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Autore Discussione: Piero OSTELLINO.  (Letto 53940 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 26, 2009, 03:56:53 pm »

Un Paese tra dittatura della burocrazia e saccheggio delle risorse pubbliche

Nazione di sudditi allergica al liberalismo

Il nuovo saggio di Ostellino: l'arte di arrangiarsi in Italia sotto il giogo dello «Stato canaglia»
 

Un Paese paralizzato da un numero spropositato di leggi e regolamenti; soffocato da una cultura burocratica invasiva e ottusa; gestito da una pubblica amministrazione pletorica, costosa e inefficiente e, non di rado, corrotta; vessato da un sistema fiscale punitivo per chi paga le tasse e distratto nei confronti di chi non le paga; prigioniero di corporazioni e interessi clientelari; nelle mani, da Roma in giù, della criminalità organizzata. Un Paese in inarrestabile declino culturale, politico, economico, che non è ancora precipitato agli ultimi gradini tra i Paesi industrializzati dell'Occidente solo grazie allo spirito di iniziativa e alla proiezione internazionale della media e piccola imprenditoria. Questa è l'Italia oggi. C'è l'Italia degli italiani e c'è lo Stato italiano. Per intenderci: ci sono gli italiani, come singoli individui; c'è lo Stato italiano, come «soggetto collettivo». La definizione può sembrare paradossale e persino contraddittoria. E, in realtà, lo è. Chi ritiene che la fenomenologia sociale sia empiricamente descrivibile solo riconducendone le dinamiche agli individui ne sarà scandalizzato.

Per l'individualismo metodologico, i soggetti collettivi — le istituzioni, il mercato, il capitalismo eccetera — non hanno, infatti, vita propria, non pensano, non agiscono, bensì altro non sono che l'interazione, in una società aperta e liberale, fra individui che perseguono autonomamente il proprio ideale di vita e i propri interessi, producendo con ciò inconsapevolmente un beneficio collettivo. Il bene comune, l'utilità sociale, l'interesse generale eccetera sono, al contrario, una invenzione della politica. Rassicuro subito chi si sia scandalizzato. Ritengo anch'io che l'individualismo metodologico sia la sola metodologia della conoscenza corretta, in quanto, per dirla con Popper, empiricamente verificabile alla prova della realtà effettuale. La divisione dell'Italia in due — l'Italia (al plurale) dei singoli individui, ciascuno dei quali pensa e agisce sulla base delle proprie personali convinzioni; e l'Italia (al singolare), come soggetto collettivo, autoreferenziale, che li (mal)governa sulla base di principi e leggi che essa stessa si è data — è, dunque, solamente un artificio retorico. Gli italiani, anarcoidi e conservatori, privi di senso civico e di senso dello Stato, e perciò sudditi invece di cittadini; gli italiani che non si mettono in fila alla fermata dell'autobus, ma neppure si ribellano alla propria condizione di sudditanza; ingegnosi, flessibili, pragmatici, camaleontici sono l'Italia al plurale. Che «si arrangia », che se la cava.

Questi italiani sono il paradigma schizofrenico di ciò che la cultura liberale anglosassone chiama, con ben altra dignità storica e politica, «società civile» rispetto alla «società politica» dalla quale rivendica la propria autonomia. Che da noi l'ordinamento giuridico non garantisce e nessuno rivendica; tutti si prendono, quando possono. Sottobanco. La nazione, lo Stato, la collettività, giù, giù lungo i loro indotti pubblici — ieri, il (vergognoso) primato della razza; oggi, l'(indefinibile) utilità sociale, e tutte le altre sovrastrutture ideologiche che hanno segnato la storia del Paese — sono l'Italia soggetto collettivo. La camicia di forza che il potere politico del momento e la cultura dominante, l'ideologia come falsa coscienza — fascista e/o comunista, corporativa e/o collettivista, comunitaria e/o statalista che fosse, sempre e comunque antindividualista — hanno imposto agli italiani. Incolta, retorica, dogmatica, bigotta, burocratica, poco o punto flessibile, legalista e imbrogliona, questa Italia trasformista e gattopardesca — che cambia qualcosa per restare sempre la stessa — è una sorta di «8 settembre permanente». Istituzionalizzato.

Da un lato, ci sono la costante imposizione di un controllo pubblico, illegittimo e contraddittorio, sulle libertà dei singoli, e l'ambigua pretesa che sia rispettato; dall'altro, c'è la tacita esenzione da ogni vincolo d'obbedienza sottintesa nella frase liberatoria «tutti a casa» che l'8 settembre 1943 percorse la linea di comando delle nostre Forze armate, abbandonate a se stesse dopo l'armistizio. È di questa Italia incasinata e un po' cialtrona, intimamente illiberale, che parlo. Non per fare l'elogio degli italiani come singoli individui ma per spiegare l'incapacità del Paese di entrare nella modernità e di stare, culturalmente, politicamente, economicamente, al passo con gli altri Paesi di democrazia liberale dell'Occidente capitalista. Non è l'elogio dell'antipolitica, oggi tanto di moda. Anzi. Ci mancherebbe, soprattutto da parte di un liberale. È, piuttosto, la denuncia dell'invasività della sfera pubblica nella sfera privata. La descrizione di come la nostra politica non sia più, e da tempo, ammesso lo sia mai stata, al servizio dei cittadini, ma li abbia posti al proprio servizio. Dello «Stato canaglia». L'eccessiva estensione della sfera pubblica — che la cultura statalista e dirigista tende a spacciare come veicolo di equità sociale — è, infatti, più accrescimento del potere degli uomini a essa preposti sulle libertà e sulle risorse dell'individuo, che criterio di governo. La leva fiscale, per alimentare una spesa pubblica riserva di caccia di interessi estranei a quelli generali, ne è lo strumento, anche se non il solo, di oppressione.

Non occorre essere marxisti per sapere che lo Stato non è neutrale, ma è il braccio armato degli interessi di chi ne detiene il controllo, se non è controbilanciato da principi e interessi alternativi, fra loro in competizione. È sufficiente essere liberali. Del resto, in questo continuo confronto fra differenti concezioni del mondo, senza che nessuna abbia la pretesa di essere la Verità e di imporla agli altri, è dalla pluralità di interessi in conflitto — mitigato solo da regole del gioco che non consentano a nessuno di impedirne la libera manifestazione e la corretta realizzazione — che si sostanzia la società aperta. Il liberalismo non è una dottrina chiusa — che dice agli individui quale è il loro interesse e ne prescrive i comportamenti — ma la dottrina dei limiti del potere e della società aperta, all'interno della quale ciascuno si presume sappia quale è il proprio interesse e, di conseguenza, lo persegue in autonomia. Il guaio è che di liberalismo, nella vita pubblica degli italiani, non c'è traccia. E ci vorranno, forse, generazioni perché vi si affacci.

Piero Ostellino

04 marzo 2009(ultima modifica: 18 marzo 2009)
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 26, 2009, 03:58:00 pm »

IL «MANIFESTO DEI VALORI» DEL PD

Un tuffo nel passato


di Piero Ostellino


La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell'economia di mercato.

Il Pd, «un partito aperto », «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze » che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell'individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente » benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili.

Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale ». È l'anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale » il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l'Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l'aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe » cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite.

«L'individuo, lasciato al suo isolamento— dice a questo punto il Manifesto del Pd— non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall'intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell'etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c'è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata.

11 gennaio 2008
da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Aprile 22, 2009, 12:49:20 pm »

NOI E LA CINA
Con gli occhi a Pechino


di Piero Ostellino


Negli anni Ses­santa del secolo scorso, poco più di quaranta anni fa, la Cina di Mao e Lin-Piao — che si propo­neva come centro propul­sore della rivoluzione co­munista mondiale — era ancora un problema poli­tico e militare per le de­mocrazie liberali, un anta­gonista ideologico per il capitalismo, un esempio per il Terzo Mondo. Oggi è un partner internaziona­le affidabile per il mondo libero, la prima potenza esportatrice con un avan­zo commerciale di oltre 300 miliardi di dollari l’anno, un concorrente per i Paesi industrializza­ti, un'opportunità per quelli emergenti.

A produrre il miracolo sono state — per dirla con la Banca Mondiale— «la libertà e capacità dei singoli nonché delle aziende di intraprendere transazioni economiche volontarie con gli abitanti di altri Paesi». In una pa­rola: il mercato. La Cina è diventata quella che è per­ché ha messo la sua stori­ca burocrazia al servizio di uno sviluppo capitali­stico accelerato. Nel Sette­cento, il suo Pil era pari al 22,3 per cento di quello mondiale; oggi, la Cina è la quarta economia del mondo e un terzo della sua popolazione, di un miliardo e 300 milioni, è uscita dalla povertà. Nell' Ottocento, le sue città era­no state divise in «conces­sioni », controllate dalle grandi potenze colonizza­trici; oggi, neppure Hong Kong è più una colonia britannica. Per quasi tut­to il Novecento, le popola­zioni urbane cinesi erano vissute in piccole abitazio­ni uni-familiari, col gabi­netto in comune, di quar­tiere; oggi, vivono in ap­partamenti dotati di servi­zi igienici e in edifici che in qualche caso somiglia­no ai grattacieli di Chica­go.

La globalizzazione non solo è la manifestazione più larga della forza del­l’economia ma risponde anche a un’esigenza di li­bertà dell'animo umano. Ora, però, essa pone i sog­getti economici dei Paesi ricchi di fronte a nuove sfide e a nuovi pericoli. Il lavoratore, sindacalmen­te protetto, entra in con­correnza con l'idraulico polacco, che pratica prez­zi più bassi; il finanziere deve confrontarsi con l'in­vestitore privato lontano, che gode di condizioni di finanziamento più favore­voli fissate da una Banca centrale magari non indi­pendente dal potere poli­tico; il produttore ha il problema di come con­quistare un consumatore i cui gusti sono profonda­mente diversi dai suoi; l'imprenditore gareggia con un suo omologo (ci­nese, indiano, brasiliano) per il quale il costo del la­voro è decisamente infe­riore.

Ma con questa Cina non siamo obbligati solo a fare i conti, dobbiamo anche tifare perché la cri­si non comprometta il processo di modernizza­zione avviato negli anni scorsi. Così annotiamo con soddisfazione che il governo di Pechino ha va­rato il più ampio pacchet­to di rilancio dell’econo­mia, pari al 12% del suo Pil. Siamo portati a sotto­lineare come al recente G20 di Londra abbia gio­cato un ruolo decisivo per il successo del sum­mit. E, infine, registriamo con un sospiro di sollievo la dichiarazione del pre­mier Wen Jiabao che ci fa sapere come «le cose stia­no andando meglio del previsto» e come l’obietti­vo di riprendere a cresce­re almeno all’8% del Pil l’anno sia a portata di ma­no. La Cina è vicinissima.

21 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:10:58 am »

LE DIVERSE ANIME DEL CENTRODESTRA

Il popolo dei litigiosi


Il Popolo della libertà rischia di diventare il «Popolo dei litigiosi », così come le divisioni fra post-comunisti e post-democristiani minacciano la sopravvivenza del Partito democratico? I distinguo «istituzionali» del presidente della Camera Gianfranco Fini — sul ruolo del Parlamento, sulle questioni etiche, sulla laicità dello Stato, rispetto alle esternazioni «populistiche », «neoconservatrici », «neoteologiche» di quello del Consiglio, Silvio Berlusconi—rivelano una frattura politica ovvero solo una diversità di ruoli?

Le durezze della Lega — in materia di immigrazione, ronde, medici e presidi di scuola da trasformare in «informatori » della polizia contro i clandestini, rispetto al timido garantismo di Forza Italia — sono una deriva razzista, ovvero solo l’espressione delle differenze di linguaggio fra un movimento etnico e uno nazionale? Le prese di distanza di Piero Fassino— sui respingimenti degli immigrati, rispetto all’integralismo antigovernativo del segretario del Pd, Dario Franceschini — sono una manifestazione di moderazione degli ex comunisti, a fronte del radicalismo cattolico, ovvero la prova dell’incomunicabilità tra le due componenti del Pd? Il quadro politico è in movimento.

Si tratta, però, di capire se sono scosse di assestamento, semplici tentativi di redistribuzione degli equilibri di potere all’interno dei due schieramenti, fisiologica ricerca di visibilità prima delle elezioni, ovvero le avvisaglie di una radicale ridefinizione, del sistema di alleanze sul quale si fondano sia la capacità della maggioranza di governare, sia la credibilità della minoranza di opposizione in Parlamento e nel Paese. Nel primo caso, si tratterebbe del tradizionale «teatrino della politica », fra l’indifferenza, se non il fastidio, della maggioranza degli italiani; nel secondo, si tratterebbe di una svolta culturale, del ripensamento delle proprie «concezioni del mondo» da parte delle molte anime che convivono all’interno dei due schieramenti. Personalmente, propendo per la prima ipotesi, quella della redistribuzione degli equilibri di potere.

Parlare di svolta culturale sarebbe chiedere troppo a questa classe politica. Perciò sono anche convinto che, comunque, i giornali avrebbero qualche difficoltà a spiegare la seconda, quella della svolta, prigionieri come sono di una concezione e di una prassi informativa incentrate più sui retroscena di Palazzo che sull’analisi politica, cui, per dirla tutta, credo non sia estranea la stessa disaffezione della gente per la cosa pubblica. Il contrasto di idee non è un pericolo, ma un’opportunità. A condizione, però, che la si sappia cogliere. Incominciando col demolire quei «saperi assoluti », figli dell’«abuso sistematico della Ragione », che sono le ideologie salvifiche; con una sana iniezione di empirismo (nell’analisi della realtà) e di forte pragmatismo (nella formulazione delle politiche).

Piero Ostellino
25 maggio 2009

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« Risposta #34 inserito:: Giugno 13, 2009, 09:19:10 am »

L’EUROPA E L’ASTENSIONISMO

Il messaggio del non voto


Una buona regola di sociologia politica sarebbe di guardare all'esito delle elezioni, anche, se non soprattutto, dal lato della società (la struttura), delle scelte degli elettori, invece che solo, come si tende a fare, da quello del potere (la sovrastruttura), dei rapporti di forza che ne scaturiscono. Forse, sia il mondo della politica, sia quello dell'informazione ne capirebbero meglio il senso anche per il futuro. L'astensionismo è in aumento. Non è momentaneo disinteresse, contingente disaffezione.
E' un partito. Che non rifiuta la Politica, ma fa politica nel solo modo che, ormai, è rimasto al popolo sovrano. E' in crisi la democrazia rappresentativa.

Una parte crescente del popolo ritiene che i suoi rappresentanti (i politici) lo abbiano spogliato della propria sovranità, che non si limitino a «esercitare» il potere di governare — che rimane formalmente del popolo — ma governino ignorandone la sovranità e le domande.

E' — non necessariamente un male — una nuova, e pacifica, forma di rivoluzione; che, però, potrebbe degenerare se la politica non ne tenesse conto. La stragrande maggioranza degli europei non ha ancora capito che cosa sia, e che cosa faccia, l'Europa; gode volentieri, come un fatto acquisito, dei benefici che essa offre — caduta delle frontiere fra un Paese e l'altro, moneta unica che facilita gli scambi e la libertà di movimento, stabilità finanziaria — e soffre, contemporaneamente, di tutto ciò che essa percepisce come un «sistematico abuso della Ragione », quello stesso abuso che ha generato i mostri del XX secolo: vocazione tecnocratica, pianificatoria, dirigista. La cui metafora è la barretta di cioccolato, con la quantità standard di cacao per tutta Europa decisa a Bruxelles. Non sa se l'Europa convenga o no; se sia al servizio della gente o se la gente sia al suo servizio. Nessuno lo dice; non perché sia difficile dirlo, bensì perché — questo pensano molti europei — prevale la retorica di maniera sulle «dure repliche della storia» (le sconfitte di un processo realmente federalista), sul senso comune (la realtà come è, non come si vorrebbe che fosse) e, forse, perché neppure conviene prendere atto che l'«Europa dei popoli» non è nata e, al suo posto, c'è un compromesso fra quella dei governi e l'eurocrazia di Bruxelles.

Tutto ciò che vale, in negativo, per l'Europa vale per le situazioni nazionali. Con le sole eccezioni della Grecia e della Slovenia, i partiti socialisti o genericamente collettivisti, statalisti, dirigisti, keynesiani, escono sconfitti dalle elezioni. Eppure, classe politica, intellettuali, media, avevano attribuito al mercato la crisi economica fino al giorno prima, e invocato più Stato; che, poi, nella percezione della gente, che già ne soffre gli eccessi, vorrebbe dire più spesa pubblica, più sprechi, più parassitismo, più privilegi per la classe politica, più tasse. Il popolo si è rivelato più saggio dei suoi governanti. «E' la democrazia, bellezza », direbbe Humphrey Bogart.

di PIERO OSTELLINO
13 giugno 2009
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« Risposta #35 inserito:: Giugno 29, 2009, 06:28:29 pm »

VIVERE DI PASSATO (E POCO DI FUTURO)

Quel difetto di modernità


Nessuno sa quan­do e come uscire­mo dalla crisi. La ragione è che il mondo non procede verso un obiettivo razionalmente prevedibile, ma grazie a mi­lioni di uomini che perse­guono autonomamente i propri interessi non coordi­nati da una sorta di raziona­lità storica. È perciò che gli economisti paiono capaci solo di «predire il passato» e qualsiasi intervento della politica, che non si limiti a fissare le regole del gioco, rischierebbe di produrre al­tri danni invece di benefici. Per uscirne, e ripartire, l’Ita­lia dovrebbe, piuttosto, ri­flettere sui propri ritardi e realizzare quelle riforme che l’aiutino davvero a mo­dernizzarsi, come ha scrit­to ieri Mario Monti.

Non c’è settore — sia del­lo Stato, sia del sistema pro­duttivo, a parte certe picco­le nicchie industriali — che non registri forti ritardi nell’innovazione. L’Italia della cultura, della politica, dell’economia ha fatto la sua rivoluzione industriale prima di essere una società civile strutturata. Rispetto alla gentry dell’Inghilterra agraria, diventata borghe­sia cittadina con la rivolu­zione industriale e mercan­tile, e cosmopolita col colo­nialismo trionfante cantato da Kipling, l’Italia ha avuto i latifondisti reazionari rac­contati da Verga, un capita­lismo assistito, un naziona­lismo tardo e straccione. Ri­spetto alla grande borghe­sia francese post rivoluzio­naria — che, con l’Ecole po­litecnique e l’Ena, ha gene­rato i commis di Stato re­pubblicani e democratici — la società italiana ha espresso una piccola bor­ghesia post unitaria priva di coscienza di classe che ha rifiutato la modernità e, con essa, il capitalismo e la libera concorrenza, rifu­giandosi nel corporativi­smo e nell’autarchia del fa­scismo, ieri; nell’assisten­zialismo, nel protezioni­smo parassitario e nella bu­rocrazia del pubblico impie­go, poi.

Ci siamo affacciati alla contemporaneità senza aver letto un libro — qual­cosa di simile alla letteratu­ra liberale inglese e france­se sulla quale si sono forma­te le borghesie di quei Pae­si — ma solo attraverso la televisione; che ci ha intro­dotti alla modernità «ame­ricana » senza aiutarci a en­trare in quella «europea». La nostra etica pubblica è bigotta, moralista, pauperi­sta; scimmiotta il puritane­simo anglosassone senza averne i fondamenti stori­ci, sociali, religiosi, che ne legittimano politica e capi­talismo. La nostra idea di democrazia — come si è vi­sto negli ultimi tempi — coincide con lo scandali­smo fine a se stesso, con il ribellismo alle regole, con il rivoluzionarismo velleita­rio che una minoranza esprime spaccando le vetri­ne e vorrebbe concretare in rivoluzione col benestare dei carabinieri.

Nella sinistra riformista c’è chi ha elogiato la tassa­zione, per perpetuare l’ec­cesso di spesa pubblica e gli sprechi dello «Stato ca­naglia », non accorgendosi che i lavoratori, ora, votano a destra, dove i tributi non li si riduce, ma almeno non li si esalta. Il terrorismo di matrice rivoluzionaria ha ammazzato i riformisti che volevano fare dell’Italia un Paese liberale, democrati­co, giusto, e non se l’è pre­sa con i conservatori che sullo statu quo ci campava­no.

postellino@corriere.it


Piero Ostellino
29 giugno 2009
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« Risposta #36 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:29:47 pm »

DI PIETRO E L’APPELLO SUI GIORNALI STRANIERI

Una strana idea di democrazia


Se non è un tentati­vo di indurre Paesi terzi a interferire nella nostra politi­ca interna, è una manife­stazione di sfiducia nelle istituzioni repubblicane alle quali, come parla­mentare, ha giurato fedel­tà. Non ci sono altre paro­le per definire l’«appello» di Di Pietro alla «Comuni­tà internazionale» — pub­blicato a pagamento sul­l’Herald Tribune — affin­ché eserciti «la necessa­ria pressione per assicura­re che i principi della li­bertà democratica e di in­dipendenza della Corte costituzionale siano soste­nuti al fine di impedire che la democrazia in Ita­lia si trasformi in una dit­tatura di fatto». L’oggetto della surreale iniziativa è il disegno di legge governativo detto lodo Alfano, oggi legge, che, come ogni altra leg­ge della Repubblica, dove­va essere votata dal Parla­mento; controfirmata dal presidente della Repub­blica, che, prima di pro­mulgarla, se vi ravvisava un vizio di forma, poteva «con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione» (ar­ticolo 74 della Costituzio­ne); infine, in quanto con­troversa, deve, ora, essere sottoposta al giudizio del­la Corte costituzionale che ne può dichiarare «l’illegittimità costituzio­nale », facendola decade­re «dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (articoli 134 e 136).

Il percorso della legge Alfano è, comunque, un esempio di democrazia costituzionale ancora più prescrittiva di quella di al­tri Paesi non meno demo­cratici: divisione, separa­zione, indipendenza dei poteri esecutivo, legislati­vo, giudiziario (incarnato dalla Corte costituziona­le), cui la nostra Costitu­zione aggiunge le prero­gative del presidente del­la Repubblica. Già appro­vata dal Parlamento e con­trofirmata dal presiden­te, sarà giudicata, il 6 otto­bre, dalla Corte costituzio­nale. Che, poi, come scri­ve Di Pietro nel suo appel­lo, «secondo il pronuncia­mento di oltre 100 costitu­zionalisti, la legge Alfano sia stata definita incostitu­zionale perché viola l’arti­colo 3 della Costituzione italiana secondo il quale 'tutti i cittadini sono uguali davanti alla leg­ge' », è un’opinione legit­tima quanto quella con­traria, rientra nel fisiologi­co dibattito politico de­mocratico, ma non fa, evi­dentemente, testo.

Antonio Di Pietro, co­me laureato in legge, ex magistrato, parlamenta­re, tutto ciò lo dovrebbe sapere. Se con l’«appello alla comunità internazio­nale » egli mostra di igno­rarlo, vuol dire non solo che non sa che cosa sia la democrazia liberale, non solo che non crede che l’Italia lo sia, ma che ha un'idea della democrazia alquanto inquietante. Qui, la situazione giudi­ziaria di Silvio Berlusconi non c’entra. Siamo di fronte a un parlamentare che delegittima — oltre che una maggioranza di governo liberamente elet­ta, la qual cosa rimane an­cora nei limiti del con­fronto politico — anche il Parlamento, il presiden­te della Repubblica e du­bita persino della legitti­mità della Corte costitu­zionale, che potrebbe nei prossimi mesi respinge­re, senza scandalo, il lodo Alfano. Uno spirito, quel­lo di Di Pietro, autoritario che mal sopporta, oggi, di fare politica dentro il perimetro costituzionale, e che così facendo getta anche qualche ombra sul suo passato di magistra­to.


Piero Ostellino
10 luglio 2009

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« Risposta #37 inserito:: Luglio 21, 2009, 11:03:31 pm »

L’analisi Meglio aprire al mercato

Dalle proteste si passi a idee per innovare


La logica che presiede al sostegno pubblico al mondo dello spettacolo è quella dello «Stato paternalista». Facilitare la produzione di circenses, finanziandone i produttori, ma riducendoli a mendicanti della carità politica. Sia il centrosinistra, collettivista e dirigista, sia il centrodestra, apparentemente liberale, vi individuano una fonte di consenso. Entrambi corporativi, sono entrambi statalisti e dirigisti. In nome di una malintesa socialità, il centrosinistra non vuole che le cose cambino; in omaggio alle ragioni di bilancio, il centrodestra si limita a variare, di volta in volta, l’entità del sostegno. Ad ogni misura che metta in discussione lo statu quo, anche il rivendicazionismo del mondo dello spettacolo è corporativo.

Il difetto sta nel guardare al settore solo come produttore culturale, il che ne giustificherebbe l’abbandono alla libera competizione fra protagonisti, mentre è il volano di una parte, non piccola, dell’economia nazionale—da quella produttrice di beni e di servizi a quella del tempo libero e turismo— che attorno ad esso ruota. I 250 mila lavoratori (artisti, autori, tecnici, truccatori, agenti, amministratori) e le 6 mila imprese — peraltro divisi, gli uni e le altre, in una miriade di organismi di rappresentanza, secondo prassi corporativa — sono, in sé, meritevoli di rispetto e attenzione. Ma a creare ricchezza e occupazione sono (anche e soprattutto) i costruttori di impianti audio, video, luci; le società di produzione e di noleggio delle attrezzature e dei costumi, di trasporto, di facchinaggio, di pulizia; gli allestitori di spazi all’aperto, la ristorazione legata agli eventi (un esempio per tutti: gli spettacoli all’Arena di Verona e in altre città) e via elencando.

In una lettera al presidente della Repubblica e in un documento pubblicato dal Corriere della sera, Andrèe Shammah, Marco Lucchesi e Vincenzo Monaci— dopo le rituali proteste per gli «inaccettabili tagli» governativi — sono arrivati al cuore del problema, proponendo soluzioni innovative. Estensione dello Statuto delle Piccole e Medie Imprese a quelle dello spettacolo; accesso al credito agevolato; agevolazioni per lo sviluppo, attraverso la defiscalizzazione e la detrazione per chi investe; creazione di strumenti a difesa dell’occupazione e di ammortizzatori sociali; applicazione della sentenza dell’Antitrust contro «l’illecito comportamento della amministrazioni pubbliche locali» che realizzano «direttamente il prodotto culturale anziché sostenerne la fruibilità sul territorio». Tali misure — scrivono ancora i tre rappresentanti dell’Antes (Associazione Nazionale Teatro e Spettacolo)— non dovrebbero sostituire «integralmente» il contributo in conto capitale (soprattutto) per quelle imprese «che producono e sperimentano in settori ad alto rischio economico». Ma quel (non sostituire) «integralmente» — che suona come (sostituire) «parzialmente»— apre le porte del mondo dello spettacolo al negoziato, al mercato, alla sua modernizzazione. Ministro Bondi, vogliamo rifletterci?

Piero Ostellino
21 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #38 inserito:: Agosto 21, 2009, 11:18:52 am »

IL GOVERNO E L’AUTUNNO DIFFICILE

La solitudine dei «piccoli»


Riferisce Il Sole 24 ore di ieri che i protagonisti «vitali » del nostro capitalismo sono finanziariamente sotto pressione a causa delle inadempienze nelle spettanze (i soldi) da incassare. Sono uno spaccato della maggioranza degli italiani. Che comprende i piccoli e medi imprenditori, ora nei guai, fuori dal circuito delle complicità pubbliche e private; commercianti al dettaglio; professionisti isolati; lavoratori del settore privato; precari; giovani. Se la cavano come possono — contro gli eccessi di regolamentazione, la burocrazia, i privilegi politici, l’eccessiva pressione fiscale, la carenza di infrastrutture, la filiera di complicità — affrontando le incognite e le durezze della vita, e del mercato, con coraggio e spirito innovativo. Sono la risorsa che fa dell’Italia ancora una società «aperta» e competitiva

Salvo rare, e lodevoli, eccezioni, c’è, poi, la minoranza degli italiani: ciò che rimane della grande industria, pubblica e privata, barricata e protetta dietro la propria non contendibilità; il sistema creditizio che, di fronte alla crisi, se l’è cavata bene, molto per merito proprio, un po’ perché anch’esso protetto da una rete di interessi politici; i professionisti e i manager, inquadrati negli Ordini professionali; gli alti commis di Stato; i dipendenti pubblici, tutelati da un sindacalismo chiuso e miope; gli amministratori degli Enti locali attraverso i quali passa, ora, gran parte della corruzione. Nessuno di loro opera sul mercato. Sono le oligarchie che costituiscono la classe dirigente e i cui comportamenti sono ispirati al principio di conservazione. Fanno dell’Italia una sorta di «società pre-capitalistica ».

Gli italiani della prima categoria sono anche la base sociale e il serbatoio elettorale del centrodestra. Ad essi Berlusconi aveva promesso la «rivoluzione liberale». Niente assistenzialismo, ma una radicale semplificazione legislativa che disboscasse la selva di leggi, regolamenti, licenze, divieti, che ne ostacolano la libertà d’azione; una forte riduzione fiscale, che lasciasse loro più risorse da destinare, oltre ai consumi, non solo alle proprie attività imprenditoriali — grazie alle privatizzazioni e alla deregolamentazione — ma anche alla produzione di beni collettivi, nella sanità, nella scuola, nei servizi, che ora, in prevalenza, lo Stato fornisce con grandi sprechi.

Sarebbe bastato questo per far lievitare il Paese: ancora ieri la leader di Confindustria Emma Marcegaglia e il presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo hanno previsto un «autunno difficile» in mancanza di «misure indispensabili ». Ma la «rivoluzione liberale» Berlusconi non l’ha fatta. Perché, ieri, frenato dai suoi alleati (Udc e An) e per carenza culturale sua propria; perché ha continuato a strizzare l’occhio anche agli italiani della seconda categoria che, contrari a ogni cambiamento, votano in prevalenza a sinistra; per circostanze oggettive di fatto. Così il governo—col Paese privo delle condizioni normative che, almeno in parte, li avrebbero potuti scongiurare—fa ora i conti con gli effetti della crisi sul suo stesso elettorato. E quanto di bene ha fatto finora sembra non bastare più. Forse è tardi per rimediare, ma a Palazzo Chigi e dintorni farebbero ugualmente bene a rifletterci e, passata la nottata, a provvedere.

Piero Ostellino
21 agosto 2009
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« Risposta #39 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:23:21 am »

TROPPE TASSE SULLA PREVIDENZA

I pensionati e i loro diritti


La pensione è una forma di salario differito o, se si preferisce, di ri­sparmio forzoso, accumu­lato negli anni di attività. Poiché la pensione è red­dito che il lavoratore non ha risparmiato volontaria­mente, ma d’autorità, ec­co, allora, che lo Stato fi­nisce con l’esercitare su di lui una doppia violen­za: una sociale, l’altra fi­scale.
La prima, quando lo costringe a risparmia­re una porzione del pro­prio reddito che, se ne avesse la disponibilità, potrebbe impiegare co­me meglio crede. La se­conda, quando tassa la pensione, cioè quella stessa porzione di reddi­to che gli ha imposto di risparmiare. Giustizia vor­rebbe che, subita la vio­lenza sociale, il cittadino, almeno da pensionato, potesse disporre dei pro­pri quattrini come vuole. Invece non è così.

Lo Stato che obbliga il lavoratore a risparmiare è detto «paternalista» perché presume di sape­re quale è il Bene dei citta­dini meglio di quanto non sappiano essi stessi.
In realtà, ne tratta solo al­cuni — i lavoratori dipen­denti cui preleva alla fon­te la parte di reddito per la pensione — da bambi­ni irresponsabili, nella convinzione che, lasciati liberi di decidere, non ri­sparmierebbero, riducen­dosi, in vecchiaia, all’indi­genza; mentre ne tratta al­tri — i lavoratori autono­mi sul reddito dei quali non è in grado di esercita­re lo stesso prelievo — co­me adulti, capaci di deci­dere liberamente e di provvedere responsabil­mente al proprio futuro. Naturalmente, lo «Stato paternalista» non vuole affatto il Bene dei suoi fi­gli; non è un Ente morale neutrale — altrimenti non si capirebbe perché persegua il Bene solo di alcuni e ne abbandoni al­tri — ma ubbidisce al so­lo principio che conosce chi ne ha il controllo, qua­le ne sia il colore: dispor­re, a propria discrezione, della maggiore quantità di risorse, prendendole dove può.

Lo Stato che, oltre a prelevare forzosamente la parte di reddito a fini pensionistici, tassa an­che la pensione, è detto «sociale». Esso giustifica sia il prelievo forzoso di una parte del reddito da lavoro, sia la tassazione della pensione per ragio­ni di «solidarietà». Il pre­lievo, per pagare le pen­sioni degli anziani — i cui «accantonamenti» non basterebbero — con i soldi di chi lavora; la tas­sa, per integrare la pen­sione di molti pensionati indigenti, fornendo loro beni e servizi che non sa­rebbero in grado di pagar­si. Ma neppure lo «Stato sociale» è un Ente mora­le neutrale. Esso impone il dovere della «solidarie­tà » ad alcuni e non ad al­tri, quando, per fini pen­sionistici, si appropria so­lo della parte di reddito dei lavoratori dipenden­ti; tradisce un elementa­re principio di «equità so­ciale », applicando alle pensioni le stesse aliquo­te dei redditi da lavoro. Esso ubbidisce alla stessa logica di cui si è detto.

Forse, lasciando ai cit­tadini di disporre mag­giormente del proprio reddito, si uscirebbe più rapidamente, e meglio, anche dalla crisi. Ma, allo­ra, perché questo gover­no — che pur si dice libe­rale — non incomincia col detassare almeno le pensioni, in attesa di ri­durre la pressione fiscale su lavoratori e imprese ai livelli promessi, e mai raggiunti?

Piero Ostellino
12 settembre 2009
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« Risposta #40 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:06:15 am »

LO STATO, IL FISCO, I CITTADINI

L'imprenditore di Pordenone


Tommaso Pa­doa- Schioppa propone di cele­brare il 150mo an­niversario dell’Unità d’Ita­lia chiedendosi quale sia «lo stato dello Stato» («Si parli di Stato non di Na­zione », Corriere di dome­nica scorsa). Accolgo vo­lentieri l’invito. Questo è un esempio di «stato del­lo Stato» alla vigilia della discussione parlamenta­re sulla «Finanziaria sen­za tasse e tagli».

Dal 1˚gennaio di que­st’anno, un imprenditore di Pordenone, Giorgio Fi­denato, versa ai propri di­pendenti lo stipendio «lordo» senza le trattenu­te di legge (contributi Inps, Irpef ordinaria, addi­zionale regionale, addizio­nale comunale), avendo opportunamente avvisato l’Agenzia preposta — che insiste nel chiedergli di adempiere ai suoi obbli­ghi — del rifiuto di eserci­tare la funzione di «sosti­tuto di imposta». A fonda­mento della propria scel­ta cita in giudizio l’Inps, la Società di cartolarizza­zione dei crediti Inps, Equitalia Friuli Venezia Giulia, adducendo ragio­ni di economicità, di dirit­to, di giustizia e equità so­ciale.

Il quadro normativo in materia risale a una legge fascista del 1935 istitutiva dell’Ente previdenziale: «La parte di contributi a carico dell’assicurato è trattenuta dal datore di la­voro sulla retribuzione corrisposta (...) L’impren­ditore e il prestatore di la­voro contribuiscono in parti uguali alle istituzio­ni di previdenza e assi­stenza »; una legge della Repubblica del 1952 ripro­pone la distinzione fra i contributi a carico del la­voratore e del datore di la­voro. Su uno stipendio lordo complessivo di 2.449,06 euro, la parte «salariale» di contributi ammonta a 182,51 euro, quella «padronale» (che non appare neppure in busta paga) è di 463,34 euro; lo stipendio netto percepito — detratte an­che le imposte — è di 1.465 euro. Scrive Pascal Salin, un economista libe­rale francese: «La parte padronale dei contributi sociali non è, dunque, un carico sopportato dalle imprese, essa è soltanto la parte del salario che il datore di lavoro non ha il diritto di versare diretta­mente al lavoratore (...) In questo senso la parte padronale è un’imposta sul salario pagata dal di­pendente e di cui l’im­prenditore è solo un esat­tore ».

La totale ignoranza nel­la quale è tenuto il lavora­tore circa le somme versa­te all’Inps violerebbe gli art. 2 e 3 comma 3 della Costituzione, ostacolan­do il pieno sviluppo della personalità umana; l’art.3 comma 1, che sancisce il principio dell’eguaglian­za. Il lavoratore autono­mo dichiara personal­mente i propri redditi e ha pieno diritto di difen­dersi contro gli accerta­menti del fisco (art. 24 e 113 della Costituzione); il lavoratore dipendente non ha gli stessi diritti. La pretesa dello Stato di tra­sformare l’imprenditore in esattore violerebbe sia l’art. 23 — «Nessuna pre­stazione personale o patri­moniale può essere impo­sta se non in base alla leg­ge » nell’interpretazione che ne dà la stessa Corte costituzionale «a tutela della libertà e della pro­prietà individuale» — sia l’art. 41 della Costituzione («L'iniziativa economica privata è libera»). Scrive ancora Salin: «In tutte le imprese, degli uomini de­vono dedicare il proprio tempo a soddisfare le pre­tese del fisco (...). Una pic­cola ditta ha più difficoltà di una grande a far specia­lizzare alcuni dipendenti del proprio organico».

Tre lavoratori che ora perce­piscono lo stipendio lordo — dopo non aver neppure ricevu­to risposta su come adempiere ai propri obblighi tributari e previdenziali — hanno indiriz­zato all’Agenzia delle entrate un libretto al portatore con le somme dovute; l’Agenzia lo ha respinto in quanto «tale mezzo di pagamento non è ammesso dalla normativa vigente». Ma il rifiuto sarebbe in contrasto sia con l’orientamento della Corte di Cassazione che l’obbli­gato principale è il soggetto «sostituito» (il percettore del reddito), non il «sostituto di imposta» (il datore di lavoro), sia con l’art. 1180 comma 1 Co­dice civile sulla efficacia estinti­va del pagamento effettuato da un terzo (che in questo caso è addirittura il beneficiario della prestazione previdenziale). Ha scritto lo stesso ministro del­l’Economia, Giulio Tremonti: «La contabilità fiscale è dun­que diventata la forma moder­na, ma non per questo meno odiosa, delle antiche corvées. Tra il sistema attuale delle com­pliances sociali e quello antico fatto dalle corvées e dalle ga­bellari servitù medievali, le analogie sono impressionanti, così come gli effetti paralizzan­ti » («Lo Stato criminogeno», ed. Laterza).

A questo punto — se non vo­gliono apparire complici dello «Stato criminogeno» — sareb­be utile che la Confindustria e le altre associazioni di catego­ria, i sindacati, la sinistra, il go­verno, gli intellettuali, dicesse­ro che ne pensano di questo «stato dello Stato», di «questo imbroglio, nelle parole del libe­rale Salin che condivido, trami­te il quale gli uomini di gover­no sono riusciti a imporre il concetto bismarckiano di sicu­rezza sociale». È chiedere trop­po?

Piero Ostellino

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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 15, 2009, 09:53:24 am »

LE TASSE E I VIZI ANTICHI DI UN PAESE

Chi ostacola i ceti produttivi


Ciò che auspica il presidente di Confindustria, Emma Marcega­glia — abbassare le tasse sul lavoro — mi sarebbe piaciuto constatarlo nelle politiche dei governi che si sono succeduti a Palaz­zo Chigi negli ultimi anni. Ma non è avvenuto (an­che se certamente si deve tener conto delle difficol­tà in cui versano le casse dello Stato), quale ne fos­se il colore. Anzi. C'è — come ha scritto il liberale Angelo Panebianco sul Corriere di domenica ma avrebbe potuto scrivere Karl Marx — un deficit di rappresentanza del ceto medio produttivo. Che il centrosinistra non s'è cu­rato di intercettare e nep­pure il centrodestra è riu­scito a colmare. Riguarda anche la Confindustria, ac­cusata spesso di essere la rappresentante della gran­de industria, non delle aziende medie e piccole che sono il vero tessuto in­dustriale del Paese.

Ma, allora, chi impedi­sce alla politica di rappre­sentare in modo corretto la parte del Paese sociolo­gicamente maggioritaria e produttivamente più at­tiva e di tutelarne, con gli interessi, le libertà e i di­ritti? Berlusconi — per giustificare i propri ritar­di — se la cava mettendo dentro un calderone «di sinistra», oltre al Pd, la Corte costituzionale, la magistratura, il presiden­te della Repubblica, i gior­nali, le Tv (persino le sue), gli intellettuali. E' un artificio che può servire al­la polemica politica, a mo­bilitare gli elettori della propria parte, ma che non aiuta a capire. Dovrebbe­ro chiederselo partiti e uo­mini politici, la società ci­vile.

Qui, però, le cose si complicano e parlarne di­venta urticante per parec­chia gente. Ci sono inte­ressi economici (indu­­striali), sociali (le corpora­zioni, i sindacati, la buro­crazia pubblica) e istitu­zionali (parte della magi­stratura) che si allarmano a ogni prospettiva di cam­biamento. Estranei al plu­ralismo e alla libera con­correnza della democra­zia liberale, gli interessi economici e sociali; espressione di una conce­zione di casta, quelli istitu­zionali, sono, assieme, il blocco sociale legittimato da un'intellighenzia di tra­dizione culturale neo-gia­cobina e azionista.

Ma non occorre scomo­dare il pensiero di chi a ta­le tradizione ha fatto le pulci per dire che si tratta di un vero e proprio «ritar­do » culturale. In che cosa consista, poi, tale ritardo è presto detto: nell'illusio­ne, già coltivata nell'im­mediato dopoguerra dal Partito d'Azione, e perse­guita ancor oggi dai suoi tardi eredi, di conciliare democrazia liberale e diri­gismo; nel pasticciato compromesso costituzio­nale fra le due opposte dottrine; nella pretesa ra­zionalistica di sapere qual è il Bene dei cittadini al punto di giustificare una fiscalità opprimente. Con uno di quei paradossi dell' Italia del Gattopardo, il ri­tardo si sostanzia, così, nel connubio fra il radica­lismo «giacobino» e la parte sociale più reaziona­ria del Paese; nell'egemo­nia del giacobinismo sul­la sinistra politica e nel so­stegno che questa dà a chi si oppone alla moderniz­zazione del Paese.

Se si guarda a tale ano­malia, anche e soprattut­to da una prospettiva di si­nistra, la conclusione è che hanno fatto, e conti­nuano a fare, più danni al­la stessa sinistra, e al Pae­se, gli azionisti, vecchi e nuovi — smentiti dalle «dure repliche del senso comune» — dei comuni­sti, sconfitti dalle «dure repliche della storia».

Piero Ostellino

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« Risposta #42 inserito:: Novembre 05, 2009, 10:19:22 am »

UN’AZIONE PIU’ LIBERALE DEL GOVERNO

Il cammino da riprendere


Se, nel 1994, Berlu­sconi non fosse entrato in politi­ca, la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto avrebbe vinto le elezioni. Non è un me­rito da poco.

Dovrebbe­ro riconoscerglielo an­che i postcomunisti. Che, se fossero andati al­lora al governo, non sa­rebbero approdati a un socialismo più democra­tico, anche se ancora pa­sticciato. E quando è fi­nito in minoranza si è sempre riproposto co­me alternativa modera­ta e liberale. È un meri­to che la maggioranza degli italiani gli ha rico­nosciuto riportandolo al governo. Qualcuno di­ce più per debolezza dei suoi avversari che per forza propria; qualcun altro, per dabbenaggine degli elettori. Ma in de­mocrazia — che piaccia o no — contano i voti.

Al governo, ha gestito bene le «emergenze», la spazzatura in Campa­nia, il terremoto in Abruzzo; in economia l’Italia ha retto meglio di altri Paesi la crisi fi­nanziaria; in politica estera — anche se spes­so ha ecceduto nell’attri­buirsi meriti di mediato­re mondiale che sareb­be stato difficile ricono­scergli — ha intessuto eccellenti rapporti con due Paesi vitali per gli approvvigionamenti energetici dell’Italia, la Russia di Putin e la Li­bia di Gheddafi, nonché con quelli del Mediterra­neo. Ha pagato, però, un prezzo, forse troppo alto, nel rapporto con Washington. È stato un «gestore di eventi» più che un uomo politico con una «certa idea del­l’Italia » da realizzare con forte determinazio­ne; pubblicamente libe­rale, gliene manca la personale convinzione.

Da ex uomo d’affari, ten­de a confondere il Consi­glio dei ministri col Con­siglio di amministrazio­ne di una società della quale è il presidente; a premiare chi gli è «fede­le » più di chi gli è (solo) «leale»; è insofferente di ogni ostacolo — com­preso il costituzionale equilibrio dei poteri — alla propria volontà, non per inclinazione al­la tirannia, ma per natu­rale vocazione monopo­l­istica.

Tre sono le riforme «promesse e non realiz­zate » che il Berlusconi li­berale dovrebbe impe­gnarsi ora a portare avanti per dare un profi­lo diverso alla legislatu­ra.

Quella fiscale (tre ali­quote: zero, 23 e 33 per cento) e un taglio pro­gressivo dell’Irap; quel­la della pubblica ammi­nistrazione (riduzione della spesa e semplifica­zione legislativa); quella giudiziaria (separazione fra pubblico ministero — interprete del mono­polio della legittima co­ercizione statuale — e il Giudice, garante dei di­ritti dell’Individuo). Fi­nora questo spirito rifor­matore e liberale si è vi­sto poco. Per molte ra­gioni e non solo per de­merito del governo. Hanno pesato i ritardi culturali del Paese; le re­sistenze corporative e le vischiosità istituzionali; la crisi economica. Né il centrosinistra, una volta al governo, ne sarebbe immune.

Ora, Berlusconi ha l’opportunità di rilancia­re l’azione liberale e ri­formista del suo gover­no. Se lo farà, darà ragio­ne a quegli elettori che, sognando il cambiamen­to, lo hanno scelto per­ché «anti-italiano» e non, come qualche vol­ta appare, «arci-italia­no ».


Piero Ostellino

05 novembre 2009
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« Risposta #43 inserito:: Novembre 26, 2009, 03:56:55 pm »

IMPRESE, BUROCRAZIA E SEMPLIFICAZIONE

Gli ostacoli alla crescita


Almeno per quel che ci riguarda, non è vero che la crisi economica sia la conseguenza di una mancanza di regole e della conseguente anarchia del mercato. E' vero il contrario. La cultura dirigista, che non si chiede mai «come» stanno le cose, ma preferisce immaginarle come vorrebbe che fossero, ha la stessa «lingua di legno» a tutte le latitudini. Ai tempi della Grande menzogna sovietica — stravolgendo persino Marx — chiamava «dittatura del proletariato » la dittatura del Partito comunista; ora, anche negli Stati Uniti, la stessa cultura giustifica l'interventismo pubblico in economia— che gonfia il disavanzo federale per salvare coloro i quali (too big to fail) sono i finanziatori delle campagne elettorali di ogni presidente di turno — accampando la salvaguardia dei posti di lavoro di quegli stessi cittadini che, con le loro tasse, pagano, oltre gli errori dello Stato (la Fed), il salvataggio di chi li ha derubati.

Il nostro ministro dell' Economia ci ha risparmiato un ulteriore saccheggio della finanza pubblica stringendo i cordoni della borsa. Questo perché le nostre banche hanno retto meglio alla crisi finanziaria; e lo Stato — malgrado l'elevata pressione fiscale — non può permettersi spese ulteriori. Ma restano i problemi, strutturali, che risalgono a prima della crisi, agli inizi degli anni Duemila: bassa crescita della produttività, poca internazionalizzazione. I costi che le aziende devono sostenere— di produzione, nelle reciproche transazioni e burocratici—sono elevati e non più compensati dal basso costo del lavoro (per la concorrenza dei Paesi emergenti) e dalle svalutazioni competitive (per i vincoli europei). «Adesso le imprese, quando vogliono collocare i loro prodotti sui mercati globali, possono contare solo sulla qualità di quello che offrono» (Federica Guidi, in «Dopo! Come ripartire dopo la crisi», Ibl- Libri, pagg. 196, 22 euro).

Ma le leggi sono troppe e spesso contraddittorie; cambiano in continuazione e producono incertezza del diritto; la risoluzione in via giudiziaria delle controversie è lenta. Presidente Berlusconi, lei da imprenditore, prima che da politico, queste cose le sa meglio di noi. Ha persino nominato un ministro affinché vi provveda. Sono indilazionabili, e non costano: 1) la semplificazione amministrativa che riduca il numero degli adempimenti burocratici (compreso il pagamento delle tasse, costano alla Piccola e media impresa 16,2 miliardi l'anno); 2) la semplificazione normativa, che riduca il numero di leggi dello Stato e di regolamenti degli Enti locali (facilitano la diffusione della corruzione); 3) l'incremento della produttività del sistema giudiziario civilistico (i tempi lunghi scoraggiano gli investimenti esteri). Ministri Calderoli e Alfano, se ci siete battete un colpo.

Il welfare è vecchio, costoso e inadeguato. «La proposta Ichino in materia di protezione sociale — scrive Piercamillo Falasca nello stesso volume dell’Ibl-Libri — appare una buona traduzione in versione italiana del modello danese: nelle imprese disposte a farsi carico per i propri dipendenti di una sicurezza nel mercato del lavoro a livello danese, si applicherebbe anche una disciplina dei licenziamenti di tipo danese». Tremonti dice inoltre che «le pensioni non si toccano». Per una volta, Presidente Berlusconi, lo contraddica. È urgente «una Maastricht previdenziale» (si va in pensione troppo presto rispetto alla media Ue e la spesa assorbe un eccesso di risorse rispetto ad altre prestazioni). Ci sono poi gli sprechi: nella Sanità, nella Pubblica amministrazione, nella Scuola, nella Giustizia, soprattutto al Sud, non si contano. Presidente Berlusconi, guardi al nostro Meridione non solo come una risorsa, ma anche come un problema.

Siamo, con la Francia, il Paese col più alto livello di pressione fiscale. «In Italia, le imprese devono sopportare una tassazione di circa 20 punti superiore a quella del Giappone, un differenziale di 27 punti percentuali rispetto all’Ue e di oltre 30 punti rispetto agli Usa» (Andrea Giuricin, «Complessità e onerosità del sistema fiscale», ibidem). «La tassazione rappresenta in sé un restringimento della libertà di mercato: più alto è il carico fiscale sulle imprese e sui cittadini in generale, più elevate saranno le barriere di ingresso, a discapito di potenziali concorrenti interni ed esteri... Una tassazione elevata disincentiva inoltre gli investimenti, frenando la spinta all’innovazione» (ibidem). Presidente Berlusconi, ricorda che ci aveva promesso tre aliquote, zero, 23, 33%? Il Paese ha bisogno di uno scatto.

Piero Ostellino

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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:25:47 am »

DIETRO LE DIVISIONI POLITICHE TRA I LEADER

La realtà offuscata


Dice il Papa: «Ogni giorno, at­traverso i giorna­li, la televisione, la radio, il male viene rac­contato, ripetuto, amplifica­to ». Ma se è la notizia che crea l’evento (non vicever­sa); se le percezioni preval­gono sui fatti; se gli stereo­tipi semplicistici e senti­mentalmente colorati su av­versari e alleati offuscano la vera natura dei rapporti, il mondo si polarizza e la politica si militarizza. Que­sta è l’Italia della «guerra ci­vile » fra centrodestra e cen­trosinistra, del «conflitto» fra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi nella maggio­ranza, della «distanza» fra Pier Luigi Bersani e Anto­nio Di Pietro nell’opposizio­ne.

Per sostenere che Fini ha «una certa idea della de­stra» opposta a quella di Berlusconi, sarebbe neces­sario accertare se quello che dice sia un pensiero or­ganico o non siano invece giudizi contingenti, per quanto fuori linea, su singo­li eventi. Per sostenere che Berlusconi ha «una certa idea della destra», diversa da Fini, sarebbe necessario accertare se ne abbia (alme­no) una. Forse, una «certa idea della destra» non l’hanno né l’uno né l’altro. Un discorso analogo si può fare per Bersani e Di Pietro e sull’idea che entrambi hanno sul ruolo dell’opposi­zione. E altrettanto si può dire della «guerra civile» fra centrodestra e centrosi­nistra, privi entrambi di «una certa idea dell’Italia», ma ugualmente bisognosi di legittimazione etico-poli­tica, non fosse che per con­trapposizione.

Che Fini sopporti male come Berlusconi governa il Pdl è un fatto. Lo vorrebbe una «monarchia costituzio­nale » mentre ha la sensa­zione, e non la nasconde, che sia una «monarchia as­soluta ». Come lui la pensa­no altri nel Pdl. Ma non lo dicono o lo dicono flebil­mente. Berlusconi, del re­sto, sembra avere una sin­golare difficoltà ad ascolta­re persino chi gli è vicino, figuriamoci gli avversari; dopo pochi istanti, attacca lui e all’interlocutore non resta spesso che «prendere o lasciare». Nel mondo del­le aziende, da cui viene il premier, può essere utile o addirittura necessario che «il titolare» abbia — con l’ultima parola — anche la prima. In politica, non sem­pre lo è. Che Bersani sop­porti male come Di Pietro interpreta il ruolo dell’op­posizione, è un altro fatto. Egli — che ha militato nel Pci, che aveva una ben defi­nita, ancorché discutibile, cultura politica, laddove Di Pietro non ne ha alcuna — vorrebbe che l’opposizione facesse politica, mentre il suo compagno di strada fa solo cagnara.

Ma in tutti questi esem­pi, ci troviamo, a ben vede­re, sul terreno della psica­nalisi. Se, invece, ci si ad­dentra su quello della politi­ca si scopre che le differen­ze sono minori. La percezio­ne che, dentro e fuori il Pdl, si accredita della fron­da di Fini offusca il fatto che egli appoggia ciò che più conta per Berlusconi: le iniziative parlamentari in materia di giustizia per met­terlo al riparo dei suoi pro­cessi. La percezione che, dentro e fuori il Pd, si ha di Bersani, rispetto a Di Pie­tro, offusca il fatto che Pd e Idv raccolgono ancora con­sensi sull’onda di Tangento­poli e che il Pd non manife­sta alcuna intenzione di ri­vedere il proprio pensiero su Mani pulite. Il severo giudizio del Pa­pa sui media insomma è giusto. Per conoscere il mondo, occorre chiedersi «come è», non come «ci immaginiamo che sia». E se incominciassimo pro­prio noi giornalisti?

postellino@corriere.it

Piero Ostellino

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