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1  Forum Pubblico / ESTERO dopo il 19 agosto 2022. MONDO DIVISO IN OCCIDENTE, ORIENTE E ALTRE REALTA'. / Il sonno dell’Europa La Georgia, l’Ucraina e la fuga degli intellettuali inserito:: Oggi alle 12:41:36 pm
Il sonno dell’Europa La Georgia, l’Ucraina e la fuga degli intellettuali
Quello che succede oggi a Tbilisi è la replica di quanto successo dieci anni fa nella piazza principale, Maidan, di Kyjiv. L’imperialismo russo stringe le maglie, ma il mondo libero pensa ad altro, e i giornali tacciono


Le straordinarie immagini della folla pacifica ed europea di Tbilisi, in Georgia, incredibilmente ignorate dalle televisioni e dai grandi giornali, sono la prova drammatica dell’ennesimo svarione morale che l’Europa e il mondo libero continuano a commettere, non riuscendo mai a imparare dal recente e tragico passato.
L’errore ricorrente è quello di trascurare il desiderio vitale dei popoli delle ex repubbliche sovietiche e dei paesi del defunto Patto di Varsavia di liberarsi dal giogo imperialista di Mosca, e di avvicinarsi ai valori europei fondati sulla democrazia liberale e sullo stato di diritto. Eppure questa che scende in piazza Tbilisi e resiste a Kyjiv è l’Europa in purezza, la definizione esatta di Occidente libero. Sarebbe sufficiente leggere i classici della letteratura ucraina, almeno quella sopravvissuta al genocidio culturale operato dai russi, dal cantico di Lesja Ukrajnka alle riflessioni del filosofo di Volodymyr Yermolenko, all’opera di Victoria Amelina. E sul perché i georgiani vogliono liberarsi dai russi basterebbe leggere la formidabile saga storica sul secolo rosso raccontata dalla scrittrice Nino Haratischwili in L’Ottava vita, un romanzo di oltre 1200 pagine edito da Marsilio.
E invece niente, il silenzio, anzi la fuga degli intellettuali dalla battaglia di idee più importante della nostra epoca. Neanche il precedente dell’invasione dell’Ucraina ha destato le coscienze europee.
Quello che sta succedendo oggi in Georgia è la replica, per il momento ancora senza vittime, ma temo ancora per poco, di quanto successo tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 nella piazza principale, Maidan, di Kyjiv. Allora gli ucraini scesero in piazza, sventolando le bandiere europee, per protestare contro il presidente Yanukovych, un fantoccio del Cremlino, che aveva rinunciato a firmare, su ordine di Mosca, gli Accordi di associazione dell’Ucraina con l’Unione europea.
Oggi, a Tbilisi, i georgiani riempiono le strade della capitale per protestare contro la cosiddetta “legge russa” imposta dal partito di governo, il cui nome orwelliano è “Sogno georgiano” mentre quello reale è “Incubo russo”, che reprimerà il dissenso interno e limiterà il raggio d’azione dell’opposizione. Putin ha ordinato il passaggio di questa legge non solo per reprimere la libertà di espressione, ma soprattutto perché sa benissimo che, adottando questa legge liberticida, la Georgia non potrà entrare in Europa, per ragioni evidenti di violazione dei diritti politici in una società democratica, da qui le proteste della popolazione civile che da settimane riempie le piazze della capitale senza riuscire a fare notizia in un’Europa che non vuole parlare di altri potenziali conflitti a un mese dal rinnovo del Parlamento europeo.
A Maidan, gli ucraini riuscirono a far dimettere il presidente fantoccio di Putin, al costo di decine e decine di vittime civili, e il Cremlino rispose occupando illegalmente la Crimea e due regioni dell’est ucraino nell’indifferenza generale del mondo libero, che poi otto anni dopo, il 24 febbraio 2022, si è stupito che la concessione territoriale alla Russia non avesse saziato gli appetiti imperialisti di Mosca.
Che tutto ciò non sia sulle prime pagine dei giornali né argomento principale della campagna elettorale europea è incredibile, ma c’è un’altra questione che su Linkiesta, da soli, abbiamo più volte sottolineato: l’assoluta apatia della popolazione russa, l’assenza di una collera di massa dei cittadini russi, limitatasi a cinque minuti di proteste contro la guerra e a mezza giornata di omaggio alla salma di Navalny.
E non raccontiamoci che fare opposizione in Russia è pericoloso, intanto perché le proteste russe non si vedono nemmeno tra la diaspora russa in Occidente (con eccezioni che si contano sulle dita di una mano, come la “russa libera” Maria Mikaelyan, che però è di origine armena, oggi candidata alle Europee con Renzi e Bonino nel nord-ovest).
Il governo georgiano non è così repressivo come quello russo, d’accordo, ma solo perché i georgiani sono sempre scesi in piazza a difendere la libertà e non hanno permesso a nessun governo di trasformarsi in quello che oggi è il Cremlino, esattamente come è successo in Ucraina con le proteste civili di Maidan. Al contrario, la passività russa ha permesso a Putin di diventare un dittatore sanguinario.
Andate a raccontare ai resistenti ucraini il pericolo che si corre a opporsi alla violenza russa, o ai commoventi georgiani che coraggiosamente sfilano per le vie di Tbilisi.

Da – l’Inchiesta

2  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Poi arriva il 56 (1956) dopo i fatti d’Ungheria mi compro una spilla ... inserito:: Oggi alle 12:39:22 pm
M. grazie.
Io sono convinto che Ognuno di Noi "ha addosso da solo la responsabilità di un futuro possibilmente migliore".

Il problema é che spesso neppure tra i "tanti noi", vogliamo o possiamo ipotizzarlo con "altri noi".
O non ti ascoltano, o non abbiamo noi voglia di parlarne, o siamo occupati a fare altro "tra noi" di più piacevole.
Oppure come accaduto a me, parti con il culo per terra e ti devi impegnare a sollevarti da una posizione che non ti va di mantenere oltre i tuoi 14/15 anni.
Allora ti alzi, guardi più lontano quello che ti lasciano vedere, vai all’oratorio, servi messa da chierichetto, scopri che non sopporti le regole, le disobbedisci come imposizioni da catechismo.
Ti allontani in silenzio, senza rompere nulla e dopo aver cantato al meglio di sempre e a voce alta nella messa per il funerale di Ezio, un amico morto di non sai cosa a scuola, forse il motivo del perché era sempre pallido.
Te ne vai, salutando i preti.     
Passi al Circolo comunista.
È di fronte a casa ma non ci sei mai andato prima, incontri o rivedi tre quattro ragazzi, fai gruppo con loro, si beve la Spuma, si gioca al calcio balilla o a boccette senza stecche per non fare danni, si guardano i nonni che giocare a bocce oppure a carte, fumano sigari non sigarette.
Verso sera si chiudono in una stanza, con la porta a vetri, che si riempie del loro discutere, ma mai con toni alti e capisci da fuori che c’è chi parla e chi ascolta, soltanto.
Poi arriva il 56 (1956)  dopo i fatti d’Ungheria mi compro una spilla distintivo dell’Ungheria Libera, la metto in bella vista sul petto della camicia e continuo ad andare al circolo comunista.
Non mi succede nulla!
Soltanto, una sera E. un gigante nemmeno tanto buono, mi ferma e mi “consiglia” di toglierla, quella spilla.
Gli rispondo di NO!
Ne parlo con il gestore del bar ma senza farne un problema, … continuo a frequentarlo quel Circolo/sezione e a non succedermi più nulla.
Dopo l’Ungheria non fu più libera, messa sotto dai carri armati russi.
Qualcosa cambiò nell’animo di molti di noi.
Bisognava cercare un altro impegno, ben OLTRE IL COMUNISMO FEDIFRAGO.
ggg
3  Forum Pubblico / LA NOSTRA COLLINA della più BELLA UMANITA', quella CURIOSA. / SANITA CURE SONDAGGIO. Tre cittadini su quattro hanno rinunciato a curarsi ... inserito:: Oggi alle 12:31:20 pm
Tempi di attesa infiniti e gli italiani rinunciano a curarsi
Secondo un sondaggio Ipsos sono tre cittadini su 4 a rinunciare alle prestazioni del servizio nazionale per le attese troppo lunghe. Il dato peggiora al Centro sud

30 aprile 2024
 Saverio Scattarelli / SIPA / AGF - Operatori sanitari nell'ospedale Miulldi di Acquaviva delle Fonti

SANITA CURE SONDAGGIO
AGI - Tre cittadini su quattro hanno rinunciato a curarsi nel Servizio Sanitario Nazionale ma due su tre sperano ancora in una Sanità totalmente pubblica. È questo uno degli aspetti più significativi a emergere dal sondaggio condotto da Ipsos in occasione della giornata mondiale della Salute. In particolare, ben il 74% del campione ha dovuto rinunciare almeno una volta ad una prestazione del SSN a causa dei tempi di attesa (è accaduto più frequentemente al 65% dei cittadini).
Si aggiunga che il 57% degli intervistati ha dovuto rinunciare perché la prestazione non era erogata nella propria zona. Il dato è più preoccupante nelle regioni del centro nord e del centro sud, ma si tratta di un fenomeno diffuso in tutto il Paese. L'80% dei cittadini che hanno rinunciato a curarsi nel Servizio Sanitario Nazionale ha avuto comunque la possibilità di rivolgersi a un servizio privato per ottenere la prestazione, mentre il 16% ha del tutto rinunciato alle cure, una percentuale che tende a raddoppiare tra le fasce della popolazione più in difficoltà economiche e socialmente più marginali.
Nonostante queste evidenti lacune, il 64% del campione sostiene che la sanità debba essere esclusivamente pubblica "ad ogni costo" (metà dell'intera popolazione accetterebbe anche un aumento delle tasse se finalizzate a sostenere il SSN) mentre il 26% accetterebbe un sistema misto pubblico-privato.
"L'offerta specialistica risente in tutto il Paese di una insufficiente disponibilità di risorse economiche ed organizzative per garantire i livelli essenziali di assistenza - sottolinea Silvestro Scotti, Segretario Nazionale della FIMMG - e a questo si aggiunge la difficoltà per molti cittadini di raggiungere il luogo in cui la prestazione viene offerta, spesso troppo lontana dai luoghi di vita delle persone. La Medicina Generale si riconferma ancora una volta l'unico vero baluardo del Servizio Sanitario Nazionale strutturalmente adeguato a fornire ai cittadini un'assistenza di prossimità, gratuita e accessibile a tutte le fasce socioeconomiche, trasversalmente in tutto il Paese.
L'accesso alle prestazioni indifferibili dal proprio medico non prevede liste di attesa, mentre le visite programmate vengono effettuate entro pochi giorni. Per questi motivi i cittadini non rinunciano alle prestazioni del proprio medico di famiglia, a differenza di quello che accade in altri ambiti. La difesa del servizio sanitario pubblico - conclude Scotti - passa attraverso la difesa della medicina generale, che è ancora oggi espressione compiuta dei principi che ne hanno ispirato l'istituzione".
"Il valore della sanità pubblica è riconosciuto e difeso dagli italiani, nonostante il rammarico per tempi di attesa e scarsa capillarità dei servizi sul territorio - afferma Andrea Scavo, Direttore dell'Osservatorio Italia Insight di Ipsos che ha curato l'indagine. Su questo tema le nostre indagini registrano costantemente una grande sensibilità degli italiani, che considerano la sanità una delle priorità nazionali e, aspetto più unico che raro, si dichiarano disponibili anche a sostenere un aumento delle tasse pur di migliorarne i servizi".

Da - https://www.agi.it/cronaca/news/2024-04-30/salute-italiani-rinunciano-cure-servizio-nazionale-tempi-attesa-lunghi-26211630/
4  Forum Pubblico / ESTERO dopo il 19 agosto 2022. MONDO DIVISO IN OCCIDENTE, ORIENTE E ALTRE REALTA'. / Classe 2024 o Generazione Gaza: e ora cosa succede all'America inserito:: Oggi alle 12:26:03 pm
Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, l'attuale e la precedente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at..."
 Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte.

Classe 2024 o Generazione Gaza: e ora cosa succede all'America?

Prima di giudicare, cerchiamo di capire  i campus
Classe 2024 ovvero Generazione Gaza. Per i disagi e le perturbazioni che provocano nella vita quotidiana di molte famiglie e in molte città, le proteste studentesche di questi giorni forse sono il tema più dibattuto fra gli americani (molto più del processo newyorchese a Donald Trump). L’America intera s’interroga sul significato di quest’agitazione, le sue ragioni o i suoi torti, l’impatto e le conseguenze che potrà avere in varie direzioni. Politica interna, politica estera, battaglia delle idee, egemonia culturale: tutto s’intreccia. Oltre ovviamente alla tragedia in corso in Medio Oriente. Vorrei cercare di vederci chiaro al di là del giudizio specifico sui contenuti di questo movimento, i suoi slogan, i suoi metodi di lotta.

La protesta si sta allargando
Prima constatazione, obiettiva: la protesta dilaga. Era cominciata in alcuni bastioni dell’accademia più élitaria come Harvard Columbia Yale, luoghi dove – nonostante la meritocrazia e le borse di studio – si formano soprattutto i figli della classe dirigente, con rette dai settantamila dollari annui in su (ormai si arriva facilmente a quota centomila). Ora le manifestazioni, gli accampamenti di occupazione, gli scontri con la polizia (quando questa viene chiamata a intervenire dalle autorità) si estendono ben oltre. A New York è entrato in agitazione anche il City College, che costa poco ed è frequentato dai figli dei ceti medio-bassi inclusi molti immigrati. Se i focolai iniziali erano concentrati soprattutto nell’America delle due coste dove domina la sinistra, ora si segnalano proteste in Stati del Sud che votano repubblicano.

Classi in remoto come nella pandemia
Le prime conseguenze, più immediate e facilmente verificabili, incidono sullo studio. Queste ragazze e ragazzi, appartenenti alla più ampia Generazione Z (i nati fra il 1997 e il 2012), spesso sono gli stessi che finirono il liceo o iniziarono il percorso universitario con la pandemia; pertanto hanno già sofferto un deficit di apprendimento oltre che di socializzazione. Ora alcuni atenei tornano ai corsi in remoto, quindi si rischia una sorta di prolungamento dell’esperimento Covid che non fu certo felice. In certe università si discute se cancellare la cerimonia della “graduation”, la consegna solenne e festosa dei titoli di laurea, un appuntamento molto sentito nella tradizione e molto partecipato dalle famiglie. Tutto ciò contribuisce a creare un’atmosfera di emergenza, che resterà scolpita nella memoria della Generazione 2024 o Generazione Gaza.

Autorità accademiche nella tempesta
Attorno a queste turbolenze, a cerchi concentrici, si agitano anche la vita politica e la classe di governo, a livello locale e nazionale. Presidenti e rettori delle università sono sotto assedio da più parti. Molti di questi leader sono donne, appartenenti a minoranze etniche, ed erano abituati ad amministrare sofficemente le regole del gioco della cultura “woke”, in ambienti accademici dall’egemonia culturale progressista. Gli studenti filo-palestinesi ora accusano presidenti/rettori di limitare la libertà di espressione se cercano di sgomberare i campus e di garantire l’agibilità delle aule. Fino a ieri però le stesse autorità accademiche erano accusate di aver consentito un clima di censura e intimidazione imposto dalla sinistra radicale, l’esclusione di voci conservatrici, e dal 7 ottobre 2023 avevano tollerato un’escalation di aggressioni antisemite. Se chiamano la polizia le autorità accademiche sono descritte come repressive, se non la chiamano sono succubi di frange estremiste e violente. Un altro argomento polemico che affiora da sinistra è il "ricatto" esercitato dai ricchi donatori della Jewish community per penalizzare università che hanno condonato l'antisemitismo. Ma nessuno storceva il naso quando gli stessi miliardari ebrei finanziavano centri studi e cattedre controllati dalla sinistra radicale. Su Gaza si sta consumando, tra l'altro, anche un divorzio tra due anime storiche del partito democratico Usa: ebrei progressisti e sinistra filo-araba.
Il mondo politico è coinvolto in tutti i modi. A New York è stato un sindaco democratico e black, Eric Adams, a chiamare la polizia al City College. Poco prima il presidente della Camera, il repubblicano Mike Johnson, aveva visitato la Columbia University per denunciarvi l’antisemitismo.

L' "altro Sessantotto" fece avanzare le destre
Nei sei mesi da qui alle elezioni l’uso politico di queste proteste è destinato a crescere. A metà strada (agosto) c’è un appuntamento come la convention democratica di Chicago che evoca inquietanti analogie con quella convention che nella stessa città si tenne nel 1968, in un crescendo di scontri fra la polizia e i manifestanti contro la guerra del Vietnam.
Se questo sia destinato a passare alla storia come un nuovo Sessantotto americano, oppure qualcosa di meno importante, è presto per dirlo. I bilanci sono prematuri e del resto anche la storia di 56 anni fa continua ad essere reinterpretata da revisionismi di ogni colore ideologico. Di sicuro quello che sta accadendo quest’anno è rilevante. A prescindere dalle nostre opinioni sul merito della questione – cioè su Gaza – questo movimento ci dice qualcosa sullo stato della società americana, e sullo stato dell’America nel mondo. L’agitazione studentesca rafforza l’influenza che la politica estera può avere nell’elezione del 5 novembre. D’altronde non riesco a ricordare in vita mia un anno elettorale con due guerre della gravità di Ucraina e Medio Oriente. I cortei violenti e gli scontri rilanciano anche temi più domestici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Qui ricordo che il Sessantotto originario fa vincere le elezioni americane al conservatore Richard Nixon e quelle francesi al conservatore Charles De Gaulle: allora si parlava di una rivincita della “maggioranza silenziosa” contro la minoranza che occupava le piazze. In Italia il riflusso a destra arriva solo un po’ più tardi, con il governo Andreotti-Malagodi nel 1972.

Politica estera Usa, i problemi sono reali
La politica estera americana è un bersaglio proclamato di questo movimento studentesco. Non l’Ucraina, che lascia indifferenti i giovani, ma la Palestina. Sorvolo qui sui tanti (troppi) segnali di ignoranza o disinformazione tra i ragazzi di questa generazione (onestamente non erano meglio istruiti i ragazzi del ’68 né quelli del ’77). Invece voglio sottolineare due questioni serie e ineludibili, che sollevano i meglio preparati tra di loro. La prima va al cuore di una contraddizione di Joe Biden. Questo presidente eredita decenni di una politica di sostegno “incondizionato” a Israele (dal 1967). Quell’aggettivo messo tra virgolette è stato contestato a lungo e da più parti: l’America ha continuato a fornire aiuti militari ed economici a Israele anche quando i governi di Tel Aviv ignoravano le pressanti richieste di Washington e facevano scelte contrarie agli interessi veri degli Stati Uniti. Oggi quella contraddizione è esplosa più che mai. Pur difendendo il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, Biden è in forte contrasto con Netanyahu, sulla questione dello Stato palestinese, sugli aiuti umanitari, sulla condotta della guerra contro Hamas e sugli insediamenti di coloni in Cisgiordania. Però Biden non osa cancellare nei fatti l’aggettivo “incondizionato”: da una parte critica duramente Netanyahu, dall’altra continua a fornire aiuti militari decisivi alle forze armate israeliane. Gli studenti vorrebbero farli cessare subito. I contestatori considerano Biden politicamente e moralmente corresponsabile di quello che definiscono il genocidio dei civili a Gaza. Comunque si veda la questione, è un dato oggettivo che Gaza sta diventando “la guerra di Biden” come il Vietnam fu “la guerra di Lyndon Johnson”. Con le dovute e significative differenze: dal Vietnam ogni giorno tornavano delle bare con salme di giovani americani caduti al fronte. Nel 2024 l’America non combatte direttamente, o almeno non a Gaza, anche se alcune sue basi militari e le sue flotte sono intervenute: contro i missili e droni iraniani, contro gli Hezbollah, contro gli Houthi nel Mar Rosso.

"Disinvestimento" come in Sudafrica contro l'apartheid
In parallelo alle accuse a Biden, c’è un’altra campagna portata avanti dal movimento studentesco, quella sui “disinvestimenti”: i manifestanti esigono dalle loro ricchissime istituzioni universitarie (e in prospettiva dall’America tutta intera: aziende, banche) che chiudano ogni investimento suscettibile di aiutare gli insediamenti illegali di coloni israeliani in Cisgiordania o altre forme di sfruttamento della popolazione palestinese. Si ispirano esplicitamente alla campagna di disinvestimento che colpì il Sudafrica ai tempi del dominio razzista della minoranza bianca. Quel movimento di boicottaggio economico contribuì alla fine dell’apartheid e alla vittoria di Nelson Mandela contro l’apartheid (anche se non fu così decisivo come si tende a credere).
A ispirare la Classe 2024 o Generazione Gaza c’è una visione etica della politica estera: l’America dovrebbe comportarsi nel mondo intero in conformità con i valori e gli ideali a cui dice di ispirarsi nella sua Costituzione. Questo movimento si iscrive in una tradizione antica e nobile, radicata soprattutto nel partito democratico. E’ quella che ispirò il presidente Woodrow Wilson a fondare la Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale e il presidente Franklin Roosevelt a fondare le Nazioni Unite dopo la seconda, per far rispettare principi di legalità a livello globale.

I peccati originali di questo movimento
All’interno di questa ispirazione molto apprezzabile, il movimento studentesco però si è macchiato di un peccato originale, o più d’uno. Il primo è ben noto e divenne evidente fin dalle prime ore successive al massacro di Hamas il 7 ottobre. Una miriade di associazioni studentesche presero posizioni ignobili, immorali, inaccettabili: approvarono subito e con entusiasmo la strage di civili israeliani, lo stupro in massa di donne, il rapimento di bambini. Molto prima che arrivasse la controffensiva israeliana a fare un'ecatombe a Gaza. La violenza feroce, le torture crudeli, gli stupri, tutto fu assolto in quanto giusta vendetta per i torti subiti dai palestinesi. Quell’usare due pesi e due misure – la violenza israeliana è orribile, quella di Hamas è sacrosanta – continua tuttora e perseguita il movimento. Lo espone alle accuse di antisemitismo, che sono giustificate da innumerevoli atti di aggressione avvenuti nei campus, molti dei quali sono diventati dei luoghi non solo inospitali ma perfino insicuri per studenti di origini ebraiche o di nazionalità israeliana. 

Indottrinamento e fanatismo
Questa macchia si collega ad un altro peccato originale, che non si riferisce solo a Gaza ma all’ideologia prevalente nella Generazione 2024. Ne ho scritto altre volte, è un’ideologia che risale a cattivi maestri come Michel Foucault o Toni Negri. Interpreta l’intera storia delle civiltà e l’universo mondo attraverso il trittico Potere Oppressione Privilegio; divide l’umanità in oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori; schiaccia la complessità dentro categorie manichee (buoni-cattivi, bianco-nero); riduce quindi il mondo contemporaneo a una massa di vittime (il Grande Sud globale, gli ex-colonizzati, le minoranze etniche dei nostri paesi) e un unico carnefice che è la razza bianca, dominatrice, aggressiva. Fanatismo, intolleranza, perfino l’apologia della violenza (quella di Hamas) derivano da questa visione del mondo.
Non è una novità. Tutte le rivoluzioni di ogni colore, dai giacobini di Robespierre ai bolscevichi di Lenin, dagli squadristi di Mussolini nella marcia su Roma alle Guardie rosse di Mao Zedong, fino alle rivoluzioni religiose come quella di Khomeini in Iran, tutte senza eccezioni hanno avuto bisogno di disumanizzare la storia, demonizzare l’avversario, dividere il mondo in buoni e cattivi, per aizzare le masse e giustificare la violenza.

Leggete questa intellettuale progressista, e poi Musk
Se pensate che esagero nell’avvicinare quel tipo di precedenti storici alla società americana del 2024, ecco cosa scrive una brava opinionista del New York Times, una “progressista critica”, Pamela Paul, in un commento efficacemente intitolato Hai subito un torto, non vuol dire che tu abbia ragione.: “Viviamo in un’età dell’oro della lamentela per i torti subiti. … Se sei di sinistra sei stato oppresso, escluso, emarginato, silenziato, cancellato, ferito, sottorappresentato, traumatizzato e danneggiato. Se sei di destra sei stato ignorato, disprezzato, sottovalutato, zittito, caricaturizzato e irriso. … Gli esseri umani si sono sempre combattuti per l’accesso ineguale a risorse scarse. Però mai come oggi la nostra cultura ha fatto della lamentela una forza motrice così vigorosa, e un gioco a somma zero in cui ciascuna parte si sente lesa. … Riflettiamo su un fenomeno progressista: la gerarchia del privilegio viene rovesciata così che le voci marginalizzate in precedenza ora hanno la priorità. Valido, in teoria. Ma chi decide, e su quali basi? Chi è più oppresso: un vecchio bianco veterano dell’esercito e portatore di handicap, o un giovane gay di origini latinos? Individui o tribù vengono classificati secondo categorie binarie: colonizzatore contro colonizzato, oppressore contro oppresso, privilegiato e non. Nelle università e nelle ong, nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni statali, la gente può recitare la propria lamentela e vittimizzazione, trasformandola in un’arma, sa che può appellarsi allo Stato, all’ufficio del personale o al tribunale dei social, dove sarà ricompensata con attenzione”.
Sul versante opposto dello spettro politico rispetto a Pamela Paul, l’anarco-libertario-capitalista Elon Musk scrive su X: “L’assiomatico errore che mina alle fondamenta gran parte della civiltà occidentale è il concetto che la debolezza ti dà ragione. Se si accetta che gli oppressi sono sempre i buoni la conclusione naturale è che i forti sono cattivi”.

Se sei ricco hai rubato a un povero? Marx se la ride...
L’assioma descritto da Musk comanda la Generazione Gaza. Di fronte a qualsiasi evento storico ci si chiede prima di tutto qual è la parte meno forte o meno ricca; quindi, ci si schiera in sua difesa perché quella è la parte moralmente superiore.
Traducendo Musk, la Generazione Gaza è cresciuta nella certezza che “se sei ricco devi aver derubato un povero”: grottesca caricatura del marxismo, che non è così banale. Da quando le università hanno smesso di insegnare una storia positiva del Progresso? (Risposta: dagli anni Sessanta, basta verificare l’evoluzione dei programmi e dei titoli dei corsi nelle università Usa). Nella demonizzazione del Progresso, oggi obbligatoria, è proibito studiare se alcune nazioni, civiltà, classi dirigenti abbiano adottato ricette efficaci per creare e diffondere prosperità e diritti; mentre i popoli poveri possono anche essere vittime di leader oppressivi autoctoni, sistemi di valori retrogradi.
Applicato ai palestinesi questo meccanismo impedisce di addentrarsi nei meandri di una storia labirintica, evita di fare i conti con i molteplici errori commessi dagli stessi palestinesi (leader e popolo) fino alla tragica impasse attuale, sorvola su forze potentissime che aizzano i deboli (l’Iran con il suo petrolio, i suoi arsenali e il suo fanatismo religioso, le varie milizie terroristiche che hanno fatto della violenza una rendita politica). Ignora che gli ebrei residenti nel territorio d’Israele non sono tutti “bianchi”. Eccetera eccetera. Non è questo il luogo per accennare ai mille capitoli controversi della storia mediorientale e della questione israelo-palestinese. Il luogo adatto sarebbero proprio le aule universitarie. Dove però da molti anni non si dibatte, si indottrina e si fa lavaggio del cervello.
Quella situazione descritta da Pamela Paul chiama in causa non solo la Generazione Gaza bensì pure i suoi cattivi maestri.

6 gennaio 2021, la destra "legittimata"?
Richiamo l’attenzione su un passaggio iniziale della Paul, in cui si riferisce alla destra trumpiana. Lei ci torna con questa frase: “Cosa fu in fondo il 6 gennaio 2021 se non una gigantesca esplosione di rabbia da parte di coloro che si sentivano ingannati e volevano ottenere risarcimenti, con qualsiasi mezzo?”
Ecco, quel che accade nei campus universitari in questi giorni come viene visto dagli elettori repubblicani? Come una conferma che la sinistra in fatto di violenza ha due pesi e due misure, vede una violenza “fascista” e una violenza “giusta” perché viene dagli “oppressi”. Fu così anche in quella terribile estate del 2020 che precedette l’insurrezione del 6 gennaio al Campidoglio. Dopo l’assassinio dell’afroamericano George Floyd per settimane fu normale vedere commissariati di polizia e altre sedi istituzionali assaltati e incendiati da manifestanti di Black Lives Matter. Poi per altri mesi alcune zone del paese (ad esempio il centro di Portland nell’Oregon) divennero ufficialmente delle zone “liberate dalla polizia”, dove le forze dell’ordine non potevano più mettere piede.

Oggi corriamo il rischio che la Generazione Gaza si senta legittimata all’uso della violenza, a tal punto da farvi ricorso in modo sistematico? L’altro Sessantotto, quello di 56 anni fa, vide la diffusione della lotta armata negli Stati Uniti, in Italia, Francia, Germania. Onestamente, non siamo ancora arrivati a questo punto, non mi pare proprio.

Forza dell'economia Usa, un fattore di pace sociale

Una delle ragioni che prevengono il contagio delle proteste e della violenza, forse, è l’ottima situazione economica di cui l’America ha goduto finora: alta crescita, piena occupazione. L'altroieri è uscito un dato che segnala un rallentamento della crescita, e l'inflazione non è stata debellata. Però nell'insieme il quadro rimane positivo, migliore che in molte parti del mondo. E ne beneficiano un po' tutti.

La Generazione Z è ricca, economicamente sta meglio di come stavano le generazioni dei suoi fratelli maggiori o dei suoi genitori quando avevano la stessa età. E’ turbata, è sofferente, per mille motivi, ma non vive in un periodo di crisi economica o di ingiustizie sociali acute. Gli aumenti salariali e gli aiuti pubblici del periodo pandemico hanno perfino attenuato certe diseguaglianze. I lavoratori appartenenti a minoranze etniche – black, latinos – non sono mai stati così bene. Le tensioni politiche e culturali sono acute, ma non poggiano su problemi materiali.

Non è detto che questa situazione duri, però. La forza dell’economia americana in parte è virtuosa, è legata alla sua capacità d’innovazione e al dinamismo delle sue imprese. In parte invece è drogata da una spesa pubblica in deficit che aumentò a dismisura sotto Trump per il Covid, e ha continuato a crescere sotto Biden (ivi compreso per un “voto di scambio” a vantaggio degli studenti universitari: la generosa, costosa e iniqua cancellazione dei loro debiti a carico del contribuente). Non ho la capacità di distinguere quanta parte della crescita economica Usa sia “sana” e quanta “malsana”.

Il quadro mondiale: perdita di consensi

Alla forza di questa economia si contrappone un crescente isolamento dell’America rispetto al resto del mondo. Isolamento relativo, s’intende: la comunità transatlantica rimane un blocco straordinariamente ricco e influente. Se all’Europa si aggiungono i numerosi alleati asiatici – Giappone, Corea del Sud, Filippine – più Australia e Nuova Zelanda, “l’Occidente allargato” è molto grosso. Però in termini di popolazione il resto del mondo è ancora più grosso, e cresce di più.

Come il Vietnam negli anni Sessanta segnò una ferita grave per la legittimità, credibilità, autorevolezza degli Stati Uniti nel mondo, così in una certa misura sta avvenendo oggi per Gaza. “La guerra di Biden” fa perdere all’America consensi preziosi nel Grande Sud globale. Non è del tutto casuale che altri due paesi africani – Niger e Ciad – abbiano appena cacciato i militari americani.

La sorpresa "finale" degli anni Sessanta

I paragoni storici vanno maneggiati con prudenza e umiltà. Voglio ricordare tuttavia che negli anni Sessanta l’America sembrava “perduta”: sia agli occhi della sua Generazione Sessantotto, sia agli occhi di gran parte del mondo affascinato dal comunismo sovietico o cubano, dal maoismo cinese, dalle varie rivoluzioni post-coloniali, dalle rivolte studentesche. Poi invece dell’America fu l’Unione sovietica a implodere, e fu la Cina ad abbandonare il maoismo.

L’America lacerata e sgomenta degli anni Sessanta senza saperlo stava soffrendo anche le doglie di un parto molto speciale: la rivoluzione informatica, l’avvento del computer, la primavera della Silicon Valley. Nonché tante forme di ambientalismo, femminismo, anti-razzismo che la Generazione Gaza forse crede di avere inventato.

Il confronto-sfida tra l’America di questi giorni e i suoi grandi rivali come la Cina, continuerà a dipanarsi per anni, con chissà quanti colpi di scena. Un frammento di lezione dagli anni Sessanta forse è questo: le crisi che esplodono alla luce del sole, quelle crisi visibili e rumorose che vengono recitate in piazza nelle nostre democrazie, non sono necessariamente quelle più pericolose per la sopravvivenza di un sistema. Quando un sistema è stato disegnato all'origine per essere elastico e assorbire gli urti.
 
Perché non ci sono "cure economiche" per la denatalità (e cosa ci unisce alla Cina)

Gli allarmi sulla denatalità si susseguono e si assomigliano: in Italia come in tante altre parti del mondo, Cina inclusa. In genere nei paesi democratici chi sta all’opposizione accusa chi sta al governo di non fare abbastanza per aiutare le donne, per sostenere le famiglie, per promuovere le nascite. (In Cina non può esistere un’opposizione, ma il governo è preoccupato lo stesso).

I cosiddetti esperti, che pochi anni prima gridavano al disastro per la “bomba demografica” e la “sovrappopolazione”, ora lanciano urli di terrore per lo “spopolamento”, e così via.

In mezzo a tanto frastuono inutile, è una bella sorpresa trovare un’analisi lucida, precisa, fattuale. L’ha scritta John Burn Murdoch sul Financial Times. E’ una sintesi di vari studi sulla denatalità, che convergono su questa conclusione: gli aiuti alle giovani donne, alle future mamme, o alle coppie, sono una bella cosa in sé ma non influenzano affatto la decisione di fare figli. L’aspetto economico è irrilevante, in quella decisione.

Questo del resto dovrebbe essere abbastanza ovvio, è una conclusione di buon senso, di fronte a un’osservazione empirica: i tassi di fertilità e natalità rimangono più elevati in paesi più poveri, quindi non è certo la mancanza di mezzi a giustificare il crollo delle nascite nei paesi ricchi.

Sono fondamentali invece dei fattori culturali. Il più importante di tutti sembra essere la fiducia nel futuro. Una generazione convinta di essere alla vigilia dell’Apocalisse, o di vivere in una civiltà malvagia, in un mondo infernale segnato dalle peggiori ingiustizie, perché mai dovrebbe fare figli? Per condannarli all’inferno?

Un altro fattore culturale si può riassumere nel concetto esagerato e iperprotettivo dei diritti del nascituro: se questa creatura deve assorbire il massimo dell’attenzione, delle cure, degli investimenti in educazione, l’asticella forse è un po’ troppo alta, la responsabilità genitoriale fa tremare le vene ai polsi. Fin qui ho riassunto con parole mie.

Ecco invece la sintesi degli studi su natalità e demografia raccolti da Burn-Murdoch. Dal 1980 al 2019 l’insieme dei paesi ricchi e sviluppati ha triplicato (al netto dell’inflazione, quindi in potere d’acquisto reale) gli aiuti pro-capite per la natalità: assegni familiari, asili nido gratuiti, permessi di maternità-paternità, e altri sussidi pubblici. Nello stesso periodo il numero di nascite è sceso inesorabilmente, in media da 1,85 a 1,53 per ogni donna.

La Finlandia è un paese egualitario, con un Welfare generosissimo. Ha uno dei sistemi più avanzati al mondo per assistere e sostenere le famiglie (tradizionali e non) che vogliono avere figli. Nonostante questo il tasso di fertilità finlandese è caduto di un terzo dal 2010. L’Ungheria, che per motivi ideologici fa di tutto per promuovere le nascite, ha toccato il suo minimo storico. In Corea del Sud il governo ha lanciato un programma munifico di pagamenti a chi fa figli, detto “baby bonus”: il bilancio è semplice, quel programma ha pagato donne che avevano già deciso di farli per conto proprio, mentre non ha spostato il trend di calo della natalità che prosegue imperterrito. Come si vede non ci sono differenze tra politiche di sinistra (Finlandia) e di destra (Ungheria), né tra Oriente e Occidente.

L’autore di questa sintesi commenta: “Il legame tra le nascite e la spesa pubblica per politiche in favore della famiglia, è trascurabile. Si scopre che la decisione se avere figli oppure no, e quanti farne, è influenzata da molte altre cose anziché dal denaro”. Questo non significa che sia sbagliato dare aiuti alle mamme o future mamme. Può essere giusto per tante ragioni. Può rendere la vita un po’ più facile a quelle donne che hanno comunque deciso di avere figli, un obiettivo in sé lodevole. Può servire a ridurre la povertà infantile nelle famiglie a basso reddito. Tutte cose buone, basta non illudersi che servano a invertire la tendenza alla denatalità. “I fattori culturali intervengono a monte nelle decisioni, molto prima che i costi di allevare un figlio siano presi in considerazione”.

Uno studio di Matthias Doepke e Fabrizio Zillibotti del 2019, intitolato “Money and Parenting: How Economics Explain the Way We Raise Our Kids”, viene usato per le sue conclusioni illuminanti. Cita la convinzione diffusa tra le giovani generazioni, che per dare a un figlio un futuro soddisfacente bisogna occuparsi moltissimo di lui o lei, garantirgli la massima attenzione dei genitori, e investire in un’istruzione di livello superlativo, in concorrenza sfrenata con i figli degli altri. La sfida, descritta in termini così impegnativi da risultare quasi spaventosi, finisce per apparire irraggiungibile a molti. Meglio accontentarsi di una vita “normale”, da single o da sposati senza figli, anziché sobbarcarsi una responsabilità simile. In parallelo, un’altra evoluzione culturale ha spostato le priorità della vita per i giovani adulti. Nel 1993 il 61% degli americani intervistati in un’indagine del Pew Research diceva che avere figli è importante per una vita appagante; oggi solo il 26% condivide quell’affermazione. Le giovani donne in particolare hanno spostato le priorità mettendo al vertice la “crescita personale” e la “carriera professionale”. Le paure legate all’eccesso di responsabilità come genitori figurano in modo rilevante tra le ragioni per non avere figli. I costi economici appaiono solo al 14esimo posto.

Infine interviene il livello di angoscia delle giovani generazioni. “Più una potenziale mamma è preoccupata sul futuro, meno vuole avere figli. In America, in Europa, in Estremo Oriente, la generazione sotto i trent’anni è più impaurita dal futuro e più stressata rispetto alle altre generazioni”.

Concludo con la Cina, stavolta attingendo al racconto di Peter Hessler sul magazine The New Yorker dell’8 aprile 2024. Prima ancora di essere stato un corrispondente in Cina per quel settimanale, Hessler aveva insegnato l’inglese in una università del Sichuan. E’ rimasto in contatto con i suoi ex-studenti e spesso li consulta per capire lo stato d’animo della gioventù cinese. Quasi nessuno di loro ha avuto o vuole avere figli. Le risposte negative raggiungono il massimo tra le ragazze: 76%. Questo suo sondaggio empirico, su un campione limitato, coincide con i risultati di altre indagini più vaste. Del resto è noto che la Cina è entrata in una fase di decrescita della popolazione per effetto di un crollo delle nascite. A nulla sono serviti i provvedimenti presi dal governo. Le autorità di Pechino sono passate a gran velocità dalla politica del “figlio unico” alla libertà di fare due, tre figli. Infine dalla libertà il regime è passato agli incentivi: ora paga le mamme perché facciano bambini. I risultati sono insignificanti. Ecco la spiegazione offerta da una ex-studentessa di Hassler: “Io penso che i bambini cinesi sono stressati e turbati. Siamo già noi una generazione turbata. Allevare dei figli richiede lunghi periodi di affiatamento e di osservazione e di guida, tutte cose difficili da garantire in un contesto di pressione sociale intensa. Il futuro della società cinese è un’incognita. I bambini non ci chiedono di essere messi al mondo. Io ho paura che i miei figli potenziali non siano dei guerrieri, e finiscano per perdersi”.

La Cina in cui abitai io era una nazione molto più ottimista e fiduciosa nel suo futuro. Quella di oggi, nella mentalità dei giovani, sembra molto più simile all’Occidente. Le politiche in favore della natalità sono un falso problema.           
 
Perché l'Africa caccia gli americani (c'entra Putin)

In poco più di una settimana, l'America ha perso due alleati africani, o quantomeno due presenze militari in questo continente. Prima il Niger poi il Ciad hanno dato il benservito ai militari Usa. Sono destinati a essere sostituiti dai russi: quasi certamente in Niger, mentre la situazione in Ciad è più aperta.

Il contraccolpo è stato sentito a Washington che vede arretrare la sua strategia africana. Accade in parallelo con le bocciature subite nei mesi e anni precedenti dalla Francia, i cui militari sono stati anch'essi espulsi da molti paesi. Spesso per essere sostituiti dai russi o dal Gruppo Wagner, i mercenari controllati da Mosca.

L'espulsione dei militari americani dal Niger è stata definita da diversi esperti Usa come un duro colpo alla strategia di Washington contro le forze jihadiste in Africa occidentale. Il Niger era un pilastro di quella strategia, ospitava la più grossa base militare Usa di tutta l'Africa occidentale, con mille soldati; e una base di droni costruita ad Agadez con un investimento di 110 milioni di dollari. Fino all'anno scorso i Berretti Verdi americani di stanza in Niger addestravano le truppe locali a combattere contro una delle più ampie guerriglie jihadiste del mondo, e i droni made in Usa contribuivano a spiare le milizie islamiste. A questo punto l'America deve ripiegare su un piano B, più limitato e difensivo: cercando di arginare il contagio jihadista in paesi vicini che ancora accolgono la presenza Usa, anziché andare all'offensiva contro il cuore delle forze islamiste.

Cos'ha provocato la cacciata? L'anno scorso in Niger c'è stato un colpo di Stato militare, condannato dalla Casa Bianca. L'Amministrazione Biden ha fatto pressione sulla giunta golpista perché ristabilisca un governo civile e legittimo. A quel punto i generali, guidati dal presidente Mohamed Bazoum, hanno cominciato a spostarsi verso un'alleanza con Mosca. Di recente la capitale del Niger Niamey è stata il teatro di manifestazioni anti-americane, probabilmente orchestrate dal regime. Ed è arrivata la richiesta formale di riportare a casa i mille soldati americani.

La situazione nel Ciad sembra più fluida. Lì la presenza militare Usa era molto più limitata: 75 soldati dei reparti speciali a Ndjamena, capitale del Ciad. Al momento sono stati rimpatriati anche loro. Come nel Niger, pure questi Berretti Verdi (del 20th Special Forces Group, un reparto della Guardia Nazionale dell'Alabama) erano lì come consiglieri e addestratori anti-terrorismo. Il Ciad ha un ruolo essenziale nelle operazioni contro Boko Haram. Pentagono e Dipartimento di Stato hanno l'impressione che la loro cacciata possa essere temporanea, una mossa negoziale con cui il presidente del Ciad potrebbe alzare il prezzo della sua cooperazione, mettendo in concorrenza Stati Uniti e Russia.
La Francia a sua volta era stata allontanata da Mali e Burkina Faso, in favore dei russi.
Federico Rampini, New York 27 aprile 2024

 
 
5  Forum Pubblico / N.O.M. NUOVO ORDINE MONDIALE e Stati Uniti d'Europa. / Il discorso di Draghi - Siamo tutti sovranisti? “Siamo tutti keynesiani”? inserito:: Oggi alle 12:19:05 pm
Siamo tutti sovranisti?

Enrico Cerrini
 
18 aprile 2024
“Siamo tutti keynesiani” è una famosa frase che il presidente americano Richard Nixon pronunciò nel 1971. Nixon era profondamente di destra, ma non poteva ignorare il consenso delle politiche economiche che auspicavano l’intervento dello stato in economia. Nel 1992, il saggista Francis Fukuyama proclamava “La fine della storia”, perché il capitalismo aveva sconfitto il comunismo grazie alla sua forma più aggressiva, il liberismo. Oggi, il discorso di Mario Draghi nel comune belga di La Hulpe potrebbe intitolarsi “Siamo tutti sovranisti”.

Il discorso di Draghi
Ursula von der Leyen ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sulla competitività nell’Unione Europea. La presidenza di turno belga ha chiesto di anticipare i risultati del rapporto all’ex primo ministro, che ne ha approfittato per delineare la sua idea di Unione Europea. Molti hanno interpretato il discorso di Draghi, incentrato su un cambio radicale, con la volontà di scalzare von der Leyen e diventare il prossimo presidente della
Commissione europea.
Infatti, il discorso ha avuto tanti plausi da tante parti, anche da quei sovranisti che fino a pochi mesi fa lo vedevano come un banchiere affamatore di popoli. Anche il centro si è sperticato in lodi, mentre la sinistra è apparsa più fredda. Ma sappiamo bene come la sinistra non potrebbe mai farsi sfuggire l’occasione di accodarsi a un ennesimo governo tecnico. Quindi, le elezioni europee del 9 giugno potrebbe davvero trasformare Mario Draghi in una sorta di super primo ministro UE, il più potente dai tempi di Jacques Delors.
Tutto ciò non sorprende, perché l’ex presidente BCE ha dato prova di essere un uomo ambizioso che gode di un’ottima reputazione. L’elemento di rottura è invece la sua piattaforma programmatica, così distante dal progetto europeo, profondamente intriso dalla cultura liberista che ha plasmato il trattato di Maastricht firmato nel 1992, nel pieno de “La fine della storia”. Un liberismo che Mario Draghi ha spesso sostenuto, malgrado qualche ripensamento dopo la crisi dell’euro del 2012.
Oggi, l’ex primo ministro ci aggiorna che il mondo è cambiato e il vecchio paradigma non è più valido a causa di eventi come la pandemia e l’aggressione russa all’Ucraina. L’analisi è corretta, solo che il paradigma liberista era già obsoleto dopo la crisi del 2008 e stiamo ancora pagando le conseguenze della mancanza di un cambio radicale tra il 2009/2010.

Il cambio radicale
Senza rinnegare niente di quanto fatto, Mario Draghi ha attaccato la logica della competitività che affligge le istituzioni europee. Per anni, l’Europa ha dato priorità ai consumatori e al libero scambio interno. Le aziende non dovevano essere troppo grandi per combattere posizioni monopolistiche e favorire la concorrenza. I lavoratori dovevano abbassare salari e tutele per contenere il costo del lavoro e dei prodotti finiti.
Questo modello è fallito perché la crisi del 2008 ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori e la domanda interna è calata. Quindi, le imprese hanno dovuto confrontarsi con i mercati internazionali senza avere la forza per competere con i giganti statunitensi o asiatici.
Secondo Draghi, la competitività non può essere un fattore di mercato interno, ma deve rivolgersi all’esterno. All’interno dell’Unione Europea, il problema principale è la crescita della domanda aggregata, per cui è necessario redistribuire la ricchezza facendo aumentare i salari. Nei mercati internazionali le aziende europee devono diventare più grandi, supportate sia dai governi che dai produttori di semilavorati e di componenti. E soprattutto c’è la grande partita della ricerca applicata, che deve sostenere il sistema produttivo.

Il sovranismo
Per attuare questo programma servono però tante operazioni che piacciono ai sovranisti. L’Europa deve diventare più autarchica, ripensando il sistema di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati. Inoltre, deve creare grandi aziende, campioni nazionali che si confrontino con le multinazionali.
L’ex presidente BCE ha anche trattato il tema della difesa comune, necessaria per fronteggiare le sfide militari che arrivano dall’esterno. Oggi l’intera Europa si sente minacciata, ma gli eserciti nazionali appaiono frammentati e inadeguati di fronte al nemico. Il tema piace molto ai liberali, visto che l’esercito comune europeo è il pallino del presidente francese Emmanuel Macron, ma non è disdegnato dai sovranisti, che hanno sempre un debole per la divisa.
Il discorso programmatico di Draghi implica quindi un cambio di paradigma. Nelle sue parole traspare l’uscita dalla fase liberista che si basava su un mondo interconnesso in cui era possibile approvvigionarsi all’infinito grazie alla filiera internazionale. Inizia invece una fase sovranista dove si fa politica industriale per avvantaggiare le imprese e le produzioni nazionali, si pongono dazi, si investe in ricerca applicata e si utilizzano i risparmi dei propri cittadini per attuare tali programmi.

E la sinistra?
Le idee sono compatibili con un ritrovato buon senso a seguito della sbornia liberista che ha pervaso l’Europa e i principali partiti di governo. Una sbornia insostenibile che ha alimentato il populismo e il nazionalismo mettendo in crisi le nostre democrazie. La svolta delineata sarebbe quindi necessaria, ma ci sono tanti modi per realizzarla. Se la sinistra riuscisse a influenzarla, potrebbe trarre utilità da un governo di coalizione, almeno una volta.
Infatti, la sinistra potrebbe indirizzare quest’agenda verso non solo l’aumento dei salari, ma includendo anche la lotta al cambiamento climatico, la distensione internazionale e l’affermazione dei diritti individuali, a partire dal riconoscimento delle minoranze etniche, religiose e sessuali. Il rischio è infatti quello di lasciare campo alla destra che chiaramente non è tanto interessata al benessere dei lavoratori, quanto a negare il cambiamento climatico e ingaggiare un nefasto scontro frontale con la Cina, oltre che alimentare razzismo, sciovinismo e oscurantismo.


TAG: liberismo, mario draghi, sovranismo, Unione europea, U

Da - https://www.glistatigenerali.com/istituzioni-ue_politiche-comunitarie/siamo-tutti-sovranisti/
6  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / La Politica ha bisogno di soldi? O i politici. Dimissioni poi la Magistratura. inserito:: Oggi alle 11:44:37 am
Inchiesta Toti, il presidente di Coop Liguria sulle accuse a Esselunga: “Non giudico quello che accade in casa d’altri” - Il Secolo XIX

Posta in arrivo

ggiannig <ggianni41@gmail.com>


https://www.ilsecoloxix.it/liguria/2024/05/17/news/inchiesta_toti_presidente_coop_liguria_accuse_esselunga_non_giudico-14310716/
 
7  Forum Pubblico / DOMANESIMO E' IL FUTURO, come lo disegniamo per i nostri nipoti? / Siamo tutti sovranisti? - LE PAROLE CHE CONTANO. inserito:: Maggio 16, 2024, 06:06:08 pm
Siamo tutti sovranisti?
Enrico Cerrini
 
18 aprile 2024
“Siamo tutti keynesiani” è una famosa frase che il presidente americano Richard Nixon pronunciò nel 1971. Nixon era profondamente di destra, ma non poteva ignorare il consenso delle politiche economiche che auspicavano l’intervento dello stato in economia. Nel 1992, il saggista Francis Fukuyama proclamava “La fine della storia”, perché il capitalismo aveva sconfitto il comunismo grazie alla sua forma più aggressiva, il liberismo. Oggi, il discorso di Mario Draghi nel comune belga di La Hulpe potrebbe intitolarsi “Siamo tutti sovranisti”.
Il discorso di Draghi
Ursula von der Leyen ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sulla competitività nell’Unione Europea. La presidenza di turno belga ha chiesto di anticipare i risultati del rapporto all’ex primo ministro, che ne ha approfittato per delineare la sua idea di Unione Europea. Molti hanno interpretato il discorso di Draghi, incentrato su un cambio radicale, con la volontà di scalzare von der Leyen e diventare il prossimo presidente della Commissione europea.
Infatti, il discorso ha avuto tanti plausi da tante parti, anche da quei sovranisti che fino a pochi mesi fa lo vedevano come un banchiere affamatore di popoli. Anche il centro si è sperticato in lodi, mentre la sinistra è apparsa più fredda. Ma sappiamo bene come la sinistra non potrebbe mai farsi sfuggire l’occasione di accodarsi a un ennesimo governo tecnico. Quindi, le elezioni europee del 9 giugno potrebbe davvero trasformare Mario Draghi in una sorta di super primo ministro UE, il più potente dai tempi di Jacques Delors.
Tutto ciò non sorprende, perché l’ex presidente BCE ha dato prova di essere un uomo ambizioso che gode di un’ottima reputazione. L’elemento di rottura è invece la sua piattaforma programmatica, così distante dal progetto europeo, profondamente intriso dalla cultura liberista che ha plasmato il trattato di Maastricht firmato nel 1992, nel pieno de “La fine della storia”. Un liberismo che Mario Draghi ha spesso sostenuto, malgrado qualche ripensamento dopo la crisi dell’euro del 2012.
Oggi, l’ex primo ministro ci aggiorna che il mondo è cambiato e il vecchio paradigma non è più valido a causa di eventi come la pandemia e l’aggressione russa all’Ucraina. L’analisi è corretta, solo che il paradigma liberista era già obsoleto dopo la crisi del 2008 e stiamo ancora pagando le conseguenze della mancanza di un cambio radicale tra il 2009/2010.
Il cambio radicale
Senza rinnegare niente di quanto fatto, Mario Draghi ha attaccato la logica della competitività che affligge le istituzioni europee. Per anni, l’Europa ha dato priorità ai consumatori e al libero scambio interno. Le aziende non dovevano essere troppo grandi per combattere posizioni monopolistiche e favorire la concorrenza. I lavoratori dovevano abbassare salari e tutele per contenere il costo del lavoro e dei prodotti finiti.
Questo modello è fallito perché la crisi del 2008 ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori e la domanda interna è calata. Quindi, le imprese hanno dovuto confrontarsi con i mercati internazionali senza avere la forza per competere con i giganti statunitensi o asiatici.
Secondo Draghi, la competitività non può essere un fattore di mercato interno, ma deve rivolgersi all’esterno. All’interno dell’Unione Europea, il problema principale è la crescita della domanda aggregata, per cui è necessario redistribuire la ricchezza facendo aumentare i salari. Nei mercati internazionali le aziende europee devono diventare più grandi, supportate sia dai governi che dai produttori di semilavorati e di componenti. E soprattutto c’è la grande partita della ricerca applicata, che deve sostenere il sistema produttivo.
Il sovranismo
Per attuare questo programma servono però tante operazioni che piacciono ai sovranisti. L’Europa deve diventare più autarchica, ripensando il sistema di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati. Inoltre, deve creare grandi aziende, campioni nazionali che si confrontino con le multinazionali.
L’ex presidente BCE ha anche trattato il tema della difesa comune, necessaria per fronteggiare le sfide militari che arrivano dall’esterno. Oggi l’intera Europa si sente minacciata, ma gli eserciti nazionali appaiono frammentati e inadeguati di fronte al nemico. Il tema piace molto ai liberali, visto che l’esercito comune europeo è il pallino del presidente francese Emmanuel Macron, ma non è disdegnato dai sovranisti, che hanno sempre un debole per la divisa.
Il discorso programmatico di Draghi implica quindi un cambio di paradigma. Nelle sue parole traspare l’uscita dalla fase liberista che si basava su un mondo interconnesso in cui era possibile approvvigionarsi all’infinito grazie alla filiera internazionale. Inizia invece una fase sovranista dove si fa politica industriale per avvantaggiare le imprese e le produzioni nazionali, si pongono dazi, si investe in ricerca applicata e si utilizzano i risparmi dei propri cittadini per attuare tali programmi.
E la sinistra?
Le idee sono compatibili con un ritrovato buon senso a seguito della sbornia liberista che ha pervaso l’Europa e i principali partiti di governo. Una sbornia insostenibile che ha alimentato il populismo e il nazionalismo mettendo in crisi le nostre democrazie. La svolta delineata sarebbe quindi necessaria, ma ci sono tanti modi per realizzarla. Se la sinistra riuscisse a influenzarla, potrebbe trarre utilità da un governo di coalizione, almeno una volta.
Infatti, la sinistra potrebbe indirizzare quest’agenda verso non solo l’aumento dei salari, ma includendo anche la lotta al cambiamento climatico, la distensione internazionale e l’affermazione dei diritti individuali, a partire dal riconoscimento delle minoranze etniche, religiose e sessuali. Il rischio è infatti quello di lasciare campo alla destra che chiaramente non è tanto interessata al benessere dei lavoratori, quanto a negare il cambiamento climatico e ingaggiare un nefasto scontro frontale con la Cina, oltre che alimentare razzismo, sciovinismo e oscurantismo.

TAG: liberismo, mario draghi, sovranismo, Unione europea, U

Da - https://www.glistatigenerali.com/istituzioni-ue_politiche-comunitarie/siamo-tutti-sovranisti/
8  Forum Pubblico / DOMANESIMO E' IL FUTURO, come lo disegniamo per i nostri nipoti? / [b]Si è sempre abituati a vedere marxismo, comunismo, socialismo da una parte... inserito:: Maggio 16, 2024, 04:50:54 pm

Centro Casa Severino - Associazione Studi Emanuele Severino

Si è sempre abituati a vedere marxismo, comunismo, socialismo da una parte e, dall’altra, il capitalismo.

Severino, però, sia ne “La tendenza fondamentale del nostro tempo”, che ne "Gli abitatori del tempo”, ma anche in altre opere come “Téchne. Le radici della violenza” (1979) dimostra come entrambe le parti non siano poi così diverse.
La contraddittorietà del marxismo non è solamente la sua incapacità di critica radicale al capitalismo, perché, in fondo, condividono gli stessi presupposti (entrambi sono espressioni del nichilismo occidentale), ma è anche il fatto che nasca in un orizzonte in cui viene meno la possibilità di un epistéme. Il marxismo si pone come scienza, e, in quanto tale, è ipotetico, ma, allo stesso tempo, pretende che la propria analisi della società sia vera, volendo porla, quindi, come una verità indiscutibile. L’oscillazione del marxismo tra sapere filosofico e sapere scientifico implica un’altra contraddizione: da un lato rifiuta qualsiasi immutabile o verità assoluta ma, al contempo, si edifica proprio su un immutabile, cioè l’esistenza della lotta tra capitale e proletariato. Se il terreno in cui cammina il marxismo è la caduta dell’idea di un sapere epistemico, questo comporta un ulteriore problema: se non si ha un punto fermo a cui far riferimento, come è possibile distinguere la verità dall’errore? Come può la filosofia giudicare la nostra società? E, soprattutto, la filosofia si deve porre necessariamente o dalla parte della borghesia o da quella del proletariato? Il marxismo è solo una delle forme del nichilismo occidentale, la fede che l’ente è niente, e che quindi appartiene a quello che Severino chiama “terra isolata", cioè la terra isolata dal destino della verità.
Ma non per questo la filosofia deve tacere, anzi, per Severino l’ultima parola spetta proprio alla filosofia stessa testimoniando il destino: la filosofia che, smascherando la follia del divenir altro e della volontà di potenza, indica quel contenuto (l’incontrovertibile destino della necessità) che, mantenendosi al di fuori della terra isolata, circondandola, si mantiene al di fuori della volontà di potenza e quindi anche dell’opposizione marxismo-capitalismo.

Da -  Fb del 30 aprile 2024
9  Forum Pubblico / INTESA DELL'OLIVO POLICONICO. PROGETTO DI SVILUPPO PER PRIORITA'. (Dopo 11 maggio 2024). / I giornali generalisti tendono a scomparire, fatta eccezione per alcune testate inserito:: Maggio 16, 2024, 12:12:21 am
Stefano Cipolla

Paolo Loscalzo questo è il problema. I giornali generalisti tendono a scomparire, fatta eccezione per alcune testate che si sono ritagliate un posto di autorevolezza e serietà riuscendo a conquistare una "community" (Internazionale su tutti, L'Espresso in parte, grazie anche alla sua storia).

Poi ci sono alcuni casi molto interessanti, a metà tra digitale e cartaceo: il Post e Linkiesta hanno raggiunto prima un pubblico vasto sul digitale e poi, in un secondo tempo, si sono sdoppiati su carta, raggiungendo ottimi risultati.
Segno evidente che della carta c'è ancora bisogno.

Infine, come dici tu c'è il settore della stampa indipendente e di settore che è in piena crescita.

Cosa ci dice tutto ciò? Che il sistema giornali tradizionale - basato su modelli economici non più sostenibili, con redazioni fisiche e numero di giornalisti sovradimensionato - è in crisi, ma al contempo un nuovo modello editoriale sta conquistando terreno.

Da FB 9 marzo 2024
10  Forum Pubblico / O.P.O.N. Opinione Pubblica Organizzata Nazionale, di DEMOCRATICI PROGRESSISTI. (Dopo 11 maggio 2024). / Al PD converrà ricercare contatti e dialoghi con i cittadini che non votano ... inserito:: Maggio 16, 2024, 12:09:40 am
Gianni Gavioli

Contenuto condiviso con: Tutti
 
Penso che al PD (che deve rinforzarsi con buoni esercizi in palestra più che sul campo) invece che farsi corteggiare o corteggiare i 5Stelle, inaffidabili dalla nascita, converrà ricercare contatti e dialoghi con i cittadini che non votano per protesta.

Se ne é ancora capace mettendo in un cassetto Marx e compagni bolscevichi, parlando di oggi e soprattutto di domani.

Noi dell'Olivo Policonico lo faremo, se arriveremo ad essere almeno 30 "addetti ai lavori", 1 per ogni Regione e 10 in Piattaforma virtuale.
ciaooo
io su FB del 15 marzo 2024
11  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Azioni e bond, le 5 lezioni dal passato per costruire il portafoglio del futuro inserito:: Maggio 15, 2024, 07:31:29 pm
Azioni e bond, le 5 lezioni dal passato per costruire il portafoglio del futuro
di Francesca Gerosa


I settori protagonisti sui mercati cambiano in fretta. Fare market timing non sempre è la cosa giusta. Ecco quale può essere l’asset allocation ideale tra bond e azioni per ogni ciclo di mercato sulla base delle dinamiche del passato. I consigli dei gestori | Azioni, ecco i 28 titoli che beneficeranno maggiormente dei tagli dei tassi in arrivo

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Dal 1989 a oggi i mercati globali hanno subito innumerevoli trasformazioni e si sono visti eventi di ogni tipo, di cui la maggior parte anche difficilmente immaginabili. Tuttavia, al netto dell’imprevedibilità degli eventi, secondo Alberto Foà, presidente di AcomeA Sgr, una costante ha sempre pagato: comprare sugli eccessi di ribasso. «Il mercato è pieno di esempi che hanno portato grandi soddisfazioni a chi avesse, con un approccio saldo e diversificato, incrementato sugli eccessi di ribasso: 1987 (Black Monday, lunedì nero, ndr), 1998 (la crisi finanziaria russa e asiatica, ndr), la Grande crisi del 2008, la pandemia di Covid del 2020 e tante altre fasi intermedie che si sono intervallate nei mercati», ricorda Foà.

Leggi anche: I 35 anni che hanno cambiato il mondo dell’economia e della finanza | Il longform

Due lezioni di base per chi investe in azioni

Ciò che non è mai davvero cambiato è la capacità dei mercati azionari globali di recuperare il terreno perso nei momenti di maggior volatilità (si veda il grafico pubblicato in pagina). Ed è per questo motivo che Cosmo Schinaia, Country Head per l’Italia di Fidelity International, ritiene che l’azionario rimanga l’asset class da cui non si può prescindere per la costruzione di un portafoglio diversificato, nonché l’unico vero hedge all’inflazione nel lungo periodo. «A mio avviso sono due le lezioni importanti da trarre dalla storia economica degli ultimi 30 anni. La prima è che la chiave per rimanere sui mercati è la pazienza, anche quando i mercati registrano una volatilità elevata e i prezzi delle aziende fluttuano in modo repentino. D’altra parte, quando le cose vanno molto bene, è facile farsi trascinare dall’euforia e dalle mode del momento, e questa è la seconda lezione: è fondamentale rimanere razionali», indica Schinaia. Guardando al futuro, «penso che l’azionario rimarrà uno degli elementi costitutivi dei portafogli diversificati bilanciati, unito a un’elevata gestione del rischio».

Quando si pensa, in effetti, ai periodi passati di euforia e crisi dei mercati è sempre fondamentale collocare la loro performance nel contesto di lungo periodo. «Nel corso del tempo i mercati azionari sono cresciuti in media del 4%-6% all'anno in termini reali. Ci sono stati anni di rendimenti negativi, ma questi sono sempre stati più che compensati da rendimenti positivi», nota Nicholas Bratt di Lazard Asset Management. Perché? Il motore a lungo termine della performance del mercato azionario, spiega Bratt, è la creazione di ricchezza da parte delle società quotate grazie al successo delle loro attività e alla generazione di profitti. Il pil globale è stato creato in gran parte da aziende di successo e questo si è riflesso nell'aumento dei prezzi delle azioni.

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Meglio non fare market timing
Si è tentati di credere di poter approfittare di questi estremi, vendendo ai massimi e comprando ai minimi di mercato. «La storia, tuttavia, ci dice che si tratta di un approccio poco saggio. Non è possibile prevedere su base costante quali siano i momenti migliori e peggiori per investire. Questo fenomeno si ripete in tutta la storia dei mercati azionari, anche se le specificità variano, compreso il tempo necessario per recuperare le perdite. Il messaggio rimane lo stesso: non cercate di fare market timing sull'entrata e sull'uscita dal mercato azionario, anche se potreste prendere profitti parziali quando i mercati sembrano fortemente sopravvalutati e aggiungere posizioni quando gli investitori sono in preda alla disperazione», consiglia Bratt, individuando quattro dinamiche del passato da tenere in considerazione: il ritmo del cambiamento, soprattutto nel mondo della tecnologia e della farmaceutica, si è accelerato; il numero di mercati azionari nel mondo è aumentato con lo sviluppo dei mercati emergenti, ampliando il ventaglio di opportunità; l'investimento passivo è cresciuto di importanza relativa, mettendo sotto pressione le commissioni di gestione; la psicologia del mercato rimane la stessa: «la follia delle folle, la speculazione e la paura».

Inoltre, sin negli anni ‘70 gli investitori erano restii a operare a livello globale. Si chiedevano: perché dovrei investire in tutto il mondo se le migliori società si trovano tutte negli Stati Uniti? Oggi, osserva Rob Lovelace, gestore di portafoglio azionario di Capital Group, si percepisce un sentiment analogo. «Il concetto di investire a livello globale non era ampiamente accettato come oggi, ma ci sono stati alcuni fattori che hanno contribuito a renderlo più credibile», indica Lovelace.

L’importanza degli indici globali
A svolgere un ruolo importante in tal senso furono gli sforzi compiuti da Capital International per creare indici globali (Capital International corrisponde alle lettere C e I di quella che è oggi nota come Msci) e statistiche a sostegno di tali indici. Sebbene all’epoca ci fossero solo tre variabili (ovvero il rapporto prezzo/utili, prezzo/flusso di cassa e prezzo/valore contabile), l’analisi statistica fornì validità agli investimenti in Europa e Asia, contribuendo a far sì che gli investitori si sentissero più a loro agio a operare al di fuori del proprio mercato di riferimento. Il fatto che questi dati venissero pubblicati solo due volte all’anno, con uno sfasamento temporale di un anno, dava inoltre agli investitori fondamentali un enorme vantaggio informativo. Ecco perché «la storia di lungo periodo e la memoria contano davvero», dichiara Lovelace.

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La leadership può cambiare
Arrivando ai giorni nostri, a una prima analisi si potrebbe dedurre che, dopo il 2020, i mercati siano andati generalmente bene. Una considerazione che va, però, approfondita in quanto il mercato è molto polarizzato a livello globale, afferma Foà. «Dagli Stati Uniti con i suoi magnifici 7, al mercato europeo con le banche, abbiamo un mercato che guarda a pochi titoli concentrati, dimenticando tutto il resto, tendenza amplificata dalla rapida diffusione del fenomeno degli Etf», chiarisce il presidente di AcomeA Sgr, notando anche che sui mercati globali non è mai stato così ampio il divario di valutazione tra le large cap e le mid e small cap.

Leggi anche: Azioni, i gestori europei iniziano a ruotare il portafoglio per giocare in difesa. Ecco i settori preferiti
«Con ogni giro di mercato cambiano i market leader, che ad oggi sono le magnifiche 7 statunitensi o le banche in Europa. Posizione di leadership e di concentrazione esasperata dai flussi dei gestori passivi, che come già detto, sono sempre più determinanti sui mercati. Tuttavia, come visto in tutti questi anni, la leadership può cambiare e anche molto in fretta. I vincitori del momento che hanno attirato tanta attenzione e tanta performance», avverte Foà, «potrebbero lasciare il posto ad altri attori».

I settori che prenderanno il posto del comparto tecnologico
Un’area che sta entrando in un periodo entusiasmante per Lovelace è quella del settore farmaceutico e sanitario: «non so se soppianterà il settore tecnologico a livello di predominio del mercato azionario, ma l’impressione è che ci troviamo all’inizio di un’era in cui si stanno presentando tutti insieme i benefici delle attività di ricerca e sviluppo svolte nell’ultimo decennio. Il comparto tecnologico», sostiene il gestore di Capital Group, «ha ancora molto da offrire e con ogni probabilità ci attendono interessanti sviluppi. L’informatica quantistica, ad esempio, sta portando con sé una gamma di opportunità totalmente nuova in grado di sovvertire lo status quo». Non solo.

Leggi anche: Investire a lungo termine, azioni o bond? Chi vince la sfida da qui al 2034. Un basket di titoli su cui puntare
In un contesto di trasformazioni tecnologiche, forte concentrazione di alcuni indici, aspettative di cambiamento dei tassi e l'incertezza geopolitica, «una lezione del passato che è sicuramente di attualità sta nel fatto che decidere sin dall’inizio chi sono i vincitori di una rivoluzione tecnologica ancora agli esordi può essere prematuro; per questo motivo sul settore tecnologico e in particolare sul tema dell’intelligenza artificiale suggeriamo un approccio diversificato», dichiara Ilaria Romagnoli, ceo di Symphonia sgr e responsabile dell’asset management del gruppo Banca Investis.

Come costruire un portafoglio bilanciato facendo tesoro delle lezioni passate
Per costruire un portafoglio bilanciato facendo tesoro di queste lezioni del passato, per quanto riguarda l’esposizione azionaria, Romagnoli vede con favore un sostanziale equilibrio fra azioni statunitensi e quelle degli altri paesi, in virtù delle elevate valutazioni raggiunte dal mercato americano, che rappresenta quasi il 70% degli indici di mercato globali. «Con l’indice S&P 500 in rialzo di quasi il 50% dai minimi di ottobre 2022, riteniamo che prendere qualche profitto su un’esposizione eccessiva alle grandi capitalizzazioni Usa possa essere prudente, sottopesare eccessivamente le allocazioni al mercato che stanno guidando la rivoluzione tecnologica di questo decennio potrebbe essere un errore», precisa il ceo di Symphonia Sgr. Per quanto riguarda la componente obbligazionaria (il 50% del portafoglio) «riteniamo che un’allocazione del 25% a titoli governativi a breve termine, 10% alla componente governativa a medio lungo termine e 15% ai subordinati finanziari possa essere adeguata alle attuali condizioni di mercato. Ora che il pricing di tagli accelerati è stato rimosso, la parte breve delle curve offre rendimenti elevati e attraenti. Nel credito, gli spread investment grade sono ormai molto compressi e anche se i rendimenti sono storicamente elevati, l’appeal rispetto ai governativi è ridotto. I bond subordinati finanziari sono la nostra asset class di credito preferita, in particolare gli AT1. La parte lunga delle curve potrebbe avere nuovamente un ruolo come bene rifugio per le strategie bilanciate, dopo la debacle del 2022».

L’asset allocation per un investitore con una media propensione al rischio
Il suggerimento di Foà per un portafoglio di un investitore con una media propensione al rischio nel contesto attuale prevede una quota azionaria massima del 40%, una componente obbligazionaria del 50% e una parte di liquidità remunerata al risk free del 10%. Per quanto riguarda le azioni, più che una scelta di area geografica, dove sovrappesare la sola area emergente rimasta molto indietro in relativo, il consiglio di Foà è quello di investire sulle sulle medie e piccole capitalizzazioni fortemente penalizzate dalla grossa concentrazione su pochi e mega titoli e quindi su valutazioni ai minimi storici, con un differenziale valutativo molto accentuato.

Bond, il cocktail migliore
«Sulle obbligazioni un buon mix tra governativi e corporate senza eccedere nella duration di portafoglio sembra essere sensato, con la presenza di alcuni paesi emergenti anche in local currency per avere un maggior rendimento. La presenza di liquidità», conclude Foà, «è utile per cogliere le eventuali opportunità di correzione dei mercati che dopo aver corso parecchio potrebbero rifiatare». A proposito di liquidità, avverte Bratt, cresce lentamente e spesso i tassi d'interesse sono in ritardo rispetto all'inflazione, per cui nel tempo la liquidità perde il suo valore reale. Al contempo le obbligazioni, spesso considerate investimenti sicuri e difensivi, possono essere molto volatili quando i tassi di interesse non sono stabili. Poi in quanto prestiti, non crescono di valore e quando vengono rimborsate il loro valore adeguato all'inflazione è tipicamente inferiore al prezzo di emissione originale.

Leggi anche: Bond, perché la strategia Barbell è vincente: 20 obbligazioni ad alto e basso rischio
«Un immobile ben scelto può essere un ottimo investimento a lungo termine, ma soffre di una liquidità limitata. Mentre l'oro è l'investimento più antico della storia dell'uomo. Nel corso del tempo si è rivelato un efficace elemento di diversificazione, poiché», conclude Bratt, «spesso è inversamente correlato all'andamento del mercato azionario. Ha inoltre una caratteristica unica come strumento finanziario: non rappresenta una passività di un'altra entità». (riproduzione riservata)

MF - Numero pag. 59 del 22/04/2024
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12  Forum Pubblico / ESTERO dopo il 19 agosto 2022. MONDO DIVISO IN OCCIDENTE, ORIENTE E ALTRE REALTA'. / La cultura che ignora la Palestina è solo posizionamento sociale», c’era scritto inserito:: Maggio 15, 2024, 07:25:45 pm
L’avvelenata
Guia Soncini

14 Maggio 2024
Salvateli Le celebrità engagé e i giovani che non distinguono tra imperativo morale e posizionamento sociale

L’appello di cantanti, attrici e icone gay a Jill Biden sulla Palestina ricorda, ventidue anni dopo, uno storico Jovanotti contro la guerra. Ma lo fanno solo per fotogenia, come le giovani scrittrici pro Pal al Salone di Torino
https://www.linkiesta.it/2024/05/palestina-guerra-giovani-cantanti-posizionamento/Alberto Gandolfo / LaPresse

Era ventidue anni fa, che per certe cose son ventidue secoli e per altre son ventidue minuti. Non c’erano i social, per dire. Io scrivevo per il femminile del Corriere, che vendeva vagonate di copie (a raccontarlo oggi, non sembra neanche vero).
Siccome le pagine chiudevano in tipografia dieci giorni prima dell’uscita, se volevi coprire l’attualità dovevi farti venire un’idea. Farsi venire un’idea era esercizio che davamo tutti per scontato di dover fare: è la grande differenza tra i giornali di allora e i giornali di oggi, le canzoni di allora e le canzoni di oggi, i programmi di allora e i programmi di oggi.
L’idea di Lorenzo Jovanotti era stata quella di lanciare il suo nuovo disco con una canzone contro la guerra, “Salvami”, che avrebbe cantato in qualunque programma televisivo fosse stato disposto a ospitarlo. La mia idea era stata: lo seguo e racconto una settimana di studi televisivi in cui portare una canzone che parla del G8 e della Fallaci.
Avevo 29 anni, Lorenzo ne aveva 35: eravamo due bambini, in quella pericolosissima fase in cui i bambini si percepiscono adulti. Questo non perché servano giustificazioni per allora, ma per dare una linea-guida a chi parla dei trentenni di oggi come fossero, appunto, adulti.
Il testo di “Salvami” era il testo d’una canzone: le canzoni vivono in un loro universo d’incantesimi in cui la semplificazione è un diritto e un dovere, e infatti la più famosa delle canzoni pacifiste è “Imagine”, il cui testo ha la complessità psicologica del compito in classe d’una terza elementare.
«Le otto principesse e i settecento nani, le armi, gli scudi, i diritti umani. I corvi che gracchiano “Rivoluzione!”, però non c’è pietà e non c’è compassione: il sangue si coagula sul pavimento, s’inceppa l’articolazione del movimento, la voce che balbetta, la speranza che inciampa, la capra che crepa, la capra che campa».
Anni dopo avrei chiesto a Lorenzo di fare un paragone tra “Salvami” e la «grande chiesa» di “Penso positivo”, e lui mi avrebbe detto che quella di “Penso positivo” era una frase più precisa; ma aveva torto (gli autori non capiscono mica mai niente delle loro opere). “Salvami” era precisissima; se all’autore l’avevano tirata in faccia come una canzone inaccettabile, mentre “Penso positivo” era diventata un classico, era per quell’incognita che regola gli esiti delle cose umane: la capra che crepa, la capra che campa.
Comunque. A un certo punto, in una settimana di esibizioni in tutta la tv possibile, da Guardì in su e in giù, “Salvami” arriva da Bruno Vespa, che era Bruno Vespa ventidue anni fa e lo sarà tra ventidue anni.
Una redattrice di Vespa alla quale sono gratissima mi portò via d’imperio da dove stavo di solito a seguire queste registrazioni – con Lorenzo e il suo staff – e mi disse che il mio posto era in sala stampa, cioè dove stavano i giornalisti politici che seguivano le registrazioni di Vespa. Senza quella redattrice non avrei mai visto il dettaglio importante.
Il dettaglio importante non era Vespa che metteva a sedere Lorenzo e gli diceva ma dicci, caro, cosa pensi tu della guerra, e lui che rispondeva (vado a memoria) che la guerra è male e la pace è bene, il che allora lo faceva sembrare uno che non sa distinguere tra la realtà e le canzoni, e oggi lo renderebbe indistinguibile da un qualunque militante ventenne o trentennne intervistato e preso sul serio mentre dice banalità a una telecamera.
Il dettaglio importante era che, prima ancora che quello cantasse, in sala stampa speravano che Vespa facesse «una domanda a Jovanotti sull’ipotesi Fini agli esteri». Avevo ventinove anni e non sapevo trovarmi il culo con le mani, ma se mi è rimasto così impresso significa che persino allora mi colpì; significa che persino io ero meno ubriaca d’una classe giornalistica adulta che riteneva rilevante il commento d’un cantante su un incarico governativo.
All’epoca l’equivoco – forse il parere delle persone famose sulle buone cause conta qualcosa, influenza qualcuno, ha senso venga espresso pubblicamente – era più giustificabile: eravamo quasi vergini. Il discorso esasperato di Nanni Moretti a piazza Navona sarà un mese dopo Lorenzo da Vespa, i girotondi devono ancora arrivare, Michael Moore deve ancora vincere l’Oscar. La stagione delle celebrità engagé è solo all’inizio.
E poi venivamo dai gloriosi anni Ottanta in cui i cantanti s’erano incaricati di risolvere la fame nel mondo (senza riuscirci, ma fornendoci preziosi ritornelli). Certo, c’è il dettaglio che la fame nel mondo non era una causa controversa, non c’era il solito dualismo, stai con Togliatti o con Vittorini, con Coppi o con Bartali, con la Callas o con la Tebaldi, coi bambini con la pancia gonfia o con chi li affama.
Per le guerre è sempre un po’ più complicato, lo era persino quando il mondo non era un gigantesco palcoscenico e di secondo mestiere non facevamo tutti gli opinionisti. Per Lorenzo da Vespa s’irritarono gli opinionisti di destra (che facevano obiezioni che oggi sarebbero di sinistra: quel verso sulla Fallaci è maschilistaaaaa) e il Codacons, ma non s’indignò Vongola75. Chissà che delirio decuplicato sarebbe stato, a social aperti.
«Siamo madri e figlie e nonne e sorelle e sostenitrici della giustizia e semplici esseri umani, e se ci rivolgiamo a lei è perché sappiamo che anche lei è tutte queste cose». L’altro giorno su Instagram è comparso un video in cui signore famose di mezza età, cantanti, attrici, icone gay, Christine Baranski e Annie Lennox, Cynthia Nixon e Marcia Cross, chiedono a Jill Biden di attuare (in qualità di moglie?) un cessate il fuoco permanente.
È un video in cui si dicono cose ovvie e di buonsenso, come in generale sono sempre questi appelli che sembrano scritti dal Max Catalano di “Quelli della notte”: bisogna smettere di ammazzare la gente, non bisogna bombardare i civili, bisogna liberare gli ostaggi, non bisogna ammazzare i bambini palestinesi. Però queste cose ovvie e di buonsenso le dicono tizie famose in un settore professionale fatto di lustrini, e io resto basita che, dopo vent’anni di insuccessi nel perorare cause politiche, attori e cantanti ancora non abbiano capito che la loro adesione alle buone cause non solo non le risolve, ma ne peggiora la popolarità.
«Sappiamo che le immagini dei bambini affamati la staranno devastando», dice a un certo punto Cynthia Nixon, ed è un dettaglio interessante e secondo me indispensabile per capire chi in queste settimane ritiene di dover dire la sua: dobbiamo fare qualcosa per proprio questa tragedia qui perché proprio di questa tragedia qui ci arrivano le immagini sul telefono e ciò ci mette di malumore.
È un video lunare in ogni sua scelta. Quella di parlare da donna a donna, come fossero gli anni Cinquanta e certe cose si risolvessero tra mogli: sì, lo sappiamo che formalmente comanda tuo marito, però.
Ma soprattutto quella di pensare che Jill Biden possa non sapere cosa sta succedendo, possa aver bisogno che glielo dicano le attrici e le cantanti. Sarebbe una gran commedia: la moglie del presidente degli Stati Uniti che va in tv e dice «ma io non sapevo niente, se non me lo diceva Annie Lennox, canticchiavo sempre “Sweet Dreams” e quindi quando m’hanno detto che aveva una buona causa alla quale sensibilizzarmi ho prestato attenzione, fino ad allora m’era proprio sfuggita».
Certo, vale in generale per tutti, non solo per la gente famosa. Le giovani scrittrici che al Salone di Torino scandiscono slogan sulla Palestina libera mica saranno così sceme da pensare che i loro cinque minuti di fotogenia servano a liberare la Palestina. Servono al massimo a posizionarle tra i buoni. Some of them want to use you, some of them want to get used by you.
«La cultura che ignora la Palestina è solo posizionamento sociale», c’era scritto su un cartello torinese, e io cerco di non usare mai la categoria della malafede perché non mi sembra utile, ma l’alternativa all’intenzione manipolatoria è che chi l’ha scritto non si renda conto che non c’è più immediato posizionamento sociale, in questi mesi, che parlare di Palestina e Israele, un trending topic a lunga conservazione.
L’alternativa è che non capiate il mondo. D’altra parte siete – voi di Torino: Annie Lennox non ha neanche quella scusa lì – giovani: perché mai dovreste rendervi conto che quello che vi sembra imperativo morale è solo posizionamento sociale? Virtue signalings are made of this: who am I to disagree?

Da - https://www.linkiesta.it/2024/05/palestina-guerra-giovani-cantanti-posizionamento/
13  Forum Pubblico / SIAMO DIFFERENTI e DIVERSI, UGUALI nei DIRITTI e DOVERI, ma DIVISI in CATEGORIE SOCIALI. / Azioni e bond, le 5 lezioni dal passato per costruire il portafoglio del futuro inserito:: Maggio 14, 2024, 06:36:29 pm
Azioni e bond, le 5 lezioni dal passato per costruire il portafoglio del futuro
di Francesca Gerosa

 tempo di lettura 7 min
I settori protagonisti sui mercati cambiano in fretta. Fare market timing non sempre è la cosa giusta. Ecco quale può essere l’asset allocation ideale tra bond e azioni per ogni ciclo di mercato sulla base delle dinamiche del passato. I consigli dei gestori | Azioni, ecco i 28 titoli che beneficeranno maggiormente dei tagli dei tassi in arrivo

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Dal 1989 a oggi i mercati globali hanno subito innumerevoli trasformazioni e si sono visti eventi di ogni tipo, di cui la maggior parte anche difficilmente immaginabili. Tuttavia, al netto dell’imprevedibilità degli eventi, secondo Alberto Foà, presidente di AcomeA Sgr, una costante ha sempre pagato: comprare sugli eccessi di ribasso. «Il mercato è pieno di esempi che hanno portato grandi soddisfazioni a chi avesse, con un approccio saldo e diversificato, incrementato sugli eccessi di ribasso: 1987 (Black Monday, lunedì nero, ndr), 1998 (la crisi finanziaria russa e asiatica, ndr), la Grande crisi del 2008, la pandemia di Covid del 2020 e tante altre fasi intermedie che si sono intervallate nei mercati», ricorda Foà.
Leggi anche: I 35 anni che hanno cambiato il mondo dell’economia e della finanza | Il longform
Due lezioni di base per chi investe in azioni
Ciò che non è mai davvero cambiato è la capacità dei mercati azionari globali di recuperare il terreno perso nei momenti di maggior volatilità (si veda il grafico pubblicato in pagina). Ed è per questo motivo che Cosmo Schinaia, Country Head per l’Italia di Fidelity International, ritiene che l’azionario rimanga l’asset class da cui non si può prescindere per la costruzione di un portafoglio diversificato, nonché l’unico vero hedge all’inflazione nel lungo periodo. «A mio avviso sono due le lezioni importanti da trarre dalla storia economica degli ultimi 30 anni. La prima è che la chiave per rimanere sui mercati è la pazienza, anche quando i mercati registrano una volatilità elevata e i prezzi delle aziende fluttuano in modo repentino. D’altra parte, quando le cose vanno molto bene, è facile farsi trascinare dall’euforia e dalle mode del momento, e questa è la seconda lezione: è fondamentale rimanere razionali», indica Schinaia. Guardando al futuro, «penso che l’azionario rimarrà uno degli elementi costitutivi dei portafogli diversificati bilanciati, unito a un’elevata gestione del rischio».

Quando si pensa, in effetti, ai periodi passati di euforia e crisi dei mercati è sempre fondamentale collocare la loro performance nel contesto di lungo periodo. «Nel corso del tempo i mercati azionari sono cresciuti in media del 4%-6% all'anno in termini reali. Ci sono stati anni di rendimenti negativi, ma questi sono sempre stati più che compensati da rendimenti positivi», nota Nicholas Bratt di Lazard Asset Management. Perché? Il motore a lungo termine della performance del mercato azionario, spiega Bratt, è la creazione di ricchezza da parte delle società quotate grazie al successo delle loro attività e alla generazione di profitti. Il pil globale è stato creato in gran parte da aziende di successo e questo si è riflesso nell'aumento dei prezzi delle azioni.

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Meglio non fare market timing
Si è tentati di credere di poter approfittare di questi estremi, vendendo ai massimi e comprando ai minimi di mercato. «La storia, tuttavia, ci dice che si tratta di un approccio poco saggio. Non è possibile prevedere su base costante quali siano i momenti migliori e peggiori per investire. Questo fenomeno si ripete in tutta la storia dei mercati azionari, anche se le specificità variano, compreso il tempo necessario per recuperare le perdite. Il messaggio rimane lo stesso: non cercate di fare market timing sull'entrata e sull'uscita dal mercato azionario, anche se potreste prendere profitti parziali quando i mercati sembrano fortemente sopravvalutati e aggiungere posizioni quando gli investitori sono in preda alla disperazione», consiglia Bratt, individuando quattro dinamiche del passato da tenere in considerazione: il ritmo del cambiamento, soprattutto nel mondo della tecnologia e della farmaceutica, si è accelerato; il numero di mercati azionari nel mondo è aumentato con lo sviluppo dei mercati emergenti, ampliando il ventaglio di opportunità; l'investimento passivo è cresciuto di importanza relativa, mettendo sotto pressione le commissioni di gestione; la psicologia del mercato rimane la stessa: «la follia delle folle, la speculazione e la paura».

Inoltre, sin negli anni ‘70 gli investitori erano restii a operare a livello globale. Si chiedevano: perché dovrei investire in tutto il mondo se le migliori società si trovano tutte negli Stati Uniti? Oggi, osserva Rob Lovelace, gestore di portafoglio azionario di Capital Group, si percepisce un sentiment analogo. «Il concetto di investire a livello globale non era ampiamente accettato come oggi, ma ci sono stati alcuni fattori che hanno contribuito a renderlo più credibile», indica Lovelace.

L’importanza degli indici globali
A svolgere un ruolo importante in tal senso furono gli sforzi compiuti da Capital International per creare indici globali (Capital International corrisponde alle lettere C e I di quella che è oggi nota come Msci) e statistiche a sostegno di tali indici. Sebbene all’epoca ci fossero solo tre variabili (ovvero il rapporto prezzo/utili, prezzo/flusso di cassa e prezzo/valore contabile), l’analisi statistica fornì validità agli investimenti in Europa e Asia, contribuendo a far sì che gli investitori si sentissero più a loro agio a operare al di fuori del proprio mercato di riferimento. Il fatto che questi dati venissero pubblicati solo due volte all’anno, con uno sfasamento temporale di un anno, dava inoltre agli investitori fondamentali un enorme vantaggio informativo. Ecco perché «la storia di lungo periodo e la memoria contano davvero», dichiara Lovelace.

Leggi anche: Azioni, 15 titoli da mettere in portafoglio per cavalcare la volatilità fra guerre e banche centrali
La leadership può cambiare
Arrivando ai giorni nostri, a una prima analisi si potrebbe dedurre che, dopo il 2020, i mercati siano andati generalmente bene. Una considerazione che va, però, approfondita in quanto il mercato è molto polarizzato a livello globale, afferma Foà. «Dagli Stati Uniti con i suoi magnifici 7, al mercato europeo con le banche, abbiamo un mercato che guarda a pochi titoli concentrati, dimenticando tutto il resto, tendenza amplificata dalla rapida diffusione del fenomeno degli Etf», chiarisce il presidente di AcomeA Sgr, notando anche che sui mercati globali non è mai stato così ampio il divario di valutazione tra le large cap e le mid e small cap.

Leggi anche: Azioni, i gestori europei iniziano a ruotare il portafoglio per giocare in difesa. Ecco i settori preferiti
«Con ogni giro di mercato cambiano i market leader, che ad oggi sono le magnifiche 7 statunitensi o le banche in Europa. Posizione di leadership e di concentrazione esasperata dai flussi dei gestori passivi, che come già detto, sono sempre più determinanti sui mercati. Tuttavia, come visto in tutti questi anni, la leadership può cambiare e anche molto in fretta. I vincitori del momento che hanno attirato tanta attenzione e tanta performance», avverte Foà, «potrebbero lasciare il posto ad altri attori».

I settori che prenderanno il posto del comparto tecnologico
Un’area che sta entrando in un periodo entusiasmante per Lovelace è quella del settore farmaceutico e sanitario: «non so se soppianterà il settore tecnologico a livello di predominio del mercato azionario, ma l’impressione è che ci troviamo all’inizio di un’era in cui si stanno presentando tutti insieme i benefici delle attività di ricerca e sviluppo svolte nell’ultimo decennio. Il comparto tecnologico», sostiene il gestore di Capital Group, «ha ancora molto da offrire e con ogni probabilità ci attendono interessanti sviluppi. L’informatica quantistica, ad esempio, sta portando con sé una gamma di opportunità totalmente nuova in grado di sovvertire lo status quo». Non solo.

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In un contesto di trasformazioni tecnologiche, forte concentrazione di alcuni indici, aspettative di cambiamento dei tassi e l'incertezza geopolitica, «una lezione del passato che è sicuramente di attualità sta nel fatto che decidere sin dall’inizio chi sono i vincitori di una rivoluzione tecnologica ancora agli esordi può essere prematuro; per questo motivo sul settore tecnologico e in particolare sul tema dell’intelligenza artificiale suggeriamo un approccio diversificato», dichiara Ilaria Romagnoli, ceo di Symphonia sgr e responsabile dell’asset management del gruppo Banca Investis.

Come costruire un portafoglio bilanciato facendo tesoro delle lezioni passate
Per costruire un portafoglio bilanciato facendo tesoro di queste lezioni del passato, per quanto riguarda l’esposizione azionaria, Romagnoli vede con favore un sostanziale equilibrio fra azioni statunitensi e quelle degli altri paesi, in virtù delle elevate valutazioni raggiunte dal mercato americano, che rappresenta quasi il 70% degli indici di mercato globali. «Con l’indice S&P 500 in rialzo di quasi il 50% dai minimi di ottobre 2022, riteniamo che prendere qualche profitto su un’esposizione eccessiva alle grandi capitalizzazioni Usa possa essere prudente, sottopesare eccessivamente le allocazioni al mercato che stanno guidando la rivoluzione tecnologica di questo decennio potrebbe essere un errore», precisa il ceo di Symphonia Sgr. Per quanto riguarda la componente obbligazionaria (il 50% del portafoglio) «riteniamo che un’allocazione del 25% a titoli governativi a breve termine, 10% alla componente governativa a medio lungo termine e 15% ai subordinati finanziari possa essere adeguata alle attuali condizioni di mercato. Ora che il pricing di tagli accelerati è stato rimosso, la parte breve delle curve offre rendimenti elevati e attraenti. Nel credito, gli spread investment grade sono ormai molto compressi e anche se i rendimenti sono storicamente elevati, l’appeal rispetto ai governativi è ridotto. I bond subordinati finanziari sono la nostra asset class di credito preferita, in particolare gli AT1. La parte lunga delle curve potrebbe avere nuovamente un ruolo come bene rifugio per le strategie bilanciate, dopo la debacle del 2022».

L’asset allocation per un investitore con una media propensione al rischio
Il suggerimento di Foà per un portafoglio di un investitore con una media propensione al rischio nel contesto attuale prevede una quota azionaria massima del 40%, una componente obbligazionaria del 50% e una parte di liquidità remunerata al risk free del 10%. Per quanto riguarda le azioni, più che una scelta di area geografica, dove sovrappesare la sola area emergente rimasta molto indietro in relativo, il consiglio di Foà è quello di investire sulle sulle medie e piccole capitalizzazioni fortemente penalizzate dalla grossa concentrazione su pochi e mega titoli e quindi su valutazioni ai minimi storici, con un differenziale valutativo molto accentuato.

Bond, il cocktail migliore
«Sulle obbligazioni un buon mix tra governativi e corporate senza eccedere nella duration di portafoglio sembra essere sensato, con la presenza di alcuni paesi emergenti anche in local currency per avere un maggior rendimento. La presenza di liquidità», conclude Foà, «è utile per cogliere le eventuali opportunità di correzione dei mercati che dopo aver corso parecchio potrebbero rifiatare». A proposito di liquidità, avverte Bratt, cresce lentamente e spesso i tassi d'interesse sono in ritardo rispetto all'inflazione, per cui nel tempo la liquidità perde il suo valore reale. Al contempo le obbligazioni, spesso considerate investimenti sicuri e difensivi, possono essere molto volatili quando i tassi di interesse non sono stabili. Poi in quanto prestiti, non crescono di valore e quando vengono rimborsate il loro valore adeguato all'inflazione è tipicamente inferiore al prezzo di emissione originale.

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«Un immobile ben scelto può essere un ottimo investimento a lungo termine, ma soffre di una liquidità limitata. Mentre l'oro è l'investimento più antico della storia dell'uomo. Nel corso del tempo si è rivelato un efficace elemento di diversificazione, poiché», conclude Bratt, «spesso è inversamente correlato all'andamento del mercato azionario. Ha inoltre una caratteristica unica come strumento finanziario: non rappresenta una passività di un'altra entità». (riproduzione riservata)

MF - Numero pag. 59 del 22/04/2024


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14  Forum Pubblico / ESTERO dopo il 19 agosto 2022. MONDO DIVISO IN OCCIDENTE, ORIENTE E ALTRE REALTA'. / I tredici giorni di Columbia. Breve storia del nuovo ’68 americano, dalle ... inserito:: Maggio 14, 2024, 06:30:26 pm
I tredici giorni di Columbia. Breve storia del nuovo ’68 americano, dalle tende a Hind’s Hall

di Gioacchino Orsenigo
 
Descrivere quanto accaduto a Columbia e più in generale nelle università degli Sati Uniti non è facile, soprattutto per me, che mi ci sono ritrovato coinvolto un po’ per caso, per via di alcune ricerche accademiche che mi hanno portato a New York, in quella che sarebbe diventata il cuore della protesta. Il lavoro perde d’importanza quando la storia ti capita così improvvisamente tra i piedi e provare a ricostruire quello che ho vissuto in questi giorni è un grande onore.
Rimando anche all’intervista che ho fatto ad Aidan, attivista queer e una delle voci della rivolta, per Napoli Monitor e Radio Onda d’Urto, e che ha ispirato questo articolo (disponibile qui e qui).
La notte tra il 30 aprile e il primo maggio, abbiamo assistito a una brutale prova di forza da parte delle autorità di Columbia e della polizia di New York. Almeno un migliaio di agenti ha fatto incursione all’interno del Campus, istituendo una zona rossa che militarizzava di fatto tutto l’Upper West Side. Sono state arrestate circa 170 persone, tra occupanti e solidali. Immagini di studenti trascinati e scaraventati giù dalle scale sono state diffuse sui social dagli stessi studenti presenti perché l’accesso al Campus era stato in parte limitato anche ai giornalisti e agli osservatori legali. Nel frattempo, veniva sgomberato anche l’accampamento di CCNY – City College of New York – mentre a UCLA, in California, l’accampamento degli studenti veniva attaccato da manifestanti pro-israele con lanci di fuochi d’artificio, mattoni e spranghe. Quanto accaduto quella notte è stato l’evento culminate di giorni di grande tensione e l’ultimo atto della politica di zero tolleranza promossa dalle autorità della Columbia.
La spettacolarizzazione dello sgombero e l’impiego massiccio e sproporzionato della polizia è stato il chiaro tentativo delle autorità universitarie, cittadine e nazionali, di mostrare la loro fermezza e una prova di forza di fronte a un movimento che stava diventando sempre più grande e incontrollabile. Per capire come si è arrivati a questo punto, è giusto fare un passo indietro.
Fin dal mio arrivo, a gennaio, il campus era attraversato ogni due o tre giorni da qualche manifestazione per la Palestina. Il 17 Aprile, la presidente di Columbia Minouche Shafik era attesa alla Camera del Congresso per rendere conto di come l’amministrazione universitaria stesse gestendo le protesta all’interno del campus, accusate di antisemitismo. Prima di lei, a dicembre 2023, altre tre presidenti di importanti università – MIT, Pennsylvania University e Harvard – erano state sottoposte alle medesime procedure, conclusesi con le dimissioni di due loro. Questo è già particolarmente eloquente circa le modalità, anche piuttosto plateali, in cui la politica americana è in grado di intromettersi nella gestione delle università americane. Bisogna poi considerare il ruolo, decisivo, dei finanziatori che, con la minaccia di ritirare i fondi, possono direzionare drasticamente la gestione delle università americane, specie quelle Ivy League. Con il trumpismo e l’acuirsi della frattura cultura e sociale che attraversa il paese, il tentativo delle destre americane di intromettersi nell’educazione pubblica è diventato sempre più minaccioso e riguarda tanto le università pubbliche quanto quelle private. In Florida, per esempio, il governatore De Santis già dall’anno scorso ha bloccato i programmi “DEI – Diversity, Equity, Inclusion” in tutte le università pubbliche in nome della battaglia alla “dittatura woke”, cancellando corsi vicini alle “identity politics” e “divisivi” o basati “sulle teorie del razzismo, del sessismo e dell’oppressione sistemici”. In modalità diverse, università pubbliche e private sono facilmente influenzabili dalla politica e da interessi ideologici ed economici e il clima è quello di un rinnovato maccartismo, spinto dalla destra ma sostenuto anche da una parte dei democratici. Oggi la destra americana sfrutta l’antisemitismo – da sempre galoppante nelle loro fila – per attaccare i movimenti di protesta e le minoranze. È fondamentale tenere a mente questa strumentalizzazione e trasformazione delle Università in campi di battaglia politica e culturale, in atto da ben prima delle proteste contro il genocidio a Gaza, per comprendere il clima di tensione e caccia alle streghe che si vive oggi.
Minouche Shafik ha dimostrato di aver appreso la lezione inferta alle altre rettrici, chiarendo la sua netta condanna all’“antisemitismo” e destreggiandosi bene tra le domande, compresa quella del deputato repubblicano Rick Allen il quale, ricordando il passo della Genesi che afferma che chiunque maledica il popolo ebraico sarà a sua volta maledetto da Dio, le chiede: “Do you want Columbia University to be cursed by God?” “Definitely not”, la laconica risposta. La Presidente aveva già avuto modo di provare il suo posizionamento, fondando, alcuni giorni dopo l’attacco del 7 ottobre, una taskforce sull’antisemitismo all’interno dell’università, che tuttavia non dava una chiara definizione del concetto e lo faceva di fatto corrispondere a qualsiasi tipo di critica verso il sionismo e lo stato di Israele. Nello stesso periodo, ha anche modificato regole dell’università sulla gestione delle proteste, scavalcando il Senato accademico, e concentrando sull’amministrazione il potere di intervenire a propria discrezione. Poco dopo, Shafik ha fatto chiudere le due associazioni che più si stavano impegnando nel campus in supporto della causa palestinese, Students for Justice in Palestine e Jewish Voices for Peace, con l’accusa di violare le regole sulle proteste e di antisemitismo, impedendo così anche alcuni incontri di discussione sul tema all’interno dell’Università. Conseguentemente, gli attivisti hanno dato vita al Columbia University Aparthaid Divest, una rivitalizzazione del collettivo istituito contro l’aparthaid sudafricana. Il 3 aprile, sono stati sospesi tre studenti per aver deciso di non collaborare con le indagini dell’università. Il 10 aprile compare sul Columbia Spectator, giornale dell’università, una lettera di alcuni professori ebrei che denunciavano l’uso strumentale dell’antisemitismo e la narrazione distorta di quanto stava avvenendo all’interno del campus. Il clima, fuori e all’interno di Columbia, era quindi comprensibilmente molto teso già prima delle occupazioni.
Lo stesso giorno in cui Shafik si presentava alla Camera, veniva occupato l’east lawn, il prato est di fronte alla Butler Library, la biblioteca centrale di Columbia, con una trentina o quarantina di tende. Gli occupanti chiedevano trasparenza finanziaria degli investimenti dell’Università e la cessazione degli accordi di investimento verso e da Israele e l’amnistia verso gli studenti sospesi. Il giorno dopo, con un gesto ostentato e arrogante, per dar prova del pugno di ferro annunciato il giorno prima, Shafik ha risposto militarmente, acconsentendo all’entrata della polizia all’interno del campus che avrebbe portato allo sgombero coatto dell’accampamento e all’arresto di più di 100 persone e alla loro sospensione dal campus. Gli studenti sospesi sono stati privati dell’accesso ai buoni pasto e alle cure mediche e sfrattati dalle loro abitazioni. Gli studenti non americani che hanno solo un visto temporaneo sono quelli che rischiano più di tutti, per loro la minaccia più grande è l’espulsione dal paese. Nel frattempo, un buon numero di solidali si radunava intorno al prato picchettandolo per difenderlo dall’imminente sgombero. Le immagini delle decine e decine di poliziotti che trascinano via gli studenti e distruggono le tende sono state tristi e penose – sembrava il peggio a cui si potesse pensare, invece non erano nulla a confronto di quelle del 30 aprile. Fin da subito l’arrivo della polizia ha scatenato la rabbia degli studenti venuti in supporto, ormai parecchie centinaia, al punto che alcuni di loro, senza pianificazione, hanno deciso di saltare la piccola siepe che circonda il prato ovest, occupandolo mentre lo sgombero dell’altro era ancora in corso e dando così vita al secondo accampamento, che il giorno dopo sarebbe stato ben più grande e organizzato del primo. Anche buona parte del corpo docente si è espressa contro la scelta della Presidente, e molti professori hanno manifestato sulle gradinate sotto la statua della Minerva con in mano cartelli con la scritta “Hands off our students”, “giù le mani dai nostri studenti”. Nei giorni seguenti, molti di loro hanno dato supporto all’accampamento, pattugliando il perimetro e assicurandosi che non entrassero provocatori o infiltrati. Moltissime sono state anche le lettere di condanna a Shafik: ho trovato significativa la lettera scritta dai professori “untenured”, ovvero senza contratto determinato perché molti dei firmatari hanno aderito in modo anonimo: per timore di rappresaglie da parte dell’amministrazione, indicano solo il grado accademico e il dipartimento.
È nato così l’accampamento di Columbia, il primo di moltissimi altri che sarebbero sorti in giro per gli Stati Uniti. I 14 giorni di accampamento resteranno nella Storia e saranno un ricordo prezioso nella memoria collettiva di chi vi ha partecipato. Centinaia di studenti lo hanno attraversato tra dibattiti, incontri e momenti di festa. A ogni ora era possibile trovare da mangiare, grazie alle provviste fornite dagli studenti ma anche dagli abitanti e dai negozi del quartiere. Una delle tende era diventata la biblioteca dell’accampamento, un’altra dava assistenza sanitaria e psicologica. I professori tenevano lezioni e discussioni. L’aria che si respirava era di grande entusiasmo, desiderio e combattività, in netto contrasto con l’aura austera ed elitaria che aleggia spesso intorno ai grandi college americani. Uno degli aspetti più interessanti da sollevare è quello della composizione sociale e culturale di chi protesta dentro e fuori dai campus. La maggior parte, e soprattutto coloro che più si sono esposti, fanno parte di minoranze black, brown e queer, nonché arabe e musulmane, che già da tempo negli USA come altrove sono diventati i nuovi protagonisti delle lotte sociali. Ovviamente, Columbia fa i conti con il suo essere una scuola di élite e la differenza di classe è talvolta percepibile, tuttavia la stessa composizione è riscontrabile anche negli altri college dove la protesta è esplosa e anche al di fuori delle università. Va però anche sottolineato che molti ricevono borse di studio mentre per altri le famiglie sono disposte a indebitarsi perché i figli abbiano accesso all’istruzione di alto livello che è l’unica forma di ascensore sociale negli USA. Questa differenza è ben percepibile quando si osservano le contro-proteste dei sostenitori di Israele, generalmente bianche e spesso piene di fondamentalisti cristiani e gruppi neofascisti, spesso molto violenti. Un altro aspetto da notare è l’ampissima partecipazione di studenti ebrei, fin da subito in prima fila nelle proteste. Come dicevo, a Columbia, una delle associazioni che più si è esposta è stata Jewish Voices for peace, chiusa a novembre. E molti studenti ebrei sono stati sospesi, amara ironia, con l’accusa di antisemitismo. Nei giorni di Pesach, nell’accampamento gli studenti ebrei hanno festeggiato il Seder insieme agli altri manifestanti mentre a New York si teneva una grossa manifestazione di soli ebrei contro il genocidio. Grande supporto è stato espresso anche dagli ebrei ultraortodossi Neturei Karta, che si oppongono allo stato di Israele e hanno manifestato fuori dal campus in sostegno all’occupazione.
Nel frattempo, le occupazioni si diffondevano prima a New York e dintorni – NYU, Yale, CUNI ecc. – e poi in tutti gli Stati Uniti, da una costa all’altra, spesso represse con la stessa logica violenta e securitaria da parte delle amministrazioni. La polizia ha spezzato il cordone di professori che difendeva gli studenti accampati a NYU, arrestandone alcuni. Particolarmente forti sono state le immagini arrivate dalla Emory University di Atlanta, dove la polizia ha brutalmente picchiato studenti, soprattutto neri, e professori. Lì la tensione è particolarmente alta a causa dell’opposizione da parte di attivisti/e e cittadine/i all’Atlanta Public Safety Training Center, meglio nota come Cop City, un enorme campo di addestramento della polizia in costruzione in una foresta fuori città. Un giovane attivista è stato ucciso l’anno scorso dalla polizia durante degli scontri.
La scelta di campo dell’amministrazione di Columbia, caduta completamente nella trappola della destra repubblicana, è stata tanto chiara da aver permesso allo speaker repubblicano Mike Johnson di tenere un comizio sui gradini centrali sotto la Low Memorial Library, di fronte all’accampamento, accusando gli attivisti di antisemitismo e invocando l’invio della Guardia Nazionale. Lo stesso giorno, nonostante già alcuni giorni prima dell’inizio dell’accampamento l’accesso al campus fosse stato ristretto solo a chi era dotato di identificativo della Columbia, a provocare gli studenti c’era anche Gavin McInnes, fondatore dei Proud Boys, organizzazione neofascista militante vicina all’ex presidente Donald Trump. È interessante poi notare che dietro la gestione eufemisticamente intransigente della protesta a Columbia c’è, tra gli altri, Cas Halloway, nominato “chief operating officer” a gennaio 2024 per gestire la “tensione” nel campus. Cas Halloway è stato deputy mayor durante l’amministrazione Bloomberg della città nel 2011 e responsabile della repressione delle proteste di Zuccotti Park durante Occupy Wall Street. Mentre alcune università, come University of Minnesota e Brown, hanno effettivamente accettato di intavolare una seria negoziazione, accettando per esempio di rendere pubblici gli investimenti e, nel caso della Brown, di mettere ai voti la proposta di disinvestimento, alla Columbia il tavolo di trattative non ha portato a nulla. Il 29 aprile, dopo più di dieci giorni di accampamento, la rettrice ha dichiarato concluse, con un nulla di fatto, le negoziazioni intraprese con gli studenti in protesta e ha annunciato l’ultimatum delle 2 del pomeriggio per abbandonare l’accampamento. A quel punto è stato distribuito da parte delle autorità universitarie un modulo che gli/le occupanti sarebbero stati tenuti a firmare, autodenunciandosi, per evitare la sospensione. I cestini del campus si sono improvvisamente riempiti di carta stracciata mentre sopraggiungevano altri studenti e le studentesse a difendere l’accampamento.
In almeno un migliaio si sono radunati e hanno marciato intorno all’area centrale del Campus di Columbia in sostegno agli occupanti. Questi non si sono consegnati e alle 10 di sera l’amministrazione ha annunciato i procedimenti di sospensione. A mezzanotte e mezza circa, i manifestanti hanno occupato uno degli edifici della Columbia, Hamilton Hall, rinominato “Hind’s Hall”, in onore a Hind Rajab, bambina di 5 anni uccisa dall’esercito israeliano. La scelta dell’edificio non è casuale: quello stesso edificio fu occupato e sgomberato durante le storiche proteste di Columbia contro la guerra in Vietnam e contro il razzismo, che fecero scoppiare il ‘68 americano.
La linea dura di Shafik, sebbene sia il tentativo, goffo e sgraziato, di mantenersi al proprio posto, ha anche avuto un effetto positivo. Come mi ha fatto notare Elizabeth Povinelli, Franz Boas Professor di Antropologia e Studi di Genere e fra coloro che si sono attivati in sostegno degli studenti, non solo la rettrice ha compattato studenti e professori, compresi quelli più restii a esporsi, ma ha fatto esplodere un movimento nazionale e internazionale riunito intorno a un nuovo simbolo, quello di una tenda. Simbolo che, con l’invio della polizia e lo sgombero, lei stessa ha contribuito a creare. Mentre, infatti, gli accampamenti vengono sgomberati negli Stati Uniti, tanti altri si diffondono in Canada, Spagna, Francia, Inghilterra… Inoltre, richiamandosi alla storica occupazione di Columbia del’68, gli studenti hanno ritessuto un filo che li lega alle lotte passate, dandogli forza, e contribuito a sentirsi figli e parte di un immaginario e di una storia collettiva. Per quanto dolorose siano state le immagini dello sgombero e di quelli che stanno avvenendo via via anche negli altri campus, sono giornate che passeranno alla Storia, repressione o meno, e uno spartiacque si è creato, qui, come anche nel resto del mondo. È presto per dire cosa avverrà dopo questa ondata repressiva ma sicuramente qualcosa è cambiato nella società americana contribuendo a definire sempre più chiaramente i termini dello scontro politico culturale e sociale degli ultimi anni, come già aveva fatto Black Lives Metter, tra una destra che ha gettato via la maschera e mostrato il suo volto sempre più conservatore, suprematista e razzista e il movimento variegato delle diverse minoranze che compongono il paese e che hanno trovato nella lotta contro il genocidio a Gaza un punto di unione e identificazione.
Da - https://www.sinistrainrete.info/politica/28074-gioacchino-orsenigo-i-tredici-giorni-di-columbia-breve-storia-del-nuovo-68-americano-dalle-tende-a-hind-s-halldi.html
15  Forum Pubblico / ESTERO dopo il 19 agosto 2022. MONDO DIVISO IN OCCIDENTE, ORIENTE E ALTRE REALTA'. / L’ambigua influenza della Cina sull’energia latino-americana. inserito:: Maggio 14, 2024, 12:14:10 pm

Lontano dagli occhi (di Washington) L’ambigua influenza della Cina sull’energia latino-americana
Marco Dell’Aguzzo

Pechino domina il mercato sudamericano di pannelli solari, veicoli elettrici e batterie: in due anni le esportazioni cinesi sono quasi raddoppiate di valore. Un fenomeno che Joe Biden, dalla Casa Bianca, sta osservando con grande inquietudine
Un impianto industriale che produce carbonato di litio per la fabbricazione di batterie, in Bolivia (AP Photo/LaPresse, ph. Juan Karita)

Qualche settimana fa Reuters ha raccontato come l’amministrazione di Joe Biden abbia pressato il governo messicano affinché non offrisse agevolazioni alle case automobilistiche cinesi interessate ad aprire degli stabilimenti nel Paese. La notizia non stava tanto nel successo di quelle sollecitazioni – del resto il Messico è economicamente dipendente dagli Stati Uniti –, quanto nelle paure che avevano portato Washington a intervenire negli affari del vicino: la Casa Bianca, cioè, temeva che la Cina si mettesse ad assemblare in Messico veicoli elettrici da esportare in territorio statunitense, approfittando del libero scambio. Uno scenario del genere avrebbe rappresentato un rischio politico per Biden, che ha dedicato la sua presidenza alla reindustrializzazione green degli Stati Uniti proprio per contrastare la concorrenza cinese, disincentivandola e tenendola lontana.
Se gli occhi e le parole degli Stati Uniti sono forti in Messico, Paese nordamericano ma anche punto d’inizio dell’America Latina, nel resto del continente lo sguardo e la voce della Casa Bianca fanno più fatica ad arrivare. E dato che la competizione con la Cina riguarda anche le tecnologie pulite, tra i politici e gli analisti a Washington si guarda con una certa preoccupazione alla presenza fortissima di Pechino nei mercati sudamericani delle clean tech e dell’energia a emissioni zero. Dal 2021 al 2023 le esportazioni cinesi di pannelli solari, batterie al litio e veicoli elettrici in America Latina sono quasi raddoppiate di valore, superando i nove miliardi di dollari. L’inquietudine statunitense è amplificata dal fatto che la Cina investe parecchio sia nel settore delle materie prime (i maggiori depositi al mondo di litio si trovano tra Cile, Argentina e Bolivia), sia in quello della trasmissione di elettricità.
Il think tank Atlantic Council ha scritto che «l’influenza cinese sull’energia latinoamericana è grande, impattante, ambigua e potenzialmente rischiosa in determinati contesti». Ma qual è, esattamente, il rischio di utilizzare un pannello fotovoltaico o un’auto elettrica cinesi? Gli Stati Uniti pensano che queste automobili potrebbero raccogliere dati sensibili sugli spostamenti delle persone o sulle strutture militari; mentre gli inverter dei pannelli solari (dispositivi che convertono la corrente prima dell’immissione in rete) potrebbero contenere delle backdoor per l’accesso e la disattivazione da remoto. È difficile valutare quanto siano fondati questi timori, ai quali comunque si aggiunge – secondo Washington – un rischio di natura politica: la Cina potrebbe sfruttare la sua dominanza economica per ottenere concessioni di varia natura dai governi sudamericani, dalle condizioni commerciali favorevoli al sostegno nelle sedi internazionali sulle dispute territoriali.
L’Economist ha riassunto bene la situazione. Nel 2023 il novantanove per cento dei pannelli solari e il settanta per cento dei veicoli elettrici importati dai Paesi latinoamericani erano stati prodotti in Cina.
Oltre il novanta per cento delle batterie introdotte sul mercato sudamericano era cinese. Ci sono più autobus cinesi a Santiago, in Cile, che in qualsiasi altra città al di fuori della Cina. È un bene o un male? Da un lato, infatti, i dispositivi cinesi sono economici e possono ridurre i costi della decarbonizzazione, permettendo al Sudamerica di sfruttare il suo potenziale rinnovabile e ridurre gli acquisti di combustibili fossili dall’estero. Dall’altro lato, l’affidamento eccessivo alle importazioni dalla Cina, oltre ai rischi già visti, potrebbe impedire alla regione di ritagliarsi degli spazi nella filiera delle clean tech.
Ma in alcuni settori, come quello dell’assemblaggio di automobili e dell’estrazione di minerali critici, le società cinesi stanno investendo direttamente. BYD Auto, per esempio, sta costruendo uno stabilimento in Brasile che sarà il più grande al di fuori dell’Asia – con una capacità iniziale di centocinquantamila veicoli l’anno –, scommettendo sull’elettrificazione della mobilità in un mercato vasto ma ancora poco sviluppato. Attraverso MMG Limited, la Cina controlla la miniera di Las Bambas in Perù, che vale da sola il due per cento dell’offerta globale di rame. Tianqi e Ganfeng operano in Cile e in Argentina, rispettivamente al secondo e al quarto posto nella classifica dei Paesi produttori di litio. Il colosso CATL spenderà 1,4 miliardi di dollari nell’estrazione del litio in Bolivia.
Nella supply chain delle batterie, però, il vero valore aggiunto non si trova nella fase di prelievo delle materie grezze ma in quella di lavorazione: per questo è stata notevole – e infatti la annunciò il presidente Gabriel Boric in persona – la decisione di Tsingshan di investire duecentotrentatré milioni nella produzione di composti per le batterie al litio-ferro-fosfato in Cile. In Argentina, Zijin ha in programma un impianto di carbonato di litio dal valore di trecentottanta milioni.
Oltre alle miniere, che le permettono di proiettare influenza sui mercati globali delle commodities, la Cina in Sudamerica è parecchio inserita in un altro settore sensibile: quello della trasmissione dell’energia elettrica.
Ad esempio, il gruppo statale State Grid ha acquisito due dei principali distributori di elettricità in Cile e adesso controlla la metà del mercato nel paese; in Perù, similmente, dopo una serie di acquisizioni di aziende locali, le società statali cinesi dominano nella distribuzione di elettricità a Lima. Il rischio sistemico in questo caso è molto alto perché si tratta di infrastrutture critiche che consegnano a Pechino il potere di sospendere il flusso degli elettroni; rischio che cresce ulteriormente se le compagnie cinesi hanno il controllo anche sugli impianti di generazione.
La presenza della Cina nel settore eolico sudamericano è invece significativa ma non assoluta come nel caso del fotovoltaico. Pechino potrebbe anche inserirsi nel comparto della produzione e del trasporto marittimo di idrogeno verde – magari in forma di ammoniaca, come si sta pensando di fare a Punta Arenas, all’estremità meridionale del Cile –, ma si tratta di una filiera ancora tutta da sviluppare.

da - https://www.linkiesta.it/2024/05/cina-batterie-auto-elettriche-materie-prime-america-latina/
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