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Autore Discussione: FRANCESCO GUERRERA.  (Letto 3354 volte)
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« inserito:: Giugno 13, 2010, 08:52:36 am »

13/6/2010

Agli Usa serve un patto sul lavoro
   
FRANCESCO GUERRERA


A prima vista, Jong Tae-Se, il centravanti della Corea del Nord, e Barack Obama non hanno nulla in comune.
Uno è la stella di una nazionale-cenerentola.

Che rappresenta uno degli ultimi bastioni del comunismo e probabilmente uscirà al primo turno dei mondiali sudafricani.
L’altro è il primo presidente di colore dell’ultima superpotenza del mondo e, a meno di errori clamorosi, è destinato a governare gli Stati Uniti per i prossimi sette anni. Obama è già una figura storica, Jong è a un passo dal dimenticatoio. Eppure, questi due uomini così diversi sono accomunati dall’avere sogni improbabili che potrebbero far deragliare le loro carriere e compromettere la loro credibilità. La chimera di Jong - che il «Rooney dei poveri» ha raccontato a un giornale della nemica Corea del Sud - è di segnare un gol a partita e portare la sua squadra nella seconda fase dei mondiali. L’utopia di Obama è di far risorgere la più grande economia mondiale pur lasciando milioni di americani senza lavoro.

Lascio ai cronisti sportivi i giudizi sulle goleade promesse da Jong nel girone di ferro con Brasile, Portogallo e Costa d’Avorio. Ma posso senz’altro dire che l’idea di una «jobless recovery» (una ripresa senza la creazione di posti di lavoro) è una fantasia degna di JRR Tolkien o James Cameron. I numeri non mentono (quasi) mai e i numeri del mercato del lavoro statunitense fanno venire i brividi. Un americano su sei è o disoccupato o sotto-occupato. La misura più «vera» del tasso di disoccupazione, che include gente che ha cercato lavoro negli ultimi dodici mesi, è al 17 per cento, un livello altissimo. La stima ufficiale è sotto il dieci per cento, stando all’ultimo rilevamento di una settimana fa, ma solo per il fatto che il governo ha impiegato centinaia di migliaia di persone part-time per completare un censimento decennale della popolazione. Se si escludono questi mercenari governativi, che verranno licenziati nei prossimi mesi, le aziende americane hanno assunto solo 41.000 persone a maggio – un risultato che un economista mio amico ha chiamato «putrido». I soliti ottimisti dicono che è normale avere tassi elevati di disoccupazione dopo una recessione come quella del 2007-2009.

Purtroppo, la storia dimostra il contrario: in recessioni «normali», l’economia americana perde due o tre milioni di posti di lavoro.
In questo caso siamo già a quota 8 milioni e le perdite continuano ad aumentare. Per un presidente che ha dichiarato più volte che combattere la disoccupazione è una «priorità assoluta» - e per un partito democratico che ha bisogno di un’economia in buona salute per vincere le elezioni parlamentari di novembre - queste cifre fanno paura. Non è un caso che, con la disoccupazione così alta, gli economisti pronostichino una crescita anemica per i prossimi cinque, sei anni, molto di più di altri periodi post-recessione. Mort Zuckerman, il magnate del mercato immobiliare americano, mi ha tolto le parole di bocca quando ha scritto, sul Financial Times di lunedì: «Siamo in alto mare. Ci facciamo rassicurare da pezzetti di notizie positive ma in realtà siamo in acque molto molto pericolose». Con l’Europa in crisi ed un dollaro forte, l’economia americana dovrà contare sulle proprie forze - la produzione interna e la spesa dei consumatori - per recuperare il terreno perduto. L’errore più grave per Obama e il ministro del Tesoro Timothy Geithner sarebbe considerare le condizioni attuali come un fenomeno passeggero, una fase di un ciclo che si correggerà automaticamente quando l’economia ricomincerà a tirare.

È vero che in una situazione normale, un po’ di disoccupazione dopo una recessione è come una cicatrice dopo un’operazione: un segno doloroso che il peggio è passato e che permette alle aziende di attingere a un vasto serbatoio di lavoratori per ricominciare a crescere.
Ma in questo caso, la ferita non si è ancora rimarginata. Come in Italia, in America la disoccupazione è un problema strutturale che va risolto con misure drastiche ed a lungo raggio. Bisogna partire dalla constatazione che certi posti di lavoro che sono stati persi durante l’ultima crisi non ritorneranno mai più. Penso alle grandi fabbriche di Detroit che un tempo producevano Corvette e Buick ed ora sono cattedrali nel deserto dell’industria americana. Ma anche alle gru e alle impalcature che erano parte integrante del profilo urbano di Las Vegas, Miami, Denver e tante altre città durante il boom, dando lavoro a milioni di muratori, e che ora sono scomparse. E persino ai tanti piccoli e medi funzionari delle banche di Wall Street, giovani che avevano sognato una carriera nell’alta finanza e ora lavorano nei McDonald’s.

La morte, lenta ma inesorabile, di un’industria manifatturiera che è stata distrutta dallo strapotere dei mercati emergenti e la mancanza di investimenti non aiuta di certo. In passato, le vittime delle recessioni avevano almeno la speranza di poter lavorare in un altro settore, magari spostandosi in un altro angolo di questo Paese-continente che ha sempre facilitato la migrazione interna. Ma dopo decenni in cui le politiche dei governi e delle società hanno creato un’economia di servizi concentrata sulle due coste (la finanza all’Est e il cinema e la televisione ad Ovest), il centro dell’America è rimasto pressoché vuoto, un buco nero con poche industrie e ancor meno posti di lavoro.

Ed è per questo che in America i senza-lavoro rimangono esclusi dalle attività economiche sempre più a lungo. Un anno fa, c’erano 3,2 milioni di persone che non avevano lavorato per 27 settimane (la definizione ufficiale di «disoccupati a lungo termine»). Oggi ce ne sono 6,5 milioni. A mali estremi, estremi rimedi. Se la disoccupazione in America è un problema cronico, le medicine devono essere forti e frequenti ed essere somministrate sia dal governo che dal settore privato. L’amministrazione dovrà sfidare l’opposizione di repubblicani che disdegnano le spese statali e lanciare un nuovo programma di stimolo economico appena possibile. Gli 800 miliardi di dollari spesi fino ad ora dal governo Obama non sono bastati, in parte perché i consumatori si sono tenuti i soldi invece di spenderli come in passato. Con un deficit già enorme non sarà facile per gli uomini del Presidente giustificare un’altra dose di stimolo, ma procrastinare la decisione non farebbe altro che esacerbare le difficoltà economiche del Paese. Ma una questione annosa e radicata come la disoccupazione non si può risolvere solamente con le teorie spendaccione di John Maynard Keynes. La mano invisibile dei mercati dovrà fare la sua parte. Nonostante il fatto che l’economia americana sia uscita dalla recessione molti mesi fa, le aziende hanno fatto poco e nulla per contribuire alla crescita economica. Spaventati dalla prospettiva di una ricaduta nel grigiore economico - e preoccupati dal crollo dell’Europa, un mercato importantissimo per le esportazioni made in Usa - i capitani di industria non hanno investito nel futuro, preferendo utilizzare le scorte di merci e fondi che avevano accumulato durante la recessione.

Uno dei risultati è che non hanno né assunto nuovi lavoratori né aumentato i salari dei vecchi impiegati - in America, gli stipendi medi sono rimasti praticamente immutati negli ultimi sei mesi. La passività dei signori del grande business è uno dei motivi per cui l’economia americana non tira e la disoccupazione rimane a livelli stratosferici. La Confindustria locale chiede tasse più basse e incentivi governativi per le assunzioni ma la realtà è che con il deficit alle stelle e un nuovo stimolo economico in cantiere, il governo non si può permettere granché su quel fronte. Le grandi aziende devono capire che, in questo frangente, è nel loro interesse scommettere sulla ripresa economica anche senza gli assist dell’amministrazione. Una legge immutabile dell’economia dice che gli investimenti delle aziende contribuiscono alla crescita del prodotto interno lordo. Per l’industria americana, aiutare l’economia significa aiutare se stessi.

Per sfuggire alla Grande Depressione degli Anni 30, Franklin Delano Roosevelt inventò il «New Deal», il patto tra il governo e i cittadini in cui l’amministrazione promesse riforme e investimenti che trasformarono l’America in una potenza economica di livello mondiale. Più di settanta anni dopo, gli Usa hanno bisogno di un nuovo patto tra Stato, aziende e lavoratori per combattere la disoccupazione e frenare il declino dell’impero americano. Francesco Guerrera è caporedattore Finanza del Financial Times a New York

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« Ultima modifica: Luglio 17, 2010, 11:03:46 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 17, 2010, 11:04:16 am »

17/7/2010

Il declino dell'impero americano

FRANCESCO GUERRERA

Veni Vidi Vici. C’era un tempo, non tanti anni fa, quando il motto di Giulio Cesare era la summa della politica economica internazionale degli Stati Uniti. Ogni volta che un’economia in via di sviluppo si trovava nei guai, vedi la Thailandia e il resto dell’Asia nel 1997-98, o era sull’«orlo» del capitalismo, tipo la Cina e la Russia post-comuniste, gli emissari americani arrivavano nelle loro limousine nere a offrire consigli non proprio disinteressati. La medicina americana, spesso somministrata dai dottori del Fondo Monetario Internazionale (il cui più grande sponsor è, ovviamente, lo Zio Sam) era sempre la stessa: misure di austerità per ridurre il deficit e mettere in sesto la bilancia commerciale, accompagnate dall’apertura dei mercati alle aziende e banche straniere, ovverosia americane.

Quando ero di stanza in Asia, le ho viste spesso quelle «motorcades» – i cortei di auto tutte rigorosamente made in Usa – che sfrecciavano per le vie di Pechino prima di scomparire dietro i muri altissimi dei complessi governativi. Dentro c’erano politici, uomini di affari e diplomatici venuti a dire ai leader cinesi che era venuto il momento di aprire la muraglia per farli entrare nel più grande mercato del mondo. Protetti dagli stendardi del libero mercato e del libero commercio, i governi statunitensi hanno aperto nuovi orizzonti per multinazionali e banche d’affari. Le varie General Electric, Exxon, Goldman Sachs and Morgan Stanley sono state gli ultimi esponenti, forse inconsapevoli, di una lunga tradizione di colonialismo economico, eredi della East India Company che aiutò e beneficiò dell’impero coloniale anglosassone e delle «Hong», i conglomerati monopolistici della Hong Kong britannica. Se non ci credete, leggetevi la lista delle banche che dominano i flussi di capitali internazionali.

I nomi delle società che vendono azioni o comprano rivali cambiano ma i loro consiglieri finanziari provengono sempre da un oligopolio di quattro, cinque banche americane con l’aggiunta di un paio di concorrenti europei. A chi si opponeva a questa pax americana in materie economiche, gli Stati Uniti rispondevano con le parole che Carly Simon cantò nei titoli di apertura di uno dei film di Bond: «Nobody does it better», «Nessuno lo fa meglio». Lo strapotere economico dell’America – almeno sin dalla caduta del Muro di Berlino – le aveva conferito il diritto di dettare legge al mondo intero su questioni di finanza e di affari. Gli avvenimenti degli ultimi tre anni hanno spostato l’ago della bilancia del potere economico internazionale. A differenza del passato, questa crisi è nata e cresciuta in America prima di dilagare nel resto del mondo. Non solo, ma il tumulto è stato il risultato diretto di pratiche finanziarie prettamente americane (i mutui subprime e la loro trasformazione in obbligazioni vendibili ad investitori) da parte di banche che si credeva fossero tra le più sofisticate e prudenti del mondo.

Le autorità governative ci hanno messo la loro, sostenendo una deregulation sfrenata di mercati ed economia che ha permesso a Wall Street di inventare prodotti ad alta tossicità senza che nessuno dicesse nulla. E la banca centrale – la Fed dell’ex santone Alan Greenspan – ha gonfiato la bolla tenendo tassi d’interessi così bassi per così tanto tempo che il denaro per scommettere sui mercati era praticamente gratis. Greenspan e i suoi successori possono parlare quanto vogliono di una «crisi inaspettata», uno «tsunami finanziario imprevedibile» e di «100-year flood» (l’inondazione che avviene una volta ogni cento anni) ma la realtà è che sia loro sia Wall Street hanno fatto errori elementari ed evitabili. La parola-chiave qui è «elementari», perché l’incompetenza e l’avidità del sistema finanziario americano hanno messo a nudo il fatto che non sempre gli Stati Uniti «lo fanno meglio» degli altri. E’ questa la conseguenza forse più duratura e grave della crisi: il declino dell’impero economico americano.

I segni della fine di un ciclo abbondano. I governi di Paesi in via di sviluppo – primi fra tutti i cinesi e i russi – non hanno più nessuna intenzione di obbedire alle prediche degli americani sull’economia. Anzi, negli ultimi vertici vari leaders dell’Est e dell’Ovest non hanno perso l’occasione per punzecchiare gli americani sulle cause della crisi. Basta guardare come Pechino ha risposto alle ripetute richieste di Washington per un rialzo della sua valuta: no, no e ancora no. La posizione è cambiata di recente, ma solo perché il governo cinese ha deciso che un aumento del renminbi sarebbe servito a calmare la crescita economica e combattere l’inflazione. Come diceva Giucas Casella: «Solo quando lo dico io!». La baldanza dei cinesi è comprensibile. Sanno benissimo che gli Stati Uniti sono in difficoltà e che dipendono sempre di più dalla Cina - Pechino è uno dei più grandi finanziatori dell’enorme deficit americano e le esportazioni di beni cinesi in America hanno creato un surplus commerciale enorme a favore dell’economia del Dragone. E se queste sono tendenze che hanno preceduto la crisi, ci sono nuovi trend che dovrebbero preoccupare i signori della finanza americana.

L’ascesa delle banche cinesi è senz’altro uno. Se, come sembra, la quotazione della Banca dell’Agricoltura Cinese – fino a poco tempo fa una delle peggiori istituzioni finanziarie del mondo – andrà in porto, quattro delle dieci banche più grandi del mondo per capitalizzazione saranno cinesi (gli Stati Uniti ne hanno altre quattro mentre la vecchia Europa solo due). E’ chiaro che le banche cinesi sono grandi perché il mercato interno a loro disposizione (grazie in parte alle politiche protezionistiche di Pechino) è immenso e non sono ancora in grado di attaccare una Goldman o JP Morgan. Ma la storia insegna che, una volta conquistata la madre patria, le istituzioni finanziarie cinesi guarderanno oltre confine per espandersi e far crescere gli utili – proprio come le banche americane fecero nel Dopoguerra. Altre società stanno già sfruttando la globalizzazione per invadere i mercati occidentali e mettere in difficoltà i suoi campioni aziendali.

Nomi come la Tata – il gruppo indiano che si è comprato la Jaguar e il tè Tetley dagli inglesi – o la Huawei – il gigante delle telecomunicazioni cinese che ha più volte pensato all’acquisizione della Motorola - potrebbero, in un giorno non tanto lontano, diventare ben noti come la General Electric o la Siemens. Il settore delle risorse naturali, per esempio, è già un campo di battaglia con società come la Ongc indiana, la Rusal russa e la Cnooc cinese in rotta di collisione con la Exxon, la Chevron e la Total. E’ possibile che questi nuovi arrivati rampanti possano sperperare i loro vantaggi, come successe alle società giapponesi negli Anni 80, e riconsegnare le chiavi del capitalismo mondiale alle potenze occidentali. La speranza, si dice, è l’ultima a morire ma i pii desideri non sono mai stati una grande strategia economica. Se il veni vidi vici non funziona più, i governi e le società americane dovranno fare in modo che la crisi finanziaria non si trasformi nelle loro idi di marzo.

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York

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« Risposta #2 inserito:: Agosto 14, 2010, 04:07:36 pm »

14/8/2010

Quel muro tra Obama e la finanza
   
FRANCESCO GUERRERA*

All’estero, lo stereotipo dell’italiano sfaticato e vacanziero è duro a morire ma questa settimana ho fatto la mia parte per sradicarlo dalla psiche americana. Mentre mezza Europa se ne stava sotto l’ombrellone, sono andato a Washington per studiare la relazione tra l’amministrazione Obama e il mondo dell’industria. Con quaranta gradi all’ombra, era forse prevedibile che politici, sindacati e lobbisti – costretti, come i giornalisti, a sudare in giacca e cravatta – fossero irascibili. Ma devo ammettere che non mi aspettavo che la temperatura politica fosse più alta dell’afa opprimente di una capitale costruita sulle paludi insalubri della Virginia.

Quando uno dei consiglieri di Obama ha citato la famosa frase pronunciata di Franklin Delano Roosevelt durante la Grande Depressione - «Tutti i capitani d’industria mi odiano. Io accetto con gioia il loro odio» – sono rimasto sbalordito. A tre mesi da importantissime elezioni di medio termine che potrebbero infliggere una sonora batosta al partito democratico e ridurre drasticamente il raggio d’azione del Presidente, è guerra aperta tra il governo e il grande business.

Le alleanze e lune di miele che catapultarono un inesperto senatore di Chicago alla Casa Bianca grazie, in parte, ai contributi record di società e banche sono ormai un ricordo del passato: i poli del potere politico e finanziario della più grande economia del mondo sono ai ferri corti. L’industria accusa l’amministrazione di essere «antibusiness» per aver promosso riforme draconiane della sanità e della finanza e per la passione tipicamente democratica per le tasse alte. Il governo risponde che il settore privato non sta facendo abbastanza per far risorgere l’economia con assunzioni e investimenti. Wall Street ha un posto speciale nel pantheon dell’odio presidenziale, e Obama e i suoi non perdono occasione per ricordare alle banche che, dopo essere state salvate dai dollari dei contribuenti, devono incrementare i prestiti a risparmiatori e aziende. La tensione tra l’imprenditoria e il potere politico non è cosa nuova, soprattutto negli Stati Uniti dove la dicotomia ideologica e finanziaria tra democratici (sponsorizzati dai sindacati) e repubblicani (amici dell’impresa che li ricompensa con grandi donazioni) è spiccatissima.

Ma una lotta di classe in questa congiuntura economica e politica è controproducente sia per Obama che per il padronato. Il governo dovrebbe sapere che la retorica contro «l’ingordigia sfrenata del grande business» – una delle frasi preferite del presidente-oratore – sarà pure musica per le orecchie di milioni di disoccupati ma non li aiuta certo a trovare posti di lavoro. Non solo, ma il fatto che moltissime società stiano aiutando le campagne elettorali dei candidati repubblicani con milioni di dollari in contributi non è proprio il massimo per un partito democratico in crisi. Le aziende, però, dovrebbero rendersi conto che senza l’aiuto del governo e della banca centrale la domanda per i loro prodotti e servizi non aumenterà e l’incubo di una ricaduta nella recessione diventerà realtà molto presto. Jeffrey Immelt, il capo della General Electric – la multinazionale che è il barometro dell’economia americana - l’ha detto chiaro e tondo a un gruppo d’imprenditori italiani un mesetto fa a Roma: «Gli Usa sono un esportatore patetico… dobbiamo ritornare ad essere uno strapotere industriale ma sarà impossibile se il governo e l’industria non sono in sincronia».

Per il momento, la sincronia tra le due fazioni mi ricorda l’armonia tra i difensori azzurri durante il mondiale («E’ tua!» «No, è tua!» «Oops, c’ha segnato la Nuova Zelanda...»). Quando parlo con i capitani d’industria, di solito le lamentele nei confronti dell’amministrazione sono di tre tipi: troppe regole, tasse troppo alte e poca esperienza del ruolo dell’impresa nell’economia. La prima punta del tridente brandito dall’industria di fronte alla Casa Bianca è la più acuminata: la riforma finanziaria e la rivoluzione della sanità aumenteranno costi e burocrazia proprio quando le società stanno faticando ad uscire dalla recessione.
L’incertezza creata da migliaia di nuove regole e restrizioni pervade i grattacieli di vetro di New York, Los Angeles e Chicago ed è uno dei motivi per cui le società statunitensi tengono 1800 miliardi di dollari in contanti in cassaforte e non vogliono spenderli per assumere o comprare macchine e tecnologie. Keith Van Scotter, il padrone di Lincoln Tissue & Paper, una piccola azienda cartacea del Maine, ha dato una spiegazione succinta del dilemma di tanti imprenditori in un’intervista con un mio collega: «Fino a quando non capiamo che effetti avrà questa burocrazia gigantesca su di noi è difficile essere ottimisti e aver voglia di espandersi».
La paura delle tasse è prevedibile. I signori del capitalismo americano non sono mai stati grandi fan delle imposte sui redditi e la promessa del ministro del Tesoro Tim Geithner di cancellare le esenzioni dell’era Bush per chi guadagna più di 200.000 dollari l’anno ha confermato le loro paure. L’accusa d’inesperienza è più sottile. Dopo anni in cui il governo era in mano ai «loro» (i gabinetti di Bush padre e Bush figlio erano pieni di ex businessmen), le società si trovano spiazzate. A parte Valerie Jarrett, l’amica e consigliere di Obama che è stata capo di un’impresa edile, le eminenze grigie dell’amministrazione in materia economica sono Geithner e Larry Summers: uno funzionario di carriera e l’altro professore trasformato in politico.

«Non sembrano sapere granché del mondo degli affari», mi ha detto un lobbista questa settimana tra un sorso di martini e un morso di aragosta (un modo ideale, ho pensato, per dimostrare la sua empatia con i milioni di disoccupati...). Le rimostranze delle aziende sono serie e non c’è dubbio che Immelt and co. si trovino di fronte a scelte difficilissime in condizioni economiche precarie ed incerte. La cosa strana, però, è che, come il mio lobbista che si lamentava della situazione economica mentre pasteggiava a crostacei, il grande business non sembra vedere le contraddizioni e incoerenze di alcune delle sue posizioni.
Il difetto di fondo è che le aziende e i loro capi non sembrano sapere quello che vogliono. Da una parte chiedono all’amministrazione di «togliersi di mezzo», di non sommergere le imprese con regole e cavilli che interferiscono con il libero mercato. Dall’altra, però, vogliono che il governo intervenga con stimoli fiscali e monetari per tenere in vita l’economia. Se volete un esempio di questa politica aziendale americana alla Dottor Jekyll e Mr Hyde, andate a parlare con Ivan Seidenberg, l’amministratore delegato del gigante delle telecomunicazioni Verizon.

Il mese scorso, Seidenberg, che è anche il capo della lobby delle grandi aziende, ha detto che «il passo più importante» che Obama dovrebbe fare per stabilizzare l’economia sarebbe ridurre il deficit pubblico. Nello stesso discorso, il capitano d’industria ha esortato l’amministrazione a spendere di più in infrastrutture ed educazione e ad esentare dalle tasse tutta una serie di attività imprenditoriali – decisioni che, se prese, aumenterebbero il già altissimo deficit. Come dice il mio amico Jeffrey Sonnenfeld, un veterano della finanza che insegna a Yale: «Se le aziende vogliono che l’amministrazione le aiuti, non si possono lamentare della presenza ingombrante del governo nell’economia». Per fortuna, la cura per il dialogo tra sordi che affligge l’economia americana è una prassi che sia i politici che i capi d’azienda conoscono bene: il compromesso. Il governo dovrà parlare meno e ascoltare di più e la classe aziendale dovrà esprimersi con più chiarezza e meno ipocrisia.

* Caporedattore finanziario
del Financial Times a New York.

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« Risposta #3 inserito:: Settembre 09, 2010, 09:06:48 pm »

9/9/2010
 
Obama e la guerra delle case
 
 
 
FRANCESCO GUERRERA
 
Per capire il dramma del mercato immobiliare americano e le ripercussioni devastanti che sta avendo sulla più grande economia del mondo bisogna uscire dai labirinti urbani di New York, Chicago e Los Angeles. Bisogna noleggiare un macchinone made in Usa, lasciarsi i grattacieli alle spalle e inoltrarsi nei sobborghi che hanno colonizzato le praterie, montagne e deserti di questa nazione-continente.

Bisogna fermarsi nelle stradine che un tempo erano linde e pinte ed ora sono paesi fantasma, periferie dormitorio dove ormai non vuole dormire più nessuno. Negli ultimi mesi sono stato in sette Stati per lavoro e per piacere - dal Vermont nel Nord-Est alla Florida, dal Tennessee nel profondo Sud alla California - e sono ritornato con immagini indelebili. Il sogno americano in technicolor - i prati verdi, le staccionate bianche, i bambini biondi - si è trasformato in un incubo in bianco e nero: finestre sbarrate, cartelli «for sale» (in svendita) e immondizia nelle strade.

La guerra più importante per Barack Obama non è in Iraq e nemmeno in Afghanistan ma è in Nevada, Florida, Arizona e tutti gli altri Stati dove i prezzi delle case sono crollati di più del 30 per cento in due anni, dove milioni di persone sono senza lavoro e senza speranza.Per evitare una batosta alle elezioni di medio termine, i Democratici devono vincere sul fronte interno - l’«altra» America, quella che non ha il passaporto e si accultura con i reality shows, reality tv. E se Obama non riesce a convincere la maggioranza degli americani che l’economia è in via di miglioramento, rischia di passare alla storia come una meteora nel firmamento della politica americana: un presidente monotermine sconfitto dalla crisi finanziaria.

La politica è un gioco iniquo dove i governanti attuali sono giudicati su situazioni create dai loro predecessori. Il presidente che vinse e convinse con lo slogan del «Sì, possiamo» è prigioniero di questo paradosso più di molti altri inquilini della Casa Bianca. Per far risorgere un’economia distrutta dal crollo immobiliare, l’amministrazione deve riformare un sistema della casa puntellato da decenni di compromessi politici, pasticci finanziari e bugie sociologiche. Il dilemma che angustia il governo americano del 2010 ha le sue radici nel 1929 quando il neopresidente Herbert Hoover provò a risollevare il morale di un Paese in preda alla Grande Depressione con la promessa di una «nazione costruita sui proprietari di case».
L’idea si cristallizzò nel New Deal di Franklin Roosevelt quattro anni dopo, con la decisione da parte dello Stato di sovvenzionare gran parte dei mutui per far sì che le classi medio-basse diventassero padroni d’immobili.

Il trucco fu la creazione di un’agenzia dal nome buffo - «Fannie Mae» (sta per Federal National Mortgage Association) - ma dal compito serissimo: sfruttare il suo status di ente parastatale, e quindi garantito dal governo, per ottenere fondi a prezzi stracciati sui mercati e smistarli alle banche per «sponsorizzare» i mutui e tenere i tassi bassi. Da quel giorno in poi, la percentuale di americani padroni di case non fece altro che salire: 45 per cento dopo la seconda guerra mondiale, 64 per cento nel 1968 e 69 per cento nel 2005, un record raggiunto grazie a politiche economiche lassiste dei governi Clinton e Bush.
Altre nazioni, come l’Irlanda, l’Australia, la Gran Bretagna e, naturalmente, l’Italia, hanno tassi di proprietà più elevati ma in nessun altro Paese il governo ha un impatto così potente e diretto sul mercato immobiliare.

I cittadini americani sono diventati casa-dipendenti e lo spacciatore era proprio lo Zio Sam: Fannie Mae e il cugino Freddie Mac - nome ugualmente ridicolo, stesso ruolo di sovvenzionatore - sono diventati gli esponenti di punta di una bolla immobiliare che è durata esattamente fino al 7 settembre del 2008. Quel giorno, l’amministrazione Bush fu costretta a prendere possesso di Fannie Mae e Freddie Mac prima che precipitassero in bancarotta, annientate dalla caduta dei mercati, la débâcle dei mutui subprime e la stupidità di dirigenti che credettero alla favola di un mondo in cui i prezzi delle case non sarebbero scesi mai. La nazionalizzazione delle due società è costata cara agli azionisti di Fannie e Freddie, che hanno perso i loro investimenti ma la bolletta più salata è toccata ai contribuenti. Fino ad ora, le due società-zombie sono costate al governo 150 miliardi di dollari per tamponare le perdite e continuare a sovvenzionare i mutui ma le stime ufficiali parlano di un conto finale di circa 380 miliardi - più del prodotto interno lordo di un Paese come la Grecia.

Il problema è che né Obama né il Congresso sanno come risolvere il dilemma di Fannie e Freddie. Chiuderle non si può. Fantasma o no, le due società garantiscono nove su dieci mutui in America e smantellarle costringerebbe milioni di persone a pagare tassi molto più alti su 5.600 miliardi di dollari di prestiti immobiliari - una strategia suicida che spingerebbe la disoccupazione a livelli stratosferici e porterebbe ad un altro tracollo nei prezzi delle case.

Ri-quotare Fannie e Freddie sui mercati è fuori discussione visto che nessun investitore si sognerebbe di comprare le azioni di due compagnie in crisi totale. La risposta alla paralisi di un sistema che è durato 81 anni non può che essere graduale, ma deve partire da un’ammissione di fondo che Obama e i suoi devono al popolo americano: possedere una casa non è un diritto. Un immobile è un investimento come un altro e può essere comprato solo da chi se lo può permettere. Il ritiro dei sussidi statali dal mercato delle case dovrà essere lento - ed accompagnato da altri aiuti (per ridurre i prezzi degli affitti, per esempio) - ma inesorabile.
Se gli Usa vogliono mantenere il loro predominio sull’economia mondiale, non possono continuare ad essere in balia di un ciclo nefasto che fa di ogni boom una crisi. Come mi ha detto un capo di un fondo d’investimento che ha perso milioni di dollari durante la crisi: «Un mercato immobiliare drogato dallo Stato non aiuta proprio nessuno».

Gli ideologi del centrosinistra - e ce ne sono tanti tra gli uomini di Obama - sostengono che l’acquisto di una casa è un metodo di emancipazione economica per le classi meno ricche e che comunità urbane popolate da padroni di case sono più stabili e sicure di città di inquilini. Avendo viaggiato nel cuore non pulsante dell’America, io non sarei così sicuro. Una delle lezioni della crisi degli ultimi due anni è che, quando le bolle scoppiano, i mutui non si possono pagare più e il sogno in technicolor diventa un incubo in bianco e nero, i primi a pagare sono sempre i più poveri.

*caporedattore finanziario per il Financial Times a New York

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