LEGA e news su come condiziona il governo B.

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La via padana al leader

Oreste Pivetta


Prima di prendere a calci nel sedere il figlio maggiore, Riccardo, candidato all’Isola dei famosi, trasmissione cult di Raidue, direttore Antonio Marano, in quota Lega, Umberto Bossi ha rinnovato la tradizione padana, cresimando Roberto Maroni erede universale. Per ora. Per ora, soltanto, perché il Bossi padrone dittatore monarca si sa che è volubile, capriccioso, dispotico e di eredi ne ha già cresimati alcuni. Aveva cominciato con il giovane Giorgetti, segretario della Lega Lombarda, schieramento varesino.

Ma un bel giorno, trascorse le ore peggiori della malattia, s’affacciò alla finestra di una clinica di Lugano (non proprio Padania), mostrando alla folla plaudente il figlio Eridano, quello riccioluto con il nome antico del Po, studente presso la scuola bosina di Varese, che non dev’essere proprio una scuola d’alti studi amministrativi, tipo l’Ena parigina (ora quasi tutta a Strasburgo). Quel gesto parve a molti analisti di cose bossiane una sorta di investitura: di padre in figlio, tutto normale.

Roberto Maroni, l’amico delle prime battaglie all’ombra del Carroccio, era sempre rimasto in disparte, taciturno e schivo per natura, capace dei più duri sacrifici in onore del capo, senza timore di sputtanarsi con le più azzardate dichiarazioni, giusto per vedere l’aria che tira e per consentire a Bossi di smentire e aggiustare la linea. Come quando andò a Brescia per trattare un patto con Mino Martinazzoli, per ascoltare poche ore dopo Bossi che definiva la Dc un covo di lumache bavose. Fedele nei secoli, anche se pure lui fu, un giorno lontano, fu a rischio opposizione e quindi a rischio espulsione.

Di successione a Bossi nella Lega si cominciò a parlare, in gran silenzio, ovviamente dopo la malattia del capo. Nessuno che usasse pronunciare la parola. La Lega, per rispetto dei legami parentali, la prese in mano la seconda moglie di Bossi e madre di Eridano, Manuela Marrone, che affiancò Maroni, Calderoli, Giorgetti, Castelli. Nel direttorio si infiltrò Rosi Mauro, allora segretaria del sindacato padano, oggi consigliere regionale, per solidarietà femminile. Perdurando malattia e convalescenza, grazie alla malevola curiosità dei massa media, qualcosa delle ambizioni segrete fu divulgato: Calderoli, il governativo poltronista, si candidava, Maroni lo candidavano in contrapposizione.

L’ultima dichiarazione, nella solennità di una intervista al settimanale Gente, chiuderebbe la discussione, fino almeno a domani mattina. Maroni chi può contestarlo? Forse l’ala più berlusconista che c’è, sempre capeggiata da Calderoli. Bisognerà capire quanto l’investitura di Maroni rimarrà in piedi e quanto abbia eventualmente cambiato idea Maroni, interprete del trattativismo con il centrosinistra sull’altare delle conquiste federaliste. «Dopo di me, penso a Maroni» (queste le parole di Bossi) ha il sapore di un ben più celebre «Dopo di me, il diluvio». Insomma roba da iettatori. La verità amara è che la Lega ha tenuto nel corso della sua storia decine di congressi e di parlamenti, migliaia di riunioni e di assemblee, ma in pubblico non ha mai discusso di politica e tanto meno quindi di leadership. La cronaca di un congresso è un’esemplare controprova di tutte le teorie sulla crisi della politica, sulla crisi dei partiti, sul trionfo dell’antipolitica. Sono i soliti quattro che decidono ed il solito Uno che decide più di tutti. Umberto Bossi che va e che viene, che prende la parola e che la toglie, che va al palco per le conclusioni e poi riconclude. All’ultima Pontida gli riuscì il colpo di ridurre al silenzio l’intero direttorio, Calderoli Castelli Maroni Giorgetti, già con il microfono in mano. Altro che le primarie di quegli indecisionisti del partito democratico.

Bossi, peraltro, si specchia in Berlusconi, al quale ancora giura amore eterno. O Berlusconi si specchia in Bossi e nella sua cultura della democrazia (anche ovviamente dei meccanismi democratici della rappresentanza). Lui, il Berlusconi, ai congressi neppure ci pensa. Gli è capitato in passato. Ma non è il caso di insistere: è il popolo che lo vuole. Compiendo settant’anni, dopo qualche mancamento, anche Berlusconi ha cominciato a pensare all’eredità, non quella che conta (la partita è già sistemata tra i figli), ma quella politica. Così s’è inventato la rossa schiarita Brambilla, salumiera con il pallino adesso dei circoli della libertà, del giornale della libertà e della tv della libertà. Però Tremonti s’è irritato.

Pubblicato il: 12.07.07
Modificato il: 12.07.07 alle ore 8.47   
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L'intervista

Ciampi: Bossi? La Lega è cambiata

Subito riforme, Silvio non ha alibi

L'ex capo dello Stato: sorpreso dal successo del centrodestra


Presidente Ciampi, dopo i risultati del voto possiamo dichiarare chiusa la Seconda Repubblica?
«Prima, Seconda o Terza Repubblica sono definizioni che per me non hanno molto senso. Di sicuro, sia pur senza storicizzare su quei canoni la stagione che si apre adesso, siamo entrati in una fase più matura per la politica e le istituzioni. Credo che si possa riconoscerlo per almeno due motivi: 1) dalla campagna elettorale a ieri, tutto si è svolto nel massimo ordine e, sostanzialmente, nel rispetto dei diritti di ciascuno; 2) il bipolarismo si è consolidato, anche se a prezzo di dolorose esclusioni dal Parlamento». Allude alla scomparsa della sinistra cosiddetta «radicale»? «Sì. Partiti che offrivano, se non una vera e propria camera di compensazione del conflitto sociale, comunque un riferimento di rappresentanza per le frange più estreme. La loro uscita di scena rischia di aprire incognite pericolose».

Si aspettava un'affermazione così netta del centrodestra?
«Eravamo tutti influenzati dall'idea che la legge elettorale non potesse consentire un simile scenario, dunque sono rimasto piuttosto sorpreso. Ora, i numeri incassati dai vincitori sono tali da legittimare non solo l'incarico a governare (per quello basta una preferenza in più), ma a farlo avendo alle spalle una larga maggioranza e con un'intera legislatura come orizzonte. Davanti a questa opportunità, che naturalmente vale per il centrodestra come per il centrosinistra, nessuno potrà accampare alibi. Le difficoltà sono enormi, ma l'Italia ha in sé le capacità per esprimersi al meglio, ciò che negli ultimi anni non era invece riuscita a fare». Quel deficit d'iniziativa che ha penalizzato l'esecutivo Prodi, imploso su se stesso anche per non aver avviato soluzioni strutturali? «Per la verità il Paese è bloccato da tempo, già da prima del biennio del centrosinistra. Certo, tra il 2006 e il 2008 la tenuta di Palazzo Chigi si è retta soltanto su fragilissimi fili ed era messa alla prova ogni giorno da compromessi, strappi, condizionamenti e mediazioni. Perciò quel governo ha sempre avuto il fiato corto e, nonostante la pazienza negoziale del premier, alla fine è caduto».

Quale dovrebbe essere la «missione » di Berlusconi?
«L'emergenza assoluta è sul fronte dell'economia e su quello sociale, con riferimento particolare alle famiglie che si ritrovano a far quadrare i loro bilanci in condizioni di maggiori ristrettezze... Non possiamo permetterci ancora una posizione di retroguardia in Europa. Ma va accelerato pure il risanamento dei conti pubblici, che a cavallo del 2000 ha avuto una battuta d'arresto e che solo di recente era stato rimesso in moto. Servono poi programmi urgenti per rilanciare sviluppo e competitività, con investimenti su ricerca e istruzione pubblica. Il tutto tenendo conto di uno scenario mondiale globalizzato che presenta problemi di una profondità sconvolgente e destinati ad accentuarsi (vedi il fortissimo aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, come grano e riso), con il rischio di conseguenze geopolitiche imprevedibili e preoccupanti. Dal dopoguerra non si è mai presentata una situazione così complessa, tale da richiedere una collaborazione internazionale in grado di produrre scelte politico-finanziarie lungimiranti e coerenti».

Non andrebbero messe nell'agenda delle priorità anche le riforme istituzionali?
«Ovvio che sì. Durante la campagna elettorale sono uscite indicazioni importanti per una responsabilità bipartisan su questa materia, per riforme condivise, mirate a rafforzare le istituzioni e a snellire la macchina dello Stato. I leader dei due fronti si sono impegnati a farle, nelle settimane scorse. Le facciano. Ma nei confini dei due princìpi chiave della Carta costituzionale: libertà dei cittadini e unità del Paese». C'è chi teme che Bossi, forte del boom elettorale, tenga in ostaggio il governo e punti a una secessione di fatto. «Non vedo questo pericolo, non ci credo. Anche la Lega ha avuto una sua evoluzione. Ricordo alcune mie tappe, da Varese alla Val Brembana, e i dialoghi con tanti sindaci leghisti presenti con la loro fascia tricolore. Quel Nord rivendica un diritto sul quale siamo tutti d'accordo: il federalismo fiscale, che certo non nega i fondamentali diritti di solidarietà verso le parti più deboli dell'Italia. E qui non intendo una politica degli oboli, ma della solidarietà, così come è chiaramente affermata nella nostra Costituzione».

Dall'entourage di Berlusconi stavolta nessuno ha fatto echeggiare il grido «non faremo prigionieri».
E' cambiato anche lui? «Le sue prime dichiarazioni dimostrano che è consapevole della gravità della sfida. E' vero, viviamo da 15 anni in una situazione politica complessa e di conflitto a volte artificialmente esasperato, al di là dell'obiettiva gravità dei problemi. Oggi servono soluzioni strutturali, che si possono costruire a patto di rianimare le volontà positive degli italiani, a partire da uno spirito di orgoglio e fiducia collettivi. Ripeto: i problemi interni e internazionali sono seri, ma dico no alla sfiducia e un no ancor più forte all'indifferenza. Sta a Berlusconi fare una buona squadra di ministri (e molti politici che non avevano esperienza ora ce l'hanno) e rendere più coesa l'Italia, che ha bisogno di essere governata con efficacia. Spero anche che il futuro premier mantenga saldo il nostro ancoraggio all'Europa, fuori dalla quale saremmo perduti ».

E della sconfitta del Partito democratico, che cosa pensa? Era davvero scontata?
«Era una partita molto ardua, quella giocata da Walter Veltroni. Ha fatto un investimento sul futuro, che ha comunque prodotto un'innovazione importante, semplificando il nostro frammentato quadro politico e anche, per i toni da lui usati, disintossicando un po' il clima. Gliene va dato atto».

Marzio Breda
16 aprile 2008

da corriere.it

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La spinta di centinaia di sindaci

La nuova Lega: operai e impiegati

Scelta da operai e impiegati



A Bologna raddoppia i voti e alla Fiat Mirafiori aprirà una sezione. È la Lega che cambia, che sfugge al folclore delle origini e raccoglie voti a Milano centro, a due passi da Piazza Affari. ABologna, dove ha raddoppiato i voti e dove ora il segnale di radio Padania arriva forte e chiaro. Nelle Marche, dove per la prima volta nella sua storia ottiene un parlamentare. E in fabbrica, alla Fiat Mirafiori, dove nei prossimi giorni aprirà una sezione. È la Lega che cambia, un partito dai mille volti, che sfugge al folclore delle origini, alle semplificazioni dei media, alle demonizzazioni degli avversari. La Lega che esce dalle urne trionfante prende voti a sinistra, tra gli operai e gli impiegati, e ruba voti a Berlusconi, tra gli imprenditori. È un Carroccio che resta solidamente ancorato nelle valli ma riesce a penetrare anche nelle grandi città. Una Lega che continua a sfruttare le paure degli italiani—i clandestini, la sicurezza, gli islamici — ma che prospera anche grazie a una classe dirigente solida, cresciuta sul territorio. Una miriade di sindaci, oltre duecento, che non scendono in piazza, non imbracciano fucili, ma leggi, cavilli e ordinanze.

Tutti i numeri
I numeri della Lega sono impressionanti. Oltre tre milioni di elettori alla Camera, poco più di due milioni e seicentomila al Senato. Solo in Lombardia si arriva oltre il milione e 300 mila, mentre due anni fa la Lega aveva raccolto un milione e 700 mila voti in tutta Italia. «Solo oggi— dice Gianfranco Salmoiraghi, custode della militanza della federazione milanese — abbiamo ricevuto 30 richieste di tesseramento». Il precedente tetto delle tessere, a livello nazionale, era arrivato nel 1996 del trionfo, con l’ultima Lega «dura e pura», candidata da sola contro Prodi e Berlusconi. Allora furono 145 mila, poi scesero fino a 120 mila, a cavallo tra il 2000 e il 2001, poco prima del tracollo elettorale che portò il partito al 3,9%. Poi, spiegano da via Bellerio, una risalita costante e una nuova esplosione a partire dal 2004, fino ai 150 mila di oggi: uno ogni venti elettori della Camera. Per dare un’idea delle proporzioni, dei 12 milioni di elettori del Pd alla Camera, un milione e 300 mila hanno ritirato il certificato di adesione. A proposito di effervescenza del movimento, la piccola esperienza di radio Padania, sotto la guida di Giulio Cainarca, ha visto raddoppiare i propri ascoltatori in tre anni, che oggi sono 100mila.

Il caso Emilia Romagna
Sergio Cofferati minimizza: «A Bologna la Lega ha avuto il risultato più basso di tutta la regione ». Vero, ma ha raddoppiato i voti. Nelle urne sono piovute 5.214 firme in più. «Ha pagato— spiega Angelo Alessandri, presidente della Lega nord, di Guastalla—la nostra battaglia contro la super mega-iper-moschea. Cofferati ora dice che va avanti lo stesso. Bene, prenderemo ancora più voti. E se non ne abbiamo presi di più è perché ci copia: ha appena inaugurato le ronde». Il successo nell’Emilia ex rossa è tanto travolgente quanto sorprendente. I parlamentari ormai sono sei, i consiglieri 300. A Guastalla è al 15 per cento, come a Cento di Ferrara, dove ha un assessore. E a Fiumalbo (Modena) arriva al 30. A Reggio Emilia è all’8, a Modena al 9 e a Piacenza al 14. «Da quattro legislature non facciamo che crescere—dice Alessandri— La sinistra forse dovrebbe fermarsi e dirselo chiaramente: Houston, c’è un problema».

La prima volta nelle Marche
Si chiama Luca Rodolfo Paolini, ha 48 anni, è un avvocato di Fano ed è il primo deputato della Lega nelle Marche. «Nel Montefeltro abbiamo sfiorato il dieci per cento». Perché anche le Marche abbiano ceduto alle lusinghe del Carroccio, lo spiega con parole chiare: «Qui c’è gente che vive con 1000 euro al mese. E i figli dei clandestini non pagano nulla». Nelle Marche spira anche un forte vento secessionista: alcuni Comuni vogliono passare all’Emilia-Romagna, appoggiati dalla Lega. E sono proprio quelli che decollano: Mercatello sul Metauro, 7,93 per cento e Casteldelci 7,91%.

I piccoli Comuni
A guidare la nuova Lega sono soprattutto i piccoli Comuni. Come Serina (Bergamo), dove Michele Villarboito governa con la percentuale record del 76,18 per cento. O come Cittadella, dove Massimo Bitonci è diventato famoso per l’ordinanza «anti sbandati», con la quale richiedeva agli immigrati un reddito minimo di 5 mila euro e almeno 14 metri quadrati per abitante in un alloggio. Lo contestarono tutti: oggi incassa il 42 per cento, doppiando il Pdl. Il segreto dell’affermazione della Lega, secondo Francesco Tabladini, ex storico della Lega, «sta proprio nel movimento dei sindaci». Con la sua ordinanza, che gli è valsa anche un’iscrizione al registro degli indagati, ha dato il via a un effetto a catena: «Bossi è stato ancora una volta il più rapido nel capirlo». L’ordinanza di Bitonci fu proposta a modello anche nella Opera incendiata dalla questione dei campi Rom dal capogruppo leghista, allora all’opposizione, Ettore Fusco. Il quale, il 13 aprile, è stato eletto sindaco con il 48% delle preferenze, in un Comune tradizionalmente operaio e popolare. Dove la Lega, per la Camera, ha più che raddoppiato le sue preferenze. Il movimento dei sindaci ha origine da Franco Bortolotti, eletto nel ’90 primo cittadino italiano della Lega, a Cene (Bergamo). All’inviato di allora, che lo guardava come un extraterrestre, spiegava placido: «Ma cosa credete, che stiamo qui a fare la rivoluzione?». Cene è restata leghista, senza rivoluzioni. Ora il sindaco si chiama Giorgio Valoti e incassa un incremento del 17 per cento. Il segreto? «Nella Bergamasca ci sono 40 sindaci che amministrano bene — spiega—Ci tacciano di insensibilità, ma non è così. Cerchiamo di integrare i nostri 300 immigrati, ma non vogliono. Le faccio un esempio: ogni anno piantiamo alberi per i nuovi nati. Invitiamo i genitori, tutti, ma gli immigrati non vengono mai».

Il consenso nelle fabbriche
«Siamo il partito degli operai» proclama Bossi. Rosy Mauro, sindacalista padana, già annuncia: «Basta con la Triplice, siamo nelle fabbriche, al fianco dei lavoratori. E vogliamo le gabbie salariali». Anche Valentino Parlato ne è convinto: «Ormai nella Cgil votano Lega». Che il Carroccio stia facendo breccia nelle fabbriche lo dimostra il caso Mirafiori: «Apriremo presto una sezione a Torino—spiega il militante Roberto Zenga, 46 anni, un passato di sinistra — Mercoledì, con Roberto Cota, abbiamo fatto un volantinaggio. Incredibile: nessuna protesta. Poi abbiamo appeso i volantini agli alberi: li ha portati via solo la pioggia. In altri tempi sarebbero durati cinqueminuti». Ma cosa offre la Lega agli operai? «La difesa del posto di lavoro— spiega Zenga — La sinistra li ha abbandonati, come il sindacato». E che tanti operai siano meridionali non è un impedimento: «Figuriamoci, non è più quella Lega lì. Mio padre è campano e tanti meridionali sono con noi». Tra i neo eletti leghisti c’è anche Emanuela Munerato, operaia in una azienda tessile a Rovigo. Antonio Panzeri, democratico lombardo e già leader della Cgil, riconosce il dato: «La Lega ha raggiunto un consenso formidabile anche nei ceti operai che, storicamente, si pensava guardassero altrove. Fanno premio la sua coerenza e le sue battaglie: il tema dell’immigrazione, la sicurezza, il federalismo fiscale, l’esigenza di semplificazione burocratica. Tutti temi, ormai, interclassisti».

Il ritorno della Lega Veneta
«La Lega è riuscita ad interpretare bisogni di una larga fascia dell’elettorato, ottenendo consensi che prima erano di Fi e An». Nicolò Ghedini, coordinatore di Forza Italia in Veneto, prende atto del risultato e si dimette. Questa tornata elettorale segna una data quasi storica per il movimento: il sorpasso della Lega veneta su quella lombarda. Non è la prima volta, era già successo nel ’96. Allora la Liga, guidata da Fabrizio Comencini, si sentì talmente forte da minacciare Bossi e da firmare un preaccordo elettorale con il centrodestra. Patto non riconosciuto dal Senatùr, salvo poi siglarlo lui stesso l’anno dopo. Una lezione che la Lega veneta ha imparato. E infatti Gian Paolo Gobbo, uno dei pochi dirigenti dell’epoca rimasti fedeli, si limita a chiedere timidamente un ministro veneto: Gianpaolo Dozzo o Francesca Martini. Ma perché la Lega va così bene in Veneto? Lo spiega Ghedini: «Ha intercettato il malcontento prima di noi». E soprattutto la richiesta di federalismo fiscale. Non è un caso che il governatore Galan ora la chieda con insistenza.

Milano capitale
Il 12,3% della Camera, a Milano dove non arrivava al 5%, è un'altra di quelle cifre che lasciano il segno. Gongolava, a spoglio in corso, il capogruppo milanese Matteo Salvini. «Non ci hanno votato i radical chic. Siamo andati fortissimo nei quartieri popolari, a Quarto Oggiaro e al Gratosoglio. Il lavoro sul territorio paga, ne tenga conto il sindaco Moratti». Non fa nomi a caso, Salvini, visto che la Lega supera la pur ragguardevole media cittadina in zona 9, che da porta Garibaldi si allunga fino a Niguarda, sfiorando il 14%. Ma va benissimo (12,63%) nella zona 8, che unisce la chic Fiera alla popolarissima Quarto Oggiaro. E nei quartieri a forte densità popolare e immigrata della stazione Centrale e della Bicocca, dove fa il 13%. Quello che difficilmente denota un voto popolare è l’11,25% che la Lega raccoglie tra i 60 mila votanti del centro storico. Sotto la Madonnina, a due passi da Piazza Affari.

Jacopo Tondelli Alessandro Trocino
16 aprile 2008

da corriere.it

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16/4/2008 (7:24) - REPORTAGE - IL POPOLO DI BOSSI

Una lega di operai e imprese
 
Voto trasversale dietro il successo

Nelle fabbriche è falce e carroccio

GIOVANNI CERRUTTI


ROMA
Stupirsi dello stupore.
E’ capitato l’altra notte a Roberto Maroni, quando in tv ha visto i titoli delle prime edizioni. «Sembravano quelli del ’94 o del 2001, ma che la Lega faccia il pieno di voti al Nord è ancora una novità?».

E’capitato, ieri mattina, anche a Ilvo Diamanti, il sociologo vicentino che studia la Lega da quand’era bambina.
«Questa novità ha più di vent’anni -dice-, eppure dopo ogni votazione si fa finta che sia un inedito». Come la conquista dell’Emilia, dove aveva già un deputato e un senatore e adesso ne ha quattro più due.

I voti delle valli, delle città, delle periferie operaie.
Chi studia i flussi elettorali, come Diamanti, già vede la linea diretta che parte dalla Sinistra Arcobaleno, da falce e martello a Falce&Carroccio. E pure questa non è una novità assoluta. Dice niente la frase «La Lega nasce da una costola di sinistra»?. Per averla detta, Massimo D’Alema da sinistra è ancora canzonato. «Ma a Sesto San Giovanni -racconta Guido Salvini, neodeputato- se abbiamo triplicato i voti è perchè vengono da lì, dagli operai che hanno abbandonato la vecchia bandiera».

L’altra notte a Badoere, nel trevigiano, sotto il tendone della festa leghista, il parlamentare Giampaolo Dozzo si è fermato a un tavolo.
«Un imprenditore tessile con i suoi operai, tutti voti per noi». Perchè, come ha spiegato e rispiegato Diamanti, qui gli interessi dell’impresa e dell’operaio coincidono. «E quando va male -dice Dozzo- si comincia a ragionare, ad esempio sulle gabbie salariali, sul federalismo fiscale, sulle infrastrutture che mancano. La sola novità è la dimensione rilevante di questo voto operaio».

Non basta, non è tutto.
«E’ stato un voto trasversale», dice Giuliano Molossi, direttore della «Gazzetta di Parma». Lì si è guadagnato il seggio da senatore Giovanni Torri, 47 anni, leghista da sempre. «Sono andato dappertutto, da Santa Maria del Taro al Passo del Cerreto, ho fatto comizi dove non è mai andato nessuno, in osterie con due vecchietti, nelle bocciofile, nelle balere. All’uscita ero sempre sicuro di aver convinto almeno la metà». Aggiunge: «Mai andato in tv, mai spedita una lettera, mai messa un’inserzione sui giornali».

Forse sarà come dice Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della dc: «Quelli della Lega sono rimasti gli unici a far politica nei bar».
O sarà che lontano da tv e dai giornali la Lega va ad intercettare disagio e bisogni. Ancora Molossi: «Qui hanno deciso di spostare la moschea nella zona industriale, e tra piccole imprese e operai hanno risposto con il voto. Era prevedibile il successo, ma non in queste proporzioni e così trasversale: l’hanno votata l’industriale con jet privato e la donna delle pulizie».

La sicurezza, dunque.
E il solito ritorno della solita «Questione Settentrionale», due parole pronunciate per la prima volta da Bettino Craxi il 5 giugno 1987, e quel giorno Umberto Bossi aveva debuttato come senatore. Ma è sempre qui, la Questione Settentrionale, e può ad esempio chiamarsi Alitalia. Chi viaggia da Malpensa a Fiumicino ha appena scoperto che l’aereo è un Atr43, quello con le eliche, tempo di volo 1 ora e 23 minuti, quasi il doppio di un Md80. «E poi ci si domanda ancora perchè votano Lega?», dice Daniele Marantelli, unico deputato del Pd di Varese.

Anche Marantelli si stupisce dello stupore.
«Se fai la battaglia in difesa dello “scalone” delle pensioni è difficile che il giovane operaio ti voti». Come altri del Pd del Nord, portato Romano Prodi al governo, due anni fa aveva avvertito del pericolo. E Pierangelo Ferrari, rieletto a Brescia nel Pd, ricorda quel che dicevano: «Dobbiamo cominciare a capire questi “rozzi con la fabbrichetta e le loro paure” e smetterla con il nostro atteggiamento di superiorità. Se falliamo non ci sarà appello». E così è andata.

Un voto leghista davvero trasversale.
Antonio Marano, direttore di Rai2, varesino come Bossi e Maroni, è sicuro che i voti siano arrivati anche da sinistra. «Da almeno la metà degli 800 che lavorano nel nuovo centro di produzione di Milano - dice -. “Però noi non siamo di destra”, mi avvertivano. E io a spiegare che nemmeno la Lega lo è, un leghista non chiederà mai di schierarsi a destra, basta stare qui e capire chi fa gli interessi del Nord che vuole correre e non vuol farsi inghiottire».

E poi c’è la Lega che ha preso i voti, quella che sta tra la sede milanese di via Bellerio e il villino di Gemonio, da dove Bossi dirige, litiga con la salute, e ora tratta ministri e nomine. La Lega che ha governato a Roma più di 5 anni, che ha avuto il sindaco di Milano, che ha quelli di Novara, Varese, Verona, Treviso, le province del Nord, gli assessorati in Lombardia e Veneto. La stessa che gioca pesante con le parole, evoca paure e fucili e non è mai riuscita ad organizzare nemmeno uno sciopero del canone Rai.

Ma «è una Lega che non fa più paura», come dice Diamanti. Sempre di lotta, sempre più di governo.

da lastampa.it

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POLITICA

Radio Padania incita i big: lavorare senza perdere tempo

Castelli: saremo il perno del nuovo governo. Maroni: tanti voti dai lavoratori

Il Carroccio padrone del Nord in Veneto punte del 35 per cento

di PAOLO BERIZZI

 
MILANO - "Adess me racumandi, lauràa": i leghisti sono gente di pancia e del fare, tendenzialmente parchi nei festeggiamenti, nell'autocelebrarsi. E così non bisogna stupirsi se ieri mattina, il giorno del risveglio dopo la vittoria - praticamente una tombola - le telefonate piovute sui centralini di RadioPadania suonavano anche come un invito a mettersi subito al lavoro, schiena dritta, per "portare a casa federalismo fiscale e sicurezza per le nostre città". Che sarebbero, declinati in tutte le loro forme, dalle quote Iva e Irpef agli immigrati, i due temi forti sui quali la Lega ha vinto la partita elettorale.

Il terzo partito d'Italia ha i motori tirati al massimo: basta scorrere i risultati delle circoscrizioni, basta dare un'occhiata alle "torte" che rappresentano i seggi parlamentari, e si capisce che il momento è di quelli da incorniciare e mettere in bacheca. Conquistato il nord. Voti raddoppiati in Piemonte, Lombardia, Trentino, Friuli. Ma anche in Toscana e nel centro. Consensi da primato in Veneto (sfiorato il 35 per cento in provincia di Verona). Sfondamento persino nelle regioni "rosse", con un clamoroso quasi 7 per cento in Liguria e un quasi 8 in Emilia-Romagna. Milano che torna a doppia cifra (dal 5 % di due anni fa al 12) e che regala inaspettate soddisfazioni (15% a Quarto Oggiaro, altissima densità di immigrati dal Sud, oltre il 10 a Sesto San Giovanni, storica roccaforte della sinistra operaia). Tanta roba per i dirigenti del Carroccio.

E adesso, si capisce, si va all'incasso. "Abbiamo triplicato la nostra rappresentanza alla Camera e raddoppiato quella in Senato - tira le somme l'ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli, il cui nome è in pole position per la presidenza della Lombardia (la Lega chiede elezioni a ottobre) - . Saremo il perno del nuovo governo".

Dopo l'ubriacatura elettorale di lunedì notte, la parola d'ordine, nello stato maggiore del Carroccio, è: capitalizzare. Far pesare il più possibile la valanga di voti messi in cascina; produrre una pressione "dolce" sugli assetti del governo che si sta formando. In sostanza: esercitare con furbizia, ma rispettando gli accordi di coalizione, quella golden share che Casini ("è l'unica cosa giusta che ha detto in tutta la campagna" se la ridevano l'altra sera nella sede di via Bellerio) aveva attribuito ai lumbàrd in caso di successo del Pdl. "Faremo un bel lavoro, i nostri elettori possono stare tranquilli", è stata la promessa di Umberto Bossi all'inizio dell'election night.

L'agenda delle "cose da fare" è fitta: e di carne al fuoco, in effetti, i vertici della Lega ne hanno già messa. Il federalismo fiscale, anzitutto. "Si può attuare immediatamente, approvando la legge entro tre mesi", ancora Castelli. "I lavoratori ci hanno votato perché hanno capito che la soluzione dei loro problemi passa attraverso il federalismo. Siamo l'unico partito che rappresneta gli interessi del Nord - ragiona Roberto Maroni, probabile futuro ministro dell'Interno o, in alternativa, dello Sviluppo economico -. La gente ci ha premiato dandoci fiducia". Da Lampedusa (da dove viene la pasionaria siculo-leghista Angela Maraventano, prossima senatrice) a Bergamo, è l'ora del Carroccio. "Abbiamo chiesto la presidenza di Lombardia e Veneto, e Berlusconi ci ha già detto di sì", mette le mani avanti, a metà pomeriggio, Roberto Calderoli.

Clima di entusiasmo contagioso, con molte aspettative, pare ben riposte, in vista della "quadra" di governo. "La Lega è forte", è stato lo slogan ripetuto da Bossi fino a ieri, fino allo spoglio delle urne. Racconta un dirigente leghista di lungo corso che "un botto così, nemmeno nel '96. Perché allora eravamo una forza di protesta, facevamo casino, c'era Tangentopoli, eravamo tanti, sì, ma ci vedevano duri, sporchi e cattivi. Oggi - dice - siamo una forza di governo che si assume grandi responsabilità, che realizzerà il programma forse più moderno che possa vantare oggi questo Paese".

(16 aprile 2008)

da repubblica.it

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