FEDERICO RAMPINI.

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ECONOMIA    La fuga dei risparmiatori provoca danni incalcolabili all'economia

I rendimenti dei bond statunitensi crollano ai valori del 1941

Paura come ai tempi di Hilter patrimoni a caccia del rifugio


di FEDERICO RAMPINI


 
BISOGNA risalire al Blitz su Londra, il bombardamento ordinato da Hitler nel '41 che parve annunciare lo sbarco tedesco in Gran Bretagna.

Il panico sul mercato del credito ha raggiunto livelli che non si erano più visti dai giorni più bui della Seconda guerra mondiale. Di fronte al crollo di tanti patrimoni la fuga dei risparmiatori verso un "rifugio sicuro" - come i buoni del Tesoro americani - ha prodotto un risultato incredibile: i rendimenti sui Treasury Bonds degli Stati Uniti sono crollati (0,03% i buoni trimestrali) al livello più basso dai tempi dei raid aerei della Luftwaffe sulla capitale inglese. Questo fuggi fuggi verso la sicurezza infligge dei danni incalcolabili non solo alle finanze ma all'economia reale.

Nessuno si fida più della solvibilità della controparte: i prestiti fra banche in Europa e negli Stati Uniti sono quasi congelati. La paura dei crac a catena sta intaccando per la prima volta il valore dei fondi comuni monetari: sono investimenti considerati liquidi quasi come dei conti correnti, tranquilli, "da buon padre di famiglia". Dall'epicentro originario di Wall Street il disastro si è dilatato sprigionando conseguenze sul tenore di vita di intere nazioni. I tassi sui mutui sono rincarati anche in Italia. La recessione americana ha bloccato la crescita europea, colpisce le prospettive di chi cerca lavoro. I fondi pensione, ormai diffusi nel mondo intero compresa l'Italia, sono esposti a perdite pesanti che ridurranno il tenore di vita dei futuri pensionati.

Anche i risparmiatori più cauti sono vulnerabili: la "finanza esoterica" ha infilato i suoi titoli-spazzatura ovunque, gli inviti alla calma dei nostri banchieri e dei nostri assicuratori vanno presi con beneficio d'inventario; sono validi solo fino alla prossima sorpresa. Il Welfare semi-privato si morde la coda: i fondi pensione per tamponare le loro perdite hanno speculato al ribasso nel tentativo di recuperare qualcosa nel crollo generale. Così sono diventati parte di quella "orda selvaggia" che ha contribuito al crac: la banca d'affari Morgan Stanley ha dovuto contattare direttamente i gestori delle maggiori casse previdenziali americane, per scongiurarli di cessare le puntate ribassiste contro il suo titolo.

La speculazione al ribasso è nel mirino delle autorità di Borsa, a cominciare dall'organo di vigilanza di Wall Street, la Securities and Exchange Commission (Sec). Nell'emergenza la Sec ha varato nuove regole contro la "vendita allo scoperto" (l'operazione in cui un investitore prende in prestito un'azione che non ha per venderla subito, poi ricomprarla in futuro scommettendo che costerà meno, e restituire il prestito guadagnando sulla differenza). Le misure tecniche per scoraggiare la speculazione ribassista sono state invocate dall'American Bankers Association e da diversi politici del Congresso di Washington. Tutti a caccia degli "untori", gli avvoltoi che si avventano su nuove prede da scarnificare tra le grandi banche quotate in Borsa.

Ma la speculazione al ribasso in questo contesto è fisiologica e inarrestabile. Dov'erano invece l'associazione dei banchieri, dov'erano i legislatori del Congresso, quando i loro interventi avrebbero potuto colpire le cause primarie di questa crisi? Nel disastro globale di questi giorni ciò che sconcerta è la totale assenza di misure preventive. Questa crisi, nella sua forma acuta e palese è ormai vecchia di 15 mesi: il collasso dei titoli legati ai mutui subprime iniziò a fine giugno del 2007. Inoltre c'è chi l'aveva visto arrivare molto prima, e non si tratta di "profeti" eterodossi e marginali ma di protagonisti centrali del sistema.

Warren Buffett, il secondo miliardario più ricco degli Stati Uniti, gestore del colosso finanziario Berkshire di Omaha, nel 2002 dichiarava: "I titoli derivati sono armi di distruzione di massa". Sul sistema di regole e controlli aggiungeva: "Nessuna banca centrale ha il compito di prevenire i crac a cascata nei derivati e nelle assicurazioni". Dunque uno dei finanzieri più influenti del pianeta, regolarmente chiamato a testimoniare al Congresso e al Senato di Washington nelle audizioni sulla politica economica, aveva avvisato i guardiani del mercato. Più esplicito di così non poteva essere.

Quelle parole oggi suonano come un terribile atto di accusa per governi, banche centrali, authority di vigilanza. Negli Stati Uniti e in Europa. Nulla è veramente cambiato nell'architettura portante della finanza globale, dal 2002 a oggi. Nessuna riforma radicale è stata varata neppure negli ultimi 15 mesi, quando la crisi era ormai visibilissima e stava dispiegando i suoi effetti letali, dapprima al rallentatore, poi in una sequenza sempre più frenetica di catastrofi.

Dare addosso alla speculazione ribassista oggi è una misura patetica, un'autentica presa in giro: è il malato che in un impeto d'ira spezza il termometro che gli sta indicando la sua febbre. Ben altri sono i limiti che andavano decisi. Il mondo dei derivati è rimasto un universo parallelo, un sistema bancario-ombra dove non vigono le stesse regole e gli stessi controlli imposti all'attività creditizia ordinaria. Gli hedge fund continuano a essere una giungla selvaggia. I titoli strutturati, i misteriosi contratti di copertura dal rischio-fallimento che hanno travolto il colosso Aig, tutto questo bubbone è stato lasciato ipertrofizzare. I banchieri centrali si incontravano nei convegni dell'Fmi a Washington, o della Bri a Basilea, e si scambiavano dotte relazioni sulla "necessità" di correggere le falle del sistema. Di quegli studi sono pieni gli archivi delle banche centrali. Compresi i lavori della task force sui rischi sistemici guidata dal nostro Mario Draghi.

Ma le conseguenze concrete finora sono state pressoché nulle. Abbiamo una finanza globale ma non abbiamo una vigilanza globale. I gestori di patrimoni immensi hanno continuato a operare in zone grigie di lassismo, irresponsabilità, impunità. I mercati sono interconnessi a livello planetario, ma le regole e i controlli sono un paesaggio frammentario e balcanizzato. Il panico di questi giorni è un terribile fallimento delle autorità di sistema, che paghiamo tutti.

Anche nelle colpe vi è una gerarchia e un ordine. Il primo imputato è l'establishment americano, da Wall Street alla classe politica legata a filo doppio agli interessi delle grandi lobby del denaro. L'America vive da anni sotto l'egemonia culturale di uno slogan che fu lanciato da Ronald Reagan, poi ripreso dai Bush padre e figlio, infine riciclato con ardore dal duo McCain-Palin in questa campagna elettorale: "Lo Stato non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema". E' questa l'ideologia che ha teorizzato i benefici del laissez-faire. E' stata fatta propria anche da Alan Greenspan, al timone della Federal Reserve per ben 17 anni, il massimo teorico della capacità dei mercati di autoregolarsi. Greenspan ha continuato a difendere quell'ideologia fino a poche settimane fa, salvo improvvisamente cambiare tono e definire la crisi attuale come "la più grave da un secolo". Il suo successore e l'Amministrazione Bush ora nazionalizzano a tutto spiano. Questa crisi travolge le ideologie e sposta di colpo il terreno su cui si combatte la battaglia presidenziale americana.

Ma il 4 novembre è lontano; il gennaio 2009 in cui il nuovo presidente Usa assumerà i poteri è lontanissimo. Di qui ad allora il bilancio dei danni potrà essersi aggravato. L'Europa e il resto del mondo non possono permettersi di aspettare.

(19 settembre 2008)

da repubblica.it

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ECONOMIA    IL COMMENTO

Alla guerra con armi vecchie

di FEDERICO RAMPINI

 
"LA più violenta crisi finanziaria dagli anni Trenta" la definisce il Fondo monetario internazionale. Il paragone evoca il rischio che i danni finali possano aggravarsi molto, prima di vedere una vera schiarita. Se guardiamo all'indice più significativo della Borsa americana (S&P 500), dal 7 settembre 1929 all'8 luglio 1932 la sua caduta fu dell'86%. Attualmente lo stesso indice ha perso "solo" il 36% rispetto ai massimi dell'anno scorso.

Se si prende alla lettera il parallelo tracciato dal Fondo monetario, la distruzione di risparmio rischia di essere appena iniziata. E che dire di beni ancora più essenziali che sentiamo minacciati, a cominciare dai posti di lavoro? I paragoni storici vanno maneggiati con cautela. Nella Grande Depressione degli anni Trenta il tasso di disoccupazione in America raggiunse il 25% della popolazione attiva. Oggi nonostante le ondate di licenziamenti siamo ancora sotto il 7% di disoccupazione americana. La differenza storica fondamentale sta nel salto immenso compiuto dalla presenza dello Stato nell'economia: era minima nel 1929, oggi è pervasiva. Neppure la cosiddetta "rivoluzione reaganiana e thatcheriana" degli anni Novanta negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con le privatizzazioni e la deregulation, ha ridotto significativamente la quota del Pil che fa capo al settore pubblico. Lo Stato non licenzia in una recessione. Non smette di gestire scuole e ospedali. E' questo il potente "stabilizzatore" che fu voluto proprio per evitare che si ripetesse una Grande Depressione dai costi sociali spaventosi.

L'allarme resta, tuttavia. Di questa crisi ignoriamo ancora la durata e i costi finali. Le banche centrali hanno sfoderato ieri un "intervento senza precedenti": così lo ha definito la Federal Reserve. Il taglio concertato dei tassi d'interesse su scala globale è stato operato simultaneamente dalla Fed e dalla Bce insieme alle consorelle inglese, svizzera, canadese, svedese, perfino dalle banche centrali della Cina e degli Emirati arabi uniti. Ma per i mercati il gesto "senza precedenti" è tutt'altro che risolutivo. Li assale il dubbio che le banche centrali usino strumenti antiquati, che siano in ritardo di una crisi, che stiano combattendo la guerra precedente.

A lungo le classi dirigenti hanno sottovalutato questa tempesta. Ad ascoltare le imbarazzate autodifese di tanti banchieri, si direbbe che il dramma sia scoppiato in un baleno, come una calamità naturale, e in una concatenazione così veloce che nessuno poteva prevederla. In realtà i segnali precisi di un grave dissesto finanziario originato dai mutui americani (e da altri eccessi di indebitamento) risalgono alla fine del mese di giugno 2007.

Nell'agosto 2007 ci furono già pesanti turbative nel mercato del credito in tutto il mondo. Al Forum di Davos a gennaio non si parlava d'altro che della tempesta globale. Da quelle prime avvisaglie fino a oggi sono già state scritte intere biblioteche sulle cause di questo disastro, da autorevoli economisti come Robert Shiller (lo stesso che aveva già denunciato negli anni Novanta la bolla speculativa della New Economy e previsto il successivo crollo del Nasdaq).

L'opinione pubblica ha il diritto di chiedere dei conti su cosa è stato fatto durante questo lungo periodo costellato di "preavvisi di uragano": quali misure furono prese dai top manager delle banche, dalle autorità di vigilanza, dai governi. E' sconcertante che spuntino nell'affanno dei piani di emergenza estemporanei, per fronteggiare una crisi che si sviluppa alla luce del sole da ben 16 mesi. I costi potevano essere inferiori se i banchieri avessero detto la verità prima, anziché sperare di farla franca e augurarsi di lasciare l'ultimo cerino acceso in mano a qualche concorrente. Quel cerino ha causato un incendio che era largamente annunciato. Ma dall'America all'Europa i massimi esponenti dell'establishment sembrano i conigli abbagliati all'improvviso dai fari dell'auto su una strada di notte.

Per essere stata a lungo esorcizzata, la recessione sarà più estesa e più pesante, anche nelle conseguenze sociali. L'epicentro cruciale del disastro non sono le Borse, e il problema maggiore non è certamente il costo del denaro. E' la crisi di fiducia generalizzata che paralizza il credito. Di questa crisi sono protagoniste le banche per prime, affondate dalla dimensione misteriosa delle loro esposizioni. Una veduta del baratro su cui si affaccia il settore bancario si è avuta nei giorni scorsi, quando in Germania certi esercizi commerciali hanno cominciato a rifiutare i pagamenti con carte di credito emesse da istituti inglesi. Arrivati sull'orlo di un simile abisso di paura, la nazionalizzazione delle banche inglesi era una scelta obbligata. I tagli dei tassi iniziati ieri sono solo il primo, timido passo nel lavoro di lunga lena che impegnerà le banche centrali. Il loro compito assomiglia alla rieducazione di un paziente colpito da ictus: possono essere necessari mesi, forse anni, per ripristinare la normalità in alcune funzioni. E' una funzione vitale per l'economia reale il recupero di una base di fiducia e riattivare la circolazione del credito.

Se a qualcosa serve il taglio dei tassi, è a rendere meno cara la ricapitalizzazione delle banche.
Ma sarà un'operazione onerosa, che può richiedere ulteriori sforzi da parte dei contribuenti. Negli Stati Uniti, se si sommano i salvataggi pubblici già effettuati, le iniezioni di liquidità da parte della Fed, e il nuovo fondo del Tesoro per rilevare i titoli - spazzatura delle banche, si arriva già oggi ben oltre i 1.500 miliardi di dollari: è più della metà dell'intero bilancio pubblico americano (incluse la difesa e l'istruzione) ad essere già andato in fumo, in un falò che sarà ricordato con sgomento per diverse generazioni.

(9 ottobre 2008)

da repubblica.it

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ECONOMIA    L'ANALISI.

Nel piano Ue non ci saranno stanziamenti anti-crisi ma una serie di misure per ridare solidità al sistema bancario

L'Eurogruppo segue Gordon Brown la ricetta Paulson non è più l'esempio

Sarà aumentata la vigilanza per poter avere dei "guardiani" dei mercati in grado di controllare i colossi del credito

di FEDERICO RAMPINI
 


L'EUROPA si aggrappa a uno spiraglio di speranza: è un piano inglese per una potente offensiva degli Stati che aggredisca tutti i nodi del collasso finanziario. Il vertice G7 di Washington non è bastato per lanciare un'azione unificata contro la débacle del sistema finanziario mondiale. Ci riprovano oggi a Parigi i ministri economici europei in un vertice pomeridiano animato da un'urgenza febbrile.

Hanno poche ore di tempo prima della riapertura delle Borse, per scongiurare un altro lunedì nero. Il piano di Londra è la base per le decisioni che potrebbero essere approvate stasera. Al primo punto c'è l'estensione della tutela pubblica anti-crac non più soltanto ai conti correnti dei risparmiatori ma anche a tutta l'attività di prestito tra banche.

Gli Stati garantirebbero dall'insolvenza le emissioni di obbligazioni bancarie e altre operazioni a termine, quella linfa vitale che scorre nel settore del credito in tempi normali e che ora si è inaridita: il mercato interbancario. Al secondo posto c'è la ricapitalizzazione delle banche stesse, con massicce iniezioni di fondi statali. E' un'imponente nazionalizzazione o semi-nazionalizzazione, sia pure provvisoria nelle intenzioni; in attesa di una schiarita che consenta di rivendere in futuro quelle quote pubbliche ad azionisti privati. Al terzo posto viene una revisione delle norme contabili. Con questa si vuole arrestare la spirale della sfiducia provocata dal fatto che certi "titoli tossici" in questo momento non hanno più mercato. Nessuno ha idea di cosa possano valere e nell'abisso del pessimismo si tende a valutarli zero. Di conseguenza affondano i bilanci delle banche e di certe assicurazioni. Infine si dovrebbe creare una cellula europea per la vigilanza bancaria. In modo che gli Stati dell'Unione abbiano finalmente dei guardiani dei mercati di dimensioni comparabili ai colossi bancari sovranazionali, formatisi a colpi di acquisizioni straniere.

Da questa bozza di progetto resterebbe fuori invece l'idea del fondo "alla Paulson" sostenuta dall'Italia - e inizialmente anche dai francesi - ma avversata dalla Germania. Contro la proposta di replicare in Europa quel fondo americano (i 700 miliardi di dollari per riacquistare dalle banche montagne di "titoli tossici" legati ai mutui subprime) all'inizio sembrava esserci solo una forma di egoismo tedesco: il timore della Germania di doversi sobbarcare l'onere maggiore, mentre il fondo sarebbe servito a salvare anche le banche altrui. C'erano anche dubbi sulla gestione, visto che l'Europa non ha un ministero del Tesoro federale, e pochi vogliono affidare alla Commissione di Bruxelles o alla Bce poteri così importanti. Ma un colpo di scena ha creato un ostacolo nuovo sulla strada di quel fondo: il piano Paulson è stato abbandonato da Paulson.

In una débacle personale che distrugge la sua credibilità già scarsa, il ministro del Tesoro Usa ha dovuto stravolgere il suo stesso progetto, già bocciato dai mercati. Dopo averlo imposto al Congresso con un ricatto - come l'ultima speranza contro un crac generalizzato dell'economia americana - tra venerdì sera e sabato al G-7 Paulson ha fatto un voltafaccia clamoroso. Si è reso conto che l'operazione di acquisto dei titoli tossici richiederà troppo tempo e sarà tecnicamente complessa. Nell'immediato il fondo da 700 miliardi verrà usato per ricapitalizzare le banche, con nazionalizzazioni parziali o totali come quelle che hanno salvato dalla bancarotta Fannie Mae, Freddie Mac e il gigante assicurativo Aig. Anche in America lo Stato acquisterà nuove quote nel controllo azionario delle banche. Washington si adegua al modello inglese? In realtà Paulson "riscopre" una clausola del suo piano che gli fu imposta dal Congresso a maggioranza democratica: furono i parlamentari ad aggiungere un emendamento che permette di usare i 700 miliardi per acquisti di azioni nelle banche in crisi.

La ricetta inglese che raccoglie forti consensi, è però densa di incognite. Parlare di un'azione comune dell'Europa è ancora prematuro. La filosofia dominante resta quella che ciascun paese applicherà il piano al proprio contesto tenendo conto delle differenze nazionali. L'autonomia dei singoli governi può tradursi in differenze cruciali, gravide di effetti sui mercati dei capitali. Quanto ampio e costoso sarà l'ombrello di garanzia statale sui prestiti tra banche e sulle obbligazioni? La Gran Bretagna ha stanziato 250 miliardi di sterline, in Germania circolano stime di 400 miliardi di euro e si parla di estendere la protezione ai fondi comuni monetari. Altri paesi meno generosi potrebbero essere destabilizzati da fughe di capitali verso le nazioni con le banche più protette. Si rischiano nuovi episodi di concorrenza tra Stati come quando l'Irlanda varò per prima l'assicurazione illimitata sui depositi, attirando folle di risparmiatori inglesi. Sarà necessaria una vera armonia nell'applicazione del piano per impedire tensioni pericolose.

Anche la ricapitalizzazione delle banche si presta ad abusi. Vanno aiutate tutte? Solo le più grandi? O quelle meglio gestite? Se lo Stato elargisce aumenti di capitali a occhi chiusi avremo salvataggi indiscriminati. La crisi di mercato non svolgerà l'unica funzione positiva che ha: operare una selezione tra banche più solide e banche meno sane. La revisione delle regole contabili rischia di essere un altro regalo ai banchieri, che ne approfitteranno per occultare lo stato reale dei loro bilanci.

"Essere trasparenti paga" ha detto ieri il governatore Draghi a Washington, ma i nuovi criteri di contabilità possono spingere nella direzione opposta. La nuova cellula di vigilanza europea sarebbe altrettanto impotente delle authority attuali, se non viene decisa una grande riforma delle regole del settore bancario, che colpisca anche la "finanza ombra" dei derivati. E' importante che l'emergenza non spinga a salvataggi indiscriminati, che oltre ai costi enormi sui contribuenti alimenterebbero future bolle speculative, giustificate dalla certezza che i banchieri la fanno sempre franca.

Infine cresce la possibilità che i salvataggi statali vengano richiesti ben oltre il settore bancario. Le nuove convulsioni di crisi nell'industria automobilistica americana, per esempio, ricordano di colpo ai governi che esiste un'economia reale anch'essa in sofferenza, e quest'ultima potrebbe ben presto presentare un conto pesante in termini di occupazione. La focalizzazione sui problemi del credito allora apparirà troppo limitata. Dal piano europeo ci si aspettano risposte anche sulla strategia anti-recessione.

(12 ottobre 2008)

da repubblica.it

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ECONOMIA    L'ANALISI /

L'unità ha fatto la differenza: per la prima volta i mercati del Vecchio continente hanno trainato quelli Usa

L'Europa ritrova la credibilità per lanciare la sua Bretton Woods

di FEDERICO RAMPINI
 


L'EUROPA unita ha fatto la differenza. Il suo piano di salvataggio ha superato il primo esame dei mercati. E' prematuro cantare vittoria contro l'epidemia virale della malafinanza. La volatilità isterica delle Borse non è un indicatore su cui costruire grandi teorie, e neppure previsioni di medio termine. I rialzi euforici di ieri del resto non cancellano le perdite accumulate nelle settimane precedenti. L'incubo non si è dissolto in una seduta: non si può escludere che questo fausto lunedì 13 sia stato un rimbalzo tecnico, l'afflusso di investitori "mordi-e-fuggi".

Ma la giornata di ieri è stata comunque a suo modo storica. Per la prima volta non è Wall Street ad avere condizionato le piazze finanziarie del nostro continente. E' successo invece l'esatto contrario. Gli indici Dow Jones, Nasdaq e Standard&Poor hanno ricevuto l'impulso fondamentale dalle decisioni del summit domenicale di Parigi e dall'impetuoso rialzo mattutino di tutte le Borse europee. Dopo settimane di angoscia, in cui dai palazzi del potere di Washington non usciva una cura che convincesse i mercati, quella cura è stata partorita in un vertice dell'Eurozona, "ispirato" a sua volta dalla ricetta del premier britannico Gordon Brown.

E' uno schiaffo all'Amministrazione Bush e al suo segretario al Tesoro Henry Paulson, che hanno estorto al Congresso 700 miliardi di dollari senza riuscire a invertire l'umore catastrofico che prevaleva sui mercati fino a venerdì scorso. La terapia europea non è radicalmente nuova né troppo diversa dalle varie "toppe" usate da Washington: gli americani per primi hanno nazionalizzato diversi colossi finanziari (Fannie Mae, Freddie Mac, Aig); anche la Federal Reserve ha inondato le banche di liquidità; anche i depositi dei risparmiatori Usa hanno ricevuto assicurazioni addizionali. L'aggiunta decisiva, che sembra avere fatto la differenza, è l'ombrello "nucleare" che gli Stati dell'Eurozona hanno steso a protezione di tutto il mercato interbancario, garantendo contro i rischi d'insolvenza anche le operazioni di finanziamento tra gli istituti di credito, il vitale mercato interbancario che era paralizzato. Inoltre i mercati sono stati favorevolmente colpiti dall'unità d'intenti, dalla strategia comune, dal fatto che improvvisamente l'Europa ha reagito compatta di fronte all'emergenza.

La vittoria di ieri - forse temporanea - contro lo tsunami finanziario è stata pagata carissima. Tirando le prime somme dei numerosi piani nazionali che hanno applicato le direttive del vertice di Parigi, si arriva a un costo che in dollari raggiunge i 2.400 miliardi di dollari. E' più del triplo di quanto hanno stanziato gli Stati Uniti, che pure sono l'epicentro originario di questa crisi. Se i mercati sono stati impressionati dal sussulto di decisionismo europeo, i cittadini contribuenti dell'Unione saranno altrettanto colpiti quando comincerà ad arrivare il conto in termini di pressione fiscale.

Anche perché il poderoso aumento dei deficit pubblici provocato dai salvataggi bancari si sovrappone a una congiuntura economica disastrosa, una recessione che a sua volta deprime le entrate fiscali degli Stati. E dopo avere dissanguato le casse pubbliche per rimediare agli errori dei banchieri, bisognerà trovare risorse per sostenere la crescita, alleviare le sofferenze di settori industriali in crisi, fronteggiare l'aumento dei disoccupati. Il tutto in un continente europeo già afflitto dall'invecchiamento demografico e da squilibri finanziari strutturali nei sistemi previdenziali.

Una giornata di tripudio nelle Borse non deve fare abbassare la guardia neanche sul fronte della crisi bancaria. I suoi costi possono ancora lievitare. Gli stanziamenti decisi ieri nelle capitali dell'Unione sono una stima di quel che servirà, ma il vero onere lo conosceremo solo alla fine. Dopo lo scoppio della bolla speculativa di Tokyo nel 1989, la crisi bancaria degli anni Novanta costò al Giappone il 24% del suo Pil. Le grandi crisi finanziarie del passato negli Stati Uniti in media costrinsero a interventi pubblici dell'ordine del 16% del Pil. Gli interventi straordinari annunciati ieri da Berlino e Londra, Parigi e Roma, rischiano di essere solo un acconto preliminare.

Senza prematuri trionfalismi, l'Europa ha comunque l'opportunità di usare questo momento di credibilità per imporre agli Stati Uniti profonde riforme di sistema. E' questa la fase per avviare la Bretton Woods II di cui si è parlato, spesso a sproposito, nei giorni scorsi. I suoi compiti sono chiari. Al primissimo posto c'è la regolamentazione del mostruoso mercato dei titoli derivati: 55.000 miliardi di dollari, quattro volte il Pil degli Stati Uniti. Le lobby dei banchieri hanno sempre neutralizzato ogni tentativo di disciplinare la "finanza ombra". In un momento in cui la credibilità dei banchieri è precipitata agli inferi, e le loro colpe saranno pagate dai contribuenti per diverse generazioni, è urgente cambiare le regole del gioco.

L'Unione europea deve anche riportare al centro dell'attenzione - coinvolgendo le superpotenze Cina e India - lo squilibrio macroeconomico fondamentale che è all'origine di questa crisi: l'eccesso di debiti dell'America, favorito da politiche monetarie lassiste, e politiche fiscali irresponsabili. L'accumulo di disavanzi commerciali col resto del mondo da parte degli Stati Uniti è l'altra faccia di quei debiti delle famiglie americane che rappresentano ormai il 140% del Pil Usa.

Ci sono altre lezioni che ogni paese può cominciare a trarre da questa crisi. La deflazione che ha ridimensionato pesantemente i valori di tanti beni capitali, dalle case alle azioni, ha degli effetti sui modelli di sviluppo. Finita l'èra della finanza creativa, finito il boom dei titoli esoterici, le banche sono costrette a ridurre il loro ruolo. Si stima che nell'ultimo decennio in America dietro ogni dollaro di aumento del Pil - l'aumento di reddito dell'economia reale - c'erano cinque dollari di crediti. Una montagna di attività finanziarie sovrastava la produzione di cose, di beni e servizi reali. Il Pil nazionale era solo una frazione, rispetto alla bolla dei debiti che c'era dietro.

Quell'epoca è finita con i crac bancari del 2008. "Bucata" la bolla, l'economia globale è in fase di atterraggio: bruscamente ritrova l'impatto con il suolo. E' realistico prevedere che per una lunga fase il baricentro delle attività economiche tornerà a spostarsi in favore della produzione di cose, di beni reali, di servizi utili alle persone. La finanziarizzazione del capitalismo ha toccato il suo limite, e assisteremo a una retromarcia. Un mondo dove la vocazione manifatturiera e il lavoro produttivo vengono rivalutati rispetto alla finanza, è un mondo dove anche le priorità delle politiche economiche nazionali andranno riviste.

(14 ottobre 2008)

da repubblica.it

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ECONOMIA   

Il governo mette in campo il 20% del Pil: in 2 anni tagli alle tasse e più investimenti

La mossa punta a prevenire un'esplosione della conflittualità sociale

La recessione arriva a Pechino via alla manovra da 600 milioni


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

 
PECHINO - Contro la recessione globale scende in campo la Cina, con una manovra di rilancio della crescita che supera per le sue dimensioni quelle approvate dagli Stati Uniti e diversi paesi europei. E' segno che il governo di Pechino è in allerta per la minaccia alla stabilità sociale e politica del paese: ieri il Consiglio di Stato ha annunciato una terapia d'urto senza precedenti. La Repubblica Popolare mette in campo 586 miliardi di dollari di risorse statali in un biennio, l'equivalente del 20% del Pil cinese. (Il paragone non va fatto coi 700 miliardi del piano Paulson destinati a ricapitalizzare le banche ma coi 200 miliardi di dollari di sostegno alla crescita varati quest'anno negli Usa).

Il clima di emergenza che regna tra i leader cinesi è sottolineato dall'annuncio fatto di domenica, dopo aver richiamato improvvisamente a Pechino per "impegni prioritari" il ministro delle Finanze, che stava partecipando al vertice G20 in Brasile. "Negli ultimi due mesi - si legge nel comunicato diffuso ieri a Pechino - la crisi finanziaria globale ha avuto un'accelerazione giorno dopo giorno. Di fronte a questa minaccia dobbiamo aumentare gli investimenti pubblici in modo energico e rapido".

Il Consiglio di Stato, un organo dell'esecutivo, preannuncia una "politica fiscale aggressiva" fatta di maggiore spesa pubblica e sgravi d'imposte, insieme con una "politica monetaria espansiva" (nuovi tagli dei tassi, dopo che la banca centrale ha già ridotto per ben tre volte il costo del denaro da metà settembre). La terapia shock sarà mirata anzitutto a "migliorare le condizioni di vita della popolazione, perché possa aumentare i consumi".

L'annuncio cinese rappresenta una svolta che era attesa nel resto del mondo. Il ruolo della Cina è fondamentale per trovare una via d'uscita dalla recessione globale. L'anno scorso, secondo il Fondo monetario internazionale, la Repubblica Popolare ha contribuito per il 27% alla crescita dell'economia mondiale. E' una locomotiva di cui l'Occidente non può fare a meno. Ma fino a qualche mese fa l'atteggiamento dei leader cinesi era improntato alla cautela.

Per tutto il primo semestre del 2008 sugli schermi radar dei dirigenti comunisti il pericolo numero uno era l'inflazione: i forti rincari di tutte le materie prime (dal petrolio ai metalli, dalle derrate agricole al legname) avevano messo sotto pressione un'economia di trasformazione manifatturiera come quella cinese, oltre a creare tensioni sociali per l'aumento del costo della vita. Solo dopo l'estate Pechino ha cominciato ad aggiustare il tiro. E da un paio di mesi è sfumata definitivamente l'illusione del "decoupling", l'idea cioè che le potenze emergenti potessero "sganciarsi" da questa recessione e restarne sostanzialmente immuni.

Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao inoltre hanno seguito con inquietudine le dichiarazioni di Barack Obama in campagna elettorale: i toni protezionisti, e la richiesta alla Cina di rivalutare la sua moneta. Tra una settimana i leader di Pechino vogliono presentarsi al vertice G14 di Washington con le carte in regola, mostrando che stanno facendo la loro parte per rilanciare lo sviluppo economico nel mondo intero. Un aumento dei consumi delle famiglie cinesi è sempre stato considerato dai governi dell'Occidente come la via maestra perché la Cina eserciti un effetto benefico sulla crescita globale (una parte di quei consumi infatti si traduce in importazioni di prodotti europei, americani, giapponesi).

La maximanovra varata ieri risponde anche a impellenti necessità interne. Anche l'economia cinese sta perdendo colpi vistosamente. La decelerazione della crescita è impressionante. L'anno scorso il Pil aumentò dell'11,7% segnando un record storico. Nel primo semestre di quest'anno il tasso di crescita era già passato al 10%. Nel trimestre scorso (da luglio a settembre) la crescita si è attestata al 9%. Per il 2009 le stime più attendibili prevedono un "magro" +7,5%, il minimo da vent'anni. Una crescita superiore al 7% farebbe sognare ogni altro paese al mondo, ma per la Cina è motivo di allarme.

Ogni anno in media 15 milioni di contadini cinesi abbandonano le campagne per cercare lavoro in città. Ad essi vanno aggiunti i giovani che escono dalla scuola e appartengono ancora a generazioni numerose, una "gobba" demografica che ancora non sconta gli effetti della denatalità. In totale se la crescita cinese non riesce a creare almeno venti milioni di nuovi posti di lavoro all'anno, ci sono tutte le condizioni per un'esplosione di conflittualità sociale.

E' quello che in effetti si sta già verificando in alcune zone del paese. Il Guangdong, la regione meridionale che ha la più alta densità di industrie, è da mesi l'epicentro di tensioni. Migliaia di fabbriche hanno chiuso per fallimento - soprattutto nel settore tessile-abbigliamento e nella produzione di giocattoli - e i licenziamenti di massa hanno scatenato proteste diffuse. Ancora pochi giorni fa la ricca metropoli industriale di Shenzhen è stata il teatro di scene di guerriglia urbana, migliaia di manifestanti hanno affrontato la polizia. Il detonatore di quest'ultima rivolta - almeno secondo le ricostruzioni dei mass media ufficiali - sembra essere stato un banale diverbio dopo un incidente stradale, ma la sensazione è che le difficoltà economiche stiano trasformando quell'area in una polveriera.

Ora con la maximanovra di politica economica il governo spera di aggiungere due punti alla crescita del Pil dell'anno prossimo. La terapia d'urto include nuovi investimenti pubblici nell'edilizia popolare, l'accelerazione della costruzione di ferrovie e aeroporti; investimenti nelle energie rinnovabili; spese sociali a favore delle fasce più indigenti; prestiti alle piccole e medie imprese; detassazione sugli acquisti di macchinari industriali. E' una lunga lista di provvedimenti che hanno un denominatore comune: fare affluire il più rapidamente possibile nuovo potere d'acquisto alla popolazione, prima che sia troppo tardi. Il bilancio pubblico cinese è abbastanza solido da poter reggere un boom di nuove spese. Il dubbio semmai riguarda il peso della corruzione, che può limitare la parte degli aiuti che finirà veramente a beneficio della popolazione.

(10 novembre 2008)

da repubblica.it

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