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Autore Discussione: MASSIMO CACCIARI  (Letto 72944 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 19, 2012, 05:01:04 pm »

La polemica

I giovani sono i nuovi schiavi

di Massimo Cacciari

Uno su tre è disoccupato, gli altri due lavorano senza previdenza, senza diritti, in imprese con tassi di mortalità elevatissimi e costrette a una competizione pazzesca. Mentre sono del tutto ignorati dalla politica. E' a loro, oggi, che bisogna guardare

(16 gennaio 2012)

Sulle trasformazioni dell'organizzazione e della composizione del lavoro e sulla fine dell'epoca "fordista" circolano da decenni biblioteche di studi, che più o meno ormai si ripetono, usque ad nauseam. Non occorre essere esperti per capire che l'eroico tempo della grande concentrazione operaia e industriale, dei grandi conflitti tra capitale e lavoro, è tramontata per sempre. almeno da noi (risorgerà, chissà in quali forme, in India, in Cina?): basta avere occhi e girare per le nostre metropoli.

Quel tempo è diventato archeologia. Ma l'inerzia delle organizzazioni sindacali e politiche è pari soltanto a quella delle nostre lingue: le loro strategie mutano con fatica e lentezza anche maggiori. Tutto l'attuale dibattito in materia di occupazione e diritti del lavoro ha l'aria di un nostalgico revival tra vecchie destre e vecchie sinistre. Forse che gli articoli 18 hanno impedito licenziamenti di massa in questi anni, o possono frenare, non dico arrestare, i mutamenti del processo produttivo, della composizione dell'occupazione, la delocalizzazione? E, altra faccia della stessa medaglia fuori corso, le apologie più o meno mascherate su flessibilità, mobilità, ecc. Forse che è sufficiente la disponibilità sindacale su tali materie perché si decida di investire? Come se tale disponibilità non si manifestasse già, piena, a volte anche troppo, nella realtà dei rapporti di lavoro. Forse che investire, oggi, significa automaticamente aumentare la domanda di lavoro?

E mentre ci si balocca a difendere trincee sulle quali il "nemico" è già passato coi carri armati, tutta una generazione aspetta di essere riconosciuta nei suoi nuovi, specifici problemi e, magari, di organizzarsi. Come lavora quel 60 per cento di giovani "fortunati" che un lavoro ce l'hanno? Inventandoselo, nella maggior parte dei casi. Lavoro nelle maglie della piccola o piccolissima impresa; lavoro autonomo di servizio, anche ad alta intensità di "conoscenza"; free lance di ogni tipo. Quel poco di occupazione che si crea, si crea fuori o ai margini dei settori tradizionali. Vuol dire più autonomia e "libertà"? Non scherziamo.

Nella maggioranza dei casi, queste nuove imprese, di dimensioni quasi individuali, senza alcun sostegno finanziario, con tassi di mortalità elevatissimi, erogano un lavoro ancor più dipendente di quello salariato di una volta. Non solo perché "servono" a imprese pubbliche o private più strutturate e politicamente e sindacalmente più influenti, non solo perché ne sono in larga misura l'effetto del processo di "esternalizzazione", ma perché costrette a una competizione "mortale" tra loro per ottenere commesse, che si vedono poi pagate con ritardi insostenibili. Mille volte peggio che precari! E ciò che fa schifo è appunto questo: che il lavoro giovane, che aspira certamente a essere autonomo, che è certamente più ricco culturalmente di quello antico, debba pregare per farsi riconoscere, per potersi sviluppare. Che il futuro, bello o brutto che sia, debba stare al servizio del passato: questo condanna un paese, una nazione, una civiltà.

Quanti giovani lavorano "dispersi" in questa galassia? Senza alcun sostegno dal sistema bancario, ignorati dalla cosiddetta politica. Senza garanzia previdenziale. Con sussidi di disoccupazione, tra un periodo di lavoro e l'altro, che sono i più bassi di Europa. E non certo di semplici "ammortizzatori" vi sarebbe bisogno ma di una politica del lavoro capace di strutturare queste nuove forme di impresa, di puntare sulla loro crescita. O pensiamo di poter aumentare l'occupazione nel lavoro pubblico dipendente a tempo indeterminato? Una politica attiva del lavoro è oggi pensabile soltanto come tutela, sostegno strategico, organizzazione sindacale delle nuove professionalità che, al di là dei vecchi ordini e del loro decrepito corporativismo, si vanno formando nella "rete" dei servizi alle imprese globali, nell'informazione, nella cultura (patrimoni artistici, paesaggistici, turismo). Sarebbe ora di metter mano all'aratro e cessare di volgere indietro lo sguardo.

 
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 22, 2012, 10:01:53 pm »


I giovani sono i nuovi schiavi

di Massimo Cacciari

Uno su tre è disoccupato, gli altri due lavorano senza previdenza, senza diritti, in imprese con tassi di mortalità elevatissimi e costrette a una competizione pazzesca. Mentre sono del tutto ignorati dalla politica. E' a loro, oggi, che bisogna guardare

(16 gennaio 2012)

Sulle trasformazioni dell'organizzazione e della composizione del lavoro e sulla fine dell'epoca "fordista" circolano da decenni biblioteche di studi, che più o meno ormai si ripetono, usque ad nauseam. Non occorre essere esperti per capire che l'eroico tempo della grande concentrazione operaia e industriale, dei grandi conflitti tra capitale e lavoro, è tramontata per sempre. almeno da noi (risorgerà, chissà in quali forme, in India, in Cina?): basta avere occhi e girare per le nostre metropoli.

Quel tempo è diventato archeologia. Ma l'inerzia delle organizzazioni sindacali e politiche è pari soltanto a quella delle nostre lingue: le loro strategie mutano con fatica e lentezza anche maggiori. Tutto l'attuale dibattito in materia di occupazione e diritti del lavoro ha l'aria di un nostalgico revival tra vecchie destre e vecchie sinistre. Forse che gli articoli 18 hanno impedito licenziamenti di massa in questi anni, o possono frenare, non dico arrestare, i mutamenti del processo produttivo, della composizione dell'occupazione, la delocalizzazione? E, altra faccia della stessa medaglia fuori corso, le apologie più o meno mascherate su flessibilità, mobilità, ecc. Forse che è sufficiente la disponibilità sindacale su tali materie perché si decida di investire? Come se tale disponibilità non si manifestasse già, piena, a volte anche troppo, nella realtà dei rapporti di lavoro. Forse che investire, oggi, significa automaticamente aumentare la domanda di lavoro?

E mentre ci si balocca a difendere trincee sulle quali il "nemico" è già passato coi carri armati, tutta una generazione aspetta di essere riconosciuta nei suoi nuovi, specifici problemi e, magari, di organizzarsi. Come lavora quel 60 per cento di giovani "fortunati" che un lavoro ce l'hanno? Inventandoselo, nella maggior parte dei casi. Lavoro nelle maglie della piccola o piccolissima impresa; lavoro autonomo di servizio, anche ad alta intensità di "conoscenza"; free lance di ogni tipo. Quel poco di occupazione che si crea, si crea fuori o ai margini dei settori tradizionali. Vuol dire più autonomia e "libertà"? Non scherziamo.

Nella maggioranza dei casi, queste nuove imprese, di dimensioni quasi individuali, senza alcun sostegno finanziario, con tassi di mortalità elevatissimi, erogano un lavoro ancor più dipendente di quello salariato di una volta. Non solo perché "servono" a imprese pubbliche o private più strutturate e politicamente e sindacalmente più influenti, non solo perché ne sono in larga misura l'effetto del processo di "esternalizzazione", ma perché costrette a una competizione "mortale" tra loro per ottenere commesse, che si vedono poi pagate con ritardi insostenibili. Mille volte peggio che precari! E ciò che fa schifo è appunto questo: che il lavoro giovane, che aspira certamente a essere autonomo, che è certamente più ricco culturalmente di quello antico, debba pregare per farsi riconoscere, per potersi sviluppare. Che il futuro, bello o brutto che sia, debba stare al servizio del passato: questo condanna un paese, una nazione, una civiltà.

Quanti giovani lavorano "dispersi" in questa galassia? Senza alcun sostegno dal sistema bancario, ignorati dalla cosiddetta politica. Senza garanzia previdenziale. Con sussidi di disoccupazione, tra un periodo di lavoro e l'altro, che sono i più bassi di Europa. E non certo di semplici "ammortizzatori" vi sarebbe bisogno ma di una politica del lavoro capace di strutturare queste nuove forme di impresa, di puntare sulla loro crescita. O pensiamo di poter aumentare l'occupazione nel lavoro pubblico dipendente a tempo indeterminato? Una politica attiva del lavoro è oggi pensabile soltanto come tutela, sostegno strategico, organizzazione sindacale delle nuove professionalità che, al di là dei vecchi ordini e del loro decrepito corporativismo, si vanno formando nella "rete" dei servizi alle imprese globali, nell'informazione, nella cultura (patrimoni artistici, paesaggistici, turismo). Sarebbe ora di metter mano all'aratro e cessare di volgere indietro lo sguardo.

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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 09, 2012, 11:58:53 pm »

Opinione

L'eredità pesante della demagogia

di Massimo Cacciari

Se per vent'anni le promesse si sostituiscono ai programmi il paese va verso la decadenza.

Vincono lobby e interessi particolari.

Una società si regge solo se tra i cittadini esistono dialogo e solidarietà

(02 febbraio 2012)

Quanto sia arduo risalire la china di un ventennio dominato dalla "politica come demagogia", è quotidiana esperienza di questo governo (politico quant'altri mai, essendo sostanziale espressione della massima carica dello Stato). Quando per un'intera generazione le promesse si sostituiscono ai programmi, la prassi politica si commisura ai tempi delle scadenze elettorali e l'analisi sociale si riduce alla lettura dei sondaggi, ciò non è segno soltanto della "miseria" di idee e di uomini: è il nostro stesso linguaggio che minaccia di "catastrofizzare" in un magma di quasi-parole, di esclamazioni, di moti del sentimento oppure, peggio, di aggrapparsi a poche convinzioni, altrettanto semplici che vuote, refrattarie al confronto, esclusive, fermissime nella certezza di rappresentare la vox populi o il mitico "bene comune".

Una politica demagogica non sarebbe neppure concepibile in un "contesto comunicativo" diverso. C'è una profonda "complicità" tra il demagogo e la tendenza in noi forse innata di rifuggire dalla fatica di conoscere, di comprendere, di esprimere motivatamente e responsabilmente idee e intenzioni.

Il demagogo non è colui che seduce e guida: è essenzialmente chi segue e "serve" le peggiori inclinazioni del suo popolo, chi a priori ne asseconda e giustifica i desiderata. Così questi vent'anni, alla faccia di tutte le radicali "inimicizie" che hanno messo in scena e delle reciproche "demonizzazioni", sono stati l'incarnazione della pigrizia: nulla vi è stato fatto, nulla risolto, nulla progettato seriamente, nulla tenacemente perseguito se non, appunto, la demolizione delle capacità denotative del linguaggio politico, lo svuotamento di tutti i suoi termini-chiave.

La demagogia vive in un contesto di "irresponsabilità". E cioè in un contesto sociale in cui nessun interesse specifico "risponde" a interessi diversi, in cui ciascuno ritiene fermamente di far mondo a sé. Anche l'interesse più legittimo si rappresenta come esclusivo, esattamente come il privilegio più iniquo. E ciò disfa il tessuto sociale.

La società che si esprime in questi giorni nei confronti delle misure governativo-europee (a prescindere dal loro valore e dalla loro efficacia) non è una società ma una somma di diversi, disparati e incomunicabili interessi. Viene meno l'idea di reciprocità e relazione, anni luce prima di quella, ben più impegnativa, di solidarietà. La vita si rinserra all'interno di lobby e corporazioni, la cui azione è rivolta alla propria tutela o a pressanti richieste di interventi a spese del prossimo.

Una società non è riducibile alla competizione tra burocrazie politiche e sindacali, tra i diversi organismi cui danno vita le sue potenze economiche, tecniche, scientifiche. Una società può reggersi soltanto se i cittadini avvertono tra loro una relazione che in qualche modo precede e condiziona ogni loro scelta individuale. O altrimenti "società" diviene una vuota astrazione, un puro artificio.

I regimi demagogici, proprio anche attraverso la retorica, che è sempre, per sua natura, irresponsabile, su Valori, Tradizioni, Identità tendono sempre a condurre a un tale esito. E una volta qui sprofondati è difficile far ritorno alla luce. Ma è necessario, ancor più per quei milioni di giovani che aspettavano l'Europa della conoscenza e della innovazione, e che stanno vivendo quella della disoccupazione di massa, del precariato e della crisi del Welfare.

Se essi finiranno col disperare che esistano rapporti di reciprocità e colloquio nel nostro Paese, potremo allora concludere: "Il gioco è fatto". E noi lo abbiamo voluto.


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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 19, 2012, 10:29:10 am »

Lo scenario della grande coalizione

di Massimo Cacciari

Le idee di Monti e del mondo che rappresenta sono più vicine a quelle del centro-destra.

Se il Pd vuole evitare l'isolamento deve lavorare da subito all'obiettivo di una 'Grosse Koalition'

(16 febbraio 2012)

Più procede l'esperimento-Monti, più se ne manifesta la novità politica. Le risibili interpretazioni in chiave tecnico-neutrale lasciano il passo al vero interrogativo: come si de-costruiranno e ricomporranno intorno a Monti, alla sua squadra e ai poteri (forti e palesi) che egli rappresenta, gli attuali schieramenti politici quando dovranno affrontare la battaglia elettorale? Hic Rhodus, hic salta. L'alternativa al "non saltare" è solo quella di affossare Monti ora. E ciò, per i nostri ex poli, con l'aria che tira nei confronti dei partiti, equivarrebbe al suicidio.

Naturalmente, in ogni crisi, in ogni periodo di reale discontinuità, le forze in campo sono lungi dall'essere pienamente consapevoli del senso del loro agire e delle prospettive che esso apre. L'uomo fa certo la storia, ma quasi mai conosce la storia che fa, come ci hanno insegnato grandi compatrioti. E solo ex post, qualche volta, riusciamo a cavare una ragione dei fatti. Tuttavia è inevitabile cercare di orientarci sulla base di alcune regolarità, che rendono un accadimento più probabile di un altro. Ora, per cultura, per storia personale, ma soprattutto per le idee in materia economico-sociale che ha sempre espresso, e che alcuni lapsus non fanno che evidenziare anche in modo un po' grottesco, è improbabile che Monti (intendo sempre il mondo di cui è espressione) possa ritrovarsi in una coalizione più o meno "ulivista". E' l'antica area di centro-sinistra che dovrà "dirigersi" verso le sue posizioni, se la sua dirigenza riterrà che una tale alleanza sia necessaria per sé e per il Paese. E' assai più probabile, però, che questa convergenza si avvii da parte dell'antico centro-destra.

La frantumazione del Pdl è già in atto, e la sua componente maggioritaria non può avere altro destino. Ciò condurrebbe inevitabilmente alla "riappacificazione" con il centro di Casini e di Fini, che sarebbe certamente benedetta dalla stragrande maggioranza delle forze economiche e finanziarie internazionali. La condicio sine qua non, ovvio, è il definitivo abbandono della scena da parte di Berlusconi. Mi pare, peraltro, che l'addio ufficiale sia ormai nell'aria. Se a esso, poi, si accompagnasse quello di Bossi, anche la già tentata alleanza generazionale tra Alfano e Maroni potrebbe essere rilanciata (e la Lega continuerà nel 2013 a essere decisiva per vincere al Nord).

Esistono le condizioni, invece, per realizzare un programma di coalizione di governo tra il Pd e il cosidetto "terzo polo", oggi unico sostenitore sine glossa del governo Monti? E' evidente che non potrebbe mai presentarsi come un'alleanza strategica. Ma potrebbe avere un forte appeal nella prospettiva di una sorta di Grosse Koalition, di un governo di unità nazionale (non più solo di emergenza), in grado di farci recuperare un po' del tempo sciaguratamente perduto dalla Seconda Repubblica. Credo che sarebbe necessario lavorare in questa direzione. Qualche pezzo "a sinistra" il Pd così lo perderebbe, ma sfuggirebbe all'inevitabile "sciogliete le righe"cui andrebbe incontro se optasse per un nuovo Ulivo, schierato contro Monti. Sarà comunque vitale per il Pd impedire l'aggregarsi strategico intorno all'attuale presidente del Consiglio di un polo "classico" di centro, esplicitamente appoggiato dalle componenti maggioritarie del mondo cattolico, da metà del movimento sindacale, dalla Confindustria.

E' realistico pensare che ce la faccia? Certo non ce la farà ricorrendo ai tatticismi, evitando ogni decisione e crepando così come l'asino di Buridano. Semmai può provare a recuperare alcune idee che stavano, o avrebbero dovuto stare, alla base della costituzione del Pd: riforma federalistica, nuovo Welfare fondato sulla sussidiarietà, priorità assoluta per formazione e ricerca, appoggio alle giovani energie imprenditoriali, laicità senza arcaici laicismi. Quel partito non è mai nato. Se non nascerà (e se Monti non collasserà) le regolarità della storia invitano a ritenere che andremo, anche oltre il 2013, a un confronto tra una coalizione di centro sostanzialmente "montiana" e un ibrido di "sinistra" condizionato dalle sue componenti "estreme"( intendo: estremamente reazionarie). Grosse Koalition salvaci tu.

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« Risposta #49 inserito:: Febbraio 25, 2012, 04:36:25 pm »

Opinione

Lo scenario della grande coalizione

di Massimo Cacciari

Le idee di Monti e del mondo che rappresenta sono più vicine a quelle del centro-destra.

Se il Pd vuole evitare l'isolamento deve lavorare da subito all'obiettivo di una 'Grosse Koalition'

(16 febbraio 2012)

Più procede l'esperimento-Monti, più se ne manifesta la novità politica. Le risibili interpretazioni in chiave tecnico-neutrale lasciano il passo al vero interrogativo: come si de-costruiranno e ricomporranno intorno a Monti, alla sua squadra e ai poteri (forti e palesi) che egli rappresenta, gli attuali schieramenti politici quando dovranno affrontare la battaglia elettorale? Hic Rhodus, hic salta. L'alternativa al "non saltare" è solo quella di affossare Monti ora. E ciò, per i nostri ex poli, con l'aria che tira nei confronti dei partiti, equivarrebbe al suicidio.

Naturalmente, in ogni crisi, in ogni periodo di reale discontinuità, le forze in campo sono lungi dall'essere pienamente consapevoli del senso del loro agire e delle prospettive che esso apre. L'uomo fa certo la storia, ma quasi mai conosce la storia che fa, come ci hanno insegnato grandi compatrioti. E solo ex post, qualche volta, riusciamo a cavare una ragione dei fatti. Tuttavia è inevitabile cercare di orientarci sulla base di alcune regolarità, che rendono un accadimento più probabile di un altro. Ora, per cultura, per storia personale, ma soprattutto per le idee in materia economico-sociale che ha sempre espresso, e che alcuni lapsus non fanno che evidenziare anche in modo un po' grottesco, è improbabile che Monti (intendo sempre il mondo di cui è espressione) possa ritrovarsi in una coalizione più o meno "ulivista". E' l'antica area di centro-sinistra che dovrà "dirigersi" verso le sue posizioni, se la sua dirigenza riterrà che una tale alleanza sia necessaria per sé e per il Paese. E' assai più probabile, però, che questa convergenza si avvii da parte dell'antico centro-destra.

La frantumazione del Pdl è già in atto, e la sua componente maggioritaria non può avere altro destino. Ciò condurrebbe inevitabilmente alla "riappacificazione" con il centro di Casini e di Fini, che sarebbe certamente benedetta dalla stragrande maggioranza delle forze economiche e finanziarie internazionali. La condicio sine qua non, ovvio, è il definitivo abbandono della scena da parte di Berlusconi. Mi pare, peraltro, che l'addio ufficiale sia ormai nell'aria. Se a esso, poi, si accompagnasse quello di Bossi, anche la già tentata alleanza generazionale tra Alfano e Maroni potrebbe essere rilanciata (e la Lega continuerà nel 2013 a essere decisiva per vincere al Nord).

Esistono le condizioni, invece, per realizzare un programma di coalizione di governo tra il Pd e il cosidetto "terzo polo", oggi unico sostenitore sine glossa del governo Monti? E' evidente che non potrebbe mai presentarsi come un'alleanza strategica. Ma potrebbe avere un forte appeal nella prospettiva di una sorta di Grosse Koalition, di un governo di unità nazionale (non più solo di emergenza), in grado di farci recuperare un po' del tempo sciaguratamente perduto dalla Seconda Repubblica. Credo che sarebbe necessario lavorare in questa direzione. Qualche pezzo "a sinistra" il Pd così lo perderebbe, ma sfuggirebbe all'inevitabile "sciogliete le righe"cui andrebbe incontro se optasse per un nuovo Ulivo, schierato contro Monti. Sarà comunque vitale per il Pd impedire l'aggregarsi strategico intorno all'attuale presidente del Consiglio di un polo "classico" di centro, esplicitamente appoggiato dalle componenti maggioritarie del mondo cattolico, da metà del movimento sindacale, dalla Confindustria.

E' realistico pensare che ce la faccia? Certo non ce la farà ricorrendo ai tatticismi, evitando ogni decisione e crepando così come l'asino di Buridano. Semmai può provare a recuperare alcune idee che stavano, o avrebbero dovuto stare, alla base della costituzione del Pd: riforma federalistica, nuovo Welfare fondato sulla sussidiarietà, priorità assoluta per formazione e ricerca, appoggio alle giovani energie imprenditoriali, laicità senza arcaici laicismi. Quel partito non è mai nato. Se non nascerà (e se Monti non collasserà) le regolarità della storia invitano a ritenere che andremo, anche oltre il 2013, a un confronto tra una coalizione di centro sostanzialmente "montiana" e un ibrido di "sinistra" condizionato dalle sue componenti "estreme"( intendo: estremamente reazionarie). Grosse Koalition salvaci tu.

 
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 10, 2012, 04:16:04 pm »

Opinione

Perché a mia suocera piace Monti

di Massimo Cacciari

Il governo del prof incanta i molti che si sono stufati degli antagonismi e delle idee contrapposte.

Però è proprio dal conflitto che nasce la partecipazione dei cittadini alla politica.

Di qui il grande paradosso del nostro presente e del nostro futuro

(08 marzo 2012)

Nel suo ultimo libro ("Gramsci, Manzoni e mia suocera") Ilvo Diamanti invita con sapiente ironia politologi e politici a non lasciarsi incantare da apparati, lobby e istituzioni, e a far ritorno alla analisi dei rapporti e dei movimenti sociali. Richiamo mai più di oggi urgente; la scena sembra, infatti, occupata dagli appassionanti interrogativi su quanto Monti sia di destra, o Veltroni di sinistra, o quanto credibilmente Berlusconi reciti da uomo di Stato. Ma alla domanda non si può rispondere soltanto con la fotografia della nuova composizione sociale, come si è già fatto mille volte, raccontando di epoca post-fordista, di nuove forme di lavoro o della loro fisiologica precarietà e mobilità. Davvero è necessario interrogarsi anche sul senso comune, buono o cattivo che sia. Insomma, su "come la pensa mia suocera".

E' refrain costante il lamento sulla scarsa o nulla propensione alla partecipazione politica. Se non nella forma negativa della protesta e della denuncia. E la questione si derubrica immediatamente pensando di poterla risolvere con maggiore "capacità di ascolto", maggiore democrazia interna nei partiti e gli immancabili appelli alle civiche virtù. Ma che cosa significa un'autentica, forte partecipazione politica, come certamente vi fu anche nella Prima Repubblica, almeno fino agli anni Ottanta? Chi partecipava erano soggettività antagonistiche sul piano dei valori e delle strategie. La storia questo insegna: che tanto più si prende parte, e cioè si partecipa, al gioco politico, quanto meno esso appare un gioco, una semplice competizione di tipo mercantile (il "mercato politico"). Insomma, partecipazione è sinonimo di conflitto. Ma proprio intorno a questo ruota oggi, invece, la concorrenza tra le leadership politiche: su chi possa più efficacemente garantire il superamento del conflitto, e cioè la liquidazione delle ragioni stesse della partecipazione.

E non c'è dubbio che "il pensiero di mia suocera" si muova oggi tutto nella prospettiva di questa liquidazione. Che è quella di una democrazia essenzialmente procedurale. La cultura di cui Monti è raffinato esponente è questa e non potrebbe essere diversamente. Solo che al posto di sua suocera il bocconiano citerebbe Joseph Schumpeter. Una democrazia procedurale si auto-riproduce attraverso il meccanismo del voto, come si trattasse di un bene in sé. Quando partecipazione era, invece, conflitto, tutte le parti concepivano, nei fatti, la democrazia come una via, un metodo per conseguire obiettivi-valori - non solo ciò valeva, in Italia, per socialisti e comunisti, ma anche, e per certi versi ancor più, per molti e decisivi settori del mondo cattolico, sulla base anti-liberista della dottrina sociale della Chiesa e, poi, dell'umanesimo integrale di Maritain.

Ma, ecco il paradosso in cui ci troviamo, proprio nel momento in cui la democrazia da mezzo o strumento o via diviene bene in sé, proprio in questo momento essa cessa di essere considerata un bene. O lo diventa soltanto per chi, attraverso le procedure che essa stabilisce, intende conquistare seggi, rendite, finanziamenti pubblici e non. Cessa di esserlo sia per l'"indignato", sia per chi l'indignato vorrebbe vederlo ai ferri senza processo; sia per chi non vuole la Tav, punto e basta, che per lo pseudo-futurista che la mitizza come l'Opera del millennio. Mia suocera (e suo nipote) vogliono decisioni - in senso magari opposto, ma decisioni - e a nulla sono interessati meno che a "partecipare". Questa è la ragione antropologica per cui Monti a loro "va bene" - o comunque mille volte meglio di quelli che avevano votato. Doloroso, ma vero. Risalire la china, giungere a concepire democrazia come partecipazione e conflitto, spazio dove strategie e culture politiche sanno confrontarsi, e non mera procedura di scambi e compromessi dietro l'oscena maschera delle grida mediatiche, sarà la "missione impossibile" della Terza Repubblica, dopo la mai nata seconda e i suoi mai nati partiti.

 
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 09, 2012, 05:24:43 pm »

Opinioni

Dietro l'art. 18 un progetto politico

di Massimo Cacciari

Dividere i sindacati. Spaccare il Pd. E saldarsi con l'ala alfaniana del Pdl.

Sembra che Monti punti a questo scenario.

Ma per l'Italia è meglio una grande coalizione aperta ai democratici "liberal"

(29 marzo 2012)

Grandi manovre in corso per la successione nel regno di Danimarca. Altrimenti sarebbe impossibile spiegare la battaglia sulla cosiddetta riforma del mercato del lavoro. A prescindere dalle modifiche che il sovrano Parlamento vi apporterà, mai nessuna montagna partorì un più grande topolino. Qualche colpo al cerchio (più costoso per le aziende il tempo determinato), un colpo alla botte (qualche tutela in meno per la "flessibilità in uscita"), compensato per modo di dire con leggeri miglioramenti per assegni di disoccupazione e cassa integrazione. Rinviate alle calende greche tutte le vere decisioni: defiscalizzare il costo del lavoro (e aumentare il potere d'acquisto delle retribuzioni), tutelare l'universo del lavoro flessibile e dei free lance, potenziare gli ammortizzatori. Esercizio difficile, non v'è dubbio, col 120 per cento di debito sul sacro Pil - ma nessuno si è certo scervellato per stanare qualche risorsa. Tasse patrimoniali, liberalizzazioni vere, riduzioni dei costi dell'amministrazione e della politica, dove siete?

Nessun imprenditore serio aveva fatto barricate sull'articolo 18. Solo i pasdaran berlusconiani erano giunti a sostenere che la sua "correzione" poteva, in quanto tale, favorire investimenti e assunzioni. Che il sovrano Parlamento dia segni di vita modificando leggi e normative, delegiferi, sburocratizzi, riduca con opportuni provvedimenti i tempi della giustizia, altro che articolo 18. Ma è un simbolo, si dice, una bandiera. E nulla sarebbe più irragionevole che sottovalutare il peso di "irrazionali" simboli e miti nell'agire politico. Ma irrazionale non significa vuoto o privo di significato. E allora qual è il senso di quest'azione del governo che ha voluto porre in primo piano la questione dell'articolo 18 nell'affrontare il problema infinitamente più complesso (e appena sfiorato dai provvedimenti in discussione) del mercato del lavoro nel post-fordismo e nella globalizzazione? Gli effetti che questa decisione sta producendo erano stati previsti, o addirittura voluti? Poiché questi sono del tutto evidenti: ridividere il sindacato, che stava lanciando qualche timido segnale di ritrovata unità, drammatizzare le divisioni nel Pd, rafforzare l'intesa con l'ala "alfaniana" del Pdl. L'articolo 18, insomma, come catalizzatore politico: accelerare la resa dei conti nei due ex-poli, facendovi emergere l'ala decisa a proseguire sulla via aperta dal governo Monti; collocare "fuori gioco", all'opposizione, l'ala Fiom della Cgil (non ha detto proprio il neopresidente della Confindustria Squinzi che i chimici, invece, sono molto ragionevoli?).

C'è da chiedersi se Monti stesso sia consapevole del significato della linea assunta dal suo governo. A meno che non lo concepisca come un "pronto intervento" per poi riconsegnare tutto al malato, le decisioni che vengono oggi prese indicano almeno un'ipotesi di alleanze future. Si prefigura una coalizione tra "liberali" Pdl e "terzo polo", montiana e benedetta dalle più importanti corporazioni? Ma questo costringerebbe tutto il Pd a mettere la sordina al dibattito interno e a serrare le righe a sinistra con i "compagni che sbagliano". Eppure l'ipotesi di vittoria di una coalizione ulivista nel 2013 rimane assai più probabile di quella di un centrodestra per quanto rinnovato. Non converrebbe allora a Monti (e magari al Paese) lasciare che maturino le contraddizioni strategicamente e culturalmente insanabili nel centrosinistra, piuttosto che dar l'impressione di imporre la resa? L'ho già detto altre volte: dopo Monti il Paese avrà ancora bisogno di "grande coalizione" ma questa non può fare a meno di quelle forze del Pd, e non solo, che a questo partito avevano guardato come a una forza costituente e non alla sommatoria di album di famiglia e alla tutela di rendite politiche. L'Italia ha bisogno di una "grosse Koalition" liberal, e non liberista. E credo, spero, che quest'idea rappresenti anche l'"anima" di Monti. Se è così, corregga, professore, rotta e immagine del suo governo; non ci riconsegni, la prego, nel 2013 a una riedizione, con nuovi attori (neppure tutti), dei duelli dello sciagurato ventennio.

 
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« Risposta #52 inserito:: Aprile 28, 2012, 05:22:11 pm »

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Ma al nord il Pd latita ancora

di Massimo Cacciari

La crisi della Lega non sposta di un millimetro un problema antico: chi può dare rappresentanza al ceto medio del settentrione? La sinistra fa una gran fatica a rientrare in gioco

(26 aprile 2012)

La crisi della Lega sembra riaccendere l'attenzione politica sulla "questione settentrionale". Speriamo che il tema sia affrontato con l'ottimismo della volontà e non all'unico scopo di trarne qualche vantaggio elettorale.

Che la faglia storica del Paese tra Nord e Sud si sia addirittura aggravata nell'ultimo ventennio di non-governo è una drammatica realtà che nessuna retorica patriottica può coprire. Così come è una realtà che il Paese si regga sostanzialmente sulla tenuta produttiva, occupazionale (e sul gettito fiscale) del Nord.

Fatti, dati e numeri sono testardi. Il fallimento politico del bossismo (che è effetto anche, ma non solo, dell'alleanza con Berlusconi) deriva dall'errore di aver voluto trasformare la "questione settentrionale" in una questione "nazionale", come se la spaccatura di interessi materiali potesse o dovesse essere spiegata, e venire rafforzata, nei termini di una contrapposizione tra "nazioni", un po' sul modello catalano, basco, fiammingo o irlandese.

Errore di irrealismo e mancanza di cultura (cui Gianfranco Miglio aveva invano tentato di porre rimedio): chi avesse letto Guicciardini e Leopardi mai l'avrebbe commesso. Come sono pensabili ideologie secessioniste-indipendentiste in un Paese in cui ciascun individuo fa "nazione" a sé? Tuttavia si tratta forse di quegli errori necessari di cui la storia è piena. E poi è ben noto: chi sa non può. L'ideologia ha impedito di definire programmi coerenti. La matrice federalista si è trasformata in un centralismo regionalistico che ha partorito, alla fine, giunte e regimi formigoniani, contribuendo al fraterno livellamento delle pubbliche amministrazioni ai gradini più bassi dell'efficienza e della correttezza.

L'inevitabile vocazione ministeriale e centralistico-burocratica di ogni forma-partito ha avuto come effetto, del tutto fisiologico, per nulla "magico", correnti, "famiglie" e rendite connesse. Ma la "questione settentrionale" rimane sempre lì, più forte e più esplosiva che mai.

Mi piacerebbe chiedere agli stati maggiori dei Ds d'antan (peraltro in buona sostanza gli stessi del Partito democratico attuale), ai leader di querce, ulivi, asinelli e margherite vari, quale sarebbe la situazione attuale, quali sarebbero gli equilibri politici al Nord, se si fosse realizzata la proposta di un'organizzazione federalistica interna di queste forze, con una loro presenza davvero autonoma nelle regioni settentrionali. Quale risposta positiva sarebbe ora possibile avanzare alla crisi della Lega. E invece, come tutte le indagini dimostrano, neppure un voto sembra recuperabile.

La storia non si fa con i "se", ma solo ragionando su ciò che poteva essere la si comprende. Il confronto, su questo terreno, è avvenuto nel corso del ventennio tra vecchie politiche centralistiche e pseudo-federalismi ideologici, irrealistici e protestatari. E il problema rimane lì, del tutto irrisolto: chi sarà capace di dare risposte di governo, positive, ai concreti interessi di quel complesso ceto medio produttivo del Nord, stra-studiato e altrettanto poco rappresentato? Potrà candidarsi a farlo ancora la Lega? Forse, vista l'assenza degli altri a tutt'oggi. Ma solo nella sua variante maroniana, senza compromessi col passato.

E una Lega di governo non è concepibile senza rapporti organici con il resto della destra ex berlusconiana. Operazione difficilissima, anche perché in mezzo ci sta il rapporto con Monti e il suo governo tecnico. Ma fino a quando, dall'altra parte, non c'è che il piangere sul latte versato, le straordinarie occasioni perdute e il dilemma del rapporto coi Vendola e i Di Pietro, anche Roberto Maroni e il suo ceto amministrativo locale, tutto sommato decente, possono sperare.

 
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« Risposta #53 inserito:: Maggio 19, 2012, 10:38:57 am »

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Due patti per salvare l'Italia

di Massimo Cacciari

Il primo è quello generazionale, perché in questo Paese i vecchi stanno facendo la guerra ai giovani. Il secondo è fra i contribuenti: perché metà della popolazione paga troppe tasse e l'altra metà evade. Se non si risolvono questi nodi, è finita

(10 maggio 2012)

Aula di Montecitorio Aula di MontecitorioChe la crisi economica, non affrontata alle radici, debba sfociare in crisi sociale, non occorre esser dotati di spirito profetico per saperlo. Le "forze" politiche non sembrano intenzionate a mettere a profitto il ponticello offerto loro dal governo Monti per iniziare le prove di un'autentica fase costituente. Pensano a elezioni, a Grillo, a come salvare il proprio finanziamento, a marcarsi l'un l'altra, a declamare la propria autonomia e il proprio libero arbitrio. E lo fanno così bene da correre addirittura il rischio di resuscitare i cari trapassati. Con i Berlusconi e i Bossi ancora sulla scena, riusciremo forse nell'impresa di azzerare anche la partecipazione al voto, dopo quella di aver annullato la fiducia nei partiti.

Due drammi, ben distinti per natura e soggetti, si congiungono e possono concludersi in tragedia. Il primo riguarda la rottura del patto generazionale. Ogni res publica vi si fonda. I padri non possono preparare, lungo tutta una fase storica, la rovina dei figli. I padri hanno auctoritas soltanto se, come indica il termine stesso, creano le condizioni perché aumentino le opportunità, sia materiali sia spirituali, per la generazione a venire. O almeno, a essere cinici, sanno rappresentarsi in una tale veste. Neppure di simili travestimenti la classe dirigente passata è stata, invece, capace. Alle grandi faglie tradizionali che spezzano questo bel Paese, Nord-Sud, laici-cattolici, si è così aggiunta questa: di gran lunga la più perniciosa. Ricomporla sarà arduo poiché solo un'azione politica praticata in prima persona dalle nuove generazioni potrebbe farlo. Mai come oggi, però, proprio la prassi politica appare in sé corrotta (magari fosse solo in senso morale!), quando non impotente. Siamo nel famoso paradosso: la politica può anche apparire necessaria ma, insieme, altrettanto a ragione, essere detestata.


Anche il secondo è un dramma, per così dire, della scissione. L'ingiustizia del sistema impositivo ha superato ogni livello di guardia. Nessun paese può reggere se una metà della popolazione paga per una massa parassitaria delle dimensioni che tutte le statistiche sull'evasione denunciano. E se soltanto su lavoro dipendente, pensionati, consumi di massa grava il peso di ogni manovra. Nessuno Stato può reggere se non sa distribuire con un minimo di equità tra i suoi territori e tra le diverse categorie le entrate che riscuote.

Qui crolla il secondo patto della res publica: tassazione e rappresentanza politica sono, infatti, indisgiungibili. Inutili prediche, lamentazioni e scomuniche: se lo Stato non darà immediatamente prova di essere organo efficiente di spesa, di saper svolgere un'equa, necessaria funzione ridistributiva, e di combattere l'evasione, non a spot (vanno bene anche quelli...in assenza di meglio) ma con una riforma complessiva del sistema fiscale (a partire dal rendere davvero conveniente per chi acquista l'esigere fatture e scontrini), il vizio italico secolare - tutti individui, nessuna "società" - potrà anche trovare un validissimo alibi nell'aureo motto liberale: no taxation without representation.

Per i nostri partiti è ultimo appello. Rendano evidenti nelle loro proposte il nesso tra tassazione e nuovo welfare (nuovo perché quello statalista-socialdemocratico, glorioso finche si vuole, ha compiuto il proprio ciclo storico una generazione fa). Dicano dove trovare le risorse per gettare le fondamenta di un nuovo patto con i giovani (risorse che non potranno mai più venire da aumenti di spesa ma solo da rigorose politiche di liberalizzazione che riguardino anzitutto proprietà e partecipazioni pubbliche). Costituiscano coalizioni coese su questi obiettivi.

Perché se anche dopo il 2013 si dovesse tradire il mandato ricevuto, come, per non andar lontani, nel 2006 e nel 2008, altro che governi tecnici, altro che fustigarci sui commissariamenti europei. Altro che Grecia.

 

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« Risposta #54 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:53:51 am »

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Due patti per salvare l'Italia

di Massimo Cacciari

Il primo è quello generazionale, perché in questo Paese i vecchi stanno facendo la guerra ai giovani.

Il secondo è fra i contribuenti: perché metà della popolazione paga troppe tasse e l'altra metà evade.

Se non si risolvono questi nodi, è finita

(10 maggio 2012)

Aula di Montecitorio Aula di MontecitorioChe la crisi economica, non affrontata alle radici, debba sfociare in crisi sociale, non occorre esser dotati di spirito profetico per saperlo. Le "forze" politiche non sembrano intenzionate a mettere a profitto il ponticello offerto loro dal governo Monti per iniziare le prove di un'autentica fase costituente. Pensano a elezioni, a Grillo, a come salvare il proprio finanziamento, a marcarsi l'un l'altra, a declamare la propria autonomia e il proprio libero arbitrio. E lo fanno così bene da correre addirittura il rischio di resuscitare i cari trapassati. Con i Berlusconi e i Bossi ancora sulla scena, riusciremo forse nell'impresa di azzerare anche la partecipazione al voto, dopo quella di aver annullato la fiducia nei partiti.

Due drammi, ben distinti per natura e soggetti, si congiungono e possono concludersi in tragedia. Il primo riguarda la rottura del patto generazionale. Ogni res publica vi si fonda. I padri non possono preparare, lungo tutta una fase storica, la rovina dei figli. I padri hanno auctoritas soltanto se, come indica il termine stesso, creano le condizioni perché aumentino le opportunità, sia materiali sia spirituali, per la generazione a venire. O almeno, a essere cinici, sanno rappresentarsi in una tale veste. Neppure di simili travestimenti la classe dirigente passata è stata, invece, capace. Alle grandi faglie tradizionali che spezzano questo bel Paese, Nord-Sud, laici-cattolici, si è così aggiunta questa: di gran lunga la più perniciosa. Ricomporla sarà arduo poiché solo un'azione politica praticata in prima persona dalle nuove generazioni potrebbe farlo. Mai come oggi, però, proprio la prassi politica appare in sé corrotta (magari fosse solo in senso morale!), quando non impotente. Siamo nel famoso paradosso: la politica può anche apparire necessaria ma, insieme, altrettanto a ragione, essere detestata.


Anche il secondo è un dramma, per così dire, della scissione. L'ingiustizia del sistema impositivo ha superato ogni livello di guardia. Nessun paese può reggere se una metà della popolazione paga per una massa parassitaria delle dimensioni che tutte le statistiche sull'evasione denunciano. E se soltanto su lavoro dipendente, pensionati, consumi di massa grava il peso di ogni manovra. Nessuno Stato può reggere se non sa distribuire con un minimo di equità tra i suoi territori e tra le diverse categorie le entrate che riscuote.

Qui crolla il secondo patto della res publica: tassazione e rappresentanza politica sono, infatti, indisgiungibili. Inutili prediche, lamentazioni e scomuniche: se lo Stato non darà immediatamente prova di essere organo efficiente di spesa, di saper svolgere un'equa, necessaria funzione ridistributiva, e di combattere l'evasione, non a spot (vanno bene anche quelli...in assenza di meglio) ma con una riforma complessiva del sistema fiscale (a partire dal rendere davvero conveniente per chi acquista l'esigere fatture e scontrini), il vizio italico secolare - tutti individui, nessuna "società" - potrà anche trovare un validissimo alibi nell'aureo motto liberale: no taxation without representation.

Per i nostri partiti è ultimo appello. Rendano evidenti nelle loro proposte il nesso tra tassazione e nuovo welfare (nuovo perché quello statalista-socialdemocratico, glorioso finche si vuole, ha compiuto il proprio ciclo storico una generazione fa). Dicano dove trovare le risorse per gettare le fondamenta di un nuovo patto con i giovani (risorse che non potranno mai più venire da aumenti di spesa ma solo da rigorose politiche di liberalizzazione che riguardino anzitutto proprietà e partecipazioni pubbliche). Costituiscano coalizioni coese su questi obiettivi.

Perché se anche dopo il 2013 si dovesse tradire il mandato ricevuto, come, per non andar lontani, nel 2006 e nel 2008, altro che governi tecnici, altro che fustigarci sui commissariamenti europei. Altro che Grecia.

 
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 05, 2012, 07:10:04 pm »

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Il Pd al Nord perderà ancora

di Massimo Cacciari

Crollato l'asse Berlusconi-Lega, il centrosinistra rischia di non ereditare nemmeno uno dei loro voti dal Po in su.

Perché non ha mai capito la questione settentrionale, nè ha mai cercato di farlo

(04 giugno 2012)

La "questione settentrionale" riemerge prepotentemente dal voto. E per forza, visto che è solo l'altra faccia della "questione meridionale". E' il problema ormai secolare, irrisolto e, anzi, per certi versi aggravatosi, della grande faglia che spezza il Paese.

Che cosa era successo dopo la catastrofe dei primi anni '90 nella sud-Mitteleuropa del Lombardo-Veneto? Molto semplicemente si era definito un contratto tra la stragrande maggioranza degli interessi economici e delle categorie professionali di quest'area del Paese, che viveva da anni un suo proprio miracolo ed era universalmente additata a "modello", e i nuovi partiti, Forza Italia e Lega. Miti celtici, dèi padan-pagani, identità cultural-religiose c'entrano come il due di spade quando briscola è bastoni. Di contratto si trattava, scritto o orale, non importa. Tutto "laico", in tutto degno della nostra attuale visione del mondo, che vede l'intero corpo sociale ridotto a rete di contraenti.
 
Il contratto riguardava i seguenti punti: modifica radicale dei flussi di trasferimento dello Stato a Regioni ed Enti Locali, obiettivamente penalizzanti per il Nord; modernizzazione della Pubblica amministrazione e di tutte le reti, conditio sine qua non per continuare nel "miracolo"; riduzione dell'imposizione fiscale su imprese, occupazione, investimenti. Il fallimento è stato totale. Malgrado un ventennio di promesse, populismo e ideologie da strapaese. Malgrado una rappresentanza "nordista" in Parlamento e al governo quale mai in passato. Pdl e Lega pagano questa bancarotta: quelle che ho chiamato le catastrofi etico-estetiche del berlusconismo-bossismo non sono che la ciliegina.
 
Massimo Cacciari Il dramma è che il centro-sinistra non eredita un solo voto da una simile disfatta dell'avversario. E, anche in questo caso, per forza: in una generazione le sue leadership sono passate dalla totale incomprensione della "questione settentrionale" alla completa afasia intorno al problema - afasia progettuale, programmatica e organizzativa. Vincendo, raramente, quando gli altri erano divisi o ormai giunti al digestivo, come a Milano. Tutto confermato nell'ultimo voto: il centro-sinistra vince dove l'avversario si è pressoché liquefatto e riesce a perdere con una "potenza" quale


Grillo, non solo a Parma, ma in roccaforti periferiche come, nel veneziano, a Mira. Ovvero: la sua capacità di "convinzione" nei confronti dell'immensa platea di interessi, che costituiva la base dei successi di Pdl e Lega, è pari allo zero. Pure in cifra assoluta il centro-sinistra, o almeno la sua unica forza potenzialmente di governo, il Pd, perde consensi. Come sia possibile cantar vittoria in tali condizioni è un mistero della fede.
 
Ora, queste regioni decisive per lo sviluppo del Paese, questi territori dai quali soltanto è possibile sperare di avviare processi di crescita, si trovano sostanzialmente privi di rappresentanza politica. Risentimenti e conflitti col Sud potrebbero acutizzarsi, rendendo ancor più quella faglia storica tra Nord e Sud un fatto culturale e, quasi, antropologico. Ed è inutile dire quanto possa incidere sulle nostre possibilità di uscire dalla crisi il venir meno di ogni referente politico per industriali, artigiani, commercianti, professionisti. Ma anche i tradizionali referenti sindacali versano in un'analoga crisi di rappresentatività: sempre più carrozzoni burocratici allenati a stringer "contratti" con apparati ministeriali, del tutto simili per mentalità e cultura.
 
Tuttavia, di positivo resta il fatto che il ventennio delle promesse e delle chiacchiere è per tutti finito: i partiti saranno costretti, per sopravvivere se non per governare, a misurarsi con le domande inevase che il Nord da decenni avanza. E i soggetti fondamentali dello sviluppo economico di queste Regioni dovranno sforzarsi di diventare adulti anche culturalmente e politicamente, se intendono davvero difendere i propri interessi materiali. Spes contra spem? Da qui alle prossime elezioni politiche lo scopriremo comunque. Pdl

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« Risposta #56 inserito:: Agosto 04, 2012, 10:39:01 am »

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Ma che statalisti questi tecnici

di Massimo Cacciari

Il governo ferma lo smantellamento dello Stato burocratico-ministeriale. E ri-centralizza per controllare la spesa.

Ma autonomia e responsabilità degli enti locali non vanno abbandonati. Se non si vuole tornare indietro

(16 luglio 2012)


Chi ritiene che il governo Monti costituisca l'ultima spiaggia per avviare in Italia una stagione costituente, dovrebbe, invece di ripetere "rancio ottimo e abbondante", chiedersi: emergenza e "logica di sistema" debbono necessariamente contraddirsi? Bisogna solo abbrancare risorse dove si può? Esperienza storica e logica avrebbero voluto che si decidessero l'abolizione della Provincia e il passaggio delle sue competenze a città metropolitane e a Regioni. Non ha alcun senso decretarne la fine in base a criteri essenzialmente quantitativi perché motivi ambientali, territoriali, storici possono rendere una Provincia di 100 mila abitanti meno inutile di una di un milione. E immaginiamoci i mercati che si scateneranno in sede di conversione del decreto! E la sanità? Ma non si trattava di materia di esclusiva competenza delle Regioni? O, almeno, non sarebbe loro sacrosanta responsabilità la definizione delle priorità e l'articolazione della spesa? E prima di giungere a ulteriori e indiscriminati tagli non sarebbe stato logico riferire al pubblico a che punto stava l'applicazione degli standard per le diverse prestazioni, unica cosa sensata dei provvedimenti sul federalismo fiscale?

MA E' FACILE PROFEZIA: Regioni ed enti locali pagheranno il conto (e più "virtuosi" sono, più proporzionalmente salato sarà) mentre poteri più forti o comunque più autonomi rispetto a quelli politici centrali troveranno certo il modo di "correggere" la spending review. E con qualche buona ragione. Alcune delle sedi di tribunale da rottamare sono state costruite l'altro ieri! E se risultano oggi inutili occorrerà che qualche Corte dei conti indaghi su simili sprechi (o sulla propria stessa incapacità di indagare). E quelle che restano presentano strutture adeguate per assorbire personale e funzioni delle soppresse? Esiste un simile calcolo? Logica vorrebbe che una tale verifica fosse il presupposto del decreto.

Perché presentare come una decimazione la riduzione del personale nella Pubblica amministrazione? Solo difetto di comunicazione? Se è così, è tanto macroscopico da superare quello di Brunetta nei suoi giorni migliori. Si ha una pallida idea dei conflitti, dei sospetti, degli arbitrii, delle frustrazioni, della carica demotivante che la sua applicazione può generare in un ufficio? Si pensa così di aumentarne la produttività? Può immaginarlo soltanto chi non ha mai varcato la soglia del più piccolo dei Comuni.

E PERCHE' NON SI E' PROCEDUTO alla trasformazione di tutte le partecipate comunali in società a amministratore unico, eliminando consigli di amministrazione e migliaia di nomine tutte politiche? Risparmio e pulizia etico-politica, invece della "grida" manzoniana sulla loro abolizione tout court. Con quali procedure? Quali tempi? Pure a costo di svendere? Perché anche qui, come per le Provincie, mezze misure, che per natura assommano i vizi delle estreme? Forse a causa di veti politici che i nostri "tecnici" sembrano propensi ad avvertire quanto hanno avvertito quelli di lobby e corporazioni in materia di liberalizzazioni?
 
E a proposito di vendite di asset pubblici, logica (e forse anche un po' di giustizia) vorrebbe che prima di decretare dall'alto dei colli romani sul destino delle proprietà degli enti locali, il governo procedesse alla dismissione del suo patrimonio: Eni, ad esempio, perché per mamma Rai solo l'idea sembra troppo audace.
 
Si potrebbe continuare. Ma la morale è semplice e drammatica. Il senso di questi provvedimenti, al di là degli effetti finanziari immediati, va in una direzione che contraddice in toto quel discorso di autonomia, responsabilità, progressivo smantellamento della costruzione burocratico-ministeriale-centralistica del nostro Stato che sembrava aver iniziato a permeare la cultura politica del nostro Paese. Le dinamiche della crisi ri-centralizzano ogni decisione in modo esasperato. Riportano a un modello organizzativo e amministrativo obsoleto trent'anni fa. Almeno prendiamone coscienza, se vogliamo sopravvivervi.


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« Risposta #57 inserito:: Agosto 27, 2012, 05:28:22 pm »


Caro Pd, guardi troppo a Sud

di Massimo Cacciari

La probabile coalizione con l'Udc e con Vendola rischia di creare un asse di governo disinteressato al Nord: cioè a quell'area del Paese che avrà il compito più importante per l'uscita dalla crisi

(27 agosto 2012)

Si ruzzola verso le elezioni politiche senza che nessuna delle forze in campo abbia posto sul tappeto il problema forse socialmente e culturalmente più drammatico, che il prossimo governo dovrà affrontare. Il sottoscritto e pochi altri cirenei si sforzano invano di segnalarlo da mesi con assoluta obbiettività - "repetita iuvant", speriamo. Semplice sigillo del vero: le aree del Paese, che sono state il motore primo del suo sviluppo e dalle quali soltanto è realistico attendersi l'avvio della ripresa, hanno visto crollare la propria "rappresentazione" politica. La storia ha già inizio,a guardar bene, con Tangentopoli e il crollo della prima Repubblica - ma da quella crisi d'epoca la grande maggioranza delle categorie produttive e industriali, degli artigiani, commercianti e professionisti del Nord credette di uscire affidandosi al "combinato disposto" del sindacalismo territoriale leghista e del neo-liberismo scatenato berlusconiano (e cito gli aspetti "nobili" della politica di entrambi). Ci son voluti quasi due decenni per giungere all'inevitabile disincanto. Quella rappresentanza politica si è rivelata immaginaria. L'attuale crisi l'ha disfatta come neve al sole. Chi e che cosa coprirà l'immenso vuoto che si è così aperto?

ESISTE LA POSSIBILITÀ di una qualche intesa tra l'area, lato sensu, socialdemocratica del Pd e nuova Lega maroniana? Esisteva, probabilmente. Quando Bossi alla fine del '94 ruppe violentemente con Forza Italia - se nel centro-sinistra di allora fosse emersa una seria cultura federalista e un' altrettanto forte volontà di cambiare l'assetto istituzionale del Paese. In questo senso procedevano allora tante esperienze - il movimento dei sindaci del Nord-est, infinite iniziative locali, tutte "a cavallo" tra istanze leghiste territorialmente radicate e piena consapevolezza della necessità di difendere e rafforzare,in chiave europea, l'unità nazionale. Quanti leader leghisti della prima ora, soprattutto in Veneto, sono stati fatti fuori perché intendevano agire in tale prospettiva, senza trovare la minima "sponda"all'interno del centro-sinistra? Una storia che sarebbe utile raccontare - se mai la storia fosse maestra di vita.

NESSUNO ALLORA SI NASCONDEVA la difficoltà dell'impresa - ma la si poteva tentare. Parlarne oggi è puro esercizio verbale. Non solo sono passati sotto i ponti fiumi di ideologie che hanno ridotto all'insignificanza politica un sostrato materiale, una base popolare per molti aspetti affine tra i due elettorati. Ma ora il Pd non può che guardare a Casini o a Vendola o, da perfetto strabico, a ambedue. In tutti i casi il suo asse politico è destinato a spostarsi a Mezzogiorno e a reggersi su alleanze assolutamente indigeribili alla Lega - almeno quanto intese con la Lega sono impraticabili per i Casini e i Vendola. Ma il dramma è che i suddetti personaggi mai e poi mai potrebbero comunque aiutare a coprire quel vuoto socio-culturale che si è spalancato al Nord dopo il tracollo della rappresentanza immaginaria Bossi-Berlusconi.

L'onore e l'onere della prova ricade dunque tutto sulle gracili spalle del Pd? E, per le ragioni suddette, di un Pd inesorabilmente in concorrenza con ciò che avanza sia di Lega che di Pdl? Si sta attrezzando per la sfida questo partito? Con quali programmi, con quali leader? Hic sunt leones. Ma esiste una variabile, che, essendo nota, potrebbe permettere di risolvere l'equazione. Se Monti, direttamente o per interposta persona, si candidasse a succedere a se stesso, come leader di una coalizione di centro-sinistra, e nel suo programma di governo, tutto politico, citasse esplicitamente la centralità della "questione settentrionale", buona parte del voto "borghese", cosidetto moderato, che c'è ancora, eccome, nel patrimonio della Lega, potrebbe decidersi al salto, che altrimenti non farà mai. Gli anatemi della Lega a Monti non ingannino - servono a scongiurare, per l'appunto, una tale eventualità.

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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 26, 2012, 09:36:16 am »

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No, questo bipolarismo no

Massimo Cacciari

(18 ottobre 2012)

Uno spettro si aggira per i cieli della nostra politica: ci troveremo alle prossime elezioni nella stessa situazione che ha caratterizzato lo sciagurato ventennio, con un bipolarismo all'italiana? Da un lato, un Ulivo appena riveduto e corretto. Dall'altro, una coalizione "moderata", strapiena, ammesso voglia vincere, di elementi che hanno sempre dato infaticabile prova di estremismo. Da un lato, un'area socialdemocratica, il cui "centro" si riduce a sparsi esponenti ex-Margherita (cioè ex-popolari). Dall'altro, la più improbabile delle sommatorie, da Casini a liste "civiche" montezemoliane, a qualche ministro di Monti, a confusi reduci del berlusconismo. Sarebbe sufficiente l'assenza dei "rifondatori" comunisti, da una parte, e della Lega - e magari dello stesso Berlusconi - dall'altra, per parlare di "novità" rispetto allo pseudo-bipolarismo della seconda Repubblica? Non penso proprio. Saremmo sempre in presenza di coalizioni prive di ogni orientamento strategico comune.

PER FORTUNA , si tratta ancora solo di uno spettro. E' ancora sperabile che qualche chiarimento su come e con chi si intenda governare emerga dalle primarie del Pd (pardon, della coalizione di centro-sinistra). E Casini, molto saggiamente, attende lumi dalla catastrofe del Pdl. Ma se non si andrà al bis, mutatis mutandis, delle antiche coalizioni-confusioni, arrangiate su programmi che nascondono le radicali divergenze grazie agli "omissis" e alla nebbia di speranze e promesse, come potrebbe presentarsi la scena? Hic sunt leones. Certo, il ribaltone avverrebbe se si presentasse Monti: in questo caso una coalizione di centro, per quanto sgangherata nelle sue componenti, verrebbe "sussunta" nella sua persona. Ma ciò non avverrà, per molte e anche buone ragioni (anzitutto, l'aprirsi di una competizione elettorale caotica, all'insegna del "si salvi chi può"). E allora? Siamo destinati a un confronto tra coalizioni che tali non sono, oppure a compromessi da prima Repubblica, resi possibili da un ritorno al sistema proporzionale? Questo secondo, forse, sarebbe il male minore. Ma un "male" comunque capace di governare una situazione così drammatica? Di combinare risanamento e sviluppo, coerente politica europea e riforme all'interno? Nessuno è oggi in grado di rispondere a queste domande. E perciò l'ipotesi di un Monti-bis, dopo le elezioni, e magari di nuovo attraverso un'opera di "persuasione" da parte dell'Europa e del presidente della Repubblica di turno, rimane plausibile (oltre che da molti poteri, occulti e no, quasi implorata). I nostri partiti "popolari" dimostrerebbero prudenza a non escludersi da tale eventualità: per poter contare al suo interno, se si realizzasse.

CHE NOIA, SI DIRA'! Che linguaggio da palazzo! Al popolo sovrano interessano salari, occupazione, sanità, scuola. Anche a me e, vorrei dire, esclusivamente. Peccato che questi problemi non basti declamarli perché siano affrontati - e perché lo siano effettivamente, attraverso provvedimenti e leggi, occorrono parlamenti, politici, partiti. E' un gatto che si morde la coda. Ci tocca parlare dei Monti, Bersani, Casini - e se non di loro, di altri, che faranno lo stesso mestiere - perché i drammatici problemi del Paese possano sperare in una risposta.
Tra questi, lo ripeto a costo d'essere lapidato, quello di un'autentica riforma federalista. Le mistificazioni a proposito hanno raggiunto cime abissali. La verità è che in questo ventennio tutto s'è fatto fuorché federalismo, che significa responsabilità, autonomia a partire dall'ente locale, sussidiarietà. Si è fatto soltanto del regionalismo centralista. Condito da chiacchiere separatistico-indipendentistiche. Un po' di pudore, per piacere, signori dei ministeri e dei comitati centrali: il modo in cui avete declinato l'idea federalista negli aborti della riforma del titolo V sembra concepito apposta per sputtanarla. Forse ci siete riusciti. Ma non parlate di federalismo: lasciatelo almeno risposare in pace con Trentin e Spinelli, con Sturzo ed Einaudi.

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« Risposta #59 inserito:: Novembre 27, 2012, 06:00:46 pm »


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Professor Monti, si candidi

di Massimo Cacciari

«Ci si ritira solo dopo aver vinto o fallito. Quindi lei non resti a metà: i tiepidi, dice l'Apocalisse, saranno sputati nel giorno del Giudizio». La lettera-appello al premier di un filosofo e politico

(22 novembre 2012)

Caro Presidente, conoscendo il sense of humour che lei nasconde dietro la maschera di Cincinnato super partes, mi permetto di pregarla di rivolgere fuggevole attenzione a questa modesta proposta. Il presupposto è che lei derida in cuor suo, almeno quanto me, la leggenda metropolitana intorno alle metafisiche separazioni tra "tecnici" e "politici", e al carattere asceticamente tecnico, wertfrei, direbbero i miei e suoi maestri, della "missione" che sta conducendo. Da anni ormai lei svolge importantissimi incarichi che sono indistricabilmente tecnico-politici. Non mi risulta sia stata una commissione di concorso a nominarla commissario europeo in un ruolo chiave. E certamente il presidente Napolitano l'ha voluta alla guida del governo per la sua rappresentatività culturale e politica, non soltanto, credo, in quanto illustre economista. In questo ruolo lei ha segnato un momento necessario di discontinuità e ha iniziato un percorso quasi impossibile di risanamento di questo Paese. Può ritenere di averlo già così bene fondato da affidarlo ad altri? Perché vuol passare alla nostra storia come il personaggio delle "premesse"? Tanta coeptorum moles – montagna delle cose solo iniziate o progettate o pensate – così ora potrebbe suonare il suo motto!

MA, AMMESSO E NON CONCESSO, che i provvedimenti adottati dal suo governo, rappresentino gli "elementari" per affrontare la crisi, come può pensare che partiti e leadership politiche siano pronti a ricevere il testimone? Forse le era dato di pensarlo quando, più di un anno fa, è salito all'alto scranno. Ma ora? Si sono create le condizioni per serie coalizioni di governo? Ha letto programmi, corredati da qualche plausibile calcolo, in materia di debito, occupazione, lavoro, previdenza? Per non dire delle liberalizzazioni, tanto care alla sua cultura, per le quali, lo ammtterà, poco o nulla lei è riuscito fin qui a fare. Anzi, la situazione è ancora più drammatica che all'inizio del suo mandato. Il Pdl è in stato confusionale. Il Pd naviga nel bicchier d'acqua in tempesta delle sue primarie. Crolla perfino Di Pietro! E per forza: Berlusconi e Di Pietro sono stati i due unici prodotti di Tangentopoli (poiché pulizia morale quella stagione non l'ha prodotta, né poteva: le leggi, forse, possono farci migliori, ma di sicuro non le sentenze dei giudici). Simul stant, simul cadunt (insieme stanno, insieme cadono). E credo che il motto valga per tutte le forze della sciagurata seconda Repubblica. C'è Grillo, magari al 20 per cento, ma è un po' arduo presentarlo alla Bundesbank, le pare?

I PIU' "RAGIONEVOLI" PENSANO : facciamo un porcellum prima Repubblica al posto dell'attuale, frantumiamo il quadro politico, una bella emergenza e Monti ritorna. Sono certo che lei, da cittadino responsabile, aborre una tale prospettiva. Essa comporterebbe necessariamente l'aggravarsi della stessa crisi economico-finanziaria a cavallo delle elezioni, coalizioni parlamentari ammucchiate dopo il voto, alle spalle degli elettori, prive di alcun programma e di alcuna autentica leadership (con, ad adiuvandum, questa volta, una opposizione consistente, dalla Lega a Grillo, ai resti di Di Pietro, magari a Vendola). Una coalizione di governo, il suo presidente e il loro programma vanno indicati prima. Un ritorno di Monti post festum non risolverebbe nulla. Un Monti-bis senza alcuna propria base parlamentare governerebbe ancora meno di quanto abbia governato il Monti-uno.

Presidente, ancora uno sforzo. Dia ascolto alla sua vocazione politica! E se non la possiede, la finga! Si candidi. Solo la sua candidatura a capo di un suo movimento può prosciugare molta astensione, e ancora più consensi attrarre da altre aree politiche in crisi. Solo la sua candidatura può sparigliare i giochi di questi agonizzanti partiti e costringerli a coerenti scelte di alleanza e governo. Lo faccia, se non altro, per salvare le fatiche sopportate fin qui. Virtù insegna che ci si ritira soltanto dopo aver vinto o aver fallito. Non resti a metà: i tiepidi, dice l'Apocalisse, saranno sputati nel giorno del Giudizio.

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