lo fa, o non ci riesce? I suoi consumi ristagnano. Non per caso. E’ quel che vuole Xi.
Questo presidente per certi aspetti è un nostalgico del maoismo e della sua etica dell’austerità. Pensa che il consumismo sia tipico di civiltà decadenti, come l’America. In perfetta coerenza, lui è anche un severo critico dell’assistenzialismo. Può sembrare strano, un comunista contrario al Welfare? In realtà c'è la stessa logica austera di cui sopra. Un Welfare generoso, di tipo europeo, può indurre certe fasce della popolazione a starsene a casa e aspettare un assegno statale, anziché “masticare amarezza” e accettare quel che offre il mercato del lavoro. “Masticare amarezza” è uno dei consigli che Xi impartisce alla sua gioventù, agli “sdraiati” che stanno a casa dei genitori perché non trovano un posto all’altezza delle loro aspettative, e della loro laurea. Perfino nel periodo più terribile della pandemia, Xi si rifiutò di fare quel che fecero Trump e Biden e tanti governi europei: mandare assegni alle famiglie. Inoltre, di fronte al crac del suo settore immobiliare, anziché montare delle costose operazioni di salvataggi pubblici sul modello dell’America 2008, il primo messaggio di Xi è stato questo: la casa è un bene sociale, guai a chi la compra per speculare, peggio per lui se perde i suoi risparmi.
Se Xi tiene duro sulla sua linea, se in casa propria resta un convinto fautore dell’anti-consumismo, se evita di costruire un Welfare o di distribuire sussidi ai cittadini perché li spendano, la sfida che ha di fronte è piuttosto impervia. Vuole rendersi sempre meno dipendente dall’Occidente; eppure senza i nostri mercati l’economia cinese è destinata a perdere dinamismo.         
Xi e Putin alleati anche nello spazio: "guerre stellari" contro l'America?
Russia e Cina rafforzano la loro alleanza in tutti i settori. Al boom dell’interscambio, alla crescente dipendenza economica e tecnologica di Putin da Xi Jinping, ora bisogna aggiungere una nuova dimensione: lo spazio. Qui però il rapporto è più paritetico, assai meno sbilanciato in favore della Repubblica Popolare. La Russia rimane una superpotenza spaziale, nel 1957 fu la prima a mettere in orbita un satellite vincendo la prima tappa della gara con l’America. Tuttora l’Occidente preferisce mantenere in vita una “coabitazione” con gli astronauti russi nella stazione orbitale internazionale (anche se nessuno dà molta pubblicità a questa strana oasi di convivenza…)
Ma è soprattutto fra Russia e Cina che la cooperazione spaziale avanza. Che possa avere un potenziale militare, lo lascia sospettare una fuga di notizie pilotata di recente dalla Casa Bianca. Un satellite che Mosca mise in orbita nel febbraio 2022 – lo stesso mese in cui Putin lanciava l’invasione dell’Ucraina – sarebbe progettato per sperimentare una nuova arma nucleare, destinata a colpire e indebolire la rete satellitare americana. Il satellite russo si chiama Cosmos-2553, fu lanciato il 5 febbraio 2022, da allora continua a navigare attorno alla terra seguendo quella che gli americani definiscono una “orbita inusuale”. Le prime notizie su questo satellite furono fornite dalla Casa Bianca a un ristretto gruppo di parlamentari, uno dei quali ha richiesto che vengano “de-classificate”, cioè rese di dominio pubblico. Un’ipotesi è che il Cosmos-2553 sia un prototipo usato per sperimentare un attacco senza precedenti: un’arma nucleare che distrugga centinaia di satelliti americani, sia statali che privati.
Attualmente l’America gode di un vantaggio netto nella copertura satellitare, soprattutto a bassa orbita: ha 6.700 satelliti che operano in questa parte dello spazio, contro i 780 della Cina e i 150 della Russia. I satelliti Usa sono per la maggior parte privati e offrono servizi di tipo commerciale. Alcune di queste reti private però possono avere funzioni “duali”, si è vista l’importanza della rete Starlink di Elon Musk per gli ucraini.
Stati Uniti e Giappone hanno cercato di “stanare” Putin presentando al Consiglio di sicurezza Onu una proposta di risoluzione che ribadisca il divieto di mettere in orbita armi nucleari, contenuto nel Trattato sullo spazio del 1967. La Russia ha posto il veto contro quella risoluzione.
La Cina a sua volta è iperattiva nello spazio. L’evento più importante del 2024 sotto questo aspetto è stato il lancio della missione lunare Chang’e 6. Il suo obiettivo è raccogliere campioni minerali e chimici al Polo Sud della luna: quello che resta invisibile dalla terra, ma contiene ghiaccio da cui si possono estrarre acqua, ossigeno e idrogeno. Acqua e ossigeno potrebbero consentire una lunga permanenza di astronauti. L’idrogeno potrebbe essere il combustibile per lanci dalla luna verso Marte. Qui spunta la cooperazione con la Russia: l’obiettivo di Xi Jinping è costruire una base lunare permanente insieme con i russi entro il prossimo decennio. Gli americani sostengono che anche in questo caso ci sono obiettivi militari, non solo di tipo scientifico.
In cambio del suo aiuto la Russia ha ricevuto un regalo prezioso nell’isola cinese di Hainan, la base tropicale per i lanci della Repubblica Popolare nello spazio. Ai tempi del suo fondatore Mao Zedong e dello "scisma" fra Pechino e  Mosca, la Cina comunista arrivò a temere che l’Unione sovietica potesse attaccarla con armi nucleari. Perciò la base di lancio per i missili cinesi fu situata nel deserto di Gobi, considerato meno vulnerabile all’attacco sovietico. Hainan è una collocazione molto più favorevole, perché ai tropici la rotazione terrestre aumenta la potenza di lancio. Ora nella base spaziale di Wenchang situata su quell’isola, si aprirà un Politecnico russo in grado di formare diecimila studenti nelle discipline aerospaziali. Anche questo è un segnale di cooperazione rafforzata tra i due paesi, in un settore dove le sinergie tra scienza e armamenti sono note.     

"Il nuovo impero arabo" eccolo qua
Esce questo martedì 21 maggio il mio libro "Il nuovo impero arabo" edito da Solferino, e sarò in Italia a presentarlo. Intanto due sviluppi recenti di attualità sembrano confermare alcuni dei temi che approfondisco nel libro.
Primo, uno dei più autorevoli osservatori americani del Medio Oriente, il collega Thomas Friedman del New York Times, ha scritto che "l'Arabia diventa il nuovo Egitto". A cosa si riferiva? Non certo alla situazione economica: l'Egitto è dissanguato dalla corruzione dei suoi militari, è in bancarotta, e sono proprio i capitali sauditi a tenerlo a galla. No, Friedman si riferisce al fatto che dopo la guerra dello Yom Kippur (1973) l'America sviluppò una "strategia egiziana" con Sadat: tra i frutti di quella strategia ci fu l'accordo di pace Egitto-Israele, ma anche lo sviluppo di un rapporto autonomo tra Washington e Il Cairo, che non dipendeva dalla triangolazione con Israele. Friedman sostiene che l'America di Biden (e Trump) propende verso un'alleanza strategica con l'Arabia, anche a prescindere se quest'ultima accetta di riconoscere Israele.
L'altro sviluppo recente dell'attualità sono i segnali di crisi di alcuni progetti avveniristici all'interno di Neom, la nuova "città-Stato" che il principe saudita Mohammed bin Salman (MbS) sta costruendo. Nel mio libro illustro i piani visionari e ambiziosi di questo giovane sovrano, ne cito anche la vulnerabilità. Qualcosa può andare storto, forse anche molte cose possono andare storte (già il 7 ottobre 2023 ha inferto un colpo alla strategia saudita). Ma bisogna pensare a MbS come una specie di Elon Musk in versione araba e monarchica. Un chief executive con altissimo spirito di rischio, che forse dà per scontato il fallimento di alcuni dei suoi progetti...
Nel libro troverete risposte anche a molti quesiti che alcuni di voi mi avevano rivolto negli ultimi mesi, in particolare durante i miei lunghi viaggi nel Golfo arabico-persico: sui diritti umani, sulla condizione dei lavoratori nei cantieri sauditi, sull'omicidio di Khashoggi, sull'Iran, e altro ancora.
 
Federico Rampini, New York 18 maggio 2024
 
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