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Autore Discussione: BRUNO GAMBAROTTA Un saluto riscalderà Torino  (Letto 2728 volte)
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« inserito:: Agosto 07, 2008, 09:29:37 am »

7/8/2008
 
Un saluto riscalderà Torino
 
 
 
 
 
BRUNO GAMBAROTTA
 
E io dovrei conoscerla?», mi chiese allarmato un professore torinese incontrato all’aeroporto. Il giorno prima avevo assistito alla sua conferenza, e non avevo resistito alla tentazione di salutarlo.

Non è un’impresa da poco salutarsi a Torino, superare di slancio la barriera invisibile di riservatezza che ci protegge (e ci isola). Ci sono abbonati alla stagione dell’Unione musicale che occupano da quarant’anni due poltrone vicine e solo adesso si scambiano un timido cenno del capo, ma non è bello indagare su chi ha iniziato. L’oggettiva difficoltà del torinese nel salutare sconosciuti la si può notare alla messa della domenica quando, verso la conclusione, il celebrante ordina: «Scambiatevi un segno di pace». I fedeli scambiano, è vero, una frettolosa stretta di mano con i vicini di banco ma intanto lo sguardo ansioso vaga in cerca degli amici e dei parenti, quelli sì da salutare per davvero.

Il torinese si scioglie e saluta quando è lontano dal suo elemento abituale, in campeggio o sui sentieri di montagna. Ma lì siamo tutti sulla stessa barca, in balia della natura capricciosa e ostile. Salvo poi, ritornati in città, riprendere le vecchie abitudini del riserbo. Compiendo un visibile sforzo un tale che incontravo e salutavo solo in montagna, un giorno, incrociandomi in città, mi ha domandato: «Non la vediamo più a Torgnon?». Si vedeva che era spiacente di aver perso una delle poche occasioni lecite di salutare qualcuno senza commettere un peccato di lesa riservatezza.

Salutare diventa un’impresa meno ardua se il rapporto fra i due salutanti è mediato da un terzo elemento neutro sul quale scaricare l’ansia del tabù infranto. Perfetti da questo punto di vista sono il cane da portare a passeggio (se poi i due animali si accapigliano è fatta) e il carrello della spesa al supermercato, dopo le venti, quando la spesa diventa una faccenda da single (gli sposati sono inchiodati al desco).

Sarà interessante registrare le reazioni dei torinesi che sabato 20 settembre saranno oggetto di un saluto disinteressato. Prevarrà la sana diffidenza? «Se mi saluta senza conoscermi avrà il suo tornaconto. Cosa vorrà in cambio?». I diffidenti ripasseranno le formule che si usano per declinare l’offerta di un nuovo contratto telefonico, di un’enciclopedia a rate, di una miracolosa carta di credito. Qualcuno crederà a uno scherzo, si guarderà attorno per cercare la telecamera nascosta. Salutare una coppia farà scattare la reazione del partner geloso: «Chi è quella ragazza che ti ha salutato?». «Non la conosco, è la prima volta che la vedo». «E già, sta a vedere che adesso la gente si saluta senza conoscersi. Trovati una scusa più furba».

Il saluto disinteressato farà un gran bene alla moltitudine degli invisibili, gli anziani, i soli, gli stranieri, tutta quella varia umanità verso la quale siamo tentati di mettere a fuoco il nostro sguardo all’infinito, pur di non vederli. E pensare che i torinesi per salutare dispongono di uno strumento perfetto, è neutro, denota il torinese old style, fa fine e non impegna: il «cerea». Secondo i filologi nasce per successive contrazioni dal «buongiorno signoria vostra» come il più disinvolto e universale «ciao» discende dal veneziano «schiavo vostro».

Sul «cerea» sono fiorite leggende metropolitane: una sostiene che deriva dal greco «chairo» che significa «mi rallegro, gioisco». A sostegno di questa tesi si racconta che un cadetto di casa Savoia, per far sapere che stava studiando il greco, avesse preso a salutare tutti quelli che incontrava con il «chairo» e i torinesi, per compiacere casa reale, si erano messi a imitarlo. Sta di fatto che il «cerea» è perfetto, rispettoso, va bene su tutti, come il grigio: giovane, anziano, donna o bambino, da solo o accompagnato dal titolo: dottore, professore, monsù, madama... È un saluto di apertura e anche di congedo, in questo caso è sufficiente farlo seguire da un neh: cerea neh! Traduzione: ho chiuso le tapparelle, per stasera lasciatemi in pace.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 08, 2008, 05:35:13 pm »

8/8/2008
 
Il gelato cura dell'anima

 
 
Chi transiti oggi per Torino senza conoscerla ponga mente al gelato. Il moltiplicarsi di gelaterie in gara per variare e sempre più affermare il prodotto - locali spesso molto piccoli, senza un tavolino per sostare - è un sintomo di città infelice. La golosità non c’entra, il confronto, simmetrico, si può fare coi farmaci in libera vendita o alternativi, autoprescritti o caldeggiati al telefono da consumatori.

Gelateria come farmacia atipica, un unico prodotto in vendita, utile per deviare un incombente attacco di panico, indurre ripetibilmente un oblio, staccare la spina di una convivenza intollerabile, ipnotizzare un eccesso di fatica a vivere, tamponare una solitudine. Corre un tacito accordo su questo: il gelato può, purché (condizione essenziale) non sia un qualunque gelato, quello di ogni bar, quello del ristorante o della stazione, di città sconosciute e meno afflitte, quello del turista americano o giapponese per i quali gelato o San Pietro o gondola sono la stessa ignominiosa cosa. Dunque, gelato artigianale, ma attenzione. Anche di gelaterie artigianali ce n’è un termitaio. Artigianale di quel certo luogo, di quel certo nome, con caratteristiche specifiche di alta qualità e di ingredienti non tossici.

Quello soltanto contiene il principio attivo, e la gente (autentici malati di patologie psichiche, non semplici masticatori di Foglietti Illustrativi) lo ha perfettamente capito, accorre, fa coda, si fissa su una preferenza, sperimenta.

Un tempo il gelato scompariva, quasi del tutto, tra ottobre e aprile inoltrato. Quello dei tricicli, che dato il mezzo poteva arrivare dappertutto, era un segno dell’estate. Un effetto Prozac era inimmaginabile. Oggi il consumo invernale, anche nelle giornate più rigide, è incessante ed è enorme. Quel certo tipo di gelato risponde a tutt’altro bisogno che ad una sete vulgaris indotta dalle calure.Calma l’anima - non la sete... Del resto è noto che sorbetto o gelato non dissetano, ma creano sete, infatti sono spesso serviti, dove c’è sosta, con accompagnamento di acqua tiepida o calda. Il tradizionale gusto al cioccolato va giù freddo però riscalda. In una gelateria terapeutica è una concessione a vecchie abitudini: io sopprimerei dalla lista il cioccolato, che come farmaco è meglio in tavolette.

In verità, io non ho mai amato granché il gelato... Obbligato ad un prolungato soggiorno torinese nel passato inverno ho riscoperto i punti che talvolta, direi raramente, frequentavo, come Pepino e Fiorio e scoperto che per lo più in questa zona storica, tra Porta Nuova e via Po, si sono impiantati gli spazi nuovi (Grom, «La Piazzetta», altri che non ho sperimentato) dove l’affare è sicuro perché è là che, evidentemente, si concentra e accorre la maggior parte delle infelicità cittadine. Non vanterò la bontà del prodotto in quanto è di secondaria importanza. E’ ovvio che se i sapori fossero immondi (gelato all’olio di merluzzo, gelato all’ammoniaca o al sudore d’autobus) il boom regredirebbe. Per un ragionevole guadagno la squisitezza è basilare. Però nel magico quadrilatero del Gelato, dove l’inquinamento dell’aria è più forte, la fortuna del gelatiere è dovuta alla capacità di soddisfare necessità di tutt’altra natura. L’evento è essenzialmente, e forse interamente, culturale. Così un irrespirabile Centro genericamente detto Storico, si è fatto, grazie al gelato, un’anomala Casa di Cura. Non è lontano il giorno che tra le coppette e i coni compariranno anche i libri, ed è significativo che le principali librerie, e specialmente le esoteriche, si trovino nei paraggi.

Il ritorno dei Templari non è lontano, il Dalai Lama si avvicina a misura che il Papa si allontana. Qualcosa di strano succede, intorno alle nuove gelaterie.
 
da lastampa.it
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