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Autore Discussione: Ricardo Franco Levi. - Capo del governo, leader di partito. Normalità europea...  (Letto 2626 volte)
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« inserito:: Settembre 16, 2014, 05:56:57 pm »

LEADER
Capo del governo, leader di partito
Normalità europea, eccezione italiana


Di Ricardo Franco Levi

È utile che il capo del governo sia anche e contemporaneamente leader del proprio partito? O è meglio che i due incarichi siano separati? Di questo, e per la verità non solo di questo, si sta discutendo all’interno del Partito democratico, con esponenti di primissimo piano come Pier Luigi Bersani e Massimo d’Alema che apertamente chiedono al presidente del Consiglio Matteo Renzi di concentrarsi unicamente sul proprio ruolo di governo lasciando ad altri la guida del partito.

La questione ha un rilievo che va ben al di là della disputa tra maggioranza e minoranza del Pd, tanto che può essere utile proiettarla sul più vasto orizzonte europeo per vedere quali siano gli assetti prevalenti nelle democrazie nostre vicine.

Ebbene, la prassi è che il leader del partito che, solo o in coalizione con altre forze, vince le elezioni diventi capo del governo conservando la guida del partito.

È stato ed è così per Angela Merkel, per David Cameron, per Mariano Rajoy e per quasi tutti i capi di governo europei. Non per François Hollande, ma questo si spiega col fatto che egli ha conquistato la carica non di primo ministro ma di capo dello Stato e a quel punto, come presidente di tutti i francesi, è stato tenuto ad abbandonare la guida del suo partito.

Che il leader del partito che abbia vinto le elezioni diventi capo dell’esecutivo senza cedere la sua posizione di comando alla testa della propria forza politica non deve stupire. Nelle democrazie compiute, verrebbe da dire nei Paesi normali, i partiti, persino quelli più piccoli, sono per loro natura «partiti di governo», nel senso che hanno come obiettivo la conquista del potere quale strumento per la realizzazione dei propri programmi.

In questa prospettiva, essi scelgono i propri leader non per la semplice attitudine ad essere il primo degli iscritti ma in funzione della capacità di condurli alla vittoria e, quindi, di guidare il Paese. Con il «duplice cappello» di capo dell’esecutivo e del partito, il leader vittorioso è simbolo e garanzia del successo e della promozione della linea politica del partito che, con i propri voti e i propri eletti, diventa naturalmente il «partito del premier», assicurandogli la forza e il tempo necessari per realizzare, spesso nell’arco di più di una legislatura, il programma presentato agli elettori e da loro premiato.


L’eccezione a questa prassi si ebbe nella Germania del 1998 quando i socialisti della Spd si presentarono alle elezioni con Oskar Lafontaine, esponente di punta della propria ala sinistra, presidente del partito e Gerhard Schröder, portatore di una politica più moderata, candidato cancelliere. Dopo la vittoria, che pose fine al lungo regno di Helmut Kohl, il contrasto tra i due non tardò ad esplodere con il conseguente abbandono di tutte le cariche di governo (dove era ministro delle Finanze) e di partito da parte di Lafontaine che, pochi anni dopo, sarebbe uscito dalla Spd per fondare una forza dichiaratamente di sinistra.

Rivolte di partito determinate non da una sconfitta elettorale ma da un normale esaurimento della leadership , determinarono, peraltro, nella Gran Bretagna culla della democrazia, la fine della carriera politica di due premier potentissimi come Margaret Thatcher, prima, e Tony Blair, poi. A dimostrazione che, per quanto il sostegno al premier e alla sua politica diventi elemento essenziale della vita del partito vittorioso e, in particolare, della sua rappresentanza parlamentare, questo, nella concreta esperienza delle democrazie europee, non comporti necessariamente e all’infinito lo spegnimento del dibattito interno.

Rifiutare l’accoppiata premier-segretario è spia di una scelta a favore di un partito non pienamente «di governo» ma, piuttosto e ancora, «di lotta e di governo». Di un partito, cioè, che, pur di fronte a un governo espressione della propria affermazione elettorale, ritiene comunque di dover mantenere spazi di manovra sufficienti per dare voce a sensibilità, interessi, componenti sociali che consideri non sufficientemente rappresentati nell’azione dell’esecutivo e per promuovere, quindi, misure e strategie diverse e, se necessario, alternative a quelle sostenute dal governo.

Tornando al punto di partenza, cioè al dibattito attualmente in corso in seno al Pd, non si può evitare di rilevare che questa posizione contrasta con la logica delle primarie, parte costitutiva, come spesso si dice, del DNA del partito. Primarie aperte a tutti gli elettori, con milioni di votanti, si giustificano ed hanno senso perché la posta in gioco è il ruolo di candidato premier. Se si trattasse solo di eleggere il segretario del partito, basterebbero e si dovrebbero chiamare al voto solo gli iscritti.

Del resto, l’errore che, solo pochi mesi fa, finì per costare il governo a Enrico Letta non fu proprio quello di non presentarsi alle primarie, pensando di poter tenere l’esecutivo e il proprio ruolo di premier al di fuori della contesa, e di non comprendere, o accettare, che in palio, indissolubilmente legata alla carica di segretario del partito, c’era la guida del governo?

E, andando un poco più indietro negli anni, non è forse vero che una fragilità di fondo dei due governi di Romano Prodi fu il fatto che egli era solo il premier e non anche il capo del suo partito?

14 settembre 2014 | 17:10
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_14/capo-governo-segretario-partito-normalita-europea-eccezione-italiana-c9f6e5b6-3c1c-11e4-b554-0ec832dbb435.shtml
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Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:41:30 am »

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Perché la Turchia non può entrare nell’Ue
Occorre chiarezza con questo Paese che crede di avere le carte in regola per far parte dell’Unione, ma di fatto non è così Soprattutto è una potenza regionale che non riesce a contenere le proprie ambizioni in un quadro di interessi condivisi

Di Ricardo Franco Levi

Posto di fronte alla furibonda reazione della Turchia alle parole di papa Francesco sul «genocidio degli armeni» — e particolarmente all’«avvertimento» lanciato ieri da Erdogan al pontefice — il governo italiano ha scelto la strada dell’estrema prudenza con il ministro degli Esteri Gentiloni che ha definito «ingiustificati» i toni usati dai turchi. Da dove nasce la straordinaria timidezza del governo di Roma? Questa è la domanda a cui è più interessante cercare di dare risposta.

Una chiave ce la danno le parole del sottosegretario alla Presidenza del consiglio Gozi, non a caso, all’interno dell’esecutivo, delegato agli Affari europei: «il governo italiano con la Turchia sta affrontando i problemi di oggi: diritti umani, minoranze e democrazia». Questi sono i termini che definiscono il criterio ultimo e decisivo con cui l’Unione europea giudica se un Paese abbia le carte in regola per diventare un membro della propria famiglia. Eh sì. Perché la Turchia, insieme all’Islanda e a tutti i Paesi dei Balcani non ancora entrati come membri di pieno diritto (Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia), compare nella lista dei Paesi che si preparano all’ingresso nell’Ue. È una lunga storia quella dell’avvicinamento della Turchia all’Europa. Una storia che va indietro nel tempo sino al 1959, quando la Turchia fu tra i primi Paesi a cercare una stretta collaborazione con l’allora giovanissima Comunità economica europea, e che ha conosciuto le sue più recenti e importanti tappe nel 1996, quando fu varata l’unione doganale con l’Ue, nel 1999, quando alla Turchia fu ufficialmente riconosciuto lo status di Paese candidato e nel 2005, quando si aprirono i negoziati per l’adesione. Da allora, la strada è stata tutta in salita e i negoziati, complice o scusante la crisi turco-cipriota, si sono di fatto impantanati.

La realtà, la dura realtà, è che i tempi stavano cambiando. Finiva una lunga stagione nella quale i governi europei, un po’ trattando i turchi come «figli di un dio minore», un po’ concedendosi lo spensierato lusso di promesse poste nel grembo di un futuro che immaginavano lontanissimo, avevano preso impegni senza realmente pensare di doverli poi mantenere. E iniziava il tempo dei conti veri e dei dubbi di fondo. Quanto ai conti, da parte europea si prendeva progressivamente coscienza del fatto che una Turchia membro dell’Unione, in base al proprio reddito pro capite e alla propria popolazione, avrebbe ricevuto più aiuti regionali e avuto più seggi nel Parlamento europeo di qualsiasi altro Paese. Quanto ai dubbi, il pendolo delle riflessioni oscillava tra chi voleva la Turchia nell’Unione come ponte strategico, culturale e religioso tra Europa e Islam, e chi, proprio in quanto Paese musulmano non la voleva nell’Europa dalle radici cristiane. Da parte turca, in parallelo, si andava indebolendo la prospettiva dell’ingresso nell’Ue vista come unica e obbligata strada verso lo sviluppo. Stanno qui, in questa ambiguità di fondo, in questa mancanza di sincerità nei rapporti tra Europa e Turchia, le radici della timida reazione del governo italiano all’ira di Ankara contro il pontefice.

È ora di riconoscere e di dire apertamente che la Turchia non può entrare nell’Unione europea e che le ragioni di questa impossibilità sono interamente e profondamente laiche e politiche. La Turchia è e si sente ormai una grande potenza regionale che, come tale, non può accettare di contenere le proprie aspirazioni e ambizioni nel quadro definito dagli interessi condivisi dei Paesi europei e non può, per questo, in alcun modo essere assimilata a un semplice Paese membro dell’Unione. Con la Turchia bisogna trovare insieme le forme di un rapporto importante e ricco di contenuti ma diverso dalla partecipazione all’Unione. In questa prospettiva tutto potrà diventare più chiaro e semplice: anche la critica sul genocidio degli armeni.

15 aprile 2015 | 09:43
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_15/perche-turchia-non-puo-entrare-nell-ue-49a33350-e33e-11e4-8e3e-4cd376ffaba3.shtml
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