MONDO ULIVO (e dell'Ulivismo).

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14/10/2007 (8:17)

Pier Ferdinando Casini "Ai moderati dell'Ulivo dico: alzate la testa"
 
"Votiamo insieme contro i radical"

ANTONELLA RAMPINO


ROMA
Giornata di contatti e telefonate, per Pier Ferdinando Casini: dal segretario della Cisl Bonanni, a Luca Cordero di Montezemolo. Ma non, assicura ridendo, con Lamberto Dini. Chiuso il telefono, scuote la testa. «Già avevamo una finanziarietta di fine legislatura, che disperde risorse in mille mance. Adesso, con una pratica senza precedenti, si modifica un accordo sul welfare che ha già avuto il via libera di milioni di lavoratori». Il leader dell’Udc, e di quella che Prodi una volta chiamava «la seconda opposizione», ascolta il telegiornale, e lo sconforto diventa una mezza rabbia. «E’ una vera falsità sostenere, come ha fatto Prodi, che le modifiche non sono sostanziali: bisognerebbe chiederlo ai lavoratori stagionali che pagheranno pesantemente le modifiche fatte al Protocollo». Per cui «noi dell’Udc all’interno del gioco parlamentare intendiamo bocciare quelle modifiche che la sinistra ha imposto al Consiglio dei ministri. Cercheremo una convergenza con i moderati del centrosinistra, che dall’ultrasinistra si sono presi un calcio in faccia e che dovranno così dimostrare la loro coerenza. Mi auguro che Dini e gli altri battano un colpo».

Casini, si prepara ad impallinare il governo, in sodalizio con settori centristi della maggioranza?
«Di certo non daremo una mano a Prodi, questo glielo posso assicurare. Questa Finanziaria è una grande occasione persa, e un’opposizione seria non fa la bella statuina. Ogni giorno che passa si vede che Prodi è sotto scacco della sinistra estrema. Presenteremo anche dei nostri emendamenti, che spero possano ottenere il più largo consenso».

Perché è così impegnato sul disegno di welfare?
«Perché ci sono fatti gravissimi. Ci sono state consultazioni con le parti sociali, sindacato e Confindustria. Poi, senza coinvolgere né gli uni né gli altri, in Consiglio dei ministri si è cambiato il Protocollo, e lo si è fatto dopo che milioni di lavoratori si erano esposti approvandolo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Una follia. L’avesse fatto un governo di centrodestra, l’avrebbero preso per un colpo di Stato».

Nasce il Partito democratico. Lei conosce bene Veltroni: si aspetta che cambi l’alleanza a sinistra dei riformisti?
«E’ chiaro che dal 15 ottobre il Partito democratico cercherà di affrancarsi dalla sinistra, mentre il governo è sempre più subalterno. Veltroni si troverà davanti a una scelta. O sostenere un governo al suo massimo indice di impopolarità, o liquidarlo, operazione assai difficile. Poi, come dato soggettivo, c’è il fatto che Veltroni rappresenta al meglio il piacionismo politico...».

Cosa che accade anche a tanti altri politici...
«Infatti. Però a un certo punto si deve passare dalle parole ai fatti. Se uno parla di modernizzazione del Paese, prima o poi deve affrontare il tema del nucleare, il rapporto col sindacato, dire se sta col ministro o con i trecentomila studenti che manifestano contro Fioroni per la reintroduzione degli esami di riparazione...»

E anche pronunciarsi sul sistema elettorale, sul sistema tedesco per il quale invece Veltroni nutre riserve?
«Si sa che io sono interessato a quel tipo di legge elettorale. Ma sono anche ormai oggettivamente disinteressato. E’ un problema che riguarda il sistema politico: se il Partito democratico rappresenta la continuità del prodismo dice no al sistema tedesco, e va avanti così. Anche andando al referendum. Il sistema elettorale è la cartina di tornasole del grado di discontinuità che Veltroni ha rispetto a Prodi».

C’è anche chi dice sia lei, Casini, un ostacolo sulla via di quel tipo di legge elettorale. Sarebbe disponibile a lasciare il centrodestra in nome di un sistema per il quale il partito che lei guida si è impegnato con una decisione congressuale?
«Mi sembra davvero una pretesa singolare subordinare un nuovo sistema elettorale a supposte convenienze politiche. Il sistema tedesco richiede un riposizionamento di tutti, non solo nostro».

C’è stata una manifestazione di Alleanza nazionale su Finanziaria e sicurezza, cui lei ha aderito solo «idealmente». Perché? Per non trovarsi in piazza con croci celtiche e saluti romani, oltre che a striscioni contro la sua persona?
«Figurarsi, striscioni creativi ce ne sono in tutte le manifestazioni. Ho aderito idealmente perché il tema merita un grande sforzo, e mi è sembrata una bella manifestazione, piena anche di proposte e non solo di proteste. E’ un tema nobile e serio, e sul quale pure il governo Prodi si comporta male. Non è solo il fatto che il famoso pacchetto Amato non esiste, nessuno ne sa niente, viene pure rimandato da un Consiglio dei ministri all’altro per i veti dell’ultra-sinistra. E’ che riforme a costo zero non ce ne sono. Noi presenteremo degli emendamenti alla Finanziaria perché i fondi stanziati per la sicurezza sono assolutamente insufficienti. Il Siulp, che è il sindacato della polizia, già la prossima settimana farà un appello a tutte le forze politiche. E’ un’idea alla quale ho lavorato personalmente con gli amici della polizia, e che mi auguro avrà il più largo consenso: bisogna ripristinare i fondi, o ci saranno 7-8mila poliziotti in meno sulla strada ad affrontare i criminali».

da lastampa.it

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Ulivismo nero

Nelle giornate che hanno preceduto – e propiziato – la prima crisi del secondo governo Prodi sono riemerse al suo interno due linee politiche inconciliabili, esattamente come accadde nell’ottobre del ’98, al tempo della seconda crisi del primo governo Prodi. Ma quel conflitto, in verità, non è mai venuto meno. Semplicemente, a partire dall’estate del 2003, quel conflitto è passato – per dirla con parole antiche – dalla guerra di movimento alla guerra di posizione. Sin dalla nascita dell’Ulivo come coalizione elettorale nel 1995, infatti, al suo interno si sono confrontate due opposte linee strategiche, fondate su due opposte letture della crisi degli anni Novanta.
Per Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, dopo il collasso del sistema politico nel ’92-93 si era aperta in Italia una questione democratica, che aveva avuto nella vittoria della destra populista guidata da Silvio Berlusconi il suo esito naturale. In questo senso l’Ulivo era dunque ai suoi occhi l’alleanza delle forze democratiche chiamate a ristabilire il primato della politica, contrastando la campagna di delegittimazione dei partiti animata dagli spiriti animali di una parte cospicua della società e delle classi dirigenti italiane. Da chi, dopo avere felicemente convissuto nel precedente sistema politico con i partiti e con le loro correnti maggiormente responsabili della crisi – godendo delle loro protezioni e dei loro favori, ricambiandoli – al momento di pagare il conto puntava a far saltare il banco, passando inopinatamente dalla parte dell’opposizione al sistema, rappresentando attraverso i propri giornali un sistema politico corrotto in cui tutti erano colpevoli allo stesso modo. Un sistema politico – la celebre partitocrazia – oppressore di quella virtuosa società civile di cui essi si proclamavano alfieri.
Per Arturo Parisi, al contrario, l’Ulivo era la prosecuzione e in un certo senso il compimento della battaglia per il rinnovamento della politica cominciata con i referendum Segni. La campagna contro i partiti, la sua saldatura con le inchieste giudiziarie e infine l’adozione di un sistema elettorale maggioritario erano le fondamenta su cui ricostruire un sistema politico fondato sui principi della “democrazia governante”. L’obiettivo era il primato del governo sulla mediazione parlamentare, attraverso le opportune riforme istituzionali, per arrivare a un sistema sostanzialmente bipartitico. Sciogliendo definitivamente all’interno dei due partiti-coalizioni quello che restava dei partiti tradizionali. Era il primato della società civile sugli apparati, tenuti sotto lo schiaffo permanente del sospetto nelle ricorrenti campagne incentrate sulla questione morale, svuotati dall’interno attraverso meccanismi di selezione dei dirigenti incardinati sullo schema delle primarie a tutti i livelli.
L’apparente inconciliabilità delle due posizioni si manifestava sin dall’inizio. Inevitabilmente: la prima puntava a ricostruire una democrazia dei partiti, la seconda a cancellarla per sempre dalla storia d’Italia. All’indomani della caduta di Romano Prodi e dell’ascesa di Massimo D’Alema, nell’ottobre del ’98, tale conflitto a lungo covato esplodeva finalmente in tutta la sua portata distruttiva. Gli strascichi e le macerie di quella guerra civile all’interno della sinistra italiana sono ancora sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno di farne l’elenco.
Nulla sembra essere cambiato quando nell’estate del 2003, ancora presidente della Commissione europea, Romano Prodi chiede come condizione per tornare in Italia alla guida della coalizione di centrosinistra una lista unica di tutte le forze dell’Ulivo. Ma ecco che Massimo D’Alema gli risponde con la proposta di una lista delle forze che ormai da anni condividono una stessa linea politica, che può dirsi riformista – Ds, Margherita, Sdi – e propone che non sia solo una lista elettorale, ma il primo passo per la costruzione di un nuovo partito. E proprio questo è il compromesso con cui si chiude quella lunga guerra civile che oggi qualcuno vorrebbe riaprire.
Possiamo tralasciare le complicate vicende della lista unitaria che si sono sviluppate nel frattempo, con le spregiudicate manovre di tanti protagonisti. Questo sito internet è nato anche per quell’obiettivo, alla fine del 2003, e quelle vicende le ha raccontate in dettaglio, nella convinzione che la costruzione del Partito riformista – come si diceva allora – fosse l’unico modo di uscire dagli anni Novanta. E il Partito democratico continua a sembrarci una sintesi tra le posizioni dalemiana e ulivista di gran lunga preferibile a ciascuna delle due.
Dinanzi alla possibilità di chiudere felicemente quella stagione, però, riemergono oggi i fantasmi degli antichi contendenti: da un lato i nuovi difensori dell’identità socialista, il correntone diessino innanzi tutto; dall’altro una sorta di ulivismo nero, che vede uniti nella lotta contro il Partito democratico che c’è – o quantomeno potrebbe esserci – Arturo Parisi e Walter Veltroni. Attraverso un nuovo referendum, entrambi aspirano a disarticolare l’aggregazione Ds-Margherita, per tornare a quello che Veltroni ha evocato come “lo schema del ’96”: un partito democratico i cui confini vadano da Mastella e Di Pietro a Pecoraro Scanio e Cossutta, tenuto insieme – sul modello del comune di Roma – da una legge elettorale e da opportune riforme istituzionali che consentano al capo del governo, direttamente eletto dai cittadini, di tenere in pugno la sua maggioranza con la minaccia delle elezioni anticipate. Uno schema che in noi suscita diverse perplessità nella sua concreta applicazione ai comuni, specialmente a Roma, ma che assume un carattere semplicemente inquietante se proiettato su scala nazionale. In questo schema, evidentemente, la partecipazione democratica tanto solennemente invocata si ridurrebbe in realtà a un plebiscito per il leader in occasione delle primarie e poi del voto. E così, con sorprendente sincerità, tale proposta viene presentata dall’impaziente sindaco della capitale: un premier che sia garante del programma con cui si presenta agli elettori perché dotato dei poteri per realizzarlo, e dopo cinque anni se ne riparla. Tanto varrebbe chiudere giornali e partiti, rassegnarsi all’idea che discutere e organizzarsi per i propri diritti e per i propri interessi sia non solo inutile, ma addirittura dannoso al buon funzionamento della democrazia. Una democrazia governante perché basata sul principio della delega in bianco al leader. Ma anche una democrazia in cui i gruppi economici e d’interesse capaci di influenzare il voto e l’opinione pubblica per altri canali al di fuori del gioco politico democratico – così imbrigliato – continuerebbero naturalmente a contare. Anzi, conterebbero più che mai, senza l’impaccio costituito dai partiti, o più semplicemente dalla politica, e dovendo trattare di fatto con una sola persona. Non per nulla Walter Veltroni gode di ottima stampa. ■


da:   http://www.leftwing.it/index.php?id=1305

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Un Veltroni sempre pericoloso fra ulivismo e riformismo       

di Pietro Armani     

lunedì 30 luglio 2007 


Lo show politico-mediatico di Walter Veltroni nella sala gialla del Lingotto di Torino è stato senza dubbio il più importante avvenimento dello stagnante quadro politico italiano di questi ultimi mesi, al di là dei giudizi che si possono dare sui contenuti del suo dicorso di 95 minuti alla presenza di una platea osannante.

Veltroni non ha detto effettivamente se accetta la candidatura di leader del costituendo Partito Democratico, perché ovviamente attendeva la definizione finale delle regole per l’elezione dell’Assemblea costituente (poi avvenuta dopo la prima settimana di luglio) e, quindi, l’emergenza o meno di candidature alternative alla sua (per ora non emerse o comunque scoraggiate) per le elezioni primarie del 14 ottobre.

Ma è come se quella candidatura da lui fosse stata già accettata, vista la coralità dei consensi, soprattutto fra i DS ma non solo fra essi, che ha accompagnato prima l’affacciarsi del suo nome e, poi, i giudizi positivi sul suo discorso di Torino, considerato da quasi tutti nell’Ulivo un grande programma per il rilancio del centrosinistra, anche al di là delle ambiguità che in esso si sono largamente annidate. Ambiguità che da Veltroni, del resto era comunque facile attendersi, data la sua figura politica e il suo passato (ad un tempo di leader post comunista e pseudo americano, ma anche di ispiratore e capo “in pectore” del famoso Correntone della sinistra DS al congresso che elesse segretario Piero Fassino).

Sul Corriere della sera del 25 giugno scorso il professor Angelo Panebianco, cercando di immaginare anticipatamente le linee del discorso di Veltroni al Lingotto, ha scritto che egli avrebbe potuto parlare alternativamente da “leader ulivista” oppure da “leader democratico”.

Nel primo caso, Veltroni avrebbe scelto di usare il PD come semplice rampa di lancio per il governo in continuità con le scelte di Prodi, pur rinunciando così a dare una vera caratterizzazione riformista al nuovo soggetto politico.

Con le ulteriori conseguenze, in questa ipotesi, di non poter recuperare al centrosinistra un valido rapporto con il nord del Paese (proprio compromesso dalla politica del governo Prodi) e di non obbligare l’opposizione di centrodestra ad abbandonare la sua comoda rendita di posizione per arrivare finalmente ad un proprio serio chiarimento interno, atto a superare gli errori commessi purtroppo anche dal governo Berlusconi e, quindi, a superare criticamente le cause della sua sconfitta elettorale dell’aprile 2006.

Se, invece, Veltroni avesse scelto nel suo discorso di Torino la linea di una “leadership democratica”, con pronunciamenti netti sulle cose che contano (pensioni, DPEF, riduzioni fiscali, TAV, ordine pubblico, collocazione internazionale dell’Italia coerente con le posizioni occidentali, ecc.), avrebbe dato al PD una vera caratterizzazione riformista e alla sua stessa figura di capo “in pectore”, ma sarebbe andato subito ad uno scontro con la sinistra massimalista con ovvie conseguenze negative sul governo in carica. Pur potendo però recuperare – secondo Panebianco – al momento della campagna elettorale, un rapporto col mondo della sinistra antagonista, ma da una nuova posizione di chiarezza e di forza.

Nel suo affettivo discorso di Torino Walter Veltroni, tuttavia, non ha seguito in concreto né l’una né l’altra delle due linee indicate dal prof.Panebianco, perchè ha battuto invece – e come non poteva, conoscendo il sindaco di Roma? – una strada intermedia, un misto di continuismo con Prodi e con la tradizionale linea ulivista, ma di marca soprattutto DS, condito da un riformismo emozionale, prendendo di peso molti temi del centrodestra cari al popolo dei ceti medi, delle partite IVA e dei disagi cittadini in materia di sicurezza e di immigrazione.

Ma la declinazione di questi temi è stata generica, in superficie, pur non negandosi una esposizione carica di ovvio buon senso: tanto da fare colpo (e come non avrebbe potuto) sul presidente di Confindustria e sulla stampa del capitalismo di relazione, che si richiama al patto di sindacato di Mediobanca e a quello della RCS.

Ha detto che non è di buon senso opporsi all’innalzamento dell’età pensionabile, ma si è guardato bene dal criticare la CGIL di Epifani e la sinistra radicale di Bertinotti, Giordano e Diliberto per la rottura, allora, delle trattative col governo sullo scalone.

Ha spezzato varie lance a favore di una riforma costituzionale che dia maggiori poteri al capo del governo, abolisca il bicameralismo perfetto, riduca il numero dei parlamentari e riorganizzi razionalmente il federalismo confuso del vigente titolo V della Costituzione. Ma si è guardato bene dal riconoscere che tali riforme erano già contenute, in definitiva, nella proposta costituzionale del centrodestra varata nel 2005 con la feroce opposizione del centrosinistra, convalidata poi dalla campagna per la bocciatura del referendum conseguente.

Ha perorato la causa di una riforma elettorale che semplifichi gli schieramenti politici italiani, giungendo fino a dire che, in alternativa ad un accordo su di essa, il referendum del prof.Guzzetta sarebbe l’unica soluzione possibile: ma non si è schierato a favore della raccolta delle firme necessarie per ammetterlo. Anzi, successivamente ha teorizzato con i referendari un “appoggio esterno” al referendum: fate bene a raccogliere le firme, auspico che ne raccogliate tante, ma io non firmo per non andare contro una parte della maggioranza di centrosinistra che vede il referendum come il fumo negli occhi.

Un colpo al cerchio ed uno alla botte, dunque. Da Veltroni, specie oggi, non ci si poteva attendere molto di più. Ma, come ha bene sottolineato Oscar Giannino su “Tempi” del 28 giugno scorso, commetterebbe un grave errore il centrodestra se prendesse sottogamba il discorso del sindaco di Roma. Già i riscontri del Corriere della sera e del Sole24Ore dimostrano come il capitalismo relazionale di Piazzetta Cuccia, di Via Solforino e magari delle grandi banche le proprie orecchie le ha drizzate, costruendo sondaggi post-Lingotto lusinghieri per Veltroni e tirate di giacca per il centrodestra che si attarda nei suoi contrasti sulla leadership e si crogiola nella comoda rendita di posizione della opposizione a Prodi.

Sottovalutare Veltroni per il centrodestra potrebbe, dunque, essere pericoloso se non si affrettasse a costruire un proprio forte programma di “rottura” alla Sarkozy, non limitandosi a mobilitare solo le pur benemerite proprie Fondazioni, Ma affrontando finalmente un serio percorso verso il partito unico con Berlusconi, finalmente incontestato, al suo vertice come il solo capace di tenere insieme le tante anime che convivono nell’attuale opposizione al morituro governo Prodi, in preparazione di una prova elettorale forse più vicina di quanto si pensi.

Un Berlusconi al vertice del centrodestra ormai indiscusso anche da Gianfranco Fini, che lo ha dichiarato pubblicamente nel momento in cui ha ventilato anche una ipotesi di sua candidatura a sindaco di Roma, quando Veltroni dovrà per forza abbandonare il Campidoglio per guidare le incerte sorti del Partito Democratico.
 
da  confronto.it

Admin:


... si parla sempre meno.

Sapete perchè?

Tra poche settimane lo sapremo.

ciaooooooooooo

Admin:
Ferrara: Veltroni tra le macerie del prodismo
 

Posso sbagliarmi, ma penso che Walter Veltroni perderà le elezioni. Non si sopravvive alla catastrofe combinata di un governo e di una alleanza politica, alla caduta rovinosa di Romano Prodi e alla scomparsa dell’Unione e dell’Ulivo. Questa però è una previsione facile e molto diffusa. Se vogliamo andare sul complicato, sull’azzardo, si può pensare che, sconfitto nella battaglia per il governo, il capo del Partito democratico vincerà quella per la guida dell’opposizione. Invece di essere buttato giù dal cavallo, Veltroni resterà in sella e, magari con l’aiuto del Cavaliere, farà la sua brava traversata nel deserto fino alla costruzione compiuta di quel soggetto politico nuovo della democrazia italiana che è nei suoi sogni.

Quanti sono contrari al progetto del Partito democratico si dicono difensori della tradizione del socialismo europeo. Ma è un po’ tardi per farsi alfieri di una simbologia e di una forma politica sommersa dal naufragio della vecchia repubblica dei partiti. Dovevano pensarci prima. Che il socialismo europeo possa essere resuscitato dagli eredi del partito comunista e della sinistra democristiana è un’ipotesi che fa sorridere.

Il fenomeno Berlusconi ha imposto un nuovo schema di gioco alla politica e alle istituzioni in Italia. Occorrono anche a sinistra idee e forme nuove capaci di contenere e di dare voce all’Italia che non si riconosce nella cultura, nella prassi e nella classe dirigente berlusconiana.
La vera questione è fino a che punto Veltroni ha capito questa necessità, la crisi traumatica del governo Prodi e della legislatura ha portato a una campagna elettorale vecchia e stanca nei toni, e ha mascherato l’unica vera novità politica degli ultimi 15 anni: l’abbattimento del muro di separazione e di inimicizia fondamentalista, antropologica, fra destra e sinistra. Comunque vada, dopo il voto è di lì che Veltroni e Berlusconi devono ripartire. Un’opposizione misurata e intelligente, capace di costruire un’alternativa e non di perseguire di nuovo lo sfascio, è nell’interesse del vincitore e anche del vinto.

Veltroni non ha rinunciato a battersi, ma è restato leale verso la sua idea di farla finita con la poltiglia neoqualunquista e demagogica del vecchio antiberlusconismo. In questi giorni finali gli argomenti si faranno di nuovo contundenti e assisteremo a qualche sparatoria di moda negli anni scorsi, ma chiunque sappia leggere tra le righe avrà capito che qualcosa è cambiato. Il progetto politico di Veltroni si salverà solo se ci sarà un’intesa generale per una vera modifica del sistema istituzionale e se il Partito democratico non tornerà a essere un’arena per la lotta tra capi e correnti in cui l’ultima parola spetta sempre a chi la spara più grossa contro il «nemico ideologico».

Il Pd deve ridefinirsi intorno alla sua leadership indicando un altro modo di pensare e praticare la politica moderna e riformista che Veltroni dice di avere in mente. Se dovesse prevalere la solita ansia revanscista, ci troveremmo in pochi mesi di fronte a un nuovo fallimento strategico a sinistra. Guardare lontano, inventare un nuovo contenitore del blocco sociale progressista, ricreare le condizioni di una visione per un popolo che si sentirà battuto ed escluso dai dividendi sociali della politica: per Veltroni non sarà affatto facile evitare la ricaduta negli incubi del passato, ma è nel tremendo stridore di denti del dopoelezioni che si vedrà se ha il coraggio di cambiare il codice, il linguaggio di base, la cultura della sinistra. Se sarà finalmente un uomo capace di rottura, Veltroni costruirà qualcosa sulle macerie che il prodismo e la infinita lotta dei capi gli hanno lasciato. Altrimenti si spezzerà.


da panorama.it

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