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Autore Discussione: L'economista Miron, che si è schierato contro Bush  (Letto 2368 volte)
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« inserito:: Ottobre 01, 2008, 05:25:17 pm »

Liberisti irriducibili «La ricetta giusta? Più risparmio, meno debito pubblico»

«Quel piano era statalista: il mercato si salverà da solo»

L'economista Miron, che si è schierato contro Bush

WASHINGTON


Jeffrey Miron è uno dei 166 economisti che hanno firmato la lettera al Congresso contro i 700 miliardi di dollari di aiuti pubblici agli istituti finanziari, contribuendo a bloccarli. Docente a Harvard, libertario in politica e liberista in economia, Miron è contrario per principio a qualsiasi intervento dello Stato sul mercato. «È lo statalismo che ha causato la crisi — dichiara —. È inaccettabile che la debbano pagare i contribuenti, la paghino le banche». Secondo l'economista, «se permetteremo al mercato di fare il mercato» la crisi verrà superata entro un anno o poco più, e si eviterà una grande depressione come negli anni Trenta. «Per ridare fiducia agli investitori americani e stranieri — sostiene Miron —, anziché interferire nella finanza privata, il Congresso e il governo dovrebbero ridurre l'indebitamento pubblico e i deficit del bilancio e degli scambi». La maggioranza degli operatori di mercato è per i 700 miliardi di dollari, vi accusa di aggravare la crisi per motivi ideologici. «È comodo salvarsi a spese altrui. Ma la verità è che il boom dei mutui subprime, il cui crollo ha provocato la stretta creditizia, è colpa dello Stato. Lo Stato ha creato le due agenzie semigovernative Fannie Mae e Freddie Mac che li hanno finanziati e ne ha garantito il debito. Le due agenzie non avrebbero rischiato se non fossero state certe della protezione pubblica, e non avrebbero rischiato nemmeno le banche. I mutui subprime sarebbero stati pochissimi ». Ma il governo e il Congresso non potevano lasciarle fallire, si sarebbe verificato un disastro.

«Perché? In America, una società in bancarotta finisce spesso in amministrazione controllata, non chiude i battenti, diventa proprietà dei creditori, può riprendersi almeno in parte. Il danno va a carico dei vecchi azionisti, è la legge del mercato. Invece di sperperare 700 miliardi di dollari dei contribuenti, che non c'entrano nulla e che sono le vere vittime di questa crisi, lo Stato liquidi la Fannie Mae e la Freddie Mac». Non provocherebbe altri dissesti? «La realtà è che altri dissesti sono inevitabili, molti istituti finanziari si sono esposti troppo. Ma è inutile piangere sul latte versato ed è pericoloso fare del terrorismo, come accade adesso nel governo e al Congresso. Ci sono e ci saranno fusioni bancarie, Wall Street si ristrutturerà. Questo non è il bis del crack della Borsa del '29. Siamo come un paziente che è appena stato operato, avremo una dura convalescenza, ma ci riprenderemo ». Quindi la Camera ha fatto bene a dire di no ai 700 miliardi? I repubblicani, i più rigidi, non ne risentiranno alle elezioni? «Non siamo stati solo noi 166 economisti a opporsi al pacchetto del governo, vi era e vi è ostile anche una gran parte del pubblico. I contribuenti hanno tenuto dimostrazioni di protesta, e i repubblicani l'hanno recepito, non vedo perché dovrebbero soffrirne alle urne. Una recessione, non depressione, è inevitabile». Gli economisti moderati e liberal affermano che la genesi della crisi è da cercare nella deregolamentazione selvaggia dei mercati negli ultimi anni. «Non sono d'accordo. La regolamentazione non è mai stata una bacchetta magica, anzi è controproducente, e comunque i mercati trovano modo di aggirare le normative troppo rigide». L'Europa ha invitato l'America ad assumersi le sue responsabilità, ha messo in discussione il vostro modello economico. «La nostra immagine è scalfita dall'indebitamento nazionale e dai deficit del bilancio e degli scambi. Il rimedio è incentivare in maniera forte il risparmio dei cittadini, che attualmente è zero, ridurre la spesa pubblica e rilanciare gli investimenti con un taglio dell'imposta sul capitale. Il nostro modello è valido, non bisogna lasciarsi depistare dalle presenti difficoltà».

Ennio Caretto
01 ottobre 2008

da corriere.it
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Admin
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 02, 2008, 05:46:33 pm »

La cultura del debito


Stefano Fassina


La bocciatura da parte della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti del piano di salvataggio delle principali istituzioni finanziarie operanti oltreoceano avvenuta lunedì rende evidente la dimensione della crisi in corso.

La crisi originata dai mutui subprime, non è soltanto crisi finanziaria. É superficiale continuare a condannare la finanza come come la peste del XXI secolo, attività autoreferenziale dominata dall’avidità dei suoi protagonisti, colpevolmente alimentata dall’ideologia liberista dell'autoregolazione dei mercati. I protagonisti della finanza hanno indubbiamente le loro colpe. Ma la crisi è economica e sociale. È crisi politica. Non solo per l’ampiezza delle conseguenze, ma per le sue cause. Arriva al capolinea un modello di crescita. Con esso, arriva al capolinea la legittimazione e la credibilità dei settori delle classi dirigenti della politica, dell’economia, delle accademie, dei media, che lo hanno alimentato e ne hanno beneficiato. Pertanto, non è particolarmente sorprendente che quasi la metà dei rappresentanti democratici e due terzi di quelli repubblicani si ribellino alle indicazioni delle loro leadership e affondino il Piano Paulson pur nella versione “controllata”.

Per capire la portata di quanto avviene, dobbiamo domandarci se è un caso che la più grande crisi finanziaria della nostra epoca irrompe quando la distribuzione del reddito negli Stati Uniti torna a coincidere con quella degli anni ‘20 del secolo scorso, quella pre-New Deal. Da 30 anni, l’andamento dei redditi da lavoro delle classi medie americane è sostanzialmente piatto in termini reali. Non solo i lavoratori a bassa qualifica sono poveri. Sono in affanno ampie porzioni delle classi medie, lavoratrici e lavoratori diplomati e laureati, occupati a tempo pieno. Una recente ricerca sugli Usa, presentata in un seminario internazionale sull’uguaglianza coordinato dal professor Franzini della Facoltà di Economia de La Sapienza, indica che, tra il 1979 ed il 2005, il reddito da lavoro dei diplomati occupati a tempo pieno, depurato dall’inflazione, ha avuto una variazione media annua negativa. Per i laureati, la performance è stata analoga. Nello stesso arco di tempo, la produttività negli Stati Uniti è aumentata, in media, di quasi il 2% all’anno. In sostanza, il reddito di un lavoratore diplomato che nel 1979 era di circa 30.000 dollari (a prezzi 2005) sarebbe dovuto arrivare a quasi 50.000 dollari nel 2005. Invece, è sceso a 25.000 dollari! Per un laureato, il reddito è rimasto sostanzialmente fermo. Dov’è è andata a finire la differenza? La differenza è finita ad alimentare i redditi da lavoro e da capitale del decile più ricco della forza lavoro. Anzi, è andata a moltiplicare la ricchezza dell’1% più ricco delle famiglie. L’american dream per la stragrande maggioranza della famiglie è rimasto dream, un sogno appunto. Data la stagnazione dei redditi da lavoro in un ambiente in rapida crescita (la ricchezza del Paese più che raddoppiava) come stupirsi se il debito delle famiglie degli Stati Uniti aumenta dal 40% del Pil all’inizio degli anni ‘70 al 100% del Pil alla fine del 2007? Un’impennata dovuta non solo alla necessità di risorse per l’acquisto della casa. Una quota consistente del debito origina dalle carte di credito: nel 1989, tale debito ammontava a 238 miliardi di dollari; l'anno scorso era 937 miliardi di dollari. Debito al consumo per dare alle classi medie miglioramenti dei loro stili di vita. Come ha scritto qualche mese fa David Brooks, editorialista conservatore non ideologico, negli ultimi tre decenni negli Usa ha dominato la cultura del debito: «da un lato c’è la classe degli investitori, con agevolazioni fiscali sui piani di risparmio e un esercito di consulenti finanziari. Dall’altra parte, c’è la lottery class, il popolo delle lotterie, con scarse possibilità di farsi un fondo pensione o accedere alla pianificazione finanziaria, ma con facile accesso ai prestiti a due settimane sullo stipendio, alle carte di credito e alle lotterie». Degenerazione della finanza e polarizzazione dei redditi sono facce della stessa medaglia. Qualcuno avido di denaro ha offerto denaro senza scrupoli. Qualcun altro, però, ha dovuto domandare o è stato indotto a domandare denaro. I subprime sono stati operazioni finanziarie irresponsabili. Però, hanno consentito a milioni di famiglie di comprare la casa di abitazione. Con la distribuzione del reddito caratteristica degli anni ‘60, le stesse famiglie avrebbero potuto permettersi mutui prime. Qui sta il punto politico di fondo. Le forze conservatrici a partire dai primi anni ‘80, invece di contrastare, hanno alimentato con politiche economiche e sociali la sperequazione dei redditi e affidato alla finanza la sostituzione del welfare state, indubbiamente in difficoltà. Il tentativo va avanti dall’amministrazione Reagan, ma la sua codificazione più esplicita si è avuta nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2000 e del 2004. Bush, oltre al taglio delle tasse per i supericchi, lancia la ownership society (l’individualismo proprietario sul terreno dei diritti sociali) per le classi medie ed il compassionate conservatism (la carità di Stato) per quanti rimanevano ai margini. Prova a raccogliere i frutti di decenni di propaganda sulle virtù taumaturgiche della privatizzazione dei sistemi pensionistici e finanche dell’assicurazione contro la disoccupazione (oltre che della scuola e della sanità).

In altre parole, la finanza nel modello conservatore ha avuto una funzione servente. Non è stata protagonista, ma strumento. Uno strumento poi sfuggito di mano, ma sempre strumento per promuovere e realizzare un modello di crescita profondamente iniquo. La finanza creativa è stata la soluzione per quadrare il cerchio di redditi da lavoro sempre più sperequati, trasformazione in senso regressivo dei sistemi fiscali, smantellamento delle istituzioni di welfare e consenso delle classi medie. Senza i “miracoli” promessi dalla finanza alle classi medie, il paradigma neoliberista non si sarebbe potuto affermare in un contesto democratico.

Date le dimensioni dell’iceberg contro il quale siamo andati a sbattere non possiamo limitarci ad invocare una migliore regolazione dei mercati finanziari o accusare, giustamente, Greenspan, osannato quando la sua politica monetaria iper-espansiva dava alle famiglie americane la forza di trainare la crescita del resto del mondo. Dobbiamo pensare a come ricostruire le condizioni politiche ed istituzionali per rifondare le democrazie delle classi medie, oltre i welfare state, in un contesto economico globale. È la sfida di Obama. È la sfida sulla quale dovrebbero cimentarsi, insieme, tutti i riformisti europei, oramai in difficoltà ovunque. Insistere con il riformismo in un solo Paese consegna le classi medie spaventate alle destre populiste e protezionistiche. É un film già visto con un finale terribile.

www.stefanofassina.it

Pubblicato il: 02.10.08
Modificato il: 02.10.08 alle ore 14.49   
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