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Autore Discussione: NANDO DALLA CHIESA -  (Letto 3890 volte)
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« inserito:: Aprile 06, 2012, 04:33:10 pm »

di Nando dalla Chiesa | 6 aprile 2012


I Gattopardi in camicia verde

A metà tra la commedia napoletana e il grande romanzo della Sicilia borbonica che sventolò il tricolore. Povera Lega che voleva celebrare cultura e tradizioni del Nord. Ma quale Manzoni, ma quale Gadda. Il suo epilogo evoca insieme la pernacchia di Eduardo e il principe di Lampedusa. “Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi” pensarono di fronte a Tangentopoli i ceti dominanti padani, sposando i precetti del Gattopardo di centotrent’anni prima. Così, mentre i vecchi partiti battevano in ritirata, consegnarono il futuro a questa armata pittoresca che zampillava dalle contrade brianzole e dalle valli bergamasche, gente nuova, sconosciuta alla politica e che trattava ogni forma e galateo con il rude disprezzo che il diplomato per corrispondenza riserva ai filosofi quando sa di avere il vento della storia alle spalle.

Un’armata che prometteva di non toccare il sistema dei privilegi purché potesse partecipare al banchetto. Dotata di un linguaggio sconosciuto, salvificamente barbarico, da esibire e vezzeggiare come segno della massima frattura rispetto al passato. Erano loro, i virgulti leghisti, i giovani “forniti di qualche generico ideale” che il principe di Lampedusa raccomandava di arruolare per rendere immobile il potere dei proprietari terrieri. A essi si affiancò ben presto un’altra armata, più adusa ai salotti, ma soprattutto composta di truppe fedeli al ricchissimo signore che scendeva in campo per difendere, insieme, gli interessi propri e quelli del sistema che lo aveva allevato. Due finte novità in pochi anni. Grazie alle quali il potere, pur tra oscillazioni e capriole, si difese egregiamente. Nessun senso di colpa per le vicende che avevano portato il sistema al collasso, una rapida acclamazione di Antonio Di Pietro come lavacro della propria coscienza. E poi via nella lotta tra vecchio e nuovo, con alle spalle un paese e un elettorato che mai era stato chiamato a guardarsi allo specchio. Nella Lega che cavalcava nelle istituzioni romane per conquistare l’indipendenza alla Padania agiva però, sotto il manto dei riti celtici e delle gutturalità sgargianti, un prodigioso concentrato delle culture più congeniali all’antico e aborrito Sud. L’antistatalismo, l’evasione del patto fiscale, il clientelismo, l’uso privato delle istituzioni, l’astuzia contadina, il familismo amorale, il saccheggio delle casse statali, il trasformismo, la propensione a farsi i fatti propri. E insieme un’indifferenza etica che in nome della terra promessa del federalismo faceva sostenere e digerire qualsiasi nequizia di “Roma ladrona”.

Ora sono giunti al pettine i nodi già inutilmente emersi negli anni eroici delle prime conquiste di grandi e piccoli comuni. Le vicende odierne, culminate nelle ingloriose dimissioni del leader-padrone, spiegano quale meccanismo di potere si sia costituito intorno a un progetto politico che fu decisivo per riempire il grande vuoto apertosi di schianto all’inizio degli anni Novanta: quando seconde linee ed elettori dei partiti della Prima Repubblica poterono schierarsi dalla parte del “cambiamento” arrembando dietro il Carroccio, e mantenendo intatta la loro avversione per il primato delle leggi e delle istituzioni. Il bar si fece Stato nella abiura delle regole. Da lì il paradosso impensabile, la straordinaria diffusione dei clan calabresi nella Lombardia governata dai difensori più severi e arcigni della padanità. Le culture non erano incompatibili, purtroppo. Sia perché in nome degli affari, come si è visto, i rispettivi ambasciatori economici si incontravano ai massimi livelli; sia perché la cura ossessiva del particulare ha innaffiato la pianta velenosa dell’omertà da Pavia a Varese, passando per Milano.

È stata solo ignavia? O, incapaci di sapere che cosa accadeva nelle loro dimore personali, a maggior ragione non potevano sapere che cosa accadeva nelle loro province? Certo tutto questo è successo tra auto e consulenze e assunzioni e finanziamenti in famiglia, con i soldi dello Stato. Proprio come i meridionali della propaganda. Quelli che succhiavano il Nord, spremendo soldi agli onesti contribuenti …

Il Fatto Quotidiano, 6 Aprile 2012

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/04/06/i-gattopardi-in-camicia-verde/202625/
« Ultima modifica: Giugno 11, 2012, 05:56:19 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 11, 2012, 05:55:41 pm »

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Blog di Nando dalla Chiesa > La mafia brucia...

La mafia brucia le arance, non la speranza

di Nando dalla Chiesa | 10 giugno 2012

Più informazioni su: beni confiscati, Beppe Montana, incendio, Libera Terra, mafia.

E adesso ditelo, ditelo ancora che queste cooperative sono la retorica dell’antimafia. Ditelo ai giovani della “Beppe Montana”, che hanno scelto di lanciare la sfida della loro vita da Belpasso, alle pendici dell’Etna, comune circondato a sud da Paternò, Mascalucia e Misterbianco.
Tra sabato e domenica qualche sgherro mafioso ha ricordato loro in che razza di avventura si sono ficcati. E ha fatto la sorpresa che da sempre la mafia fa ai suoi nemici che coltivano la terra. L’incendio vigliacco protetto dalla notte, hanno trovato un foro nella rete del terreno adiacente.
 
Oltre duemila piante di aranci bruciate, annichilite, polvere di carbone. Sei ettari di agrumeto danneggiati. E altri cento alberi di ulivo in fumo. Più di centomila euro di danni. Frugate sui siti di Libera Terra e troverete l’istantanea di due ragazzi in jeans e felpa su un sentiero. Li vedrete chini su cinque cassette, colme dell’oro delle arance. Felici davanti al primo raccolto della cooperativa, nata nel 2010.
Poi riandate su quei siti a vedere la foto di ciò che è rimasto. Lo stesso sentiero della prima foto vi sbatte in faccia un’immagine di desolazione, rami inscheletriti e terra annerita, non un segno di vita, con il cielo azzurro terso sullo sfondo che sembra una beffa suprema della natura. Così gli straccioni dell’antimafia imparano a prendersi in gestione i beni che lo Stato confiscò, in contrada Casablanca, al clan della famiglia Riela.

“Fino a due giorni fa sembravamo cani bastonati, io ero distrutto. Vedi, non hanno incendiato quando era tutta sterpaglia, e nemmeno quando stavamo facendo i lavori di rimessa a nuovo; che so, dopo la potatura. Ci hanno fatto arrivare in fondo al nostro lavoro, ci hanno dato la possibilità di vederlo, di gioirne, e poi hanno incendiato tutto. Per infliggerci il massimo danno economico, per colpirci nel modo più duro sul piano morale”.

Alfio Curcio ha quarant’anni, dice di essere un “diversamente giovane” e porta la storia di questo ennesimo attentato al pubblico riunito a Castel Volturno, all’assemblea dell’agenzia “Cooperare con Libera Terra”, nei terreni dedicati a don Peppino Diana, là dove Michele Zaza il capocamorra teneva a lucido i suoi cavalli di razza. Parla come direttore della “Beppe Montana”, che ha avuto in gestione anche i beni confiscati alla famiglia Nardo nel comune di Lentini, provincia di Siracusa. In tutto cento ettari circa. La cooperativa l’ha messa su lui insieme ad Andrea, ventiquattro anni, il giovanissimo presidente, ad Antonella, a Diego e Giuseppe, tutti selezionati con bando pubblico.
Alfio ha un bel cranio lucido alla Vialli (o alla Ruggeri), una maglietta color amarena e gli occhi azzurri scintillanti come ogni tanto se ne trovano solo in Sicilia.

 “Certo che ero abbattuto. Ci siamo fatti in quattro quasi senza soldi e con pochi mezzi manuali, usando i falcetti per il taglio delle erbe infestanti, e semplici seghetti e forbici per la potatura degli ulivi. Non ti dico cosa è stato. Tu pensa solo che dal momento della confisca a quello della assegnazione erano passati dodici anni, dunque immagina che cosa abbiamo trovato. Eppure ce l’avevamo fatta. Dagli agrumeti avevamo tirato fuori una quantità di frutta sufficiente a realizzare il progetto della produzione di marmellata di arance rosse; una bellissima etichetta, la scritta ‘Gusto di Sicilia’ con la ‘i’ intrecciata alla ‘u a formare la parola ‘giusto’. Gli ulivi hanno consentito una piccola produzione di olio extravergine. E anche dal seminativo è arrivata una discreta produzione di grano. Era troppo bello”.

L’homepage del sito comunica il clima dell’euforia primaverile: acquista le arance, acquista i prodotti, campi di volontariato, il progetto. Prontal’idea di far partire l’attività di turismo sociale. Di aprire nuove opportunità ai giovani svantaggiati, come è nello spirito di queste cooperative. Tutti pronti, con l’aiuto di qualche amico, ad accogliere i trecento giovani, specialmente  scout, che si sono prenotati da qui a settembre, dalla Toscana e dal Trentino, dall’Umbria e dal Veneto, per venire a offrire il proprio lavoro volontario.

A loro, nei momenti di formazione, faranno ascoltare le parole di Ivan Lo Bello, il simbolo della nuova imprenditoria siciliana, e di suor Lucia, che si batte in nome del Vangelo nel difficilissimo quartiere catanese di Librino. A loro, che non ne hanno mai sentito parlare, racconteranno chi era Beppe Montana, d’altronde lo hanno scritto sull’etichetta delle loro bottiglie “Frutti rossi di Sicilia”: “impavido commissario di Polizia posto a capo della squadra Catturandi di Palermo, vigliaccamente ucciso in un agguato mafioso”.

Gi, era di Catania, Montana, e si era messo in testa di cercare i latitanti quando nessuno lo faceva, anche comprandosi coi suoi soldi i binocoli e la benzina per i pedinamenti. Il quotidiano locale rifiutò il necrologio del padre perché aveva accusato del delitto la mafia.
Senza prove, era stata l’obiezione. “Mentre a noi i carabinieri ci hanno detto che al cinquanta per cento è stata autocombustione.

Che non ci sono tracce di benzina. Ma questo non è un appartamento, sono ettari di campagna , come si fa a dirlo? In ogni caso, morale sotto i tacchi o meno, abbiamo avuto tanta di quella solidarietà che abbiamo deciso di continuare, di ricominciare. Siamo tornati sui terreni, li abbiamo misurati una volta di più, per reimpiantare gli aranci. Anzi, do l’appuntamento all’anno venturo. Venite a trovarci. E troverete il nostro giardino più rigoglioso e più verde di prima”.

Il Fatto Quotidiano, 10 Giugno 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/10/la-mafia-brucia-le-arance-non-la-speranza/258639/
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 29, 2013, 10:32:04 pm »

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L’omicidio Franceschi e la Bocconi. Quarant’anni dopo, per non dimenticare


di Nando dalla Chiesa | 28 gennaio 2013


Quel maglio di ferro immenso sta lì dal ’77. Accanto alla Bocconi, all’angolo che si insanguinò una sera d’inverno, di fronte a parco Ravizza. L’altra mattina ai suoi piedi Lydia sembrava più piccola. Anche se stava una spanna sopra gli altri, sul palco dal quale parlava il sindaco Pisapia. Davanti a lei un centinaio, e anche più, di donne e uomini sui sessanta, frammisti a qualche studente. Il maglio, il monumento dedicato a suo figlio, stava per diventare ufficialmente patrimonio del comune di Milano. Era il punto d’arrivo di una lotta di quarant’anni.
Iniziata il 23 gennaio notte del 1973. Quando Roberto Franceschi venne colpito alla nuca da un proiettile sparato da un agente di polizia.
Una tragedia insensata. Gli studenti che convocano un’assemblea serale aperta in università. Il rettore che la vieta: gli estranei non entrano. Nel paese, nel nuovo governo di centrodestra c’è voglia di andare alla resa dei conti con il movimento studentesco milanese.

Il III Celere presidia, gli studenti attaccano, la polizia spara, spara anche personale in borghese sugli studenti in fuga.
Un operaio ferito, e Roberto, studente bocconiano, pure. Solo che Roberto muore dopo una settimana di coma. E a Lydia, attivissima preside di scuola media, cambia la vita. La consacra alla memoria del figlio, studente modello, libretto pieno di trenta e il sogno militante del socialismo in terra. La battaglia per la verità, le menzogne tipiche di questi processi (il suo durerà ventisei anni), la memoria di Roberto che diventa simbolo del movimento con una canzone di lotta che affascinò anche Giorgio Bocca. E negli anni la voglia sempre più grande di non consentire che l’oblio seppellisca tutto.

Gli stessi compagni di Roberto ogni tanto non capiscono, lei si consuma al pensiero che nessuno di loro abbia avuto il coraggio di testimoniare al processo. Alcuni di loro si chiedono se “la Franceschi” non stia andando sopra le righe. Che ne sanno mai loro di che cosa sia perdere un figlio, che cosa voglia dire fingere che possa tornare e tenere la sua stanza esattamente com’era quando lui ne uscì l’ultima volta?
Lydia, bionda e con il sorriso dolcissimo che sa mutarsi in frusta in un secondo, trasforma il 23 gennaio in un rito civile milanese.
Il primo, il secondo, il terzo anniversario, il decimo, il ventesimo. E i ragazzi crescono, e fanno famiglia e vanno in giro per il mondo.
Lei ogni 23 gennaio li riporta a quella sera lontana. All’inizio ci vanno per Roberto. Poi per Roberto e per Lydia, la donna che non si arrende e che li ama, e davanti alle cui ragioni alla fine si inchina anche la Bocconi.

Si chiedono, i ragazzi diventati adulti, che cosa potrà immaginare Lydia per l’anno prossimo, perché ha ormai inventato di tutto.
E lei inventa: con Cristina, la figlia; con Luigi, il marito. Non più solo la memoria, non più solo il processo e le sue bugie.
Ma le ingiustizie del mondo, perché quelle Roberto voleva combattere. Economisti, sociologi, avvocati, attori, giornalisti, familiari di altre vittime, testimoni del volontariato. E spettacoli, e la Costituzione, e la musica, in un turbinio di formule e di interlocutori.
Poi nel ’96 l’idea di lasciare qualcosa che possa oltrepassare non solo la vita di Roberto ma anche la sua: una fondazione, la fondazione Franceschi. In cui mette tutto il risarcimento finale del processo e che per anni ha premiato le migliori tesi bocconiane sul sottosviluppo, sulle disuguaglianze, sull’occupazione, sulla sostenibilità. E che ora ha istituito borse di studio che si apriranno agli studenti di tutte le università. Bisogna vederla quando i premiati raccontano la materia di cui si sono occupati, quando lei sente l’orgoglio che su quelle tesi vegli Roberto, che di quelle materie avrebbe voluto e non poté occuparsi. Ma l’orgoglio più grande l’ha forse provato l’altra sera, in cui anche il nuovo rettore della Bocconi ha voluto renderle omaggio. Quando ha preso la parola una studentessa bocconiana, Irene, calabrese.
Un discorso teso, commosso. Idealmente rivolto agli studenti venuti da fuori a contestare la Bocconi come tempio del capitale, dei tecnici che tagliano posti di lavoro, palestra per studenti privilegiati. L’avrebbero dovuto sentire in tanti quel discorso. Noi studenti bocconiani che “non balliamo sulla crisi”, noi che pensiamo criticamente, noi che guardiamo ai più deboli, noi siamo la Bocconi di Franceschi, la nostra università ha questa storia dentro la sua storia, come si fa a dimenticarlo?

Roberto che da solo pareggia agli occhi della ventenne di oggi il peso dei ministri bocconiani e della loro fama: quale riconoscimento più grande? Lydia ringraziava i sessantenni, e nell’abbraccio c’era la forza soprannaturale di una madre che con gli occhi che guardano avanti, ma con il cuore inchiodato al luogo in cui c’è il maglio immenso, ha fatto del figlio un simbolo. “Oggi guardo Roberto”, ha scritto in un foglio che ha voluto consegnare prima dello spettacolo teatrale, “mi sento in sintonia con Lui e in pace con me stessa”. Come i giusti.

Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/28/lomicidio-franceschi-e-bocconi-quarantanni-dopo-per-non-dimenticare/482005/
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 25, 2014, 04:49:58 pm »

Medicina ‘umana’ a tempo determinato: la storia di Ketti

Di Nando dalla Chiesa | 24 novembre 2014

Le emozioni. Che fanno tremare la voce. E la scienza. Che la rende inflessibile. E chi ha detto che non possono diventare la stessa cosa? Basta parlare con Ketti, ricercatrice allo Ieo, l’Istituto europeo di oncologia, sedersi in ascolto della sua vita e dei suoi progetti e ci si convince che è possibilissimo. Conquistati da quella che, tra parole e gesti e sguardi, si rivela alla fine come l’anima appassionata di un progetto di ricerca, di un’idea di professione. “Ketti: si scrive proprio così, mio padre mi spiegava che quando aveva dato il mio nome all’anagrafe lo avevano scritto in questo modo. Era l’epoca dei Pooh, di ‘ Piccola Katy’”. Il padre, Fiore. Torna spesso la sua figura nel racconto commosso di questa scienziata “a tempo determinato”. Dipendente della Montedison di Porto Marghera e come altri suoi colleghi colpito da tumore. Al duodeno. “Non abbiamo mai voluto indagare se all’origine ci fosse quello stabilimento, anche perché poi lui cambiò e andò alle Fs. L’ho seguito nella sua malattia. E lì ho imparato da figlia il rapporto crudo e brutale che un medico può stabilire con un paziente e con la sua famiglia. Ci fu l’operazione. Chiesi al chirurgo come andasse. Lui mi rispose così: ‘L’operazione è finita. Lei preghi e incroci le dita’. Non bastarono le preghiere”.

Da allora Ketti ha intensificato la lotta contro la medicina disumanizzata iniziata anni prima mettendo al servizio di questa causa le sue competenze. Laureata in psicologia a Padova, un assegno di ricerca a Trento, il dottorato a Padova, l’Oregon, la Bocconi (psicologia e consumi) e l’Humanitas a Milano, e finalmente lo Ieo, vincitrice di una borsa in medical decision making. “Quel che volevo fare”. I malati di tumori nell’istituto fondato da Umberto Veronesi; con il gruppo di ricerca diretto dalla professoressa Gabriella Pravettoni, dipartimento di Scienza della salute della Statale. Dove il suo ideale ha trovato modo di realizzarsi. Psicologia e medicina. Gettare all’aria il rapporto di superiorità tra medico e paziente. Portare il medico, l’infermiere, a vedere il paziente come persona titolare di diritti, e a non vivere la sua famiglia come una fastidiosa rompiscatole. “Bisogna capire che devono incontrarsi, chiamiamole così, due strategie. Quella del medico e quella del paziente. Vanno tutte e due nella stessa direzione, il benessere del paziente. Ma sono diverse. E sono fatte di aspettative e di comportamenti, a loro volta fondati sulla comprensione esatta della situazione. Il tema vero è la relazione. Il guaio è che il medico molte volte è convinto di non avere bisogno di un quadro psicologico del paziente, e l’infermiere gli va dietro. ‘Le vostre psicocazzate’ ci dicono. Poi arriva la paziente psichiatrica che crea problemi e allora commentano ‘ ah, ecco mi sembrava strana’. Ma se non se ne accorgono nei casi più evidenti, che cosa capiranno mai quando i segni non sono clamorosi?” Ecco, di questo si sta occupando Ketti come una missionaria, in una ricerca finanziata dall’Unione europea. Con un obiettivo preciso: “È un progetto di medicina personalizzata. Significa fornire all’oncologo su una piattaforma elettronica un profilo del paziente, il quale viene invitato a compilare un questionario prima di iniziare ogni rapporto di cura. In modo che ne emergano le ansie, le pressioni, il dolore attuali. E che si possano fare delle raccomandazioni al medico per migliorare la forma della comunicazione e poi quello della comprensione.

Ora la ricerca sta giungendo alla sua ultima fase, quella della misurazione dell’efficacia del metodo. Certo, ci sarà qualcuno che continuerà a non dare importanza al tema, ma sarà importante vedere i risultati di questo cammino con i medici che l’hanno ritenuto utile”.

Ketti non è una ragazzina. Eppure fa occhi di sogno quando parla del convegno che si terrà domani pomeriggio nell’aula magna dell’Università statale di Milano (“Uniti per i pazienti”) per presentare questa idea, relatori Umberto Veronesi, Massimo Cacciari e Gabriella Pravettoni (con coda eloquente di Aldo, Giovanni e Giacomo). “Che pubblico mi aspetto? Ne vorrei tanto, soprattutto di non addetti ai lavori. Le associazioni dei pazienti hanno dimostrato grande interesse. Ma vorrei che questa nuova cultura entrasse nella testa di tutti”. Non sarà tra i relatori, Ketti, anche se ha sgobbato per organizzare il convegno. Sogna solo che nessuno possa più dire a chi ha il cuore in sussulto “lei preghi e incroci le dita”. Che il paziente non debba più vergognarsi di dire “non ho capito, me lo rispieghi” e che un pezzo di potere possa trasferirsi un giorno a chi non sa nemmeno un termine medico. “Non li conosceva mio padre che avrebbe voluto studiare da medico e non poté per mancanza di soldi. Non li conosce mia madre Teresa che aveva una lavanderia. E invece la scienza deve servire ad arrivare a loro. In fondo è il traguardo della mia vita. Per questo occorre la cooperazione tra le discipline che hanno a che fare con la salute.” Orgoglio di scienziata a tempo determinato. Dalla voce ferma, dalla voce che si rompe.

Il Fatto Quotidiano, 23 Novembre 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11/24/medicina-umana-a-tempo-determinato-la-storia-di-ketti/1230491/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2014-11-24
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