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Autore Discussione: Fortuna e dannazione di Ennio Flaiano  (Letto 2541 volte)
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« inserito:: Settembre 18, 2008, 11:14:42 am »

Fortuna e dannazione di Ennio Flaiano

 
di Enzo Di Mauro

ROMA (18 settembre) - Forse nessun altro scrittore del Novecento italiano – e, oltre a tutto, di quella generazione: era nato infatti nel 1910 – ha  saputo prendere tanto sul serio e drammaticamente la crisi del romanzo tradizionale quanto l’abruzzese Ennio Flaiano. Sul serio e in forte forte anticipo sui tempi, quasi che quel suo intuito, in apparenza così poco incline a produrre teoria, e quel sentimento del mondo e della vita, sempre acutissimo e insieme dolente, si fossero rivelati al dunque come il miglior campanello d’allarme, certo il più esatto per nettezza e purezza.

Tempo di uccidere – che ha appena compiuto i sessant’anni e che vinse la prima edizione del Premio Strega – rappresentò per lui il benvenuto, l’abbraccio e, insieme, l’addio a una forma letteraria, a un genere. Non ne avrebbe più scritti, Flaiano, di romanzi. In vita pubblicò, a seguire, altri cinque libri: Diario notturno (1956), Una e una notte (1959), Un marziano a Roma (1960), Il gioco e il massacro (1970) e Le ombre bianche, nel 1972, cioè l’anno della morte. Uno scrittore postumo, generosamente votato a un meraviglioso spreco di sé e delle proprie altissime possibilità, che pure seppe esprimere al meglio e in maniera compiuta per lampi e bagliori, in una sorta di intermittenza continua.

Pure, di Flaiano non si è mai smesso di parlare. O, per essere più precisi, a lui non si è mai smesso di alludere. La brillantezza, la citabilità, la piegatura satirica – ecco la fortuna e la dannazione di uno scrittore memorabile non solo e non tanto per la cifra caustica e tagliente, bensì per la profondissima sapienza antropologica circa il carattere, in specie i vizi, degli italiani. Uno sguardo laico, disincantato, impastato di critica e di compassione – anche su questo insiste molto il bel ritratto stilato dallo storico del teatro e commediografo Franco Celenza in Le opere e i giorni di Ennio Flaiano (Bevivino editore, pagg. 250, euro15, 00) che, non a caso, si chiude con una mirabile, struggente risposta dello scrittore, dal valore testamentario, a un intervistatore radiofonico: “Una volta una scrittrice mi citò in un suo libro, e nella traduzione inglese lo scrittore inglese tradusse il mio nome in Ennius Flaianus, credendo che questo Ennio Flaiano fosse uno scrittore latino. Dopo qualche mese ci incontrammo in una trattoria di Roma, ci presentammo e lui rimase molto male, naturalmente, perché non pensava che questo antico scrittore vivesse ancora […] Io forse non era di quest’epoca, non sono di quest’epoca. Forse appartengo a un altro mondo: io mi sento più in armonia quando leggo Giovenale, Marziale, Catullo. E’ probabile che io sia un antico romano che sta qui ancora, dimenticato dalla storia”.

Flaiano parlava della condizione di solitudine, di isolamento, di impopolarità dell’autore satirico. Come un privilegio più che una condanna, egli vive la propria minorità, appunto quel (pasoliniano) sentirsi cittadino e scrittore dimenticato. Se dovessimo domandarci – come pure va fatto – se vi siano oggi eredi di quella tradizione, la risposta non potrebbe che risultare sconfortante. Nel 1971, proprio Flaiano curò per la Rai un programma televisivo intitolato “Come ridevano gli italiani”, che oggi meriterebbe di essere rivisto. Ma oggi la distanza da Flaiano rimane abissale. E’ una distanza spirituale, si potrebbe dire di posizione nel mondo, di misura, di attese, di aspettative. E’ qualcosa che va oltre la qualità dei risultati. Nessuno tra i satirici più bravi e popolari – da Daniele Luttazzi a Beppe Grillo, da Roberto Benigni a Maurizio Crozza, da Neri Marcorè a Corrado e Sabina Guzzanti – saprebbero e vorrebbero condividere, con Flaiano, quel sentimento e quel destino di annichilita solitudine. Essi hanno bisogno di abitare il piccolo schermo, i grandi teatri, addirittura le piazze. Hanno bisogno dell’audience, di un consenso di massa, dell’applauso della cosiddetta società civile. Fanno opinione e spesso agiscono e parlano come leader politici. Pare che non sopportino alcun ostracismo da parte dei palazzi della politica che essi svergognano. Sembra che pensino esattamente l’opposto di ciò che pensava Flaiano, il quale così esortava nel Diario degli errori alla “filosofia del rifiuto”: “Non rispondere a inchieste, rifiutare interviste, non firmare manifesti, , perché tutto viene utilizzato contro di te […] Non adunarti con quelli che la pensano come te, migliaia di isolati sono più efficaci di milioni di no in gruppo. Ogni gruppo può essere colpito, annesso, utilizzato, strumentalizzato”. Il libro di Celenza invita e guida alla lettura di Flaiano in maniera organica, e di fatto apre le celebrazioni per il centenario della nascita che, appunto, cade nel 2010.



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