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Autore Discussione: KURT VOLKER  (Letto 3455 volte)
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« inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:45:12 pm »

28/1/2010

Ma la vera sfida di Barack è l'occupazione
   
KURT VOLKER*

Dopo il voto per il Senato in Massachusetts, l’amministrazione Obama deve concentrarsi con decisione sull’economia nazionale. Ma nel 2010 Afghanistan, Iran, Russia, Iraq e terrorismo globale potrebbero scatenare una crisi in politica estera tale da influenzare in modo profondo il mandato presidenziale. La politica estera dei presidenti americani è spesso forgiata da qualche evento epocale. Nel caso di George Bush sono stati gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Dopo nemmeno otto mesi di presidenza si trovò per ben due mandati a gestire la guerra al terrorismo e a scongiurare l’eventualità di un secondo attacco mentre era in carica. Bill Clinton si trovò alle prese con l’eccidio di massa dei musulmani bosniaci a Srebrenica.

Fino a quel momento, benché divampasse la guerra il presidente Clinton aveva evitato di invischiare gli Usa in Bosnia, per non farsi distrarre dall’agenda economica nazionale. (Ricordate? «E’ l’economia, sciocco» era stato lo slogan della sua campagna). Ma quando gli osservatori europei stettero a guardare impotenti mentre i serbi di Bosnia uccidevano sistematicamente 7000 uomini e ragazzi nel giro di 5 giorni, fu impossibile continuare a tenersi in disparte. Porre fine alla pulizia etnica nei Balcani divenne l’obiettivo di spicco dell’amministrazione Clinton e spianò la via all’allargamento dell’Unione europea e della Nato. Per George H. W. Bush si trattò della caduta del Muro di Berlino. Inaspettatamente Bush si dovette concentrare sulla metà d’Europa che era appena stata liberata, guidando la pacifica riunione della Germania e sovrintendendo a una fine incruenta della Guerra fredda mentre l’Unione Sovietica collassava e perdeva il suo impero.

Per Jimmy Carter l’evento cruciale accadde nell’ultimo periodo della sua presidenza e fu la vicenda dei diplomatici iraniani presi in ostaggio dagli integralisti iraniani, un evento che mostrò la debolezza americana e fece da preludio, appena sette settimane dopo, all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Il punto in comune tra questi fatti è di non essere stati pianificati. Si trattò di eventi esterni a cui gli Usa dovettero reagire. E il modo in cui il Presidente affrontò la crisi divenne il suo ritratto storico. Le amministrazioni lavorano sodo per sviluppare strategie a lungo termine. Ma spesso gli eventi più significativi sono quelli che sfuggono al loro controllo. E’ troppo presto per dire cosa resterà nella memoria come caratterizzante la presidenza Obama. Mancano tre anni alla scadenza del primo mandato, un’era nel secolo della globalizzazione e di Internet, e poi molto probabilmente potrebbe essere rieletto. Può accadere di tutto. Ma nell’occasione del discorso sullo stato dell’Unione del 27 gennaio, dopo un anno di presidenza, si possono già vedere i semi delle tematiche che faranno del 2010 un anno decisivo.

Il 2009 è stato un anno di aspettative irrealistiche, seguite dall’inevitabile delusione. E’ stato l’anno della più grave crisi economica mai vista dall’embargo petrolifero del 1970 e dalla Depressione del 1930. E in politica estera è stato un anno in cui si è addensata la tempesta, in Afghanistan, in Iran, Russia o Nord Corea. Finora però nulla che possa far presagire quale sarà l’evento che contraddistinguerà la politica estera della presidenza Obama. Tuttavia tre eventi dell’ultimo mese - due terremoti e un mancato attentato terroristico - ci avvertono che il 2010 potrebbe rivelarsi cruciale. Il 25 dicembre un terrorista nigeriano mandato da Al Qaeda fallì nel tentativo di far esplodere un aeroplano sopra l’aeroporto di Detroit. Per un’amministrazione che ha cercato in ogni modo di allontanarsi da quelli che erano visti come gli eccessi dell’era Bush è stata una fortuna che l’attentato non sia riuscito. Ma è servito a ricordare all’opinione pubblica americana che il terrorismo non è finito e al Presidente che, proprio come il suo predecessore, non può permettersi un secondo attacco. Il 12 gennaio un terremoto di magnitudo 7 ha colpito Haiti, uccidendo forse 200 mila persone e lasciando un milione e mezzo di senzatetto. Un evento imprevisto a cui tuttavia solo gli Usa potevano rispondere velocemente e in modo tale da salvare il maggior numero possibile di vite umane. E la gravità della devastazione significa che Haiti resterà una priorità per gli Stati Uniti negli anni a venire. Poi, il 19 gennaio, un terremoto politico: l’elezione di un repubblicano al seggio senatoriale del Massachusetts che fu del democratico Ted Kennedy. In pratica la fine della supremazia democratica al Senato, durata appena otto mesi e che garantiva la maggioranza. Il Senato ora torna alla normalità e alle alleanze transpartitiche necessarie a far passare le leggi. Ma da un punto di vista politico il voto in Massachusetts è ancora più significativo. Mostra come gli elettori, anche in uno degli Stati maggiormente consacrati al partito democratico di tutto il Paese, restino straordinariamente scontenti. L’anno scorso questo malcontento era tutto rivolto a Bush. Ora, dopo un anno, si riversa su chi è al governo. Mancano 9 mesi al voto di mid-term del Congresso che deciderà tutti i seggi della Camera dei deputati e un terzo di quelli del Senato. Molti sono saldi. Ma ce ne sono parecchi in bilico che potrebbero portare i democratici a perdere il controllo della Camera e a ulteriori danni in Senato. Dal Massachusetts il partito democratico deve imparare una lezione: c’è una sola cosa su cui concentrarsi ed è l’occupazione. E tuttavia nel 2010 la politica richiederà ancora più attenzione. La risposta alla rivolta in Afghanistan sarà un test. Il soccorso americano ad Haiti verrà giudicato. L’Iran farà ulteriori significativi progressi verso l’arma nucleare mentre i giovani oppositori sfidano il regime. Il voto in Iraq seguito dal ritiro Usa misurerà l’effettiva fine della violenza fra sciiti e sunniti.

La Russia continuerà a consolidare la sua «sfera d’influenza» assicurandosi territori cuscinetto come il Sud Ossezia, l’Abkhazia e laTransnistria e manipolerà la politica degli Stati confinanti usando l’energia, i trattati e l’opposizione allo scudo difensivo. Al Qaeda tenterà un altro attacco. E ognuno di questi temi - e probabilmente anche molti altri - potrebbe esplodere e causare una crisi dichiarata. E il modo in cui Obama risponderà a questa sfida, molto più di tutto ciò che è stato pianificato e previsto, sarà alla fine ciò che definirà l’immagine futura della sua presidenza.

* Kurt Volker è stato ambasciatore Usa alla Nato e ha ricoperto incarichi al Dipartimento di Stato. Attualmente è direttore esecutivo del centro di relazioni transatlantiche alla Johns Hopkins University’s School of Advanced International Studies e consigliere emerito presso il Consiglio Atlantico degli Stati Uniti

da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 04, 2011, 05:28:06 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 31, 2011, 11:28:06 am »

31/1/2011

Usa, sarà il deficit il campo di battaglia

KURT VOLKER*

Il discorso del presidente Obama sullo stato dell’Unione è parso ispirato per la sua visione, privo di dettagli fondamentali per la sua attuazione, data l’attuale crisi economica e di bilancio degli Stati Uniti e - piaccia o no – l’avvio della campagna presidenziale per il 2012. Ha anche offerto l’immagine di un’America che è molto più concentrata sui suoi problemi interni che sui problemi del mondo - e questo è preoccupante.

Anche se l’Amministrazione lavora per mettere carne sulle ossa delle idee di Obama, l’attenzione ora si sposta verso i Repubblicani che cercano la nomination del loro partito per sfidare Obama nel 2012. Anche se le elezioni generali del 2012 sembrano lontane, le primarie repubblicane inizieranno in poco più di 12 mesi. I candidati dovranno quindi iniziare ora la loro campagna, differenziandosi da Obama e gli uni dagli altri. Lo spirito bipartisan emerso dalla sparatoria di Tucson, in Arizona, si dissolverà di nuovo velocemente nella politica di parte.

Il grande campo di battaglia sarà il deficit. Nel discorso sullo stato dell’Unione Obama ha chiesto importanti investimenti per infrastrutture, istruzione e ricerca e modesti tagli di bilancio spalmati su più anni. I Repubblicani vedono questo «investimento» come una maggior spesa che non inciderà per nulla sul disavanzo di bilancio annuo di 1300 miliardi di dollari.

L’Amministrazione ritiene che continuare a spendere sia indispensabile per far uscire l’economia dalla modalità di crescita lenta e quindi creare posti di lavoro (aiutando così Obama a ottenere la rielezione). I Repubblicani faranno pressione per tagli molto più profondi e veloci del disavanzo, nella convinzione che l’America sia pericolosamente vicina a un punto critico, là dove un debito più alto può mettere a rischio l’intera economia americana. Questo dibattito – stimolare l’economia o preservare le riserve fondamentali a lungo termine - è parallelo a quello annoso tra i democratici favorevoli a una maggior azione di governo e i repubblicani che pensano il contrario. Questo dibattito dominerà l’agenda politica americana per i prossimi due anni. Detto tutto ciò, è notevole in questa discussione che la politica estera non sia un fattore in gioco. Né nella visione di Obama, né nel contrattacco repubblicano, la conduzione della politica estera, il raggiungimento di obiettivi americani nel mondo, rappresentano un criterio guida.

A dire il vero il discorso di Obama ha toccato temi di politica estera verso la fine - in particolare il ritiro dall’Iraq e l’inizio del ritiro dall’Afghanistan. Ma il senso e il cuore del discorso è stata la situazione interna americana – così come nella replica repubblicana. Questo non dovrebbe essere una sorpresa, considerando le condizioni di economia stagnante, l’alto tasso di disoccupazione e i massicci disavanzi che hanno plasmato le elezioni del Congresso del novembre 2010 e che durano tuttora. Inoltre, 10 anni dopo aver invaso un Afghanistan che ancora non mostra segni di progresso e 8 anni dopo l’invasione dell’Iraq, gli elettori sono stanchi e scettici verso un maggior impegno all’estero. Ma il fatto che l’America si stia concentrando sui suoi affari interni non significa che il mondo resti fermo. Solo negli ultimi mesi abbiamo visto la Corea del Nord sul punto di iniziare una guerra in Asia. L’Iran ha di nuovo sconfitto gli sforzi della comunità internazionale per porre fine alla situazione di stallo in tema di nucleare. La Cina ha mostrato i muscoli in campo economico facendo orecchie da mercante sui diritti umani. In Tunisia i manifestanti hanno cacciato un dittatore che sembrava profondamente radicato al potere – e ora queste manifestazioni si sono spostate in Egitto.

Quest’anno, il 2011, è pieno di scadenze. Da luglio avrà inizio il ritiro Usa dall’Afghanistan. Il completo ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq. Settembre 2011 segna il termine di un anno per i progressi nei colloqui di pace in Medio Oriente. Il passaggio di potere in corso in Corea del Nord. La possibilità che l’Iran intraprenda una strada senza ritorno verso il potere nucleare. La decisione interna russa su Putin, che rivendicherà la presidenza. Ognuna di queste sfide potrebbe innescare una grave crisi in cui sarà cruciale l’impegno americano.

*Kurt Volker è ex ambasciatore statunitense alla Nato. Attualmente è docente emerito e direttore del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies e consulente senior presso McLarty Associates.

(Traduzione di Carla Reschia)
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 26, 2011, 06:40:37 pm »

26/2/2011

Le rivoluzioni che l'Occidente non ha capito


KURT VOLKER*

Una delle grandi sfide delle analisi nel lavoro di intelligence è la previsione dei grandi cambiamenti. L’analisi più sicura è quasi sempre che le forze che hanno plasmato le cose fino a oggi continueranno. Il mantenimento dello status quo è dunque il risultato più probabile - almeno fino al momento in cui lo status quo scompare.

Questo rende cauti i politici. Anche nel pieno di nuovi sviluppi - dimostrazioni, crisi economiche, guerre - l’aspettativa è che la nave corregga la rotta e le cose tornino alla normalità. Vale la pena quindi aspettare, essere cauti, per vedere chi prende il potere, per tentare di salvaguardare altri interessi di sicurezza nazionale. Perché invischiarsi in una situazione per sostenere una parte, se c’è una buona probabilità che l’altra prevalga? E tuttavia i grandi cambiamenti inaspettati accadono. La caduta del muro di Berlino. Il crollo dell’Unione Sovietica. E trovarsi dalla parte sbagliata del cambiamento ha i suoi costi. Inoltre, quando il cambiamento è inevitabile, la cautela può prolungare una crisi, mentre l’azione potrebbe portare a una soluzione più rapida, pacifica e benefica.

Il trucco sta nel capire quando è in corso un grande cambiamento e quando è business as usual. Questo è proprio il punto su cui l’Occidente ha costantemente sbagliato riguardo alle rivoluzioni che stanno esplodendo in Medio Oriente. Prima c’è stata la Tunisia, dove la maggior parte degli osservatori riteneva che le manifestazioni non potessero rovesciare un dittatore. Poi c’è stata la presunta unicità della Tunisia, la maggior parte degli osservatori non credeva possibile che il cambio di regime lì potesse significare un cambio di regime altrove. In Egitto, la maggior parte degli osservatori non credeva che le proteste potessero davvero far cadere Mubarak. La maggior parte degli osservatori non credeva che in Libia, con un regime pronto a usare la forza bruta, il cambiamento fosse possibile. Ogni volta abbiamo sbagliato l’analisi. Ogni volta siamo stati lenti nel parlare, lenti nel sostenere il cambiamento, lenti nell’agire. Quelli che sono stati disposti a rischiare la vita per la propria libertà in Medio Oriente possono essere perdonati se pensano che gli Stati Uniti e l’Occidente siano stati contro di loro. Perché abbiamo sbagliato?

Primo per la convinzione che i regimi alla fine avrebbero prevalso - e allora perché bruciare i ponti? In secondo luogo, soprattutto in Europa, per la paura che ogni cambiamento porti a massicci esodi di rifugiati e flussi migratori. Terzo, per il timore che gli estremisti islamici si impadroniscano delle rivoluzioni e impongano un regime peggiore di quello precedente. Quarto, per la preoccupazione che i nuovi regimi potrebbero non onorare gli accordi esistenti con Israele. Quinto per il paternalistico luogo comune che ritiene gli arabi non ancora pronti per la democrazia. E sesto e ultimo punto - forse il più significativo - perché i governi occidentali semplicemente non capiscono che questa è una rivoluzione basata sui valori umani e su ideali di trasformazione. Autoritari leader arabi per anni ci hanno detto che l’Islam radicale era l’unica alternativa al loro governo. Hanno usato il conflitto israelo-palestinese come una cortina di fumo per mascherare i loro feroci regimi. Hanno soppresso l’accesso pubblico alle informazioni e alle fonti del pensiero arabo alternativo. Come risultato, noi in Occidente ci siamo convinti che un cambiamento democratico fosse davvero impossibile - nonostante i nostri stessi valori.

La maggior parte dei funzionari governativi non legge i messaggi su Twitter. Molti di quelli che li leggono li considerano insignificanti divagazioni popolari rispetto alle posizioni ufficiali e alle azioni del governo. Eppure, basta leggere i messaggi dei partecipanti e degli osservatori in Medio Oriente per capire che ciò che sta accadendo ora è diverso. La gente sta spazzando via i miti proposti per anni da questi leader autoritari. Questa onda di marea non ha a che fare con l’Islam, né con Israele o l’Occidente. Si tratta di una richiesta di diritti e libertà che arriva dall’interno, da una nuova generazione di arabi che vedono come le loro società sono state depredate dai propri governanti. Per quanto le istituzioni della democrazia siano state negate per decenni, l’aspirazione dello spirito umano alla libertà rimane universale e intatta. Questo è ciò che la nostra prudente politica e le analisi di intelligence non sono riuscite a capire. Il bisogno di cambiamento nella regione non sparirà nel nulla. E poiché è in linea con i nostri valori più profondi, l'Occidente avrebbe dovuto sostenerlo dall’inizio.

Per quanto sia difficile fare queste previsioni ora dobbiamo capire che questo non è business as usual - questo è il grande cambiamento. I nostri timori per la stabilità, la sicurezza dell’area e l’estremismo islamico hanno più probabilità di avverarsi se resistiamo a questi cambiamenti piuttosto che se li appoggiamo. E le opportunità per un reale progresso su questi stessi temi - la stabilità, la pace regionale, la sicurezza globale, la lotta all’estremismo - sono di gran lunga maggiori in un Medio Oriente democratico. Le conseguenze ridimensioneranno sia la guerra in Afghanistan sia quella in Iraq.

*Ex ambasciatore americano alla Nato è senior fellow e direttore del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies e consulente senior presso McLarty Associates. (Traduzione di Carla Reschia)

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« Risposta #3 inserito:: Marzo 22, 2011, 03:51:19 pm »

22/3/2011

Ma il Raiss non può scamparla

KURT VOLKER*

Il lancio delle operazioni militari occidentali per attuare la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu era atteso da tempo. Dopo settimane di ritardo, attacchi brutali da parte del regime e una perdita di slancio della ribellione, la controrivoluzione di Gheddafi ora potrebbe essere fermata.

Il lungo ritardo da parte dell’Occidente era intollerabile. Per due settimane le forze di Gheddafi hanno attaccato senza posa il proprio popolo mentre gli Stati Uniti, la Nato, la Ue e l’Onu non erano disposti ad agire. Reali sforzi per arrestare Gheddafi sono cominciati solo poche ore prima della repressione della rivolta a Bengasi. Ma ora, il Regno Unito, la Francia e gli Stati Uniti hanno finalmente deciso che i valori e gli interessi occidentali devono allinearsi per rispondere ai cambiamenti radicali del Medio Oriente. Ma le potenze occidentali devono ancora confrontarsi con una domanda fondamentale: qual è l’obiettivo dei raid aerei e della no fly zone? Il nostro obiettivo si limita a imporre una no fly zone per alleviare le sofferenze umanitarie? E’ congelare la situazione sul terreno? Serve per dare sostegno ai ribelli in modo che possano esautorare Gheddafi? E, in quest’ultimo caso, quale livello di supporto militare l’Occidente potrebbe fornire per aiutare i ribelli?

La risoluzione 1973 chiede di proteggere la popolazione libica ma tace sulla rimozione di Gheddafi. Questo può essere stato necessario per garantire il passaggio della risoluzione - guadagnando l’astensione di Mosca, Pechino e anche di Berlino. Può anche essere utile a Washington, in quanto consente agli Stati Uniti di essere «per» la risoluzione, rimanendo sul vago circa il livello e la durata del suo impegno militare. Al momento, la coalizione occidentale sembra astenersi strettamente a questo scopo umanitario. Eppure un intervento così limitato mancherebbe un obiettivo più ampio: se Gheddafi rimane al potere, eluderà la volontà della comunità internazionale, ri-consoliderà il suo regime, lavorerà sul terreno per minare l’opposizione e pianterà i semi per una nuova crisi umanitaria a venire.

Già solo questo garantirebbe un disastro continuo per il popolo libico. Ma le conseguenze andrebbero ben oltre la Libia. Altri dittatori farebbero tesoro della lezione: un tiranno pronto a usare la forza contro la sua stessa popolazione alla fine può scamparla - anche a fronte di una risoluzione delle Nazioni Unite e dell’opposizione da parte dei principali Paesi occidentali. Sarebbe un duro colpo per quanti nel mondo arabo vogliono costruire un nuovo futuro, più democratico e giusto. Inoltre, Gheddafi ha promesso di attaccare gli interessi di quegli Stati che oggi attuano la risoluzione delle Nazioni Unite - una recrudescenza del terrorismo di Stato libico. Prima l’Occidente adotterà una posizione chiara sul fatto che gli obiettivi umanitari fissati dall’Onu possono essere ottenuti solo con la rimozione dal potere di Gheddafi, prima potrà finire la crisi.

Cacciare Gheddafi non sarà facile. Una no fly zone disposta solo poche settimane fa avrebbe potuto salvare più vite e conservare lo slancio dell’opposizione. Oggi, bisogna ritrovare l’occasione. Gli alti ufficiali e i funzionari che avrebbe potuto essere convinti ad abbandonare Gheddafi sono stati costretti a difenderlo. Gheddafi ha consolidato le forze a sua disposizione, e indebolito l’opposizione dei ribelli. L’intervento diretto di truppe occidentali sul terreno libico dev’essere evitato. Sono stati i libici a insorgere per riprendersi il Paese e devono conservare la titolarità dell’azione. Il ruolo dell’Occidente è quello di sostenerli, non d’intervenire in proprio. Eppure, in questa cornice, l’Occidente dovrebbe immediatamente prendere diverse misure supplementari per sostenere i ribelli: fornire informazioni di intelligence e strumenti di comunicazione sicuri; disturbare le comunicazioni di Gheddafi; creare una zona di interdizione al transito per prevenire gli attacchi di terra di Gheddafi; provvedere rifornimenti non letali e sostegno logistico e, se richiesto fornire equipaggiamenti militari, munizioni e consulenza.

La Nato non si assumerà queste missioni. Nonostante la retorica ambizione del nuovo Concetto strategico, la realtà è che la Nato agisce solo per consenso, e non esiste consenso per tali misure in Libia. Ad esempio, la Germania si è astenuta dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e la Turchia si è opposta alla no fly zone. Nella migliore delle ipotesi, la Nato potrebbe essere in grado di concordare misure non letali per sostenere lo sforzo della coalizione. Eppure, anche un ruolo così limitato potrebbe creare una base di riferimento preziosa per l’ulteriore impegno della Nato in corso d’opera. L’Italia ha offerto Napoli come base di partenza per le operazioni e contribuito con 8 aerei caccia. Anche se era inizialmente riluttante ad opporsi a Gheddafi, con una risoluzione dell’Onu approvata e in fase di attuazione, l’Italia comprende chiaramente la posta in gioco e sceglie di schierarsi con i suoi alleati occidentali.

Questo in contrasto con la Germania, che rimane bloccata nella sua passività - rendendo così impossibile una posizione comune dell’Unione europea e compromettendo la sua stessa richiesta di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Con la decisione di mettere in atto la richiesta delle Nazioni Unite per una no fly zone, l’impegno occidentale nel sostenere l’opposizione libica è solo all’inizio. Ora la sfida è quella di fissare un obiettivo preciso per sostenere la rimozione di Gheddafi e prendere misure decisive per aiutare coloro che lo faranno.


*Ambasciatore statunitense alla Nato. Attualmente è Senior Fellow e direttore generale del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies.


Traduzione di Carla Reschia
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 04, 2011, 05:21:07 pm »

4/5/2011

Due lezioni alla fine del tunnel

KURT VOLKER*

L’11 Settembre 2001, di mattina presto, andai a piedi fino al mio ufficio nell’Old Executive Office Building, parte del complesso della Casa Bianca. Era una giornata di sole con un cielo blu cristallino. In qualità di Direttore per la Nato e per gli affari dell’Europa occidentale presso il Consiglio di sicurezza nazionale, ero diretto a una riunione dello staff, dove prevedevamo di discutere, tra le altre cose, l’agenda per il vertice 2002 della Nato a Praga. Passando davanti a una tv, per strada, vidi una delle torri del World Trade Center avvolta dal fumo e dalle fiamme, una segretaria spiegava che era stata colpita da un aereo. Strano. Uscito dalla riunione rimasi a guardare mentre un altro aereo colpiva la seconda torre. Non era un incidente. Di ritorno alla mia scrivania, un’email da parte dell’Ufficio di sicurezza intimava con lettere scarlatte - «Abbandonare l’edificio immediatamente». Sulle scale i colleghi parlavano di un aereo che aveva colpito il Pentagono. Il resto della giornata fu un misto di choc e di stress: vedere le immagini degli edifici che crollavano; realizzare che ero vivo solo grazie all’eroismo dei passeggeri del quarto aereo, che si schiantò in Pennsylvania, cercare di comunicare con mia moglie al cellulare sulle linee telefoniche intasate, radunare i nostri ragazzi. Gli eventi di quel giorno hanno cambiato il mondo. Gli americani si sono sentiti vulnerabili e hanno reagito. Abbiamo dimostrato il nostro patriottismo, ma anche la nostra tendenza alla rabbia e alla rivalsa. La nuova amministrazione Bush, che aveva sperato di concentrarsi sulla politica interna e ridurre il ruolo dell’America nei Balcani, improvvisamente è finita in una grande guerra al terrore.Ha rispolverato i bunker e fatto rivivere i piani della Guerra Fredda per garantire la continuità del governo nel caso di un attacco contro Washington Dc. Il cielo sopra l’America è stato chiuso ai voli per quasi una settimana, e viaggiare in aereo non sarebbe mai più stata la stessa cosa.

L’11 Settembre ha aperto la porta a un inaspettato futuro: la guerra in Afghanistan, che ha liquidato il vecchio concetto Nato del «fuori area»; attentati a Londra e Madrid; la guerra in Iraq, diventata poi brutale guerra tra fazioni, che ha diviso l’Occidente; Guantanamo; l’ondata di estremismo islamico; e anche, più recentemente, le rivoluzioni democratiche della primavera araba. Per un certo periodo nel 2001-2002, sembrava che lo sforzo per sconfiggere i terroristi si sarebbe concluso in fretta. I talebani afghani - che avevano dato rifugio ad Al Qaeda – furono destituiti nel giro di poche settimane. L’assedio alle grotte di Tora Bora, dove Bin Laden era fuggito, prometteva di portare alla sua scomparsa e a una sconfitta strategica per il terrorismo. Invece, lo trasformò in un conflitto prolungato, che logorò la nostra coscienza almeno quanto registrò successi contro i terroristi. Bin Laden eluse anni di sforzi per rintracciarlo. I timori che Saddam potesse fornire armi di distruzione di massa ai terroristi - in ultima analisi basati su informazioni sbagliate - portarono alla guerra in Iraq. Ma lì gli errori di calcolo – combinati a una diminuzione dell’attenzione dedicata all’Afghanistan - fecero sì che ben presto ci siamo trovati impegnati in due guerre che andavano male. In Iraq una discussa controffensiva ha cambiato gli equilibri ma una controffensiva più modesta in Afghanistan deve ancora dare i suoi risultati.

Con la fine del 2003, l’amministrazione Bush aveva appreso che «uccidere i terroristi» era una tattica a breve termine non una strategia a lungo termine. Nel novembre 2003 con i suoi discorsi per il National Endowment for Democracy e alla Royal Banqueting Hall di Londra il president Bush aveva espresso la necessità di promuovere libertà, democrazia e sviluppo umano come mezzo per minare il richiamo dell’estremismo.

Parafrasando il suo messaggio: «Per sessant’anni abbiamo sacrificato la libertà in Medio Oriente nel nome della stabilità senza ottenere né una né l’altra. Ora, sappiamo che l’unica strada verso una reale stabilità e sicurezza passa attraverso la libertà». Ciò ha dato luogo all’iniziativa per un Grande Medio Oriente e al Forum per il futuro, entrambi lanciati in occasione del Summit G8 del 2004 a Sea Island, in Georgia. Ma con Bin Laden latitante, la guerra al terrorismo non era mai lontana dalla coscienza. Il presidente Bush aveva giurato di non permettere un secondo attacco contro gli Stati Uniti fino a quando egli fosse stato Presidente. Allarmi terroristici hanno continuato a sorgere nel corso degli anni.

In cima a tutto questo, crisi finanziaria e recessione hanno colpito duramente l’America e indebolito la sua fiducia in se stessa. Il costo delle guerre – aggiunto al costo del salvataggio finanziario, dello stimolo economico e della nuova normativa - ha lasciato l’America a livelli senza precedenti di deficit e debito. Sotto la presidenza di Obama, il «terrorista in mutande» e il «terrorista di Times Square» sono stati segnali dell’attualità della minaccia terroristica. Il peso sulla psiche americana era palpabile. Ma questo ci porta al 1° maggio 2011. E’ alla fine di questa storia di 10 anni, di questo profondo senso di frustrazione e stanchezza, che la notizia della morte di Bin Laden è arrivata al popolo americano. Un lungo capitolo buio è alla fine.

Ci vorranno mesi se non anni prima che l’impatto della morte di Bin Laden sia del tutto chiaro. Ma si possono offrire un paio di idee per cominciare. Il terrorismo islamista non finirà da un giorno all’altro. Ma non può più essere visto come minaccia monolitica. Siamo di nuovo in grado di distinguere le sottigliezze. Alcuni estremisti faranno voto di continuare la lotta e il risultato possono essere nuovi attacchi terroristici. Ma per la maggioranza dei musulmani nel mondo, Bin Laden non è più un eroe popolare, ma un estremista radicale che i metodi violenti hanno portato alla morte. Questa non è una fonte di ispirazione. Per contro, la vera ispirazione arriva sotto forma di proteste pacifiche in tutto il mondo arabo, da persone che non chiedono un califfato islamico estremista - ma piuttosto i diritti fondamentali dell’uomo e le libertà politiche. Gli americani possono cominciare a uscire da insicurezza e ansia, e ritrovare quelle tipiche qualità americane, la determinazione e l’ottimismo, che negli anni passati tutto il mondo ha invidiato. Il Pakistan, che sembra aver dato asilo a Bin Laden, dovrà rendere conto al mondo del suo ruolo. E l’Afghanistan, già avviato ad assumersi la responsabilità per la propria sicurezza nel 2014, deve sapere che il motivo principale del coinvolgimento americano ora è stato eliminato. Sempre più voci ora dicono che è tempo di andarsene – l’Afghanistan farà bene ad essere pronto.

Molte altre lezioni si devono ancora imparare - dall’11 Settembre, dalla nostra lunga guerra al terrore, dal nostro impegno in Afghanistan, Iraq, e ora in Libia. Ma per la prima volta dopo anni, ci può essere un barlume di luce alla fine del tunnel.

*ex ambasciatore Usa alla Nato. Attualmente è socio emerito e direttore esecutivo del Center for Transatlantic Relations alla Johns Hopkins University’s School of Advanced International Studies e consulente per McLarty Associates.

Traduzione di Carla Reschia

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