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2926  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Salvini mette all'angolo Di Maio: non puoi stare con il dittatore rosso inserito:: Novembre 21, 2019, 11:19:39 am
Salvini mette all'angolo Di Maio: non puoi stare con il dittatore rosso

Scontro nel vertice a Palazzo Chigi.
Per il leghista troppo morbida anche la posizione Ue
Pubblicato il 28/01/2019

AMEDEO LA MATTINA
ROMA
«Problemi loro, non del governo». Matteo Salvini sta prendendo le misure di Alessandro Di Battista, il front man dei 5 Stelle tornato dalle Americhe come Garibaldi per aiutare Luigi Di Maio, «amico fraterno», nella remuntada alle europee di maggio. Ma il leader leghista ha avvertito il vicepremier grillino, che fintantoché i problemi sono tutti interni al M5S, legati a dinamiche per ruoli e sensibilità diverse come quelle che esprime anche il presidente della Camera Roberto Fico, allora si va avanti. Attenzione a non farli diventare questioni di governo perché se si spezzasse il filo tra i due vicepremier ci sarebbe il cortocircuito e la fine dell’esperienza giallo verde. La stessa vicenda del Venezuela non può essere affrontata con le parole “terzomondiste” del Guevara grillino. Già la posizione presa dall’Unione europea a Salvini sembra troppo morbida e quella del premier Giuseppe Conte titubante, «poco coraggiosa».

Quattro giorni fa, quando i fatti di Caracas cominciavano ad impegnare l’agenda internazionale, c’è stato un vertice a Palazzo Chigi al quale hanno partecipato Conte e i suoi due vice. È stato Salvini a chiedere di prendere subito una posizione chiara e diretta contro Maduro, il «dittatore rosso», schierandosi con Washington. «Luigi, con chi stai?», ha chiesto a Di Maio, ben sapendo che dentro i 5 Stelle non mancano, anche su questo terreno, i problemi. «Ma a me delle loro fibrillazioni non interessa nulla: a me interessa continuare ad avere un buon rapporto con Di Maio», ripete sempre il capo del Carroccio ai colonnelli del suo partito. In quel vertice si è parlato di tante altre cose, della Tav ad esempio, ed è stata l’occasione in cui il leghista ha anticipato che avrebbe fatto dichiarazioni a favore della realizzazione della Lione-Torino, fregandosene delle analisi costi-benefici del ministro Toninelli. Per inciso: in quelle analisi tra i costi si parla di 8 miliardi di Iva, cosa che i leghisti definiscono fuori dal mondo. Ma tornando al Venezuela, e alla domanda «Luigi, con chi stai?», il sottinteso era: stai con Di Battista e il «dittatore rosso» di Caracas.

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La risposta del ministro del Lavoro è stata un né, né. Insomma non sapeva che pesci prendere. Per certi versi, ha detto Di Maio, Alessandro non ha torto quando dice che in Venezuela c’è il rischio di una guerra civile perché una parte dei venezuelani tifa per Maduro. E che quindi bisogna essere cauti nel lanciare ultimatum e dare l’impressione di stare dalla parte di Guaidó. Ma alla fine il governo si è trovato di fronte all’ultimatum di Bruxelles, sulla scia di Francia, Germania e Spagna, ed è rimasto un passetto indietro, un po’ defilato. Una soluzione che a Salvini non è piaciuta. L’importante è che non passi la logica di Di Battista. E ancora più importante per lui è che si sappia qual è la sua posizione. Questa volta non dalla parte della Russia di Putin, ma schierato con l’America di Donald Trump che spera di incontrare a fine mese a Washington.

L’occasione sarà il Cpac, il Conservative Political Action Conference, la conferenza annuale dei conservatori americani alla quale parteciperà il capo della Casa Bianca. Salvini ha già ricevuto l’invito attraverso Rudolph Giuliani, stretto collaboratore del presidente americano, dopo un incontro con il sottosegretario italiano agli Esteri Guglielmo Picchi. Al forum dei conservatori, che si svolgerà tra il 27 febbraio e il 2 marzo, è previsto l’intervento del leader della Lega: nei piani del Carroccio sarà già la consacrazione di Salvini in quel mondo, in ambienti politici statunitensi che contano davvero. Ma una stretta di mano e una photo opportunity con Trump sarebbe una chance mediatica eccezionale. I collaboratori del vicepremier ci stanno lavorando con gli amici americani. Intanto sul Venezuela e non solo non ci sono dubbi da che parte stare mentre i 5 Stelle sono sempre in bilico tra logiche di lotta e di governo.

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Da - https://www.lastampa.it/2019/01/28/italia/salvini-mette-allangolo-di-maio-non-puoi-stare-con-il-dittatore-rosso-l
2927  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / A. LA MATTINA. Bersani: “Non si capisce chi comanda nei Cinque Stelle... inserito:: Novembre 21, 2019, 11:17:19 am
Bersani: “Non si capisce chi comanda nei Cinque Stelle. Grillo fatti sentire”
L’ex segretario dem: «Avanti a oltranza con il governo. Un matto chi vuol farlo cadere»

Amedeo La Mattina
16 NOVEMBRE 2019
Roma. «Chi pensa solo per un secondo di far cadere il governo è un matto. Io sono per tenerlo in piedi ad oltranza. Nessuno sano di mente può essere rassegnato di fronte a una destra che vuole un’Italia più povera e autoritaria». Pierluigi Bersani si aggira per l’Hotel Radisson tra saluti e strette di mano, mentre in sala i “compagni” di Articolo Uno si pongono cento domande e provano a dare una risposta al significato di questa esperienza di governo con il loro leader, Roberto Speranza, a capo del ministero della Salute. Un dicastero che lo stesso Speranza definisce «il più sociale» di tutti, perché da lì passano competenze che entrano nella vita concreta delle famiglie.

Bersani è atteso al microfono. Una “compagna” gli dice che finalmente è possibile sentirlo dal vivo, qui all’assemblea nazionale di Articolo Uno, «e non solo in televisione». L’ex segretario del Pd dice che «la sinistra è a un bivio della storia», che ascoltare la piazza delle sardine a Bologna è molto più di una questione organizzativa, di una rifondazione, di «una prospettiva futura di un nuovo partito» che rimette insieme quello che «le politiche neoliberiste e suicide» di Renzi hanno diviso.

Certe volte sembra che il problema sia Matteo Renzi più che Matteo Salvini. Renzi non è comunque nel vostro campo contro la Lega e la destra? Bersani arriccia il naso e si fa una risata. «Per me Renzi con la sinistra non c’entra proprio nulla. Quello per me sta dall’altra parte. Chiaro? Ad essere più pericoloso è Salvini: da una parte abbiamo una destra forte e aggressiva, dall’altra un’armata Brancaleone. Ecco perché diventa vitale rifondare la sinistra, con una federazione o in qualunque altro modo, ma avendo la consapevolezza del rischio che corre l’Italia se dovesse prevalere una politica nazionalista e identitaria.  L’Italia da sempre importa dall’estero materie prime che non ha e le trasforma in prodotti da vendere all’estero. Se dovesse prevalere la politica dei dazi e della chiusura sovranista a pagarne le conseguenze saranno i lavoratori italiani e tutta l’economia italiana. Questo è un discorso che riguarda anche i 5 stelle, anche loro dovrebbero darsi una mossa».

Per la verità non si capisce chi comandi dentro M5S. «Esatto, non si capisce, loro dovrebbero dotarsi di un modo nuovo di prendere le decisioni, abbandonando modalità clandestine e subliminali. Caro Grillo, ci puoi pensare solo tu. Parla, fatti sentire». Non pensa che questo governo che si fonda sulla paura di Salvini non abbia vita lunga? «E infatti bisogna crederci, fare le cose giuste e molte abbiamo cominciato a farle. Roberto (Speranza ndr) sta lavorando benissimo sulla sanità, noi siamo gli unici che non rompiamo i coglioni, ma bisogna crederci. Invece vedo in giro rassegnazione, si aspettano gli errori di Salvini, si gioca in difesa. L’altro giorno ho letto in prima pagina su un quotidiano “La piazza che resiste”, ma resiste a cosa? Mica Salvini ha già vinto».

L’Emilia Romagna non può che essere in cima ai pensieri di Bersani. Dice che la situazione è in bilico, ma la strategia della Lega a suo avviso alla fine non pagherà. Non pagherà in quella Regione, come potrebbe accadere in altre, per il ciclone Salvini e la sua sovraesposizione che mette in ombra la candidata Lucia Borgonzoni. «Dobbiamo far emergere l’idea di Emilia-Romagna, quella che è stata, quella che ancora oggi è e sarà in termini di servizi, solidarietà, tolleranza. Certo, se avessimo difeso l’operaio dai licenziamenti, credo che oggi avrebbe meno problemi con i migranti, sarebbe più sereno. E invece che ha fatto il governo del Pd? Ha messo il Jobs act. Un capolavoro. Anche Bonaccini, che ora fa la battaglia contro le tasse sulla plastica, se avesse detto qualcosa contro il Jobs Act e certe politiche neoliberiste sarebbe stato utile anche a lui, oggi. Detto questo, noi ci batteremo pancia a terra per vincere».

Per rimanere nella sua Regione: crede che Salvini stia sbagliando campagna elettorale? Bersani si accalora. «Ma secondo voi deve venire Zaia dal Veneto o Fontana dalla Lombardia per insegnare agli emiliani romagnoli come si amministrano la sanità, i servizi pubblici, o come si aiutano le aziende a crescere e fare sistema? Siamo stati noi a importare in Italia gli asili nido dalla Svezia. Ma per favore, siamo seri. Se fosse vivo Guazzaloca (l’ex sindaco di Bologna voluto dal centrodestra) avrebbe mandato a sbattere Salvini, Zaia e Fontana in dialetto bolognese, quello verace».

Bersani ha ancora un briciolo di ottimismo a condizione che tutti si diano   «una mossa» e non pensino di rigenerare la sinistra all’ombra di «una destra illiberale, non fascista, che è capace di durare e mettersi il doppio petto». «È la stessa destra che mi rincorreva per strada quando da ministro dell’Industria ho introdotto la portabilità dei mutui».

Da - https://www.ilsecoloxix.it/
2928  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Le aziende che vincono sanno costruire esperienze memorabili inserito:: Novembre 21, 2019, 11:13:57 am
CATEGORIA: VENDERE E COMPRARE
Le aziende che vincono sanno costruire esperienze memorabili

 Scritto da Luca Foresti il 11 Novembre 2019
Ogni volta che proviamo un prodotto o un servizio, anche se non sempre ne siamo coscienti, arriviamo con delle aspettative abbastanza precise. Poi proviamo la novità e quello che proviamo, le nostre percezioni, possono essere inferiori, in linea o superiori alle aspettative. Nella fascia in cui la realtà batte le nostre aspettative può accadere che l’esperienza ci produca alcune emozioni. Ne elenco alcune:
– Stupore
– Simpatia
– Divertimento
– Forte empatia percepita
– Sensazioni di essere a casa propria, a proprio agio, con persone di cui possiamo fidarci

Quando proviamo queste emozioni nella nostra mente scatta un meccanismo preciso: ricorderemo da lì in avanti quell’evento in modo molto forte e probabilmente lo racconteremo ripetutamente ad altri per la sua eccezionalità. In questi casi si può parlare di esperienze di acquisto memorabili.

Oggi sul mercato vincono quelle aziende che sanno costruire esperienze memorabili, che non si accontentano di erogare servizi di buona qualità, con bassi tassi di errore, ma che lavorano incessantemente su:
– Selezione del personale con skills umane molto forti
– Formazione alla relazione
– Controllo del modo con cui il proprio personale tratta i clienti
– Raccolta maniacale di feedback da parte dei clienti e immediato intervento strutturale su tutto ciò che allontana l’esperienza dall’essere memorabile
– Creazione di una cultura ossessionata dalle percezioni del cliente e capace di considerarle come dei fatti in sé su cui lavorare

Il design di servizio costituisce le fondamenta su cui si innova costantemente, puntando l’attenzione non solo ai costi vivi ma a quelli “cognitivi” del cliente, semplificandogli la vita. Abbassare i costi cognitivi è quasi sempre la killer-action per un servizio.

Tutti noi abbiamo in mente alcuni ristoranti, negozi, acquisti online, in cui abbiamo provato questo tipo di esperienza. E se ci pensate la nostra fedeltà a queste aziende è molto forte. Con un rischio insito: da quel momento abbiamo spostato le nostre aspettative rispetto a quel servizio più in alto. Se in un’industria si presenta un operatore capace di erogare servizi memorabili, tutta l’industria cambia improvvisamente a causa delle nuove aspettative da parte dei clienti su quello che possono avere. E se i competitor non si adattano rapidamente il nuovo operatore cresce in modo sproporzionato sull’onda del passaparola tra clienti.
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Concedetemi per una volta di parlare della mia esperienza imprenditoriale diretta. Al Centro Medico Santagostino abbiamo analizzato attentamente quel che accadeva nel rapporto con i nostri clienti (pazienti, nel nostro caso, perché ci occupiamo di sanità) e abbiamo cercato di capire quali erano le regole sottostanti a questa relazione. Siamo partiti da un’idea di base semplice: la generazione di valore avviene quando nel dialogo c’è la comprensione reciproca. C’è differenza tra sentire e ascoltare. Il primo concetto fa riferimento a un processo legato ai sensi, è superficiale; il secondo si riferisce a un coinvolgimento interiore, a un “mettersi nei panni” dell’altro (e nel caso di un momento delicato come una visita medica o esame questo vale ancora di più). Il valore si crea quando c’è ascolto, che genera una condizione di empatia.

Osservando le buone pratiche già in essere, abbiamo creato un manuale di comunicazione rivolto a tutto il personale di front office che fornisce un elenco di comportamenti virtuosi, spinge ciascuno a individuarne altri e punta a rendere memorabile l’esperienza. Si parla di empatia, ascolto attivo, capacità di gestire la comunicazione in situazioni di conflitto, spirito di osservazione, capacità di mettere sempre l’utente al centro… Abbiamo individuato – all’interno del personale di front office – un gruppo di “champions” che ha il compito di formare tutti i loro colleghi su queste specifiche skills. Al termine del periodo di formazione altri “champions” subentrano e il processo è un costante work in progress che ha l’obiettivo del miglioramento continuo. Non pensiamo di aver già raggiunto l’obiettivo, ma abbiamo indicato chiaramente la direzione verso la quale vogliamo andare. Il manuale l’abbiamo messo online, è disponibile per chiunque lo voglia consultare.

Essere aziende capaci di erogare in modo sostenibile esperienze memorabili è oggi una assicurazione di forza e crescita nel mercato. È difficile farlo, ma è l’investimento più importante in termini strategici che un’azienda possa fare.

Da - Twitter @lforestihttps://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/11/11/aziende-esperienze-memorabili/?uuid=96_gHTeXRUL
2929  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Il calcolatore di Ivrea in America volle andar (rubato dagli USA) inserito:: Novembre 21, 2019, 11:12:35 am
Il calcolatore di Ivrea in America volle andar

Nuovo appuntamento settimanale con la Domenica, il supplemento culturale del Sole 24 Ore. Il viaggio questa volta è nella storia economica d’Italia, e prende le mosse dall’apertura degli archivi storici di Mediobanca. Sono stati infatti digitalizzati, e messi a disposizione degli studiosi, i verbali che raccontano i retroscena della cessione della divisione elettronica della Olivetti agli americani di General Electric. Siamo sulle tracce di un giallo, di un vero e proprio mistero storico” scrive Paolo Bricco sulla Domenica.  Si tratta della cessione della divisione elettronica della Olivetti. Che, nel tempo alterato dalla immaginazione, ha generato mitologie positive e negative, e ha acceso le fantasie di quanti, alimentandosi della riservatezza che si faceva segretezza nella Mediobanca di Enrico Cuccia, hanno per sessant’anni costruito sogni e ipotesi, illazioni e giudizi intorno a quello che a lungo è stato considerato – e per molti ancora è - uno dei principali passaggi mancati della storia italiana. Mediobanca apre ora alla comunità degli studiosi il suo archivio intitolato a Vincenzo Maranghi. E, dopo avere riordinato e digitalizzato tutte le carte dei suoi primi vent’anni (dal 1946 al 1966), compie una operazione culturale in grande stile. Andando, appunto, al cuore di una delle questioni che hanno interrogato le élite – quando ancora le élite esistevano – intellettuali ed economiche, politiche e sindacali del nostro Paese: è stato veramente necessario il sacrificio dei grandi calcolatori con il loro passaggio agli americani di General Electric? Le condizioni dell’impresa erano così prefallimentari da giustificare l’ingresso nel capitale del Gruppo di Intervento, imperniato su Mediobanca e costituito anche da Fiat e Pirelli, La Centrale e Imi? Intorno a tutte queste domande, ora, è possibile per ciascun lettore formulare un proprio giudizio, supportato dai documenti pubblicati nel volume Mediobanca e il salvataggio Olivetti. Verbali delle riunioni e documenti di lavoro 1964-1966, un testo di fonti curato da Giampietro Morreale. Il verbale del primo colloquio, avvenuto il 25 gennaio 1964, fra Enrico Cuccia, Silvio Salteri (capo del servizio crediti) e Roberto Olivetti, mostra l’atterrimento del figlio di Adriano di fronte alle condizioni dell’impresa e al disorientamento della sua famiglia, divisa e piena di debiti.

Nel menu della Domenica molti altri argomenti.
Dal Sole 24 Ore 17/11/2019
2930  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / A piedi nudi nel parco sull'Arno inserito:: Novembre 21, 2019, 11:10:37 am
A piedi nudi nel parco sull'Arno

Nuovo appuntamento settimanale con la Domenica, il supplemento culturale del Sole 24 Ore. Questa volta, con la complicità di Carlo Ossola, ci avventuriamo in una piacevole passeggiata a ritroso nel tempo, alla scoperta dei giardini di Firenze, della loro storia, del loro stare al centro di un incontro virtuoso tra botanica, urbanistica, storia del costume, letteratura.

Tutto nasce dall’imponente lavoro di divulgazione di Angiolo Pucci (Firenze 1851-1934). Pucci proveniva da una famiglia di giardinieri granducali stabilitasi a Firenze nella seconda metà del Settecento. Ereditò la passione per l’orticoltura dal padre Attilio, capo giardiniere di Boboli, collaboratore con Poggi nelle realizzazioni del piano di ingrandimento di Firenze Capitale e primo soprintendente del servizio comunale dei Pubblici passeggi e dei giardini.

Dopo essere succeduto per pochi anni al padre nella soprintendenza, Angiolo si dedicò all’attività di studioso e di divulgatore della scienza orticola e dell’arte del giardinaggio. Fu autore di numerosi e squisiti manuali.

L’ultimo volume che raccoglie gli scritti di Pucci, il quinto della serie, pubblicato dalla fiorentina Olschki, presenta una “topografia della memoria” di straordinario e capillare fascino: di famiglie, di vie, di passaggi di proprietà, di gelose dimore e di esposizioni universali: si entra nella storia dalle svolte delle proprie passeggiate nei colli fiorentini, ripercorrendo a memoria i versi delle Grazie del Foscolo: «Date il rustico giglio, e se men alte / ha le forme fraterne, il manto veste / degli amaranti invïolato: unite / aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie / di Bellosguardo che all’amante suo / coglie Pomona…».

“Inoltrarsi”: tale è il vero senso di ogni paesaggio, che assorbe spaesando: una sorta di Arrière-pays - suggerirebbe Bonnefoy  - nel quale si comprende che  l’arte della natura fa del “qui” il “sempre”: «Consiste nel non dimenticare il qui nell’altrove: il tempo, l’umile tempo del vissuto quaggiù, tra le illusioni di laggiù, ombra dell’intemporale».

Nel menu della Domenica molti altri argomenti.
DA – ILSOLE24ORE.COM
2931  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / COVER STORY L’emozione del tartufo inserito:: Novembre 21, 2019, 10:54:59 am
COVER STORY
L’emozione del tartufo
   
Oltre alle quattro tradizionali stagioni, ne esiste un’altra: inizia il 21 settembre e si chiude il 21 gennaio, e non possiede un nome, ma un profumo. Quello del tartufo bianco di Alba, che si raccoglie ufficialmente solo in questi quattro mesi. Un periodo in cui i gruppi di interesse più diversi si riuniscono in Piemonte, al richiamo della Fiera Internazionale del Tartufo, fra naturalisti che si avventurano nei boschi con i “trifulau”, gli esperti raccoglitori, e appassionati d’arte che visitano mostre di arte contemporanea aperte per l’occasione. A unire tutti è l’impazienza di farsi emozionare naso e palato dagli aromi di quel fungo ipogeo che muove intorno a sé mezzo miliardo di euro di giro d’affari. Ma non togliamo romanticismo con le cifre. Con Fernanda Roggero, nella cover story del nuovo numero di lifestyle, domani in edicola con Il Sole 24 Ore, parliamo invece di menù che lo abbinano a capesante e seppie, delle regole per scegliere il pezzo perfetto (anche perché costa 300 euro l’etto) e conservarlo al meglio (in frigo, ma niente riso!), di chef che progettano sofisticati tagliatartufi che regalano lamellature chirurgiche. E scoprirete anche come una passione gastronomica può contribuire a tutelare la biodiversità delle foreste.

Da ilsole24ore.com
2932  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / ITALIA VIVA. inserito:: Settembre 29, 2019, 06:42:39 pm
ITALIA VIVA.

Renzi: «Investimenti verdi ma senza alzare le tasse»

Domenica 22 Settembre 2019

Di Barbara Jerkov

Senatore Renzi, si chiude la prima settimana di Italia Viva. In che cosa la sua idea di Paese non era più compatibile con quella del Pd?
«Mandato a casa Salvini e portato il Pd al governo, dovevamo fare chiarezza in casa nostra. Zingaretti ha scelto per le riforme un deputato che era contro il referendum e per il lavoro chi ha sempre attaccato il Jobs Act: una radicale discontinuità, come se si vergognasse delle nostre politiche. E prima delle singole scelte c'è un dato di fatto: sette anni di litigi, discussioni, fuoco amico hanno stancato tutti, per primi gli italiani. Come nelle coppie che le hanno provate tutte a un certo punto è meglio dividersi che continuare a litigare. Noi avremo sempre rispetto per il Pd: anziché celebrare una finta unità, prendiamo semplicemente un'altra strada. Lasciamo la comodità e scegliamo la libertà. Lasciamo le correnti e scegliamo la chiarezza. Lasciamo le polemiche e scegliamo il coraggio».

Certo che ne ha fatto di clamore: di sicuro, ha spaventato un po' tutti, a sinistra come a destra. Le sue rassicurazioni sulla stabilità del governo non sembrano aver convinto Conte in primo luogo. Come mai?   
«Preoccupazione curiosa. Se non ci fossimo schierati noi questo governo non sarebbe mai nato e Conte oggi farebbe altro. Non chiediamo riconoscenza o riconoscimenti ma invitiamo tutti a lavorare. C'è da evitare l'aumento dell'Iva, da combattere l'evasione, da investire sull'ambiente senza ideologie: parliamo di cose serie, nessuno viva di paure. Questa legislatura arriverà al 2023 e questo governo deve sfruttare la tranquillità dei mercati e dell'Europa».

Il premier l'altro giorno si è dichiarato di sinistra. L'ha sorpresa? E lei come collocherebbe Italia Viva?
  «Come si definisca lui non mi riguarda. Quanto a me: quelli della Ditta non mi hanno mai considerato uno di loro. Adesso che torneranno tutti insieme e che io sono fuori («finito» come dice D'Alema alla festa di Leu) il problema non si pone più. Io sono quello dei diritti civili, del terzo settore, della legge sul dopo di noi, degli 80 al ceto medio, dell'abbassamento delle tasse, della fatturazione elettronica, di Industria 4.0, della cooperazione internazionale, dell'euro in cultura-euro in sicurezza. Per me parlano i fatti, per altri contano i convegni. Poi se non mi riconoscono la patente ufficiale di uomo di sinistra e la danno a Conte o alla Lorenzin va bene lo stesso. Canta Guccini: Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me cos'è la libertà. Spero che mi sia permesso di citare ancora Guccini».

In Umbria e in Emilia non correrete, condivide l'idea di un'alleanza del centrosinistra con M5S e sosterrà il loro candidato?
«Italia Viva non è un'operazione di palazzo. Certo: ci sono una quarantina di parlamentari. Ma ci sono soprattutto migliaia di persone che stanno riscoprendo il gusto di fare politica. C'è un entusiasmo simile a quello del 2012 quando partimmo in giro per l'Italia. Per questo non parteciperemo alle elezioni regionali: vogliamo strutturarci partendo dal basso, non dagli eletti. Io ovviamente fossi emiliano voterei Bonaccini, fossi umbro voterei il candidato civico che sarà individuato nei prossimi giorni».
 
Immagino che la sua delegazione nel governo intenda segnalarsi con proposte precise. In particolare, avanzerete richieste particolari in vista della manovra?
«Abbiamo un gruppo di parlamentari di grande qualità. Stiamo creando una bella squadra e daremo una mano sulla Legge di Bilancio. Il tutto senza polemiche. La nostra bandiera sarà il Family Act al quale sta lavorando la ministra Bonetti: partire dalla famiglia è la priorità. Siamo in una crisi demografica pazzesca: doveroso aiutare i figli, i genitori, gli asili nido. Ma sinceramente spero che questa proposta diventi una proposta di tutto il Parlamento, persino dell'opposizione. Elena Bonetti sta lavorando bene, giudicatela sui fatti».

Si prevedono già liti e tensioni, lo sa vero?
«Certo che ci saranno confronti. Le faccio un esempio: noi siamo per un grande piano di investimenti verdi sul modello di quello lanciato dalla Merkel e se possibile più ambizioso. Lo presenteremo alla Stazione Leopolda e sarà una nostra deputata esperta di economica circolare a presentarlo, Maria Chiara Gadda. Ma questo non significa che per essere verdi dobbiamo alzare le tasse agli agricoltori o ad altri: se lo facessimo faremmo un danno a chi cura il territorio come giustamente ha fatto notare la ministra Bellanova. Dunque ci faremo sentire non con spirito polemico ma costruttivo. Per difendere l'ambiente dobbiamo coinvolgere gli agricoltori, non tassarli. È solo un esempio. Per il nostro Piano Verde servono i contatori digitali e le nuove tecnologie, non la politica dei no alle metropolitane e alle tramvie. Come vede: noi staremo sul merito, sempre».

A primavera ci sarà una importante tornata di nomine: lei siederà a quel tavolo?
«No, io non sarò al tavolo come non sarò a nessun tavolo politico ai quali parteciperanno invece i nostri coordinatori. Non nutro alcuna rivincita e se ho fatto ciò che ho fatto è per dare una mano al Paese, non per rivendicare uno strapuntino. Io oggi sono a Pechino: continuerò a viaggiare per le mie conferenze. Il partito sarà guidato da un uomo e da una donna i leader provvisori sono Ettore Rosato e quella straordinaria donna che risponde al nome di Teresa Bellanova perché per noi è fondamentale riaffermare la diarchia e la presenza femminile. Le donne sono fondamentali nella società e dobbiamo coinvolgerle di più in politica. Saremo il partito più femminista della storia italiana e saremo d'esempio anche per gli altri partiti: dopo la nostra decisione spero aumenteranno le donne in prima fila. Intanto partiamo noi, gli altri seguiranno. Formalizzati i gruppi, Rosato e Bellanova chiederanno un appuntamento a Conte e agli altri leader: lo faranno loro, non io. Nessuno dovrà subire l'onta di sedersi al tavolo con Renzi, rassicuriamoli».

Mi permetta di dubitare che lei si disinteressi del tema delle partecipate...
«Io sono molto interessato al futuro delle grandi aziende. Ma a differenza del racconto volgare che viene fatto dai più mi interessano le strategie non un posto nel board. Le faccio un esempio: è assurdo continuare a tenere divise Fincantieri e ciò che si chiamava Finmeccanica e ora è Leonardo. Un assurdo perché paradossalmente espone entrambe a una possibile acquisizione straniera, probabilmente europea. Perché non metterle insieme facendone un leader di mercato? Di questa e di altre proposte parleremo alla Leopolda. Non mi troverete al tavolo delle nomine ma sarò in prima fila nella discussione sul futuro della nostra economia: perché questa è la politica. Spero che chi ha mire sulle poltrone punti a indicare i nomi migliori. E che poi tiri fuori anche qualche idea su cui discutere, come abbiamo fatto noi».

La giustizia è sempre stato un tema su cui lei ha avuto idee decisamente lontane da quelle dei 5Stelle: chiederete di ridiscutere la riforma Bonafede? Tra l'altro se non si interviene con un decreto, a gennaio entra in vigore anche la nuova prescrizione.
«Ascolteremo ciò che ci dirà il ministro e ci confronteremo pacatamente. L'obiettivo di ridurre i tempi della giustizia è sacrosanto. Introdurre elementi di novità nel funzionamento del Csm altrettanto: fosse per me abolirei le correnti anche nella magistratura, non solo in politica. Sono certo che troveremo un equilibrio nel rispetto del programma di governo».

L'inchiesta aperta dalla procura di Firenze sulla sua ex fondazione, Open, proprio nei giorni della nascita del nuovo partito l'ha sorpresa?
«Nessuna polemica. Non è la prima inchiesta che viene dal procuratore Luca Turco e dal suo capo Creazzo: sono certo che non sarà l'ultima. Che lavorino tranquilli sui numerosi dossier che hanno aperto: noi rispettiamo i magistrati e aspettiamo le sentenze della Cassazione, come prevede la Costituzione. Tutto il resto è polemica sterile. Stimo l'avvocato Bianchi e sono certo dell'assoluta correttezza di Open, che peraltro è già chiusa. Quanto alla Leopolda: la pagheremo a fatica, come tutti gli anni, ma senza pasticci. Consideri che solo negli ultimi quattro giorni la nostra piattaforma di raccolta fondi ha ricevuto più di diecimila euro al giorno di piccole donazioni: la Leopolda ce la pagheremo anche così. C'è un sacco di gente che ci vuol dare una mano, quando la sera vedo i risultati dalla piattaforma o leggo le email mi commuovo. Saremo una sorpresa, innanzitutto per noi stessi».

Suoi amici storici non l'hanno seguita in questa avventura. Da Guerini a Lotti hanno fatto scelte diverse. Rapporti finiti anche sul piano personale? C'è qualcuno che le dispiace più di altri di non avere più al suo fianco?
«È un tema molto delicato. Loro volevano che io facessi una corrente, io mi sono rifiutato perché penso che la balcanizzazione correntizia abbia ucciso il Pd. Abbiamo dunque idee diverse, da mesi. Da un lato c'è amarezza perché quando dividi la strada da un amico fraterno ti dispiace. Dall'altro c'è la consapevolezza quasi orgogliosa di chi si vede riconoscere una verità sempre negata: mi hanno detto che io mi circondavo solo di yesman. Non è così. Io mi circondo di persone libere che come tali mi abbandonano quando vogliono. È libero chi va, è libero chi resta: la nostra è serietà. E proprio per questo restiamo amici. Perché prima della politica c'è la vita, la qualità delle relazioni umane. E in settimana andrò a salutare il ministro Guerini nel suo ufficio, per abbracciarlo e per augurargli buon lavoro: sono orgoglioso di aver concorso alla sua scelta anche se ha deciso di non seguirci in Italia Viva».

Legge elettorale: si parla tanto di ritorno al proporzionale, la sua vocazione maggioritaria c'è ancora?
«Io sono per il maggioritario da sempre. Ho perso la guida del governo per garantire all'Italia un sistema più semplice collegato a una legge elettorale in cui si sapesse la sera il nome del vincitore. Tutti gli altri si sono messi insieme per dire no e mantenere un sistema diverso. Un mese fa il Pd e M5S hanno fatto un accordo: taglio dei parlamentari e proporzionale. Hanno detto che il proporzionale era un dovere per evitare un rischio democratico. Ora hanno cambiato idea perché noi abbiamo fatto Italia Viva? Va bene. Noi non faremo battaglie sulla legge elettorale: che si voti col Rosatellum, col doppio turno, col proporzionale Italia Viva ci sarà. E sarà molto radicata, lo vedrete. Abbiamo preso il passo della Maratona, non dei 100 metri».

Tra un paio di settimane saremo tutti davanti alla tv per seguire il suo duello con Salvini: un modo per certificare che è lei il vero leader anti-sovranisti, con buona pace di Conte, Di Maio e Zingaretti?
«Se il confronto tv si farà, se Salvini non si tirerà indietro come sempre in questi anni, sarà ordinaria amministrazione. Nei Paesi civili i leader politici si confrontano: solo da noi i talk sono la tribuna per interventi in solitaria o duelli con commentatori spesso schierati a prescindere. Quindi se ci sarà un confronto tv con Salvini, evviva. Vespa vuole me al confronto perché l'audience della mia puntata è stata molto alta, tutto qui. Sogno di vederne anche uno con Conte o con Zingaretti, magari saranno più convincenti di me».

Un'ultima domanda, presidente. Dicono che molti parlamentari, da destra e da sinistra, siano pronti a saltare a bordo di Italia Viva. Non vede il rischio di vecchie liturgie di palazzo?
«Italia Viva sarà una cosa totalmente nuova. Alla Leopolda partirà il tesseramento. Ma sarà possibile solo online così eviteremo i signori delle tessere che infestano il Pd in alcune realtà geografiche. E soprattutto per ogni tessera pianteremo un albero. Un albero vero. Oggi la sfida per un ambiente sostenibile passa anche da piccoli gesti come quello. Seminiamo e piantiamo, con lo sguardo sul lungo periodo. I millennials della scuola di formazione saranno in prima fila nella costruzione di questa Casa, le donne avranno presenza paritetica a cominciare dalla leadership di Teresa e a giugno del 2020 riuniremo gli amministratori per un nuovo Big Bang come otto anni fa a Firenze, quando iniziò la nostra avventura. A tutti quelli che ironizzano sul fatto che siamo piccoli e bassi nei sondaggi dico: bene così, no? Se non contiamo nulla, perché vi preoccupate? Ignorateci pure. Noi cresceremo nella società. E ci rivedremo alle elezioni: ci riconoscerete perché saremo quelli col sorriso, quelli che non fanno polemiche interne, quelli che non hanno correnti ma idee».

Ultimo aggiornamento: 09:24
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2933  Forum Pubblico / LA COSTITUZIONE, la DEMOCRAZIA, la REPUBBLICA, vanno Difese! Anche da Noi Stessi. / CALABRÒ: CON L’IMPRESA RIFORMISTA L’ITALIA PUÒ RIPARTIRE, DA NORD A SUD. inserito:: Settembre 28, 2019, 05:31:04 pm
CALABRÒ: “CON L’IMPRESA RIFORMISTA L’ITALIA PUÒ RIPARTIRE, DA NORD A SUD”

GABRIELE CATANIA
11 marzo 2019

Papa Francesco. Colin Crouch. Antonio Genovesi. Zygmunt Bauman. Carlo Maria Cipolla. Adriano Olivetti. Norberto Bobbio. Sono questi i nomi di alcuni degli astri della costellazione culturale a cui guarda Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli, vicepresidente di Assolombarda, e autore di numerosi saggi sull’industria italiana.

L’ultimo, “L’impresa riformista – Lavoro, innovazione, benessere, inclusione” (Bocconi Editore), ha al centro uno dei pilastri dell’identità dell’Italia, nazione che il capitalismo lo ha inventato: l’impresa. O meglio, un particolare tipo di impresa. L’impresa che è sì competitiva, ma sa anche essere comunità, “luogo d’incontro, conflitto e sintesi di interessi diversi”; l’impresa coesiva, pronta a puntare sulla “fabbrica bella” e sul welfare aziendale, sulle tecnologie più dirompenti e complesse dell’Industria 4.0 ma pure sulla sostenibilità ambientale e sociale e sull’economia circolare.

Un’impresa utopica? Non proprio, perché in Italia – seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania Exportweltmeister – di imprese così ne esistono. Sono ad esempio le “fabbriche belle” che costellano il paese. A Milano e nel resto della Lombardia, certo, ma anche in Piemonte (gli stabilimenti sostenibili Pirelli, Lavazza e L’Oréal a Settimo Torinese, o l’Avio di GE a Cameri, nel novarese); in Veneto (per esempio la Zambon a Vicenza) e in Toscana (la “fabbrica giardino” di Prada a Valvigna, in quel di Arezzo); nell’Emilia-Romagna che dà lezioni al mondo quanto a capacità di coniugare manifattura hi-tech e sviluppo sociale; nell’Umbria degli stabilimenti di Brunello Cucinelli a Solomeo, nelle Marche delle aziende Della Valle; in Lazio, nel Mezzogiorno dei nuovi distretti tecnologici, nella Sicilia che impara a valorizzare il suo straordinario patrimonio agroalimentare.

Un’impresa, dunque, abile nel coniugare profitti e responsabilità, attenzione agli shareholders ma anche all’ambiente. Un’impresa dinamica, ma anche attenta ai tempi lunghi, paziente. Un’impresa dove il confronto tra capitale e sindacato c’è, a volte è anche duro, ma dove si riconosce l’apporto preziosissimo del lavoro, e dell’intelligenza. Perché come scriveva quel grande pensatore e patriota del Risorgimento che fu il milanese Carlo Cattaneo, “non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza”. Essere azienda riformista, secondo Calabrò, significa dunque essere fucina di intelligenza e progresso. Ed esserne consapevoli. In ogni parte d’Italia. Compreso il Sud, con il suo straordinario potenziale ancora da sfruttare.

Il saggio, che sarà presentato martedì 12 marzo alle ore 19 in Assolombarda (con Carlo Bonomi, Cristina Messa, Carla Parzani e Marco Tronchetti Provera), mira a far discutere. Sotto, alcuni estratti della conversazione con l’autore.

Calabrò, lei parla di “impresa riformista”. Tale concetto non potrebbe quasi suonare, a taluni, come un ossimoro?

Tutt’altro. È invece lo spostamento del ruolo dell’impresa da un terreno puramente economico a uno più sociale. Sia chiaro: le imprese, per loro natura, fanno profitti; tuttavia sono anche un grande motore di cambiamento, sociale e generale. Lo sono sempre state. E in questo momento storico è importante prenderne atto. In una fase di crisi della politica, dei riferimenti, delle relazioni, l’impresa riconferma non un altro ruolo, ma il suo ruolo. Che è quello di essere sì una struttura che produce ricchezza, ma riesce a farlo in quanto lavora sull’innovazione, sulle relazioni, sul rapporto col territorio, sull’inclusione sociale. Cose che ha sempre fatto, ma che oggi vanno ribadite.

Le imprese sono un grande motore di cambiamento, sociale e generale.
L’impresa come fucina d’intelligenza, innovazione, progresso, inclusione. Lei cita vari esempi; cita la Olivetti, la Pirelli, le “fabbriche belle” che si moltiplicano da un capo all’altro della penisola…

Ma le radici sono lontane. Ad esempio nel Costituto del 1309, norma fondante della città di Siena: una città di mercanti, d’imprenditori, che però si preoccupa del benessere generale. È questa la natura dell’impresa.

Nel suo libro lei cita spesso il grande storico dell’economia Carlo M. Cipolla, che ci ricorda come gli italiani, da secoli, sappiano fare, “all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Del resto sempre Cipolla ci insegna: “Se l’Italia vuole prosperare nelle condizioni naturali in cui si trova deve esportare”.

Esattamente…
Ecco perché le imprese protagoniste del suo libro, che innovano ed esportano in tutto il mondo, sono cruciali. Certo, gli imprenditori italiani queste cose le fanno ma…

Ma non le dicono, non le raccontano. Anzi, hanno quasi una sorta di pudore nel raccontare se stessi.

In questo libro, come pure in un saggio precedente, “La morale del tornio”, lei menziona spesso il pensiero del pontefice, Francesco. Ad esempio l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Perché?

Perché credo che la Chiesa sia una grande istituzione in grado di raccogliere e manifestare pensieri morali che incidono sulla società. E nella condizione di crisi dell’autorità, dei riferimenti culturali, dei pensieri profondi, la Chiesa continua a fare questo lavoro. D’altra parte, la costruzione dell’identità europea, se vogliamo fare alcuni passi indietro nel tempo, passa attraverso un luogo che è contemporaneamente religioso e sociale: le abbazie benedettine. L’Europa nasce nelle abbazie benedettine, e infatti San Benedetto è il patrono d’Europa. E quella capacità di pensiero e di lavoro, che oggi ispira le parole di Papa Francesco, è una straordinaria lezione di storia e di attualità.

E in effetti nei monasteri dell’alto, e dell’altissimo Medioevo, ci fu il salvataggio e il recupero del patrimonio culturale del mondo antico.

Un recupero fondamentale. Del resto quel patrimonio continua a darci delle grandi lezioni, dei riferimenti sui quali vale la pena riflettere.

In Italia ci sono imprenditori assai consapevoli di questo retaggio: come Brunello Cucinelli, per fare un esempio dall’Italia centrale. Ma senta: che cos’è un imprenditore?

Gli imprenditori sono dei soggetti che individuano un’esigenza ancora priva di risposte e lavorano per riuscire a darne, con un nuovo prodotto o un servizio. Un imprenditore è una specie di eretico della trasformazione.

L’Europa nasce nelle abbazie benedettine, e infatti San Benedetto è il patrono d’Europa.

Questa è una bella definizione. E senta, sempre restando nell’ambito della cultura antica, lei in questo libro ma anche in “La morale del tornio”, tesse gli elogi di tre lettere molto familiari ai latinisti, cum. Perché?

Perché credo che il cum sia dentro la natura dell’impresa. Come dimostra la parola stessa ‘competizione’: cum e petere, andare insieme verso un obiettivo comune. L’impresa è un soggetto in cui più forze convivono e collaborano. Le trasformazioni sociali sono agite dal mondo dell’impresa, anche nei momenti di conflitto più forte. Perché l’impresa sta dentro le dimensioni sociali e le modifica. È un soggetto della comunità, della collettività. Cum.

Non si può pensare a un’impresa “atomo”, a un’impresa sganciata dal suo contesto.
No. Un’impresa è ciò che fa, i suoi fornitori, i suoi clienti. L’impresa compra da qualcuno e vende a qualcun altro, è un soggetto di relazioni.

Quindi si contamina, appunto, con l’esterno.
Esattamente, un’impresa vive dentro la società. È quindi un animale sociale, se volessimo parafrasare Aristotele.

E nessun’impresa è un’isola, se volessimo parafrasare John Donne.

Assolutamente no. Neanche un supermercato lo è [ride], per citare quell’eccellente pubblicità.

Questo suo pensiero, che è il pensiero (consapevole o meno) di tanti imprenditori, da Bolzano a Siracusa, questa cultura del cum, è antitetica rispetto a una certa cultura dominante, che invece è una cultura del “collettivo ridotto”, del tribale.

Certo. Vede, nella natura dell’impresa c’è un elemento fortemente individuale. L’imprenditore, l’innovatore, è un soggetto singolo e per certi versi solitario, che però realizza la sua natura all’interno di una struttura sociale.

Struttura sociale che è portato, tendenzialmente, ad allargare, a estendere, ad ampliare.

Beh sì: quella cosa si chiama mercato, e il mercato è un soggetto sociale.

Un mercato che per le imprese italiane arriva sino alla Cina, al Sudafrica, al Canada, alla Norvegia.

Esattamente. Ma, per tornare alla lezione di Cipolla, le nostre imprese lo hanno sempre fatto. Hanno sempre esportato ovunque.

Perché l’Italia è un paese povero di materie prime, di risorse; quindi o trasforma le risorse di altri o non è niente.

Non è solo questo, è anche un tema geografico: il nostro è un paese sul mare. Quanto sono lunghe le coste italiane? Noi siamo un paese aperto sul Mediterraneo. Il momento in cui ha inizio la nostra modernità è quello delle repubbliche marinare, ancora prima della scoperta dell’America.

Assolutamente: Amalfi, Genova, Venezia, Pisa, ma anche Ancona, Gaeta…

Noi siamo un paese di realtà al contempo economiche, sociali, culturali, che stanno dentro il Mar Mediterraneo.

E questo se permette, è un errore che abbiamo compiuto: l’Italia si è un po’ dimenticata del Mediterraneo. Ha dimenticato la lezione di Braudel.

Sì, purtroppo. Lei cita Braudel, io non dimenticherei quel secondo, grande attore del racconto mediterraneo che è stato Predrag Matvejević, a lungo professore alla Sapienza di Roma, autore di “Breviario mediterraneo”. Se lei mette insieme questi due studiosi, che hanno avuto un fortissimo rapporto con l’Italia, capisce il senso, la natura profonda del nostro paese.

E perché ce ne siamo dimenticati, secondo lei?

Io non lo so se tutti ce ne siamo davvero dimenticati. Se ne è dimenticato il discorso pubblico, questo sì.

Certo, il discorso pubblico. Tanti imprenditori, a Padova come a Napoli, che aprono fabbriche in Marocco, in Tunisia o in Turchia, conoscono benissimo la natura mediterranea dell’Italia.

Il discorso pubblico si è dimenticato di moltissime cose, purtroppo, inclusa la nostra declinazione mediterranea. E oggi si focalizza sul conflitto nord-sud, un conflitto molto schematico. D’altra parte, secondo lei qual è la più grande città mediterranea d’Italia? È Milano. Perché è il luogo dove s’incrociano le grandi direttrici di cultura e di interessi, da nord a sud, da est a ovest, perché Milano è il baricentro accogliente di pensieri europei che guardano al Mediterraneo. Milano è città aperta. È la città in cui, nel tempo, centinaia di migliaia di meridionali hanno trovato casa senza mai rinnegare sé stessi, ma piuttosto essendo sé stessi: la parte migliore del Mezzogiorno; la più dinamica, la più attiva, la più curiosa, la più aperta.

Milano è la più grande città mediterranea d’Italia.

C’è oggi però anche un altro Mezzogiorno, che resta al suo posto e rilancia l’industria. Pensiamo alla Puglia, dove sta crescendo a livelli incredibili l’aerospaziale.

Sì, ma pensiamo anche a Napoli, con le sue nuove accademie tecnologiche.

La manifattura, ne “La morale del tornio”, è descritta come un antidoto sapiente contro “il feticismo del denaro”, e qui stiamo di nuovo citando il Papa.

Sì. Sempre con la consapevolezza, però, che naturalmente l’industria manifatturiera deve fare profitti, altrimenti non investe, non innova, non cresce. Ma tra fare profitti e avere l’ossessione del profitto di breve periodo ne corre…

Perché la manifattura ragiona sul lungo periodo?

Quanto ci mette un imprenditore per l’ammortamento di un macchinario che compra? E quanto a lungo deve vivere una nuova fabbrica per remunerare l’investimento?

E qui torniamo, se non alla longue durée di Braudel, almeno ai tempi medi…

Esattamente. Sono i tempi dei processi economici, ma anche dei processi commerciali: su che cosa è costruito un rapporto commerciale buono? Sulla fiducia, che è una dimensione del tempo lungo. L’operazione speculativa finanziaria è del tempo breve, non è costruita sulla fiducia, per certi versi è costruita sulla rapacità frettolosa.

Sull’asimmetria informativa, quanto meno.

Su una serie di alterazioni del rapporto di lungo periodo.

La manifattura ci fa anche un altro dono: ci insegna a superare gli steccati, artificiosi, tra scienza, tecnica e le discipline umanistiche. Io lo vedo qui tra le PMI del Nordest, lei l’avrà visto un po’ in tutta Italia.

Assolutamente sì, perché la manifattura è costituita da persone che fanno le cose in modo nuovo.

E senta, cosa rende la “fabbrica bella” una bella fabbrica? Lo può spiegare a chi fra i lettori non ha mai messo piede in uno di questi nuovi stabilimenti curati da grandi architetti, sapienti negli spazi, che conciliano bellezza e lavoro?

Una “fabbrica bella” è una fabbrica sicura, inclusiva, luminosa, una fabbrica che consuma pochissima energia, o addirittura lavora con l’energia rinnovabile. Il tetto della fabbrica Pirelli a Settimo Torinese è tutto quanto ricoperto di pannelli per l’energia solare. La “fabbrica bella” è una fabbrica con una bassa impronta ambientale, dove è piacevole andare a lavorare.

Non puoi fare prodotti belli, di alto valore, in siti brutti.

È la lezione di Adriano Olivetti. Lei nel libro cita il discorso che fece inaugurando, nel 1955, lo stabilimento di Pozzuoli, sullo splendido golfo di Napoli. Ma la “fabbrica bella” fa bene anche ai profitti…

Una fabbrica bella probabilmente è un po’ più costosa, da costruire, di una fabbrica tradizionale, ma si trasforma e crea profitto nel lungo periodo. E d’altra parte, su cosa compete l’Italia se non sull’alta qualità? E non puoi fare prodotti di eccellenza, di alto livello, con alto margine contributivo, in posti brutti. Non puoi fare i prodotti Cucinelli, i sistemi Loccioni, i freni Brembo o gli pneumatici Pirelli (per citare solo quattro prodotti di alto valore) in siti brutti, perché non può esserci una contraddizione tra il luogo in cui lavori e la qualità del prodotto che realizzi.

Lei ha citato due realtà del Nordovest e due realtà appartenenti a un’Italia un po’ più periferica, lontana dalle grandi capitali industriali del paese.

Si può costruire una “fabbrica bella” ovunque. Quando Adriano Olivetti, nel discorso d’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, dice “Questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi”, afferma due cose importanti. Primo, che il Mezzogiorno e l’industria non sono un’antinomia. Secondo, che la bellezza dei luoghi coinvolge positivamente la bellezza del lavorare e la bellezza del prodotto del lavoro.

A proposito di Sud. Come si può rilanciare in modo concreto il potenziale del Mezzogiorno e dei suoi talenti, che sono tanti ma che purtroppo tendono a emigrare al nord, in Germania, in America, in Australia e fanno grandi cose?

Credo sia necessaria una grande operazione di cesura. Un taglio netto della dipendenza del Mezzogiorno dalla spesa pubblica, cioè dall’idea che la spesa pubblica debba essere assistenziale. Rileggere l’esperienza della Cassa del Mezzogiorno da questo punto di vista è importante. C’è un libro recente che è appena uscito proprio sulla Cassa, di Laterza, “La Cassa per il Mezzogiorno e la politica 1950-1986” di Luigi Scoppola. La Cassa del Mezzogiorno su cosa investiva? Infrastrutture, nuove fabbriche, lavoro.

Ed era gestita da ingegneri, all’inizio.

Ingegneri che avevano anche una grande consapevolezza della responsabilità politica del lavorare bene. L’esperienza di quella Cassa del Mezzogiorno ci dice che il Sud non è il luogo dell’assistenza e delle clientele, ma dell’intelligenza produttiva.

Dobbiamo rileggere l’esperienza della Cassa del Mezzogiorno.

Se leggiamo la storia del Mezzogiorno, e della Sicilia, troviamo delle pagine straordinarie di capacità imprenditoriale che poi si sono perse nel tempo, addirittura annegate dalla cattiva politica. Per fare solo un nome, la storia dei Florio a Palermo: banchieri, industriali meccanici, imprenditori agricoli, armatori di flotte moderne.

Ma il declino dei Florio sarà responsabilità, almeno in parte, dei Florio stessi…

Certo, perché vollero vivere come aristocratici senza valorizzare la loro identità borghese, imprenditoriale. Tradirono, cioè, la loro stessa natura, una dimensione del fare impresa che invece è determinante. Se volessimo fare un paragone, potremmo guardare al declino dei Florio, e confrontarlo invece con la parabola dei Buddenbrook raccontati da Thomas Mann, di questi mercanti imprenditori fieri dell’essere tali.

Una fierezza che tra le PMI del Nordest, come tra le grandi aziende del Nordovest, si ritrova.

Assolutamente sì. Io credo che questi siano tempi in cui l’impresa deve ritrovare il suo orgoglio di essere motore sociale, della ricchezza e del cambiamento.

Una coscienza di classe insomma.

Non so se di classe, ma di ruolo e di responsabilità certamente sì.

Torniamo al Sud. Il suo rilancio dev’essere un investimento formativo; il tema dell’istruzione, che lei nel suo libro tratta, è fondamentale.

Senza dubbio. Cosa dovrebbe essere il Mezzogiorno? E la Sicilia? Una straordinaria università del Mediterraneo in grado di attirare intelligenze e competenze, e di lavorare sui temi del cambiamento, della società leggera e digitale, della società sostenibile.

E quindi, concretamente, lei cosa propone?

Io penso che il Mezzogiorno avrebbe bisogno di fortissimi investimenti pubblici, per far crescere le condizioni adatte a stimolare le capacità imprenditoriali – che ci sono. Il Mezzogiorno è pieno di belle storie d’impresa, pensi solo alla trasformazione dell’industria siciliana del vino quando sono finiti i contributi europei. Vede, quei contributi si traducevano in spreco, in produzione in eccesso, in speculazione mafiosa, rispetto a pochi bravi produttori che restavano marginali. Se oggi lei guarda all’industria nazionale del vino, tra i produttori migliori figurano i siciliani: bravi, intraprendenti, capaci di stare nel mondo. Non è che siano venuti da altre parti d’Italia a insegnare ai siciliani come si fa il vino; lo abbiamo imparato abbastanza da soli, e ora lo stiamo insegnando ad altri. La riscoperta dei vitigni autoctoni, la qualità, anche un buon senso del marketing, il gusto dello stare nel mondo… L’essere mediterranei è stare dentro a un pensiero aperto.

Il Mezzogiorno è pieno di belle storie d’impresa, pensi solo alla trasformazione dell’industria siciliana del vino quando sono finiti i contributi europei.

Dalle campagne siciliane andiamo un po’ più a nord. Lei nel libro parla di un fenomeno su cui i media – compresi Gli Stati Generali – si sono soffermati: il Nuovo Triangolo Industriale, tra Lombardia, Veneto e Emilia. Che cos’è? E perché potrebbe essere un potente incubatore di impresa riformista?

Perché lì c’è l’impresa che più severamente compete sul mercato. Quella cresciuta insistendo su mondi in evoluzione, operando in dimensioni dove competizione e collaborazione coesistono. Sono fornitori di qualità, prima di tutto per l’automotive, sono imprese che da piccole hanno imparato a diventare medie e poi grandi stando sui mercati internazionali. Che hanno animato distretti industriali innovativi e filiere d’impresa. Queste imprese hanno seguito la lezione delle multinazionali tascabili; che saranno pure uscite dai sottoscala moltissimi anni fa, ma poi sono state capaci di conquistare nicchie da primato, e di tenere insieme positivamente intraprendenza, competenza, innovazione, non solo sui prodotti ma sul modo di produrre, e cultura del mercato, del confronto, qualità. Il Triangolo Industriale si è spostato a est anche perché negli anni passati è entrato in crisi il Triangolo Industriale tradizionale, sono entrate in crisi Torino e Genova, per motivi diversi.

Però Genova ha delle prospettive infrastrutturali importanti, ad esempio verso la Svizzera e l’Europa del nord…

Speriamo. Genova sarebbe, è, il porto naturale che dal Mediterraneo conduce verso l’Europa; a patto di poter essere collegato.

In “La morale del tornio” lei teorizzava una nuova alleanza tra capitale e lavoro, un nuovo patto. Ma secondo lei questo patto è fattibile nell’Italia di oggi?

Le dico che questo patto è in corso, e la riprova sta nei nuovi contratti di lavoro.

Cioè?

Il contratto di lavoro dei metalmeccanici, dei chimici, dei farmaceutici… quei contratti, costruiti su formazione, welfare aziendale, rapporto con i territori, dicono che c’è una relazione nuova tra gli imprenditori e il mondo del lavoro. Quei contratti sono la riprova di una società in movimento. Che poi quasi nessuno del mondo politico li abbia valorizzati, la dice lunga sull’insensibilità di larga parte della politica. Ma i contratti sono lì, basta leggerli. E infatti Confindustria rilancia il Patto della Fabbrica e i sindacati si fanno sentire. Come confermano le recenti dichiarazioni di Maurizio Landini e Marco Bentivogli.

Ma se tanta politica non ascolta, non sarà magari anche un po’ colpa degli imprenditori?

Naturalmente sì.

Una cosa che mi ha colpito nel suo libro è il ruolo che riconosce alla biblioteca; è importante avere delle biblioteche nelle fabbriche.

Nella vita delle persone i libri sono importanti. E quindi anche i libri in fabbrica. Avessimo tutti una maggiore cura dei libri, vivremmo meglio.

Ma l’Italia non è un paese di lettori forti, purtroppo.

Purtroppo no. Però noto anche una parziale e comunque importante ripresa dell’attenzione per la lettura, la cultura, i riferimenti storici, anche da parte delle nuove generazioni.

Ora c’è un rallentamento evidente dell’economia mondiale, e c’è una situazione di incertezza in Italia. Lei è preoccupato?

Io sono molto preoccupato per le sorti di questo paese. Penso però che come sempre, come è successo anche nei momenti più drammatici della nostra storia, l’Italia sia in grado di riprendersi.

E lei in chi spera? Nelle donne, nei laureati?

Spero nelle nuove generazioni, in una maggiore partecipazione delle donne, nel senso di responsabilità di molti attori del mondo sociale, dell’impresa, del volontariato, di chi produce cultura, delle associazioni che si prendono cura dell’Italia. Spero nella ripresa di responsabilità da parte di alcune istituzioni. Spero molto pure in una ricostruzione della responsabilità europea. Non abbiamo perso la scommessa del futuro: è faticosissima da vincere, ma non l’abbiamo persa.

Non crede che in Italia la ricostruzione, ancor prima che culturale, dovrebbe essere morale? Educativa, ma in senso molto ampio?

I due aspetti stanno insieme. Se c’è un punto che suscita grande preoccupazione è la crescente disattenzione rispetto alla qualità dei processi educativi. La scuola è uno dei luoghi fondamentali in cui si acquisiscono civiltà e responsabilità.

Tuttavia la scuola è la grande bistrattata degli ultimi decenni di politica italiana: pensi solo alle mille riforme che si sono susseguite.

Purtroppo sì, mille riforme e scarsa attenzione al tempo lungo della formazione. Si tratta di una grande debolezza: bassi investimenti nella formazione e nella ricerca. E, aggiungo, una diffusa tendenza anti-scientifica, anti-culturale, e contro il senso di responsabilità. Tutti fenomeni molto preoccupanti.

 Suscita grande preoccupazione la crescente disattenzione rispetto alla qualità dei processi educativi.

Lei cita, nella parte conclusiva del suo saggio, Milano. Che ritiene essere il miglior esempio di città aperta e che guarda al mondo. Cita, in quel capitolo, un proverbio latino, caro ad Augusto e a Manuzio: festina lente. Perché? Cosa vuol dire?

Vuol dire che c’è da tenere il passo con le trasformazioni, ma senza la frettolosità dei rapporti. I cambiamenti sociali sono fenomeni lunghi e complessi. Come lo è il riformismo, per tornare al titolo: un’attitudine paziente alle trasformazioni, senza cedere alla tentazione delle scorciatoie veloci. Il senso di responsabilità richiede tempo, la mediazione richiede tempo, la composizione di interessi diversi richiede tempo. La democrazia stessa è un fenomeno lento.

Da - https://www.glistatigenerali.com/economia-circolare_milano/calabro-con-limpresa-riformista-litalia-puo-ripartire-da-nord-a-sud/
2934  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / Silvestro Scotti: Conferenza delle Regioni lontana rispetto a una posizione ... inserito:: Settembre 25, 2019, 12:59:12 pm
NEWS
Stato di agitazione
Data pubblicazione: 11/07/2019

Silvestro Scotti: Conferenza delle Regioni lontana rispetto a una posizione di ascolto, interlocuzione affidata alla sola struttura tecnica

“Urge una convocazione in sede politica da parte del Presidente della Conferenza delle Regioni per chiarire quale sia il mandato da parte politica alla struttura tecnica rispetto al tema del cambiamento dell'assistenza territoriale e in particolare della Medicina Generale».

Dopo la proclamazione dello stato di agitazione si è aperto a livello politico un doppio binario che mette ancor più in evidenza meritevoli iniziative volte ad affrontare e risolvere i problemi, ma anche e soprattutto uno stallo, in attesa di iniziative da parte della Conferenza delle Regioni, con un intervento del Presidente Bonaccini. A testimoniare questa intollerabile impasse è Silvestro Scotti che di ritorno da Roma parla di una riunione in SISAC «per molti versi inconcludente» e sottolinea anche che «al di là delle buone intenzioni, al momento non si vedono fatti concreti». Per Scotti è insoddisfacente e inaccettabile che si sia ancora alla mercé dei condizionali. «Le Regioni avrebbero determinato il nuovo Atto di Indirizzo, che tuttavia non ci è dato conoscere. Non si sa quali siano gli indirizzi su limitazioni del massimali e altre questioni riferite all’attribuzione degli incarichi a tempo indeterminato per i nostri giovani in formazione. Né tantomeno ci sono risposte sul bando di concorso di quest’anno che sta diventando l’anno del mai. Non sarà che l’aumento delle borse di specialità di quest’anno sono state determinate con la copertura del non speso per la Medicina Generale?

Su questi e molti altri temi continuiamo a vedere quasi un farci spallucce, è lecito pensare a questo punto che non abbiano ben compreso la gravità di questo atteggiamento e le conseguenze alle quali inevitabilmente si arriverà Il nostro stato di agitazione è stato chiesto all’unanimità dal Consiglio Nazionale e non ci risparmieremo per convincere tutta la Medicina Generale, e non solo, ad affiancare la nostra protesta». Nello specifico per i giovani, il Segretario Generale FIMMG teme a ragion veduta che in queste condizioni il bando rischi di essere attivato in grave ritardo e che il corso non possa partire prima di giugno 2020.Tutto questo, mentre nell’intero Paese si moltiplicano gli allarmi anche di qualche politico, che però sembrano lacrime di coccodrillo, per la carenza di medici. Di qui la richiesta di una convocazione ad horas in sede politica da parte del Presidente della Conferenza delle Regioni al fine di chiarire quale sia il mandato alla struttura tecnica. «Non siamo disponibili ad una trattativa che non generi i dovuti cambiamenti, necessari ad una risposta concreta per la Medicina di Famiglia, stufa di essere la Cenerentola del Servizio Sanitario Nazionale. A questo punto – prosegue Scotti – esigiamo di vedere investimenti non solo economici, ma anche fiduciari sulla Medicina Generale che certamente è diversa da quella descritta dal pregiudizio di uno scarso impegno e di un alto guadagno.

È invece chiaro che essendo sempre di più i pazienti anziani e quelli cronici, che come ci ricordano continuamente i funzionari regionali consumano l’80% delle risorse economiche in un sistema a volume come il nostro, stanno anche consumando le risorse umane. Ovvero impegno orario ormai insostenibile e assenza di economie che ci permettano una riorganizzazione dei carichi di lavoro con altri soggetti da noi coinvolti e non da qualche emendamento parlamentare». Un comparto che, come è stato sottolineato durante il Consiglio Nazionale, vede aumentare il peso assistenziale e nel quale i carichi di lavoro sono ormai massacranti. Il tutto in un sistema organizzativo che non potrà più garantire per tutti la presa in carico attraverso modelli di medicina di iniziativa, né la possibilità di accesso libero e tantomeno la accessibilità domiciliare.

«Inaccettabile – evidenzia Scotti – che nella discussione del Patto per la Salute ci sia, invece, chi si nasconde dietro la struttura contrattuale della Medicina di Famiglia quale causa della mancata integrazione con le altre figure professionali del territorio. Il problema non è il modello contrattuale, ma i modelli organizzativi vetusti che alcuni uffici regionali continuano a proporre».
In questo contesto, non certo entusiasmante, si innesta almeno una nota positiva: la disponibilità mostrata dal ministro della Salute Giulia Grillo, che ha accolto con favore le ragioni alla base dello stato di agitazione della FIMMG. «Diamo atto al ministro di aver favorito una netta apertura rispetto a proposte a noi particolarmente care, tra le quali creare decontribuzione per l’assunzione del personale che assumeremo noi anche utilizzando il meccanismo del reddito di cittadinanza, che è un reddito anche differito. È possibile formare persone che diventino collaboratori di studio. Il medico che le assume per i primi due anni verrebbe poi sgravato per la quota del reddito di cittadinanza che la persona avrebbe ricevuto». I temi portati sul tavolo del ministro che ha coinvolto essendo presenti nella seconda parte dell’incontro i funzionari dell’INPS, riguardano anche la possibilità di inserire nella prossima finanziaria un intervento economico specifico su progettualità che coinvolgano lo studio del Medico di Famiglia, così da creare un punto di accesso semplificato alle cure per i cittadini.

«Fare questo significherebbe valorizzare il ruolo dei Medici di Famiglia, valorizzare i collaboratori di studio e, nei fatti, realizzare una migliore assistenza grazie ai micro team che la FIMMG da tempo propone. Insomma – conclude Scotti – le soluzioni ci sono e molte di queste le abbiamo già individuate. Ora bisogna capire chi vuole concretamente stare dalla parte dei cittadini e del rispetto di quell’Articolo 32 della Costituzione che per tutti i medici è un punto di riferimento inalienabile».

Da - http://www.fimmg.org/index.php?action=pages&m=view&p=18&art=3427
2935  Forum Pubblico / ARTE - Letteratura - Poesia - Teatro - Cinema e altre Muse. / Serena Vitale: vi racconto il mio Majakovskij inserito:: Settembre 25, 2019, 12:56:27 pm
29 settembre 2015

Serena Vitale: vi racconto il mio Majakovskij

Di Antonio Armano
Nel tempo della “selfie-literatur”, in cui si narrano personaggi mettendosi in posa vicino a loro, alla slavista Serena Vitale andrebbe eretto un monumento per come ha saputo raccontare Majakovskij in modo fattuale, ma personale e appassionato, usando frammenti di materiale dell'epoca – dai verbali polizieschi ai ritagli di vecchi giornali passando per le delazioni -, e mettendosi dietro la macchina fotografica storico-letteraria, non anche davanti. Il risultato del lavoro di scavo e montaggio dei reperti è un libro originale, Il defunto non amava i pettegolezzi, Adelphi, che restituisce “piena voce” al poeta sottraendolo alla piattezza della canonizzazione staliniana così come alla più recente curiosità morbosa in cui è avvolta in Russia la sua morte per suicidio, avvenuta una mattina del 1930. Un clamoroso lunedì che segue il fiasco della prèmiere di Banja e in cui tutti i telefoni di Mosca iniziano a suonare.

Serena Vitale non è certo il tipo da monumenti – dopo avere a lungo viaggiato nei paesi dell'Est ne avrà una fisiologica allergia da overdose - e soprattutto è troppo autoironica, tanto che avverte sul suo sito (serenavitale.it): “Amando appassionatamente la poesia, non ho mai scritto un verso”. Vive con il gatto Yorick - un nome scespiriano e non bulgakoviano per il felino, ma sarebbe stato troppo prevedibile e banale -, in un palazzo d'epoca vicino all'Università Cattolica di Milano, dove insegna lingua e letteratura russa. Al gatto Yorick è dedicato Il defunto non amava i pettegolezzi. Majakovskij avrebbe apprezzato la dedica.

Mi offre un caffè e dei dolcetti e per un momento – mentre va a prenderli – temo che siano sul genere “baci di Černobyl” ma poi si rivelano degli ottimi cioccolatini italiani. Oltre a essere un po' provata per il tour di presentazioni del libro – ultima tappa al festival Pordenonelegge, con il premio Strega Nicola Lagioia -, soffre per il rumore dei vicini. Avrà forse una sensibilità acustica superiore alla norma, una iperacusia morselliana, come altri scrittori... O sarà che come vicini di casa la Vitale ha una famiglia di napoletani vivacissimi - per usare un eufemismo - e con bambini.

“Mi posso permettere di essere 'razzista' con i napoletani perché anch'io sono terrona”, scherza. “La mia famiglia viene dal Sud. Dalla Puglia. Credo che abbiamo ascendenze ebree anche se a mio fratello – di orientamento politico di destra – la cosa potrebbe non piacere”.

L'evenienza di ritrovarsi vicini di casa come i suddetti ha finora fatto sì che la slavista non rientri in quell'80 per cento di italiani che possiedono una casa, ma queste vicende immobiliari c'entrano niente con Il defunto non amava i pettegolezzi. O forse sì: l'epoca post-rivoluzionaria di Majakovskij è stata funestata dalle coabitazioni nelle kommunalka, tra cattivi odori e delazioni. Qui siamo nella Milano dei muri sottili e del rajbertiano “costruire leggiero” e dei vicini indisciplinati.

Serena Vitale è conosciuta soprattutto per il libro sulla tragica fine del poeta russo più amato: Il bottone di Puškin -, uscito nel '95. Venti anni dopo, per il suo 70esimo compleanno, si regala e ci regala quello su Majakovskij. Il bottone è stato un grande successo in Italia e anche all'estero, cosa miracolosa se consideriamo che la slavistica non ha niente a che vedere con Il magico potere del riordino o L'intestino felice. Siamo piuttosto dalle parti del caos e dei veleni di ogni tipo. Ci chiediamo se sia tradotto in russo...

“Purtroppo sì”, dice Serena Vitale. “Ma quei disgraziati l'hanno tradotto non dall'italiano, dall'inglese e l'hanno pubblicato tre case editrici diverse. Il problema è che il traduttore non sapeva l'inglese ed è saltato fuori che io ho scritto che Puškin non è morto in un incidente stradale e altre cose di questo genere. Non mi hanno neanche pagato i diritti e ho fatto causa, ma ho perso”.

Anche se è erede di una grande tradizione di slavisti italiani come Angelo Maria Ripellino – suo maestro a Roma -, traduttrice di libri meravigliosi come Il dono di Vladimir Nabokov, e Il valzer degli addii di Kundera (dal ceco), Serena Vitale è molto alla mano e spiritosa. Torniamo a parlare di Majakovskij, delle grigie traduzioni italiane... Anche in Russia spesso non gli hanno reso un buon servizio, mettendo nelle antologie solo i versi ideologici. La slavista si mette a fare l'imitazione di un attore che ha ascoltato a Mosca recitare Majakovskij “in modo tremendo. Con un fortissimo difetto di pronuncia” (tipo zeppola):

Poslušajte!
Ved', esli zvezdy zažigajut -
značit – eto komu-nebud' nužno?

(Ascoltate! / Se accendono le stelle - / Vuol dire che qualcuno ne ha bisogno? ...).

Questo non solo per ridere un po' (“Sono una buffona”), ma anche per dire quanto il povero Majakovskij sia stato stravolto, storpiato, travisato. All'autrice preme ricostruire il contesto in cui è maturato il gesto estremo del suicidio, non darne una spiegazione ultima e definitiva (“Non credo che un suicidio abbia delle cause, anzi non credo nelle 'cause' di un suicidio”, dice). Gli anni cupi in cui è stata eliminata o messa a tacere una straordinaria generazione di poeti. Li enumera come una incredibile sequenza di geni, come qualcun altro potrebbe mandare a memoria una mitica formazione di calciatori: Majakovskij, Achmatova, Mandel'štam, Esenin, Pasternak, Belyj, Blok, Cvetaeva, Brjusov... Non tutti morti nel loro letto...

Quell'epoca promiscua e tormentata – sessualmente, artisticamente e politicamente -, dove ancora pulsavano fermenti di creatività e passione, sempre più mal tollerati, è finita con un colpo di pistola. Majakovskij ha fatto da spartiacque... Si spara con una Mauser lasciando un biglietto dove chiede di non fare troppi pettegolezzi, di qui il bel titolo del libro. Venti anni più tardi questa richiesta viene ripetuta da Cesare Pavese ingoiando una overdose di sonniferi all'hotel Roma di Torino. La citazione sarà stata consapevole, visto che Pavese era anche un poeta. Per entrambi la delusione amorosa gioca un ruolo importante. Sia Pavese che Majakovskij erano innamorati di un'attrice. L'attrice di cui era innamorato Majakovskij si chiamava Veronika Polonskaja, detta Nora.

Come ironizzava Nabokov a proposito di Puškin, anche questo gigante – gli stivali di Majakosvskij non sfigurerebbero di fianco a quelli di Pietro il Grande – ha fatto una fine da fuilletton. Circostanza ancora più incredibile se si pensa che era un innovatore nel campo dello stile, un futurista, un inventore di slogan rivoluzionari, non certo da baci Perugina.

Questioni di cuore? Non a caso si spara al cuore... “Per me si spara al cuore per non rovinare la bella faccia”, dice Serena Vitale ripetendo il gesto della pistola che scivola lungo il volto e prosegue oltre. Più in basso e a sinistra. Del resto, in un recente concorso online, la rivista russa Arzamas ha incoronato il poeta come il più bello tra 42 autori russi tra Otto e Novecento. Davanti a Pasternak, Brjusov, Dovlatov e Bulgakov.

Non vuole invece manco sentire parlare di una delle tante motivazioni addotte e cioè i debiti con l'erario: “Un ragionamento da Equitalia! Dei discorsi da ragionieri”, sbotta. Insomma Majakovskij non è mica un mobiliere del Veneto che si toglie la vita per debiti. Pettegolezzi di questo tipo – un altro riguarda la sifilide - si diffondono il giorno stesso della morte. Il funerale è seguito da una grandissima folla. Ma prima di togliersi la vita Majakovskij era solo come un cane. Sempre più solo e isolato. Osip e Lili Brik, la coppia con cui formava un celebre e scandaloso triangolo, si trovavano all'estero in viaggio.

Stalin lo mette sul piedistallo perché gli fa comodo un poeta di regime – e lui gliene ha offerto ampiamente l'occasione -, e in questa veste ufficiale me lo sono ritrovato quest'estate in un negozio di modernariato comunista a Skopje: una statuetta di duralluminium, imbolsita e con la panza, in vendita a 100 euro. Così imbolsita e istituzionale che in primo momento l'ho scambiato per il maresciallo Tito!

Ma se le cause del suicidio erano tante, non una sola, la vita di Majakovskij non merita di essere ridotta al solo momento finale. La Vitale vuole piuttosto restituire a questa figura tragica e affascinante della storia russa complessità e intensità, il giusto peso letterario e umano. Nell'ultimo periodo della sua vita, Vladimir Vladimirovič non pubblicava più versi, veniva fischiato alle prime delle sue pièce, gli studenti lo contestavano violentemente ai reading, accusandolo, come la critica ufficiale, di essere incomprensibile, oscuro, dunque inutile. La letteratura stava prendendo una deriva ideologica che escludeva ogni deviazione creativa.

Si arriva a parlare della Russia d'oggi. Serena Vitale non ama la Russia contemporanea degli oligarchi. Ricorda un raduno di Ferrari con un bolide di Maranello verniciato imitando la tecnica tradizionale russa detta khokhloma, come una scatola di legno floreale... Per dire il mix di sfoggio e spreco di denaro e nazionalismo e cattivo gusto. Queste surreali e divertenti narrazioni rimandano a un altro suo libro, A Mosca! A Mosca! edito da Mondadori, dove ha messo i viaggi e i soggiorni in Russia, le esperienze e memorie personali. Oggi – con la chiusura difensiva dovuta alla guerra in Ucraina – la Russia è diventata un luogo infrequentabile o quasi.

“Il defunto non amava i pettegolezzi l'ho scritto quasi tutto a Praga, nella meravigliosa biblioteca del Clementinum. Qui ho trovato tutti i giornali sovietici... A Praga passo lunghi periodi perché mio marito è un artista ceco”. Si tratta di Vladimír Novák, cofondatore del gruppo “12/15: Pozdě, ale přece” (“12/15: Meglio tardi che mai”), ed esponente della generazione di artisti emersi nei difficili anni dell'invasione sovietica e della normalizace, come veniva chiamata con burocratico eufemismo la repressione successiva alla Primavera di Praga. In precedenza Serena Vitale è stata sposata con il poeta Giovanni Raboni.

Ci salutiamo tornando sul tema dei vicini rumorosi, e la sindrome della kommunalka: “Se sente di un appartamento tranquillo, silenzioso, mi faccia sapere...”.

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Da - http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Serena_Vitale_vi_racconto_il_mio_Majakovskij.html
2936  Forum Pubblico / LEGA & 5STELLE - Il CONTRATTO dopo il 4 marzo 2018. / LA LEGAdiSALVINI. Intervista a Salvini: «Mai con i Cinque Stelle. Pauperisti» inserito:: Settembre 25, 2019, 12:53:07 pm
L’INTERVISTA
Intervista a Salvini: «Mai con i Cinque Stelle. Pauperisti»
Il leader della Lega: «Al Veneto subito un ministro e l’autonomia. E Zaia sta bene dove sta»

Di Marco Bonet

Parla con i modi e i toni del premier incaricato. Non «ruspe» ma «convergenze programmatiche». Giacca e cravatta più che felpa e cappuccio. «In questa fase ho il dovere di ascoltare tutti - spiega Matteo Salvini - anche il Pd, anche la Boldrini, se serve all’Italia». Secondo alcuni osservatori è lui il vero vincitore delle ultime elezioni. Più di Luigi Di Maio, visto che il Movimento Cinque Stelle è vissuto finora immerso in uno splendido isolamento mentre la Lega, alla testa di una coalizione in cui per quanto malconcio c’è ancora il «moderato» Berlusconi, potrebbe diventare il perno di una nuova maggioranza parlamentare. Complicata, certo. Ancora tutta da definire. Eppure Salvini sembra ottimista, «energizzato» da risultati in qualche caso al di sopra delle più rosee aspettative. Come in Veneto, dove la Lega ha triplicato i suoi voti rispetto al 2013, da 310 a 912 mila, dal 10,5 al 32%.

«Un risultato straordinario. Sapevo che saremmo andati bene, me lo sentivo, ma neanch’io speravo in una fiducia così enorme. Sondaggisti, opinionisti, intellettuali non avevano capito niente, in Veneto come nel resto d’Italia. Giornali e telegiornali ci hanno oscurato, esistevano solo Renzi e Berlusconi, Di Maio e la Bonino... Io mi sono fatto ventimila chilometri in campagna elettorale e questo, gliel’assicuro, aiuta a capire il Paese. Il Veneto poi, l’ho girato davvero in lungo e in largo».

Veramente qui si è sempre detto che il centrodestra, con la Lega in testa, avrebbe fatto cappotto. Quel che stupisce è semmai il distacco inflitto dal Carroccio agli avversari e agli alleati. Forza Italia è al 10%, ha perso 8 punti, 250 mila voti. L’emorragia degli azzurri, che di sicuro non aiuta la coalizione, la preoccupa? «A me interessa che il centrodestra sia la prima coalizione d’Italia e sia ampiamente avanti in Veneto e Lombardia. Il mio avversario non è all’interno ma all’esterno, è Renzi e, in questo senso, “missione compiuta”. Poi una volta possiamo far meglio noi, una volta Forza Italia. Alla fine si governa insieme, siamo una squadra e lo stiamo dimostrando anche in Regione».

Potrebbe nascere il partito unico del centrodestra? «Mannò, un passo alla volta. Abbiamo raccolto 12 milioni di voti, farò di tutto per andare al governo e dimostrare d’essermi meritato la fiducia che ci è stata data. Oggi mi preoccupo solo di questo».

Se andrà al governo concederà l’autonomia al Veneto? «È un tema centrale per noi. Abbiamo preteso e ottenuto che venisse inserito nel programma di tutto il centrodestra e non vedo l’ora di incontrare di nuovo Zaia e Fontana (il neoeletto presidente della Lombardia, ndr.) per dargli concretezza. Da leghista, lo sa qual è il bello? Che ora l’autonomia me la chiedono pure la Puglia e la Campania».

A un leghista della prima ora sarebbe venuta l’orticaria. Davvero si può dare l’autonomia a chiunque la chieda? Non si rischia l’effetto «autonomia per tutti, autonomia per nessuno»? «No, no, piano. Mica sto dicendo che tutti possono diventare come il Trentino. A ciascuno l’autonomia che gli spetta, secondo capacità, con la giusta gradazione. Nei prossimi cinque anni possiamo fare quel che non è stato fatto negli ultimi venti, l’Italia può diventare finalmente un Paese efficiente, moderno, federale, dove le risorse e la politica sono più vicine ai cittadini. Questo non lo vogliono più soltanto i veneti, adesso anche al Sud l’autonomia viene percepita come un’opportunità e non come un pericolo. E difatti sarà una delle prime riforme che metteremo in cantiere in parlamento».

Magari anche con l’aiuto dei Cinque Stelle, da sempre favorevoli. Un motivo in più per fare un governo assieme, no? «Mai nella vita, quella dell’alleanza Lega-M5S è una fake news, un’invenzione surreale come la caccia al Salvini razzista, fascista e nazista che spaventa i bambini. No. Io rispetto il voto ai Cinque Stelle perché l’elettore ha sempre ragione. Però è un voto di assistenza, pauperista. Il voto alla Lega, invece, è il voto della gente che lavora. Ovviamente in Veneto e in Lombardia ma anche al Sud, le persone che ci hanno votato sono quelle che in campagna elettorale mi hanno detto: io non voglio stare a casa a non fare niente, voglio studiare, lavorare, produrre. Io e Di Maio abbiamo due idee di Italia diverse: per lui è l’assistenzialismo del reddito di cittadinanza; per me è il rilancio e lo sviluppo della flat-tax».

E con il Pd potreste mai governare? «Ho letto anche questa, i giornalisti sono sempre fantasiosi. Di un accordo di governo, di partito, non se ne parla proprio, neanche col Pd. Poi chiaro, io ho un mio programma, sono a capo del partito che guida la coalizione più votata dal Paese, ho l’aspirazione di diventare presidente del Consiglio... ho il dovere di ascoltare tutti, scherziamo? Abolizione della legge Fornero, tassa unica al 15%, legittima difesa, stop all’immigrazione: chi ci sta, ci sta».

Per i dem qui è stata una debacle. Lei come se la spiega? «Hanno promesso troppo, non hanno mantenuto e, giustamente, sono stati puniti. Io me lo ricordo Renzi, qualche anno fa, accolto in Veneto come il Messia Salvatore dagli industriali. Evviva, applausi. Ma se poi le tasse aumentano, la burocrazia si complica con iniziative come il Codice appalti, l’immigrazione diventa un problema serio, le banche crollano - e a proposito, quella sulle banche sarà una delle prime direttive Ue che chiederò a Bruxelles di abolire - è chiaro che finisci male, a Treviso come a Pisa, dove infatti abbiamo fatto quattro parlamentari dopo che mai nella storia avevamo vinto alcunché. Se freghi la gente, la paghi cara. Poi secondo me c’è stato anche qualche problema di comunicazione...».

In che senso? «Beh, noi stavamo in piazza e al mercato, loro facevano la marcia antifascista e lanciavano allarmi sulle ingerenze russe e Trump...».

Gli industriali, però, continuano a guardarvi con sospetto. E lunedì sono partite note allarmate da pressoché tutte le categorie. «In alcune associazioni, e non mi riferisco solo a Confindustria, i vertici sono totalmente scollegati dalla base, ci sono presidenti che quando parlano rappresentano a malapena loro stessi, figuriamoci gli iscritti. Il 94% delle aziende, in Italia, ha meno di 9 dipendenti e il Veneto è l’esempio migliore di questo tessuto produttivo. Io voglio pensare a loro, dopo che per anni Renzi e Confindustria si sono preoccupati solo della Fiat e degli altri “grandi”».

Ma se davvero intende mettere i dazi, scatenando una guerra commerciale, il Veneto lo ammazza perché qui si esporta per 60 miliardi l’anno. «Non sono matto, i dazi si mettono se sono utili a difendere le nostre aziende, penso al settore del riso, altrimenti no. Io voglio solo un Paese dove sia più facile fare impresa e lavorare. Quindi non solo via la legge Fornero ma via pure lo spesometro, subito».

In questi giorni di stallo post voto sono riprese con insistenza le voci su «Zaia premier», il «volto buono della Lega» utile a sedurre i moderati. Lui è sbottato: «Basta tirarmi la giacchetta, sennò si strappa». Lei si sente insidiato? «Luca lo sento tutti i giorni, è l’amico con cui ho parlato di più prima e dopo il voto, una delle persone migliori che abbia non soltanto la Lega ma l’Italia. So che gli piace portare a termine il lavoro, una volta iniziato, e mi pare che sull’autonomia ci siano fior di cantieri aperti... So che vuole restare in Veneto e fa bene perché sta scrivendo la Storia della sua Regione. In futuro, vedremo».

Nel governo Salvini ci sarà posto per un ministro veneto? «Ovviamente sì, è scontato. Non faccio nomi e cognomi ma ho già qualche idea per due settori che mi stanno parecchio a cuore, la scuola e l’agricoltura. Ripeto: andiamo avanti un passo alla volta. Ma il Veneto ci sarà».

7 marzo 2018 (modifica il 7 marzo 2018 | 19:54)
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   Da - https://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/politica/18_marzo_07/salvini-chiudeai-cinque-stellepauperisti-d0fe0e7a-21d3-11e8-84bd-43213e8c5574.shtml?intcmp=exit_page
2937  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga inserito:: Settembre 25, 2019, 12:46:32 pm
Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga

Di Claudio Conti
Schermata del 2019 06 02

La discussione mainstream intorno al debito pubblico, lo spread, le “letterine” che partono da Bruxelles e le “rispostine” – corrette in corsa – del ministero dell’economia italiano, soffre da sempre di una distorsione evidente e sempre più faticosamente nascosta.

Se uno legge infatti Repubblica o il Corriere, o peggio ancora ascolta Cottarelli e Giannini in tv, è obbligato a pensare che il debito aumenta perché aumenta la spesa pubblica, con governi che non applicano le indicazioni “sagge” provenienti dall’Unione Europea (e specificamente dalla Commissione, ossia il “governo” Ue).

Chi guarda invece i numeri scopre che la spesa pubblica, negli ultimi venticinque anni è stata costantemente ridotta, al punto che da diversi anni presenta costantemente – e sotto qualsiasi tipo di maggioranza governativa – un consistente avanzo primario. Che significa: lo Stato spende ogni anno meno di quanto incassa con le tasse.

E del resto molti governi degli ultimi anni – ma anche quelli di Berlusconi – hanno obbedito più o meno ferreamente agli ordini provenienti dall’alto. In particolare quello dei ferocissimi Mario Monti ed Elsa Fornero, che sono stati protagonisti anche del più brusco innalzamento del debito pubblico in tempi recenti. Sono infatti entrati a Palazzo Chigi con un fardello pari al 120,1% del Pil e ne sono usciti lasciandocelo a 129% (oggi siamo al 132).

Ci troviamo insomma di fronte a un piccolo mistero: più ci si piega alle prescrizioni inscritte nei trattati europei, ribadite con frequenti bacchettate sulle dita, più peggiora la situazione. Lo stesso, e anche peggio, è accaduto alla martoriata Grecia governata direttamente dalla Troika – con Tsipras a fare la “copertura a sinistra” di politiche ferocemente antipopolari – quindi non si può neppure parlare di anomalia italiana.

Gli scostamenti dal percorso operati dal governo gialloverde – quasi soltanto, e molto limitatamente (come ricorda Tria nella sua contestata lettera a Bruxelles), per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” – aggravano un po’ la tendenza, ma senza modificarne eccessivamente la direzione.

Mentre la geniale “opposizione democratica” (ZingaRenzi-Repubblica-Corriere) critica il governo… chiedendo ancora più austerità! Poi si meraviglia di come vanno le elezioni…

Quello che la narrazione mainstream – “europeista”, insomma – nasconde con tanta cura è che la percentuale con cui viene espresso il debito pubblico risulta da un calcolo presentato come semplice, ma economicamente molto complesso, che deve tener conto di molti fattori e alcune distorsioni statistiche. Per la parte tecnica, come spesso facciamo, rimandiamo alla lettura – qui di seguito – dell’ottima analisi di Guido Salerno Aletta, apparsa su Milano Finanza.

Noi ci limitiamo a sottolineare il dato politico: l’insieme di strumenti imposti dai trattati europei – taglio della spesa pubblica, privatizzazioni, liberalizzazioni, facilitazioni per le imprese, taglio delle pensioni e allungamento dell’età pensionabile, precarietà contrattuale, deflazione salariale, ecc – non è efficace per curare quella malattia (il debito pubblico). Anzi l’aggrava. In primo luogo perché la crescita economica (in larga parte dipendente dal contesto internazionale) viene scientemente depressa: meno spesa uguale meno investimenti e reddito circolante, salari più bassi e precari uguale meno consumi (e meno innovazione tecnologica da parte delle imprese), e via così. Una spirale senza fine verso il basso.

In più, ci ricorda Salerno Aletta, c’è una Banca centrale europea che non riesce neppure – per un deficit statutario gravissimo – a dare un minimo contributo alla risalita dell’inflazione verso l’obbiettivo dichiarato (il 2% annuo); il che contribuisce negativamente.

Poi c’è lo spread. Terribile cerbero gestito direttamente dai “mercati”, che fa salire quasi a piacimento il “servizio del debito”, ossia la quota di interessi da pagare annualmente a chi compra i titoli di stato italiani. Una quota che si mangia sistematicamente quel faticato avanzo primario e anche molto di più.

Qui l’Unione Europea è intervenuta a fissare come trattato una scelta suicida operata “spontaneamente” dal governo italiano del 1981, con al Tesoro Nino Andreatta, quando il debito pubblico era abbondantemente al di sotto del 60% poi imposto come parametro nel trattato di Maastricht. Si tratta della “separazione tra Banca d’Italia e Tesoro” (il ministero che emetteva i titoli di stato, oggi assorbito in quello dell’economia), per cui la banca centrale non può più acquistare i titoli di stato, contribuendo così a tenere alto il prezzo e basso il rendimento (ossia gli interessi da pagare, il “servizio del debito”).

Da allora e fino ad oggi, quindi, lo Stato – ed ora ogni stato dell’Unione – deve cercare soltanto “sui mercati” le risorse finanziarie di cui ha bisogno; ed è quindi obbligato ad offrire i tassi di interesse più “appetibili” oppure – il che è lo stesso, ai fini contabili – a vedersi offrire un prezzo molto inferiore di quello nominale per ogni titolo (100 euro, in genere).

In pratica, gli Stati europei sono tutti sotto botta di strozzini professionali molto ben vestiti, in particolare quelli con un debito pubblico più alto, per cui lo spread (il differenziale rispetto ai rendimenti dei titoli di altri Stati) è più elevato, il che contribuisce non poco ad aumentare il debito stesso e a frenare la crescita.

Da questa trappola, a rigor di trattati, non si può e non si deve uscire. E quindi si è condannati, come paese, a una morte lenta, per consunzione, cedendo un pezzo dopo l’altro dei “gioielli di famiglia”, ossia dei pilastri che avevano reso il paese uno dei sette più industrializzati del mondo.

Naturalmente questa agonia non è uguale per tutti. Banche, assicurazioni e imprese riescono comunque a sopravvivere, magari facendosi assorbire da concorrenti più forti basati in paesi “partner”. La popolazione, comprese larghe fasce dell’antico “ceto medio”, no. Le dinamiche elettorali, come sappiamo, riflettono esattamente questo processo, offrendo a poco prezzo consenso al primo pirla che promette il bengodi domattina.

Del resto questo processo rappresenta nient’altro che un gigantesco trasferimento di ricchezza dalla produzione e dai consumi alla rendita finanziaria, ovvero una tesaurizzazione del patrimonio (per chi ce l’ha…) garantita proprio dalla rendita parassitaria sul debito pubblico.

Comunque una via di fuga o di riduzione del danno – senza mettere in discussione nessun trattato – potrebbe anche esistere. Ed è quella proposta dall’amministratore delegato di Banca Intesa, Carlo Messina, che già da qualche mese va suggerendo una “mobilitazione del risparmio privato” utilizzando il patrimonio immobiliare pubblico (anche delle amministrazioni locali).

Le controindicazioni sono evidenti (lo Stato e gli enti locali cedono la proprietà immobiliare a fondi finanziari privati, restando privi di ulteriori margini di compensazione), ma l’effetto sul debito anche. Drastico, radicale, nell’ordine dei 1.000 miliardi sui più dei 2.300 attuali. Quello sullo spread, e sul servizio del debito, anche.

Al ministero dell’economia cominciano a pensare seriamente e questa possibilità che, se realizzata in maniera efficace (c’è da dubitarne, conoscendo i protagonisti del governo attuale), potrebbe dare qualche anno di fiato alle finanze pubbliche, permettendo investimenti indispensabili senza più infrangere – per un po’ – nessun obbligo europeo. Ovvio che l’effetto sulla crescita economica sarebbe molto diversi a seconda degli investimenti fatti: se “produttivi” (rilevamento di attività industriali a rischio delocalizzazione o svendita, creazione di nuove attività, ecc) sarebbero di lungo periodo, se sulle “grandi opere” per i soliti costruttori, quasi per nulla e solo nell’immediato.

Perché diciamo “per qualche anno”? Perché la gabbia dei trattati, in questo modo, resterebbe assolutamente intatta. E continuerebbe a macinare, ripristinando, prima o poi, la situazione attuale. Dopo, resterebbero da “sacrificare” al dio Baal dei “mercati” solo i conti correnti di ognuno di noi. Se, con i salari e le pensioni attuali, potremo ancora disporne…

Da - https://www.sinistrainrete.info/politica-economica/15130-claudio-conti-debito-pubblico-alla-ricerca-di-una-via-di-fuga.html?utm_source=newsletter_869&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-sinistrainrete
2938  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / LA SONDOCRAZIA DELLE BOLLE MEDIATICHE inserito:: Settembre 25, 2019, 12:44:08 pm
LA SONDOCRAZIA DELLE BOLLE MEDIATICHE

LUIGI DI GREGORIO
4 settembre 2019

Il 18 luglio 2019 (ormai un lontanissimo puntino nel tempo che fu), l’allora vicepremier Salvini si preparava a imperversare per le spiagge italiane, sospinto da qualche mojito e da intenzioni di voto ormai intorno al 36% (tendente a salire) per il suo partito, mentre l’altro vicepremier Di Maio postava un video, ormai custodito nei nostri musei archeologici, in cui dichiarava: “io col partito di Bibbiano non voglio averci nulla a che fare. Col partito che in Emilia Romagna toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli, io non voglio avere nulla a che fare”. Proprio in quel remoto 18 luglio 2019, un sondaggio Ipsos dava il Movimento 5 Stelle inchiodato al 17% ottenuto alle elezioni europee, un mese e mezzo prima.

Sempre Ipsos, in un più prossimo 29 agosto 2019, rilevava che la Lega di Salvini aveva perso 4 punti dopo la “crisi al buio” e soprattutto a seguito dei numerosi testa-coda del “Capitano” (maggioranza finita, ma telefoni sempre accesi; mai al governo per le poltrone, ma anche mai dimessi dai ministeri; al voto subito, ma se Di Maio volesse fare il premier…), mentre il M5S aveva recuperato 7 punti in poco più di un mese: dal 17% al 24%. Se mai qualche istituto di sondaggi dovesse fare una rilevazione oggi, 4 settembre 2019, a seguito di un pomeriggio in cui tutt’Italia, dal Quirinale in giù, ha atteso – con una trepidazione che nemmeno il rigore di Fabio Grosso a Berlino – i risultati del voto su Rousseau, non stenterei a credere a intenzioni di voto vicine al 30% per il partito di Di Maio & Co.

La democrazia istantanea e istintiva ormai funziona così. Chi occupa la scena dando le carte, o dando anche solo l’impressione di dare le carte, vince e cresce. Istante per istante e senza la minima “àncora” culturale o anche solo di logica elementare. Chi dà le carte cresce, anche qualora dovesse rinnegare tutto il suo recente passato: ieri il capo politico di quei rivoluzionari che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno ha detto: “il Movimento 5 Stelle ha garantito la stabilità di questo paese… Noi siamo e resteremo sempre l’ago della bilancia di ogni legislatura”.  Il “centro occupato” dalla DC nella democrazia (bloccata) della Prima Repubblica è ormai il “sogno ribelle” – già oggi realtà – di chi è nato e cresciuto a suon di “mai con quelli”, “mai con quegli altri” e adesso è pronto a governare con chiunque. L’importante è farlo sempre con postura volontaristica (“o si fa come diciamo noi o niente”), dettando l’agenda (i famosi 20 punti snocciolati al Quirinale in stile da campagna permanente) e le condizioni (l’esiziale consultazione su Rousseau) e facendo così sparire dai nostri radar percettivi il nuovo partner di governo, che infatti nei sondaggi citati non si è mai mosso ed è apparso finora come un alleato-cuscinetto: andiamo al voto, anzi no; niente Conte Bis, anzi si; nessun diktat pubblico sui propri punti del programma di governo; nessuna obiezione al fatto che, dopo tanta fatica e rospi ingoiati, tutto sia stato rimesso al volere di qualche decina di migliaia di iscritti del M5S, alla fine e non all’inizio del percorso giallo-rosso. Alla faccia del libero mandato, della democrazia parlamentare, di un incarico già affidato dal Capo dello Stato, ma di fatto appeso fino a ieri sera…Una partecipazione tardiva che diventa di fatto un mini-televoto, elevato a “democrazia diretta” senza batter ciglio, da parte di nessuno. Guai a sfidare l’onda demagogica. E’ ancora così pop fare gli antipolitici. W la democrazia diretta esercitata dallo 0,8% degli elettori 5 Stelle, su una piattaforma privata, senza trasparenza nelle procedure (a parte un notaio militante e amico) e senza che quel mini-demos possa mai decidere quando votare, su cosa votare, né definire il quesito o le opzioni di scelta, né essere informato sui processi che hanno portato alla consultazione. Per me neanche il referendum è uno strumento di democrazia diretta, figurarsi Rousseau…

In ogni caso, il M5S non ha solo conquistato la centralità nello spazio politico (tra destra e sinistra), ha soprattutto riconquistato centralità nell’agenda mediatico-percettiva. Grazie agli autogol di Salvini, certo. Ma anche grazie a un PD che non riesce a competere con i partiti populisti nell’arena della politica iper-visibile, quella che conta per generare consenso. Resta un partito (parentesi renziana a parte) forte nel back-office, ma debole nel front-office. Con ottime relazioni con le élite nazionali e internazionali, ma (anche per questo) sempre più lontano dall’opinione della massa.

Se il piano del PD dovesse essere: governiamo con i 5 Stelle e facciamo come Salvini, prosciugandoli da sinistra… beh, in bocca al lupo. Salvini aveva la issue ownership dei temi-chiave dell’opinione pubblica: sicurezza, immigrazione, criminalità e sovranismo su cui ha saputo costruire una narrazione vincente che unisce tutti i nemici del popolo possibili (da Macron alla Merkel, da Soros alla Commissione Ue, dalle Ong agli immigrati, da Boldrini alla Boschi, da Renzi a Saviano). Ed è stato, al governo, davvero una “ruspa”, lineare sulle sue posizioni e apparentemente all’opposizione di un partner “indeciso a tutto” e vincendo praticamente ogni “braccio di ferro” interno alla maggioranza. Oggi il PD non detiene alcun tema-chiave per l’opinione pubblica, i 5 Stelle si (“in due ore tagliamo il numero dei parlamentari”, ad esempio). E soprattutto, Di Maio ha già fatto capire che stavolta quelli che faranno opposizione nel governo saranno loro, a partire dalle dichiarazioni al Quirinale fino al pomeriggio febbrile di ieri, passando per innumerevoli dichiarazioni secondo le quali “il PD parla solo di poltrone”, per oscurare il suo cruccio legato alla mancata vicepresidenza…

Come si pensa di “prosciugare” i 5 Stelle stando insieme al governo, ma non avendo le “armi” che aveva il Capitano? Secondo molti lo si può fare lavorando bene, facendo “cose buone”, riportando i dati macroeconomici in positivo… ecco, scordatevelo. Leggete Lakoff e portatevelo appresso come fosse un rosario per Salvini. Il voto non è un calcolo razionale, costi-benefici. E’ un atto simbolico e psicologico, mosso da impulsi ed emozioni. Da convinzioni (ormai) instabili, ma molto intense; potenti e polarizzanti, credibili più che vere.

Dietro le quinte, si può (e si deve) lavorare seriamente alle vere priorità del paese. E questo vale per tutti, anche la Lega ha i suoi Giorgetti, mentre Salvini imperversa su Facebook e in TV. Ma sul palcoscenico di questa interminabile serie TV che è la politica italiana servirebbero al PD:

attori più performanti (un nuovo leader mediatico, il nuovo eroe);
una sceneggiatura più convincente (una narrazione credibile, da sinistra, con “nemici del popolo” rinnovati, basta coi  fascisti…),
dominante (posizionarsi sui temi altrui serve solo a dare visibilità e consenso agli altri) e
lineare (quanti galli cantano nel PD?);
una potente call to action (perché oggi un elettore indeciso dovrebbe votare PD? Qual è il profilo d’immagine del partito oggi, a parte governare a tutti i costi e litigare su tutto?).
Ecco… provate a fare un confronto, ad oggi, tra PD e M5S anche solo su questi 5 ambiti. E datevi una risposta.

Il tutto considerando anche altre variabili (e costanti) di contesto:
1) Calenda è già fuoriuscito dal partito;
2) Renzi pare sia prossimo a farlo e peraltro ha in mano il timer di questa maggioranza, detenendo molti parlamentari. In pratica, il PD può addirittura rischiare di essere tritato dai 5 Stelle e dai renziani in simultanea;
3) le opposizioni non spariscono, anzi… Già oggi sono maggioritarie nel paese e se c’è una certezza, quasi una “legge politologica”, nella sondocrazia permanente in cui viviamo, è che chi governa si fa male e chi fa opposizione cresce (anche senza far nulla, vedasi proprio il PD nell’ultimo anno), per via della “cerimonia cannibale” (Salmon) che colpisce chi sta all’esecutivo;
4) collegato al punto 3), la democrazia istantanea vive anche di “bolle” mediatiche che alterano la percezione e assolutizzano l’istante. Renzi doveva governare per 20 anni… Salvini per 30 o 40… Oggi tutti guardano all’esecutivo nascente come a un governo “di legislatura” e danno Salvini per morto. Basta guardarsi indietro di qualche settimana per capire che anche solo pensarlo rischia di essere un azzardo micidiale. Se il danno d’immagine che il Capitano si è autoinflitto dovesse diventare un crollo, ossia una perdita totale di credibilità, allora forse è morto. Ma non è certo morto il posizionamento sovranista che galoppa ovunque in occidente e che all’opposizione funziona come una lama nel burro. Se poi il danno non dovesse rivelarsi un crollo… appena la bolla di attenzione spasmodica sul nuovo governo sparirà, prepariamoci a un Salvini incontenibile.
5) Last but not least, vuoi o non vuoi questo governo nasce per evitare le elezioni, tenere il capo della Lega lontano da Palazzo Chigi e allungare la legislatura (anche) per non concedere nomine importanti ai “fascisti”. Nel percepito non è una gran partenza…E, dopo aver temporaneamente “distrutto” il nemico, la pars costruens comincia da una finanziaria complicata e da un programma di governo ambiziosissimo (altro che una legislatura) con tanti “cosa” e senza neanche un “come”. A che prezzo? Presto lo scopriremo, tra governo e opposizione (nel governo).

Da - https://www.glistatigenerali.com/governo_partiti-politici/la-sondocrazia-delle-bolle-mediatiche/
2939  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / RENZI Siamo sommersi dalle cose da fare, dopo il lancio di ITALIA VIVA. inserito:: Settembre 25, 2019, 12:42:08 pm
Martedì 24 settembre 2019
Enews 592
Buona settimana a tutti

Siamo sommersi dalle cose da fare, dopo il lancio di Italia Viva. Sarà una Maratona, non i 100 metri, ma dobbiamo partire bene e lo stiamo facendo anche grazie al sostegno impressionante che stiamo ricevendo da molti di voi. Non sentivo questo entusiasmo dagli anni precedenti all'arrivo a Palazzo Chigi: trovo lo stesso clima, bene così.

A tutte e tutti: vi aspettiamo alla Leopolda, dove saremo accolti nella nuova Casa, la casa di Italia Viva. Un luogo di libertà che arriva alla decima edizione della Leopolda. E che sarà un luogo di proposta e di entusiasmo: teniamo fuori le polemiche e i rancori. Ci devono riconoscere dalle idee e dai sorrisi, questa è Italia Viva

Brevissimo aggiornamento allora:
Ho fatto questa intervista al Messaggero che forse è utile per conoscere i prossimi passi di ciò che ci attende: Family Act, Piano Verde, divieto di correnti nel nuovo partito, spazio alle donne.
Presenteremo in Leopolda la Tessera 2020 del nuovo partito: l'iscrizione si farà online per evitare il lavoro dei signori delle tessere. E per ogni tessera che verrà fatta a Italia Viva pianteremo un albero, come ho spiegato proprio nell'intervista al Messaggero.
Intanto siamo arrivati a quota 20.000 adesioni in una settimana, qui il link per chi non avesse ancora aderito.
E qui c'è il video della trasmissione con Giletti domenica sera. I vostri commenti sono preziosi. Grazie
In sintesi.

1) Chi vuole venire alla Leopolda si faccia vivo. Saranno tre giorni di lavoro entusiasmanti ma abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti. Qui c’è il link per preiscriversi. E chi ci vuole dare una mano per l’organizzazione come volontario clicchi qui, come sostenitore economico può fare un piccolo versamento qui (anche i piccoli versamenti da 5€ fanno la differenza)

2) Chi vuole dare una mano sul Family Act, sul Piano Verde (ok investire nell'ambiente ma senza aumentare le tasse: non possiamo usare la scusa del clima per fare cassa), sulle idee per il futuro è il benvenuto. Una delle cose belle di Italia Viva è che stanno arrivando tanti parlamentari ma anche e soprattutto tante persone che vogliono fare un'esperienza politica totalmente nuova. Basata sulle idee, non sui litigi. Mi scrivete? L'email è sempre quella: matteo@matteorenzi.it

3) Sono reduce da una brevissima missione in Cina dove con l'ex primo ministro spagnolo Mariano Rajoy (qui in un selfie azzardato, almeno per gli abiti) abbiamo parlato di come coniugare economia e ecologia. Questo tema sarà sempre più importante nei prossimi mesi. Ma attenzione: l'Italia è ferma a crescita zero per effetto degli errori del governo precedente. Adesso dobbiamo rilanciare tenendo insieme Ambiente e Crescita, non contrapporli. Altrimenti la recessione che già colpisce la Germania si allargherà fatalmente anche nel nostro Paese. Ne parliamo alla Leopolda con tante proposte concrete per ripartire.
Un sorriso e a prestissimo,
Matteo

PS La cantante Emma Marrone, donna capace di dare un messaggio bellissimo contro gli odiatori di professione (ricordate questo video qualche mese fa?) sta combattendo una battaglia contro un serio problema di salute. E cosa fanno gli haters? La attaccano per le sue posizioni politiche. Ci sono delle persone piccole e meschine che usano i social per diffondere odio. Vorrei che a Emma arrivasse l'abbraccio di tutte le persone perbene di questo Paese. Non cederemo mai alla cultura della violenza verbale e dell'odio ad personam.

Da -  https://mail.google.com/mail/u/0/?hl=it&shva=1#inbox/FMfcgxwDrRShslZffNxTcrZMQnmFHhpj
    

2940  Forum Pubblico / DOMANESIMO: l'IERI, l'OGGI e il DOMANI per i GIOVANI. / Solo studiando le basi della genetica, spiega Guido Barbujani, ... inserito:: Settembre 25, 2019, 12:39:03 pm
Solo studiando le basi della genetica, spiega ai lettori della Domenica il genetista e divulgatore Guido Barbujani, si può discutere senza pregiudizi, e senza scagliare insulti, se per esempio gli Ogm sono nocivi o se ha senso parlare di razze umane.

Il Sillabario di genetica per principianti è stato scritto da Barbujani fra febbraio 2018 e maggio 2019. Tutto nasce dal sentiero stretto su cui oggi si procede quando si parla in pubblico di genetica. Sui temi che ci toccano da vicino, come la diversità umana o gli OGM, le posizioni sono polarizzate; non c'è curiosità per le opinioni altrui, scatta immediatamente l'anatema; lo spazio per un civile dissenso sui temi in discussione si è ridotto, si passa presto agli insulti personali.

Il libro parla di quanto la genetica abbia a che fare con la nostra vita, e anche di quante questioni restino aperte, nonostante i formidabili progressi degli ultimi anni. Ancora non sappiamo dire quanto si nasca intelligenti, o timidi, o affascinanti, o magari propensi a delinquere, o ad ammalarci di certe malattie, e quanto invece lo si diventi.

Ma per riuscire a capirci, e lo dimostrano molto bene le reazioni virulente che abbondano quando se ne parla in pubblico, ci vogliono fondamenta solide. È per questo, ritiene Barbujani, che può tornare utile un testo semplice, appunto un Sillabario; però anche un libro semplice richiede qualche sforzo al lettore. L'autore ha cercato di indorare la pillola raccontando qua e là delle donne e degli uomini che hanno fatto la storia della genetica, perché lo studio dei geni, come tutte le imprese umane, è anche frutto di passioni, simpatie e antipatie, rivalità e collaborazioni.

Ma è come imparare una lingua: per poter leggere Proust bisogna cominciare con la grammatica. Barbujani ammette di avere belle pretese: pretende infatti che i lettori, a letto o sul sofà, si concentrino, diciamo, su come e perché si formano le ali dei moscerini.

Però serve: serve perché capendo le basi della genetica si può poi passare a discutere seriamente se sia vero o no che gli OGM sono pericolosi, se i nostri geni condizionino le nostre preferenze sessuali, o se abbia senso per l'uomo una classificazione in razze.

Da ilsole24ore.com
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