WALTER VELTRONI ...

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«Serve un pluralismo vero, no a un semplice scontro tra partiti»

Veltroni: liste miste o la gente non vota

Il sindaco di Roma: non sia solo una corsa tra un candidato dei Ds e uno della Margherita, bisogna coinvolgere la società civile 
 
 
ROMA - Largo consenso dal comitato promotore del Pd sulla scelta di collegare le liste in corsa per l'assemblea costituente alla mozione politica di questo o quel (futuro) segretario, ma una voce si è levata fuori dal coro. È quella del sindaco di Roma, Walter Veltroni, che, di fronte alle decisione del comitato dei 45, a quanto riferito da più fonti, ha osservato: «Bisogna trovare il modo di non avere una verticalizzazione di proposte di Ds e Margherita» ma, ha osservato, sarebbe meglio arrivare ad una serie di liste che «mescolino» esponenti della Quercia, dei Dl e della società civile, altrimenti «la società civile non verrà a votare».
PLURALISMO «VERO» - Il rischio, ha ragionato Veltroni secondo quanto riferito da alcuni partecipanti alla riunione del comitato 14 ottobre nella grande sala al secondo piano di piazza Santi Apostoli, è quello di rendere l'elezione della costituente uno scontro tra partiti: «Così succederà - ha aggiunto- anche se ci saranno due soli candidati a segretario», uno di area Ds e l'altro proveniente dalla Margherita. Per il sindaco di Roma, invece, c'è bisogno di «pluralismo vero», che includa «tutti i partiti che oggi sono qui e la società civile che ha già aderito e che vorrà aderire».

18 giugno 2007
 
da corriere.it

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19/6/2007
 
I dolori del giovane Walter
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Come verrà spiegato al «popolo dell’Ulivo» che il leader che con Prodi e più di ogni altro ha predicato la nascita del Partito democratico - e che qualunque sondaggio indica come il preferito per la leadership del nuovo soggetto politico - nemmeno si presenterà (salvo improbabili colpi di scena) al giudizio dei cittadini-elettori il 14 ottobre? E poi: quanto risulterà credibile e vera l’investitura popolare del primo segretario del Pd, se Walter Veltroni non parteciperà alla contesa? Detto in due parole, è questo il nuovo tormentone da ieri in gestazione nel triangolo Ds-Margherita-società civile. Perché è precisamente questo quel che dovrebbe accadere il 14 ottobre: tutti alle urne per scegliere tra Bersani e Franceschini, magari tra Rutelli e Fassino o ancora tra Anna Finocchiaro ed Enrico Letta.

Ma con l’impossibilità di votare per Walter Veltroni, democratico ante litteram che però non si presenterà ai nastri di partenza. In sua vece, probabilmente, si proporranno per la guida del nascente partito Giovanna Melandri o Luca Zingaretti, perché i tanti veltroniani d’Italia a qualche candidato segretario dovranno pur collegare le loro liste, se vorranno entrare a far parte della futura Assemblea costituente.

Può sembrare paradossale ma è questo lo scenario più accreditato dopo la svolta e l’accelerazione impresse ieri pomeriggio all’intera vicenda dal Comitato dei «magnifici» 45: voto popolare a candidati presenti in liste collegate a un candidato segretario, e poi ratifica della scelta del leader nell’Assemblea costituente. Alla fine, infatti, è passata la linea di chi chiedeva per il Partito democratico un segretario vero e autorevole, scelto dai cittadini: proprio la soluzione meno gradita a Veltroni. Di qui a un momento vedremo il perché dell’opposizione del sindaco di Roma a una tale procedura. Per intanto si può però annotare che, in un impeto di saggezza (e di coraggio), l’Ulivo ha scelto la via della massima apertura alla società civile in un passaggio dal quale dipende per intero il suo futuro: un segnale di vitalità, insomma, dopo mesi di difficoltà di ogni genere e di autoreferenzialità spinta all’estremo.

Ma torniamo al paradosso iniziale ed a Walter Veltroni. A giudizio più o meno unanime (e naturalmente più o meno malizioso) in tutta la fase di definizione di regole e percorsi per la nascita del Pd, il sindaco di Roma si è mosso sulla base di una scelta e di un obiettivo: la scelta consiste nella decisione di rimanere primo cittadino della Capitale il più a lungo possibile (il suo mandato scade nel 2011) non essendo per altro particolarmente interessato ad un ritorno alla «vita di partito» quanto - piuttosto - alla candidatura a premier alle prossime elezioni politiche; l’obiettivo, di conseguenza, sarebbe stata l’elezione di un segretario del Pd «debole» o comunque senza velleità (e possibilità) di contendergli la premiership quando verrà il momento di scegliere il successore di Romano Prodi. Se questi sono l’obiettivo e la scelta di Veltroni, è indubbio che l’elezione diretta (o semi-diretta) del neo-segretario non è per lui un buon affare, essendo l’investitura popolare - notoriamente - un potente e incontrollabile propellente. E sarebbe precisamente per questo, secondo i maliziosi, che ieri il sindaco di Roma avrebbe tentato di «raffreddare» la decisione del Comitato dei 45, prospettando una serie di controindicazioni (in parte fondate) all’elezione diretta del primo segretario del Partito democratico. Controindicazioni però rigettate sull’altare della necessità di uno «scatto» che restituisca appeal e passione ad un progetto che andava via via appassendo e perdendo l’originario interesse.

La linea scelta da Veltroni è stata contestata da più parti e con più argomenti. Ieri, prima della riunione del comitato dei 45, Arturo Parisi (sponsor da sempre dell’elezione diretta del segretario) avrebbe invitato il sindaco di Roma a ripensarci: avvertendolo che quando un treno passa bisogna saltarci su, perché non è detto che vi sia una seconda possibilità. Meno concilianti e più aspri alcuni commenti degli antichi amici-nemici dalemiani: «Veltroni spieghi cosa vuol fare nella vita - argomentava ieri uno dei collaboratori del vicepremier -. Il sindaco di Roma? Il segretario del Pd? Il candidato premier? Si candidi, si può discutere di tutto: l’unica cosa che non è accettabile è che pretenda di dettare tempi e modi della nascita del Pd in rapporto alle sue personali convenienze».

In effetti, Veltroni non è apparso molto convincente, ieri, nelle obiezioni mosse al metodo dell’investitura popolare. «C’è il rischio di alimentare una competizione Ds-Margherita», ha spiegato: gli è stato obiettato, naturalmente, che la temuta competizione potrebbe a maggior ragione svilupparsi con la scelta dell’elezione indiretta (cioè da parte della sola Assemblea costituente) del segretario. «Dobbiamo stare attenti a non creare dualismi con Prodi, perché questo indebolirebbe il governo», ha poi aggiunto. Obiezione, questa, apparsa ancor meno spiegabile, in considerazione del fatto che è stato Prodi stesso a proporre che siano i cittadini ad eleggere il leader del Pd. La «resistenza veltroniana», insomma, ieri non ha retto alla voglia di rimettere in discesa il carro del Partito democratico. Ma probabilmente non è finita qui. E non resta che aspettare le prossime mosse del candidato-ombra: che è pur sempre il leader al quale sono affidate le maggiori chances di riscatto e risalita di un centrosinistra disorientato e sotto tiro.

da lastampa.it

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D'Alema: «Elezioni se c'è la crisi».

E candida Veltroni


Massimo D'Alema a Ballarò«Walter Veltroni è un potenziale segretario del Partito Democratico ma anche un candidato del centrosinistra alla guida del governo del paese, che forse è di più». Per Massimo D'Alema, ospite di Ballarò, «è un clichè da aggiornare» quello di chi pensa che tra lui e Veltroni i rapporti non siano buoni. «Questa mattina - aggiunge - abbiamo anche preso un caffè insieme. Penso che Veltroni, anche perché è fuori dalla politica nazionale ed è direttamente investito dai cittadini, sia una risorsa del centrosinistra. e sono otto anni almeno che non polemizzo con lui».

«Non ho commesso alcun errore, nel modo più assoluto». Il vicepremier e ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, nel corso della registrazione di Ballarò, risponde così al conduttore che gli chiede se ritenga di aver sbagliato riguardo alla vicenda Unipol e alle intercettazioni che lo riguardano.

D'Alema condivide il giudizio dato alcuni giorni fa dal premier Romano Prodi circa «l'area irrespirabile» e aggiunge: «Penso ci sia un clima preoccupante e rischiamo di pagare un prezzo alto come Paese. C'è un clima di confusione - denuncia il vicepremier - perché le persone credono che questi fatti siano avvenuti adesso mentre si tratta di eventi di due anni fa, si tratta di archeologia» e a suo avviso «ridiscutere di cose vecchie è un'altra malattia del nostro Paese».

Il vicepremier critica il fatto che «vengano lanciate terribili accuse mentre poi non succede nulla, perché non hanno fondamento e la gente può chiedersi come mai nessuno venga punito. Tutti - è il suo invito - dovremmo ricondurre le questioni alla loro dimensione reale e se qualcuno ha commesso degli errori, anche moralmente, allora paghi».

«Io non ho fatto nulla nel modo più assoluto - insiste - non ho telefonato a nessuno, ho solo risposto ad una persona che chiedeva di parlare con me», ma «quello che ho detto non ha rilevanza neanche etica».


Pubblicato il: 19.06.07
Modificato il: 19.06.07 alle ore 20.14   
© l'Unità.

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Gianni Borgna: «Plausibile una chiave legata al romanzo Petrolio»

Veltroni e la controinchiesta su Pasolini

Il comune di Roma ai pm: Pelosi fu soltanto un'esca, ucciso da un gruppo.

Già raccolte 700 firme 
 

ROMA — E adesso? Adesso che tentano di stanarlo con una proposta impossibile — fare il sindaco di Roma e insieme il segretario del primo partito di un governo in grave difficoltà — Walter Veltroni anziché rifugiarsi in Africa si inoltra nel proprio passato. E riapre un caso degli anni in cui iniziava la sua vita politica: l'assassinio di Pier Paolo Pasolini. Nel 1973 un gruppo di ragazzi della Fgci romana andò a trovare lo scrittore, che dal partito tempo prima era stato espulso per indegnità morale, e che era stato molto duro con il movimento studentesco.

Erano il capo dei giovani comunisti romani, Gianni Borgna, il responsabile culturale, Goffredo Bettini, un intellettuale destinato ad altri lidi, Nando Adornato, e il più giovane di tutti, un diciottenne con i capelli lunghi fin sulle spalle e un grande paio di occhiali.

Racconta Walter Veltroni: «Credo di essere stato il primo del gruppo ad aver conosciuto Pierpaolo, al tempo del Sessantotto. Avevo 13, 14 anni, ero nel comitato di base del liceo Tasso, e Pasolini veniva a sentire le nostre riunioni. Era molto attento, molto curioso di quanto pensavamo e scrivevamo.

Il rapporto continuò. Eravamo un bel gruppo: con Adornato, che dirigeva la nostra rivista Roma giovani, c'erano Marco Magnani, Fabrizio Barca, Giorgio Mele. Pierpaolo venne con noi in piazza di Spagna a manifestare contro la garrota e la pena di morte...».

Pasolini comincia a prendere parte alla vita della Fgci romana. Va al festival di Villa Borghese del '74, poi a quello del Pincio del '75, dove tiene un dibattito fino alle 2 del mattino con 5 mila persone tra cui, seduto in prima fila accanto a Petroselli, Borgna, e Veltroni, c'è Fabrizio De André, che ha appena finito il suo primo grande concerto. Nel giugno di quell'anno, Pasolini appoggia la candidatura di Borgna alle amministrative con un appello a votare Pci — «il paese pulito nel paese sporco...» — pubblicato sull'Unità, dopo che la nomenklatura del partito aveva seguito con sospetto il dialogo tra i giovani e lo scrittore.

A novembre, Pasolini è ucciso. Dal diciassettenne Pino Pelosi «in concorso con ignoti», come stabilì il tribunale dei minori con una sentenza impugnata dalla magistratura ordinaria, secondo cui gli «ignoti» non erano mai esistiti. Due anni fa, uscito dal carcere, Pelosi parlando a Raidue ha ritrattato la confessione dell'epoca: a uccidere sarebbe stato un gruppo che avrebbe minacciato di morte lui e i suoi genitori se avesse parlato. Il Comune di Roma, per volontà di Veltroni e di Borgna, si è costituito parte offesa. E quando il caso è stato subito richiuso, il Comune ha affidato a Guido Calvi, senatore e storico avvocato del partito, una controindagine. Che ora è pressoché conclusa, e sarà depositata in procura, per chiedere una nuova inchiesta e un vero processo.

Allo stesso scopo ieri mattina, mentre all'Auditorium infuriava la contestazione a Prodi, nell'attigua libreria Borgna insieme con Andrea Camilleri, Mario Martone, Dacia Maraini e Carla Benedetti presentava le 700 firme raccolte tra letterati di tutto il mondo, da Bernard-Henri Lévy in giù.

 
«Sono convinto che la morte di Pasolini sia un punto-chiave della vicenda italiana — dice Veltroni —. È giusto, per la memoria di Pierpaolo e per quanto è stato tolto a Roma e al paese, che si faccia luce. Il delitto dell'idroscalo è un mistero, indagato in libri e film. Ora noi chiediamo alla magistratura di andare sino in fondo». Non si tratta, sostiene il sindaco, di alimentare la retorica del doppio Stato, di evocare il fantasma delle dietrologie, o anche solo di «farsi un'idea» diversa da quella ufficiale. «Come in tutti questi casi, "farsi le idee" è compito degli inquirenti. Io posso dire qual è la mia impressione: le cose non sono andate come ha raccontato Pelosi. Se non altro per il fatto che ha cambiato troppe volte versione. È un'impressione diffusa; per questo siamo in molti a chiedere di indagare in profondità su una morte strana, oscura».

Il motivo per cui Veltroni tiene molto a riaprire il caso non riguarda solo la giustizia e la storia, ma la politica. «La fine di Pasolini fu uno degli spartiacque di quella stagione. Io non ho una visione tutta negativa degli Anni Settanta, anzi. Gli Anni Settanta sono divisi in due: una prima parte, che dura fino a metà del '76, è di fatto il proseguimento degli Anni Sessanta, una stagione di grande fermento e creatività. Certo, la violenza politica si era già manifestata, c'erano stati piazza Fontana, l'Italicus, piazza della Loggia, ma il paese aveva saputo reagire, la società italiana era percorsa da energie vitali. Poi, quasi di colpo, le cose cambiano. Tra il 20 giugno '76 e il festival del parco Lambro passano poche settimane, ma il clima è già completamente diverso. Comincia un decennio orribile, quello tra il '76 e l'86, per il quale davvero non esiste una definizione più opportuna che anni di piombo. Un periodo grigio, carico di odio, di sangue. L'assassinio di Pasolini è uno degli episodi che segnano il cambio di stagione. Un motivo in più per scoprire la verità. La notizia fu uno choc, al punto che ne ho un ricordo confuso: mi telefonarono a casa, il mattino dopo. Andammo nella sua casa di campagna, a Chia, a girare materiale d'inchiesta, c'era anche Bernardo Bertolucci...».

Ma quali sono gli elementi nuovi sulla morte di Pasolini? Borgna (che insieme a Carlo Lucarelli ha firmato l'inchiesta pubblicata da MicroMega due anni fa) ha seguito la controindagine di Calvi passo dopo passo. Era presente quando Martone filmò il dialogo tra il senatore e Sergio Citti. Poco prima di morire, Citti confermò come quella sera Pasolini avesse appuntamento alla stazione Termini con i ragazzi che avevano rubato frammenti del suo ultimo film, Salò. «Il racconto di Citti e la nostra ricostruzione combaciano con le carte del 1975, in particolare con gli interrogatori degli amici di Pelosi — dice Borgna —. È falso che Pelosi non avesse riconosciuto Pasolini. I suoi compagni raccontano di aver scherzato con lui, di avergli chiesto di fare un giro in macchina, di avere una parte nel prossimo film. Pierpaolo non si era fidato, aveva messo la sicura alla portiera e abbassato solo un poco il finestrino, per dire che aveva un appuntamento.

Non fu Pasolini ad adescare Pelosi; semmai, il contrario. Pelosi fu l'esca, non il carnefice. Pasolini fu massacrato prima ancora che lo schiacciassero con l'auto, aveva undici fratture ed era una maschera di sangue; il suo presunto assassino non aveva neppure una macchia sul vestito chiaro. Sulla macchina, incredibilmente lasciata all'aria aperta dagli inquirenti di allora, c'erano un maglione verde, un plantare e tracce di sangue che non appartenevano né a Pasolini né a Pelosi. È palese che si è trattato di un delitto di gruppo, e premeditato — conclude Borgna —. Resto convinto che sia plausibile anche una chiave politica, legata al romanzo che Pierpaolo stava scrivendo, Petrolio, in cui le sue accuse al sistema erano collegate al caso Mattei. Ma di questo non abbiamo trovato prove inconfutabili. Il suo testamento resta però l'ultima intervista, affidata a Furio Colombo, cui Pasolini aveva suggerito questo titolo: "Siamo tutti in pericolo"».

Aldo Cazzullo
20 giugno 2007
 
da corriere.it

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La Nota
Massimo Franco

L'improvvisa concordia insospettisce il candidato 

 
L'invito a candidarsi ha il sapore quasi di un plebiscito. Ma forse è proprio per questo che Walter Veltroni esita a dire di sì subito. E continuerà ad osservare quanto accade nel centrosinistra, prima di decidere. Per il sindaco diessino di Roma, l'improvvisa concordia con la quale in primo luogo il vertice dei ds lo spinge a fare il segretario del Partito democratico, è insieme lusinghiera e sospetta. C'è la percezione di una difficoltà radicata e diffusa; e la corsa a spendere quanto prima quella che viene considerata «una risorsa», per dirla col vicepremier Massimo D'Alema.

Fra i soci fondatori del Pd, Margherita e Ds, si va affermando una logica «da ultima spiaggia». E questo giustifica il paragone fra la candidatura veltroniana e la figura di Benigno Zaccagnini, segretario di una Dc disperata nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso. A farlo è stato Marco Follini, ex democristiano, poi Udc, approdato nell'Unione. «Veltroni scioglierà abbastanza presto l'incertezza» assicura D'Alema. «Dipenderà da lui valutare. È sindaco e questo comporta un'analisi seria. Ma non lascerà passare del tempo». Eppure, l'incontro che ieri «la risorsa » ha avuto con Romano Prodi a Palazzo Chigi conferma una partita aperta. La fretta di chiudere il cerchio con una segreteria «forte» finisce per sottovalutare le incertezze sul modo di eleggere il leader del Pd; e le insidie di un tiro al bersaglio fra candidati, favorito dalle tensioni tuttora latenti fra Ds e Margherita. E rischia di esaltare un metodo di cooptazione da parte di una nomenklatura logorata.

È il timore di un abbraccio soffocante a suggerire cautela a Veltroni. Il fatto che per spiegare le sue riserve sia andato da Prodi, conferma una strategia attenta al destino e agli orientamenti del premier; preoccupata dalla prospettiva che la legislatura precipiti fino a costringere il Quirinale a sciogliere il Parlamento e ad indire le elezioni già nel 2008; ma anche decisa a tenere conto della parola data a chi l'ha eletto a Roma con oltre il sessanta per cento dei consensi. Per questo, se alla fine spunterà la candidatura a leader del Pd, è improbabile che Veltroni lasci il Campidoglio.

Il centrosinistra ha bisogno di tempo, per sperare di recuperare il proprio elettorato; e il nuovo partito e il suo segretario, per accreditarsi. Rimane da capire se alla fine l'assemblea del 14 ottobre permetterà di superare le incognite che impediscono un «sì» immediato. E soddisferà almeno alcune delle condizioni che si è imposto. Ma quel punto, sarà solo all'inizio di un percorso segnato dalla tenuta del governo; e presidiato da un Berlusconi che scommette sul voto anticipato. E già da mesi bersaglia «il malgoverno» capitolino, convinto che sarà Veltroni l'avversario da battere.
La fretta di trovare un leader del Pd sottolinea le difficoltà del centrosinistra

Massimo Franco
21 giugno 2007
 
da corriere.it

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