LA-U dell'OLIVO
Maggio 05, 2024, 02:30:20 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: JOSEPH S. NYE  (Letto 6988 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Novembre 19, 2009, 02:33:53 pm »

19/11/2009

Sud Corea potenza soft in ascesa
   
JOSEPH S. NYE*


All’incontro dell’Asean lo scorso mese in Thailandia quella della Corea del Sud è stata una presenza importante. Con discrezione ha saputo evolvere la sua immagine da Paese dirimpettaio della problematica Corea del Nord a importante interlocutore di medio calibro negli affari globali. Il segretario generale delle Nazioni Unite è un coreano; Seul ospiterà il prossimo summit del G20 e il Paese ha appena raggiunto un accordo di libero scambio con l’Unione Europea.

Non è sempre stato così. Se la geografia è un destino, la Corea del Sud ha pescato una mano sfortunata. Confinata in un’area dove tre giganti - Cina, Giappone e Russia - si confrontano, la Corea ha una storia difficile segnata dalla necessità di sviluppare un deterrente militare sufficiente a difendersi. Com’è noto all’inizio del ventesimo secolo questi sforzi sono falliti e la Corea è diventata una colonia del Giappone.

Dopo la Seconda guerra mondiale la penisola è stata divisa secondo le coordinate della bipolarità imposta dalla Guerra fredda e l’intervento degli Usa e dell’Onu si è reso necessario per evitare che la Corea del Sud finisse soggiogata nella guerra coreana.

Più di recente, malgrado i suoi impressionanti mezzi di dissuasione, la Corea del Sud ha constatato che un’alleanza con una potenza lontana come gli Stati Uniti continua a essere un’efficace assicurazione sulla vita con un vicinato così difficile.

In un saggio sulle nazioni del G20 pubblicato di recente dal quotidiano Chosun Ilbo, la Fondazione Hansun ha quotato la Corea del Sud al 13° posto al mondo in termini di potere nazionale.

La Corea del Sud è al nono posto mondiale in termini di potere militare ma piazzata assai peggio in termini di capacità di relazioni internazionali. Usando le parole del giornale: «Allo stato dell’arte le fabbriche, le armi tecnologiche, i sistemi avanzati di comunicazione e le infrastrutture sono le componenti chiave che un Paese deve possedere per essere competitivo a livello internazionale». Ma questi ingredienti della potenza militare per diventare veri motori della crescita e della prosperità devono essere supportati da sistemi diplomatici altamente sofisticati ed efficienti. In questo senso la Corea del Sud ha un potenziale impressionante. Talvolta i coreani paragonano il loro Paese di 50 milioni di abitanti a vicini come la Cina o a superpotenze come gli Usa, e pensano di non poter competere con simili giganti. Questo può essere vero in termini di capacità militari, ma non per la sfera di influenza.

Ci sono molte nazioni più piccole della Corea del Sud maestre in queste arti. L’ascendente politico di Paesi come il Canada, l’Olanda e gli Stati scandinavi è maggiore del loro peso economico e militare grazie all’inclusione di cause seducenti come l’aiuto economico o le missioni di pace nelle loro definizioni di interesse nazionale. Per esempio negli ultimi due decenni la Norvegia, che ha solo 5 milioni di abitanti, ha preso l’iniziativa dei colloqui di pace. Allo stesso modo il Canada e l’Olanda hanno migliorato la loro sfera di influenza non solo grazie alle loro politiche nelle Nazioni Unite, ma anche sviluppando l’assistenza in ambito internazionale. Questi mezzi sono accessibili anche alla Corea del Sud. In più, in termini di miglioramento dell’immagine, è un Paese che ha molto da dire. Nel 1960 era più o meno al livello di sviluppo economico del Ghana, una fra le nazioni più prospere tra quelle che avevano da poco raggiunto l’indipendenza in Africa. Adesso i due Paesi sono del tutto diversi. Entro i prossimi 50 anni la Corea del Sud diventerà l’undicesima economia mondiale con un reddito pro capite di oltre 15 mila dollari. È entrata nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ed è un importante membro del G20. È leader in settori come Internet e la tecnologia informatica e patria di marchi famosi in tutto il mondo. E, cosa ancora più importante, la Corea del Sud ha anche sviluppato un sistema politico democratico, con libere elezioni e cambi di governo pacifici. I diritti umani sono tutelati e così la libertà di parola.

I sudcoreani spesso si lamentano del disordine del loro sistema politico e il report della Fondazione Hansun colloca la Corea del Sud al 16° posto nel G20 per l’efficienza legislativa e al 17° per la stabilità e l’efficienza politica.

Secondo questo giudizio «i bassi standard non sorprendono considerati gli abituali e violenti scontri tra i partiti al governo e quelli all’opposizione in merito a leggi su materie sensibili e agli infiniti scandali per storie di corruzione che coinvolgono uomini politici». Tuttavia, anche se certamente un miglioramento in questi campi è auspicabile per aumentare le chance sudcoreane, il semplice fatto di avere una società aperta capace di produrre e discutere questo genere di critiche rende il Paese credibile.

Infine, c’è la forza della cultura sudcoreana. Le tradizioni dell’arte, dell’artigianato e della gastronomia coreani sono note nel mondo. Anche la cultura popolare nazionale ha oltrepassato le frontiere soprattutto fra i giovani dei vicini Paesi asiatici, mentre il significativo successo della diaspora coreana negli Usa rappresenta un ulteriore motivo di attrazione per il suo luogo di origine. E gli ultimi Anni 90 hanno visto nascere Hallyu, la Korean wave, ovvero la crescente popolarità di tutto ciò che è coreano, dalla moda ai film, dalla musica alla cucina.

In breve, la Corea del Sud ha le risorse per ricavarsi una sfera di influenza, sciolta dalle restrizioni storiche che hanno condizionato la sua forza militare. Il primo risultato è che sta iniziando a costruirsi una politica estera che le permetterà di avere un ruolo maggiore nelle istituzioni internazionali e nei network dove si decide la governance globale.

(*) Professore emerito alla Harvard’s Kennedy School of Government e autore di «The Powers to Lead and Soft Power: The Means to Success in World Politics».

Copyright: Project Syndicate, 2009.
da lastampa.it
« Ultima modifica: Marzo 11, 2010, 09:27:02 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Gennaio 20, 2010, 05:45:30 pm »

20/1/2010

L'importanza degli eserciti
   
JOSEPH S. NYE*


La forza militare conterà di meno nei prossimi decenni? In realtà il numero dei conflitti su larga scala fra Stati è in costante calo e il conflitto è improbabile quando si tratta di democrazie avanzate e in molti altri casi. Ma, come ha detto Barack Obama alla consegna del Nobel per la pace, l’anno scorso, «dobbiamo accettare la dura realtà, non riusciremo a vedere la fine delle guerre durante la nostra vita. Ci saranno momenti in cui le nazioni - da sole o coalizzandosi - troveranno l’uso della forza non solo necessario ma anche moralmente giustificabile».

Quando si parla di potenza militare si tende a pensarci in termini di forze di combattimento e potenziale di dissuasione - soldati, carri armati, aerei, navi e così via. Infine, alla resa dei conti questo è quel che conta. Napoleone disse: «Dio sta dalla parte dei grandi eserciti» e Mao Zedong era solito affermare che il potere viene dalle baionette.

Nel mondo odierno, tuttavia, le risorse militari sono molto di più che fucili e battaglioni e assalti e combattimenti o capacità di offesa. Un uso non coercitivo del potenziale militare può essere una risorsa importante per scandire le agende, persuadere gli altri governi e guadagnare consensi nel mondo politico internazionale.

Anche limitandosi alla capacità di combattimento, molti analisti si soffermano solo sulle guerre fra Stati, sui soldati in uniforme inquadrati in eserciti regolari. Ma nel XXI secolo la maggior parte dei conflitti avviene all’interno dello Stato stesso e molti fra i combattenti non indossano uniformi. Meno della metà dei 226 conflitti di una certa rilevanza combattuti dal 1945 e fino al 2002 vennero ingaggiati negli Anni 50 fra Stati e gruppi armati. Negli Anni 90 sono stati invece preponderanti.

Certo, la guerra civile e la guerriglia non sono delle novità, come riconosce anche la tradizione delle regole della guerra. Le novità sono l’intensificarsi delle forme di combattimento non convenzionali e il progresso tecnologico, che mette un potere sempre più distruttivo nelle mani di piccoli gruppi che in altri tempi sarebbero rimasti esclusi dal mercato delle armi di distruzione di massa. La tecnologia ha dato una nuova dimensione ai conflitti: la prospettiva di un attacco cibernetico grazie al quale il nemico, che sia o no uno Stato, può causare, o minacciare, danni enormi senza che una sola arma varchi materialmente il confine.

La guerra e l’impiego della forza possono essere in ribasso, ma non certo fuori gioco. Al contrario, l’impiego della forza sta assumendo nuove forme. I teorici militari scrivono della guerra di «quarta generazione» che a volte non ha «fronti o campi di battaglia definiti»; questo ovviamente può vanificare la distinzione tra civili e soldati.

La prima generazione di mezzi moderni di attacco rifletteva le tattiche di colonne e allineamento nate dalla Rivoluzione francese. La seconda faceva conto sulla massiccia capacità di fuoco e culminò nella prima guerra mondiale; lo slogan era: l’artiglieria conquista e la fanteria occupa. La terza si sviluppò a partire dalle tecniche messe a punto dai tedeschi per rompere lo stallo della guerra di trincea nel 1918 che la Germania perfezionò con la Blitzkrieg che consentì di sconfiggere i ben più numerosi carri armati francesi e britannici nell’occupazione della Francia, nel 1940. Questi cambiamenti erano dovuti sia alle idee sia alla tecnologia. Lo stesso si può dire oggi per la quarta generazione che si concentra sulla società nemica e sulla volontà politica di combattere.

I gruppi armati vedono il conflitto come un susseguirsi di operazioni che mescolano politica e violenza e che alla lunga permettono di controllare la popolazione locale. Si avvantaggiano della debolezza degli Stati che mancano di legittimazione o non hanno il controllo del territorio. Il risultato è ciò che il generale sir Rupert Smith, già comandante delle truppe britanniche in Nord Irlanda e nei Balcani, chiama «la guerra della gente». In queste forme ibride forze convenzionali e irregolari, militari e civili, distruzione fisica e guerra di intelligence diventano del tutto intercambiabili. Anche se la prospettiva o la minaccia di usare la forza è diventata tra Stati meno probabile, rimane comunque un’opzione di grande impatto ed è questo che spinge i protagonisti avveduti a garantirsi costose assicurazioni. Gli Stati Uniti probabilmente sono i più grandi sostenitori di questa politica.

E questo porta a un discorso più ampio sul ruolo della potenza militare nella politica globale. Che rimane importante perché è ciò che le dà sostegno. E’ vero che in molte relazioni e circostanze la forza delle armi è sempre più difficile da esercitare e troppo onerosa per gli Stati. Ma il fatto che non sia sempre sufficiente in certe situazioni non significa che abbia perso la capacità di dare una struttura alle attese e una forma alle speculazioni politiche. I mercati e il potere economico vanno inquadrati in questa cornice: nel caso generato da una grave instabilità politica i mercati crollano. Per contro la cornice politica si basa sulle norme e le istituzioni ma anche sulla gestione del potere coercitivo. Uno Stato moderno e ben ordinato è contraddistinto dal monopolio dell’uso legittimo della forza che permette al mercato nazionale di funzionare.

A livello internazionale, dove l’ordine è meno saldo, la prospettiva dell’uso coercitivo della forza, per quanto ne sia poco probabile l’applicazione, può avere effetti importanti. La forza di dissuasione delle armi insieme alle regole e alle istituzioni aiuta a garantire un livello base di ordine. Parlando metaforicamente, la forza militare assicura un livello di sicurezza che sta all’ordine politico ed economico come l’ossigeno sta alla respirazione: nessuno ci bada, se non quando inizia a scarseggiare. E quando succede, la sua assenza diventa il problema centrale.

In questo senso il ruolo del potere militare nella struttura delle politiche internazionali è destinato a mantenere la sua importanza anche nel XXI secolo. Non avrà più per gli Stati l’utilità che aveva nell’Ottocento, ma rimane una componente chiave del potere nel quadro internazionale.

*Ex sottosegretario di Stato alla Difesa, è professore ad Harvard e autore del saggio «Soft Power: The Means to Success in World Politics»

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Febbraio 15, 2010, 04:53:39 pm »

15/2/2010

La propaganda è dannosa per i governi
   
JOSEPH NYE*

Nell’epoca dell’informazione che viviamo oggi, la politica dipende anche dalla «storia» vincente. I governi competono tra di loro, e con altre organizzazioni, per far risaltare la propria credibilità minando quella degli avversari. Basta guardare il conflitto tra il governo e gli oppositori dopo le elezioni iraniane nel giugno 2009, in cui Internet e Twitter hanno svolto un ruolo cruciale, o la più recente controversia tra Google e la Cina.

La reputazione è sempre stata importante nella politica mondiale, ma la credibilità è diventata un fattore cruciale grazie al «paradosso dell’abbondanza». Quando l’informazione è abbondante, la risorsa che viene a scarseggiare è l’attenzione. E in questa circostanza inedita, un approccio morbido può rivelarsi, ancora più del solito, più efficace di quello duro. Per esempio, la relativa indipendenza della Bbc, che più volte ha provocato imbarazzi ai governi britannici, ha fruttato però ricchi dividendi di credibilità, come dimostrato da questo riassunto della giornata tipo del presidente della Tanzania Jakaya Kikwete: «Si alza all’alba, ascolta Bbc World Service, e poi legge la stampa locale».

Gli scettici che considerano il termine «diplomazia pubblica» come un eufemismo per la propaganda, non si rendono conto del problema. Una propaganda esplicita è controproducente nel campo della diplomazia pubblica. Che peraltro non è soltanto una campagna di pubbliche relazioni: la diplomazia pubblica significa costruire relazioni durature che creano un contesto favorevole per le politiche governative.

Il contributo delle informazioni provenienti direttamente dal governo varia nelle tre dimensioni, o fasi, della diplomazia pubblica, tutte importanti. La prima e più immediata dimensione è la comunicazione quotidiana, la spiegazione del contesto nel quale vengono prese le decisioni di politica interna ed estera. Questa dimensione implica anche la preparazione ad affrontare le eventuali crisi. Se dopo un evento si crea un vuoto informativo, verrà riempito da altri. La seconda dimensione è quella della comunicazione strategica, che sviluppa una serie di argomenti semplici, più o meno come una campagna pubblicitaria o elettorale. Mentre la prima dimensione viene misurata in ore, al massimo giorni, la seconda si sviluppa nell’arco di settimane, mesi e perfino anni.

La terza dimensione della diplomazia pubblica è lo sviluppo di relazioni durature con persone chiave, lungo anni o anche decenni, attraverso borse di studio, scambi, addestramenti, seminari, conferenze e accesso ai media. Questi programmi creano quello che il giornalista americano Edward R. Murrow una volta ha definito «gli ultimi tre passi»: comunicazione faccia a faccia, con la credibilità rinforzata dalla reciprocità.

Ma nemmeno la migliore campagna pubblicitaria riesce a vendere un prodotto impopolare. Una strategia comunicativa non funziona se va contro il tessuto della politica. Le azioni dicono più delle parole. Troppo spesso i politici trattano la diplomazia pubblica come un cerotto da applicare su una ferita provocata da altri strumenti. Per esempio, la Cina ha cercato di intensificare il messaggio di «soft power» che voleva lanciare con il successo delle Olimpiadi di Pechino nel 2008, ma la repressione in Tibet avvenuta quasi negli stessi giorni - e seguita da quella nello Xinxiang e dagli arresti dei difensori dei diritti umani - ha azzoppato questo sforzo.

Le grandi potenze cercano di usare la cultura e le narrative per creare un «soft power» che ne mostra i vantaggi, ma non sempre comprendono il funzionamento di questo meccanismo. Molti critici americani sostengono che la super-militarizzazione della politica estera danneggia la credibilità dell’America, e propongono invece una «diplomazia con gli steroidi», gestita da diplomatici addestrati all’uso dei nuovi media, a una conoscenza minuta delle realtà locali e all’uso di reti di contatto con gruppi sottorappresentati.

L’approccio centralizzato dei media alla diplomazia pubblica svolge tuttora un ruolo importante. I governi devono correggere giorno per giorno l’interpretazione errata delle loro politiche, e cercare di inviare messaggi di tipo più strategico. La forza principale dei media è la loro capacità di raggiungere un’audience vasta, segnalando i problemi all’opinione pubblica e dettando un’agenda. Ma possiedono anche una debolezza: sono incapaci di influenzare la percezione del messaggio inviato in vari segmenti culturali. Il mittente del messaggio sa cosa ha detto, ma spesso ignora quello che ha sentito il destinatario. Le barriere culturali tendono a distorcere il segnale.

Le comunicazioni di rete, invece, possono avvantaggiarsi della comunicazione in due sensi, e di quella orizzontale, per superare le differenze culturali. Questo tipo di decentralizzazione e flessibilità è difficile da raggiungere per i governi, a causa della loro struttura della responsabilità centralizzata. La maggiore flessibilità delle organizzazioni non governative in questo campo ha dato inizio a quello che qualcuno ha già definito «la nuova diplomazia pubblica», che non si limita solo a inviare messaggi, promuovere campagne o dialogare con esponenti governativi stranieri. Essa contribuisce anche a costruire relazioni con i protagonisti della società civile in altri Paesi, agevolando la rete di contatti tra entità non governative in patria e all’estero.

Questo approccio alla diplomazia pubblica dovrebbe spingere le politiche governative a promuovere e partecipare più che a controllare direttamente queste reti che attraversano i confini. Un controllo eccessivo, o anche solo la parvenza di esso, possono minare la credibilità dell’operato di queste reti. L’evoluzione della diplomazia pubblica dalle comunicazioni a un senso solo verso un dialogo vede nell’opinione pubblica una coautrice di significati e contatti.

Nell’era dell’informazione globale il potere più che mai dovrà includere una dimensione «soft» di attrazione, oltre agli strumenti «duri» della coercizione e del pagamento. La combinazione efficace di questi meccanismi viene chiamata «smart power», potere intelligente. Per dare un esempio, la lotta contro il terrorismo internazionale oggi è una guerra per conquistare cuori e menti, dove l’eccessivo affidamento alla forza da solo non porta al successo.

La diplomazia pubblica è uno strumento importante nell’arsenale del potere intelligente, che però richiede la comprensione dell’importanza della credibilità, dell’autocritica e del ruolo della società civile nella generazione del «soft power». Se la diplomazia pubblica degenera in propaganda, non solo smette di convincere, ma può avere un effetto negativo. Deve rimanere un processo a due sensi, perché il «soft power» dipende prima di tutto dalla comprensione degli altri e del loro modo di pensare.

Copyright: Project Syndicate, 2010.
*ex sottosegretario alla Difesa Usa, professore all’Università di Harvard

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Marzo 11, 2010, 09:18:48 am »

11/3/2010 - LE IDEE

La Cina sbaglia a sottovalutare gli Stati Uniti
   
JOSEPH S. NYE

Le relazioni sino-americane sono di nuovo a un punto critico. La Cina rimprovera al presidente Barack Obama di aver ricevuto il Dalai Lama alla Casa Bianca e anche la vendita di armi a Taiwan. Su ambedue i casi c’erano ampi precedenti, ma alcuni leader cinesi si aspettavano che Obama fosse più sensibile a quelli che la Cina vede come i suoi «interessi fondamentali» relativi all’unità nazionale.

Le cose non dovevano andare in questo modo. Un anno fa l’amministrazione Obama moltiplicava gli sforzi per intendersi con la Cina. Il segretario di Stato Hillary Clinton diceva che i due Paesi «erano nella stessa barca» e che Cina e Stati Uniti «ce l’avrebbero fatta o sarebbero caduti insieme». Il ministro del Tesoro Timothy Geithner sosteneva di passare più tempo a consulto con la sua controparte cinese che con quella di qualsiasi altra nazione. Alcuni osservatori parlavano del G2 sino-americano che avrebbe controllato l’economia globale.

L’idea del G2 è sempre stata una sciocchezza. L’Europa ha un sistema economico più ampio sia degli Usa sia della Cina e l’economia giapponese è pari a quella cinese. La loro partecipazione alla soluzione dei problemi mondiali è essenziale. Malgrado ciò la crescente cooperazione fra Usa e Cina nel G20 l’anno scorso era un segnale positivo di collaborazione tanto bilaterale come multilaterale. Qualunque sia il livello di preoccupazione per i recenti eventi riguardo al Dalai Lama e a Taiwan, è importante sottolineare che il deterioramento nelle relazioni fra i due Paesi era già iniziato. Molti congressisti americani, ad esempio, denunciano che i posti di lavoro americani siano distrutti dall’intervento cinese sui mercati monetari per mantenere artificialmente basso il valore dello yuan.

Un secondo punto riguarda la decisione cinese di non collaborare con la conferenza Onu di Copenhagen sul mutamento climatico tenutasi lo scorso dicembre. Non solo la Cina si è opposta ad adottare misure che erano oggetto di negoziato già dall’anno prima, ma la decisione del primo ministro Wen Jiabao di mandare un funzionario di basso livello a incontrare e ad accusare Obama è stata obiettivamente offensiva.

La Cina si è comportata allo stesso modo quando i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (più la Germania) si sono incontrati per discutere le sanzioni contro l’Iran per aver violato i suoi obblighi nei confronti dell’Aiea. E di nuovo la Cina ha mandato un rappresentante di secondo piano.

Cosa ne è stato di quei primi, promettenti segnali di collaborazione? Si possono ipotizzare due ragioni per il comportamento cinese; non sembrano sufficienti, a un primo esame, ma nei fatti si rinforzano a vicenda.

Innanzitutto ci si attende una transizione politica nel 2012 e in un periodo di crescente nazionalismo nessun leader cinese vuole apparire più debole dei suoi rivali. Questo aiuta a capire le recenti repressioni in Tibet e nello Xingjian, così come l'incarcerazione di avvocati dei diritti umani.

In più la Cina potrebbe andare incontro a un periodo di transizione economica. Alcuni analisti cinesi ritengono che qualsiasi tasso di crescita inferiore all'8% sarebbe insufficiente ad assicurare l’occupazione e fomenterebbe l’instabilità sociale. Ma, mentre le quote di risparmio in America cominciano a crescere, il modello di crescita basato sull’export, che ha spinto l’occupazione in Cina al prezzo dello squilibrio del commercio globale, potrebbe non essere più possibile. Se la Cina acconsente alle richieste di rivalutare lo yuan, può essere che debba mostrarsi dura su altri temi per placare il nazionalismo.

La seconda ragione del comportamento recente della Cina potrebbe essere da ricercare nell’eccessiva sicurezza che diventa arroganza. La Cina è giustamente orgogliosa per essere riuscita a uscire dalla recessione mondiale con un alto tasso di crescita economica. Accusa gli Stati Uniti di aver provocato la recessione e detiene due trilioni di dollari in riserve di valuta estera.

Molti cinesi ritengono che questo rappresenti uno spostamento nell’equilibrio globale dei poteri e che la Cina dovrebbe essere meno in soggezione davanti agli altri Paesi, inclusi gli Usa. Ci sono accademici cinesi che stanno scrivendo del declino degli Usa, identificando nell’anno 2000 il picco del loro potere.

Questo eccesso di fiducia in se stessi nel campo della politica estera, combinato all'incertezza nelle questioni interne, può aiutare a spiegare il cambiamento nell’atteggiamento cinese nell’ultima parte del 2009. Se è così, la Cina sta facendo un grosso errore di valutazione.

Per prima cosa gli Stati Uniti non sono in declino. In America e altrove questo tramonto è stato predetto con una certa regolarità: dopo che l’Urss aveva lanciato lo Sputnik nel 1957; di nuovo nel 1971 quando Nixon pose fine alla convertibilità del dollaro statunitense in oro; e negli Anni 80 quando l’industria manifatturiera giapponese parve schiacciare l’economia della rust belt americana. Ma se si guarda alle linee di forza dell’economia americana non stupisce che il World Economic Forum metta gli Stati Uniti al secondo posto (subito dietro la Svizzera) tra i Paesi più competitivi, mentre la Cina è indietro di 30 posizioni.

In secondo luogo il fatto che la Cina detenga così tanti dollari non è una fonte di reale potere perché l'interdipendenza nelle relazioni economiche è simmetrica. In effetti, se la Cina buttasse i suoi dollari sui mercati mondiali metterebbe in ginocchio l'economia americana ma trascinerebbe nel disastro la propria. Così facendo perderebbe non solo il valore delle sue riserve di dollari ma andrebbe incontro a una massiccia crisi dell’occupazione. Quando la dipendenza è reciproca non è una sorgente di potere.

Terzo, a dispetto delle pretese cinesi, il dollaro è destinato con ogni probabilità a rimanere la maggior riserva di valuta mondiale grazie all’entità dei mercati finanziari americani che la Cina non può contrastare senza la piena convertibilità dello yuan e la totale riforma del suo sistema bancario.

Infine, la Cina ha fatto male i conti, dimenticando la saggezza di Deng Xiaoping, che aveva detto che la Cina avrebbe dovuto muoversi con cautela, «tenendo nascosta la sua luce». Come mi ha detto di recente uno statista asiatico di molta esperienza, Deng non avrebbe mai commesso questo errore. Se oggi Deng fosse ancora al potere riporterebbe la Cina ai rapporti di cooperazione con gli Stati Uniti che hanno segnato l’inizio del 2009.

Copyright: Project Syndicate, 2010.
da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Aprile 20, 2010, 09:33:32 am »

20/4/2010

Gli Usa non sono l'impero romano

JOSEPH S. NYE*


Il Congresso degli Stati Uniti approvando il piano del presidente Obama per estendere la copertura sanitaria a quasi tutti gli americani ha promulgato la più importante legislazione sociale mai vista nel Paese dagli Anni ‘60. L’opposizione repubblicana rimane forte, ma la legge è stata la maggior vittoria politica di Obama in campo nazionale. La sua attuazione ha implicazioni più ampie perché, così come l’elezione di Obama nel 2008, entra nel merito dello stato di salute del sistema politico americano. Dopotutto un tempo era convinzione comune che un afroamericano senza un apparato politico alle spalle non sarebbe potuto diventare Presidente.

Recentemente molti osservatori hanno rilevato che il sistema politico americano, chiuso a riccio com’è, impedirebbe al Paese di trasformare le sue abbondanti risorse di potere in leadership. Come ha osservato di recente un giornalista perspicace: «L’America ha ancora i mezzi per emendare quasi tutte le sue debolezze strutturali: uso dell’energia, costi delle spese mediche, diritto all’educazione e all’occupazione per ricostruire una robusta classe media. Questa è la tragedia americana dell’inizio del XXI secolo: una cultura vitale e capace di rinnovarsi che attrae i talenti mondiali con un sistema di governo che sembra sempre di più un trucco». La conversione delle risorse in effettiva influenza è un problema di vecchia data per gli Stati Uniti. La Costituzione è basata sulla visione liberale del XVIII secolo secondo cui si governa meglio dividendo e calibrando poteri e contropoteri.

In politica estera la Costituzione americana ha sempre invitato il Presidente e il Congresso a lottare per il controllo. I gruppi di pressione politica ed etnica combattono per le proprie definizioni interessate dell’interesse nazionale. Il Congresso presta sempre attenzione a chi unge le ruote e gli interessi particolari premono per indirizzare le strategie di politica estera, i codici di comportamento e le sanzioni verso altri Paesi.

C’è anche preoccupazione per il declino della fiducia pubblica nelle istituzioni. Nel 2010 solo un quinto degli americani dice di credere che il governo decida per il meglio. Come dice un ex funzionario dell’amministrazione Clinton, William Galston, «la fiducia è fondamentale quando si chiede ai cittadini di sacrificarsi per un futuro migliore. Non credere al governo che fa questa richiesta potrebbe essere l’occasione o anche la causa del declino nazionale».

Gli Usa sono stati in parte fondati sulla sfiducia nei confronti del governo e una lunga tradizione risalente fino a Thomas Jefferson tiene per certo che gli americani non dovrebbero preoccuparsi troppo dello scarso livello di fiducia nel governo. Se la domanda verte invece non sulla quotidianità ma sull’inquadramento costituzionale la risposta è positiva. Certo, se chiedete agli americani qual è il posto migliore per vivere, l’80 per cento risponde gli Usa. Se la domanda è sul gradimento del sistema democratico il 90 per cento risponde positivamente. Sono in pochi a pensare che il sistema è marcio e deve essere rovesciato. Alcuni aspetti degli attuali umori sono probabilmente ciclici, mentre altri rappresentano lo scontento per gli imbrogli della politica. E’ vero che in confronto al recente passato i partiti politici sono più polarizzati. Ma la cattiva politica non è una novità e la maggior evidenza per la perdita di fiducia nel governo emerge dai sondaggi che valutano risposte dipendenti dal modo in cui vengono poste le domande. Inoltre il declino più consistente è occorso oltre quattro decenni fa, tra la fine degli Anni 60 e i primi Anni 70.

Questo non significa che il declino della fiducia nel governo non sia un problema. Quali ne siano le ragioni, se l’elettorato diventa restio a contribuire in settori chiave come pagare le tasse o obbedire alla legge o se le migliori intelligenze delle nuove generazioni rifiutano di lavorare per il governo, le potenzialità amministrative decadono e l’insoddisfazione cresce. Un clima di sfiducia può portare ad azioni estreme come il bombardamento degli uffici federali a Oklahoma City nel 1995.

Fino a oggi non pare ci siano conseguenze. Il servizio di riscossione tributi non registra incrementi nell’evasione. E per molti versi la corruzione tra gli ufficiali governativi è diminuita nell’ultimo decennio e la Banca Mondiale assegna agli Usa un punteggio alto (attorno al 90 per cento) nel «controllo della corruzione». E ancora dopo 40 anni di calo nelle percentuali di voto, dal 62% al 50%, nel 2000 il declino si è arrestato ed è risalito al 58% nel 2008. Il comportamento dei cittadini non pare così mutato come i sondaggi lascerebbero pensare. Tre quarti degli americani si sentono legati alle loro comunità e dicono che la qualità della vita è eccellente o buona. Il 40 per cento afferma che lavorare con gli altri nelle loro comunità è la cosa più importante che possano fare.

Negli ultimi anni le politiche americane e le istituzioni si sono radicalizzate più di quanto la pubblica opinione sembra indicare. La situazione è stata esacerbata dalla crisi economica iniziata dopo il 2008. Diceva recentemente un editoriale dell’Economist: «Il sistema politico americano è stato progettato per rendere difficile e non facile il sistema legislativo federale. I suoi fondatori pensavano che un Paese delle dimensioni dell’America sarebbe stato governato meglio a livello locale piuttosto che nazionale...».

Così il sistema di base funziona, ma non c’è scusa per ignorare le aree dove potrebbe essere riformato, come i posti blindati nella Camera dei rappresentanti e le procedure bloccate dai filibustieri del Senato. Resta da vedere se il sistema politico americano può autoriformarsi e affrontare questi problemi. La vittoria di Obama per quanto riguarda il sistema sanitario, così come la sua elezione nel 2008, sembrano suggerire che il sistema americano non è così marcio come i suoi detrattori, che amano rievocare la caduta dell’impero romano, vorrebbero farci credere.

*Docente ad Harvard e autore di The Powers to Lead.
Copyright: Project Syndicate, 2010.
www.project-syndicate.org

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Maggio 11, 2010, 06:08:11 pm »

11/5/2010

Bravi questi "Bric" ma non sono un'alleanza
   
JOSEPH S. NYE*

Brasile, Russia, India e Cina hanno appena tenuto il loro secondo meeting a Brasilia.
I giornalisti continuano ad essere ammaliati dalle cosiddette nazioni del «Bric», ma io rimango scettico. È stata la Goldman Sachs a coniare l’acronimo, nel 2001, per attirare l’attenzione sulle opportunità di guadagno nei «mercati emergenti». In effetti la parte di Pil mondiale prodotta dai Bric è salita dal 16 per cento del 2000 al 22 del 2008. Insieme, hanno fatto meglio della media nella recessione che è seguita. I Bric assommano il 42 per cento della popolazione mondiale e un terzo della crescita economica negli ultimi dieci anni. A parte gli Stati Uniti (che sono la terza nazione più popolosa del mondo), i primi quattro Stati per numero di abitanti (Cina, India, Indonesia e Brasile) hanno avuto una crescita media di oltre i 5-6 per cento nel decennio 2000-2009.

È una buona notizia per l’economia mondiale, ma il termine Bric ha assunto anche una valenza politica, nonostante il fatto che la Russia sia difficilmente collocabile nella categoria. Come ha scritto la Beijing Review «quando Goldman Sachs coniò l’acronimo Bric nel 2009, né gli economisti né il resto del mondo immaginavano che Brasile, Russia, India e Cina si sarebbero alla fine sedute allo stesso tavolo per costruire una solida piattaforma». Nel giugno 2009, i ministri degli Esteri della quattro nazioni si incontrarono per la prima volta a Ekaterinburg, in Russia, per trasformare un termine azzeccato in una forza politica internazionale.

I Bric possiedono il 42 per cento delle riserve mondiali in valuta straniera (anche se per la maggior parte sono in mano alla Cina). Così, a Ekaterinburg, il presidente russo Dmitri Medvedev dichiarò che «non poteva esserci un sistema valutario internazionale se gli strumenti finanziari sono denominati in un’unica moneta». Dopo che la Cina ha eclissato gli Usa come primo partner commerciale del Brasile, i due colossi hanno annunciato piani per regolare i loro scambi con le proprie valute invece che con il dollaro. E, nonostante la Russia copra soltanto il 5 per cento degli scambi della Cina, le due nazioni hanno previsto un accordo simile.

Dopo la recente crisi finanziaria ancora Goldman Sachs ha rivisto le sue proiezioni di crescita e previsto che il Pil dei Bric avrebbe superato quello delle nazioni del G7 messe assieme già nel 2027, 10 anni prima di quanto immaginato in precedenza. Tuttavia, sul piano politico, il termine Bric non ha molto senso. Il gruppo può trovare convenienza nel coordinare alcune iniziative diplomatiche a breve termine, ma nasconde profonde divisioni. Non ha molto senso includere la Russia, un’ex superpotenza, nella stessa categoria di tre Paesi in via di sviluppo. Dei quattro, la Russia ha la popolazione più piccola, ma la più alfabetizzata, e un Pil pro capite molto più elevato. La Russia, però, osservano gli analisti, è in declino, mentre gli altri avanzano.

La Russia oggi non soltanto soffre maggiormente dei postumi della recessione globale, ma deve affrontare gravi problemi strutturali a lungo termine: mancanza di diversificazione nell’export, gravi deficienze demografiche e sanitarie, e, nelle parole di Medvedev, un bisogno urgente di «modernizzazione». Come ha fatto notare recentemente il Financial Times, appena due decenni fa la Russia «era una superpotenza scientifica, con investimenti nella ricerca che superavano quelli di Cina, India e Brasile messi assieme. Da allora è rimasta indietro, non solo rispetto a una Cina che faceva meglio della media mondiale, ma anche rispetto a Brasile e India».

Anche se il nocciolo duro della scalata dei Bric resta la Cina, il Brasile è una piacevole sorpresa. Quando fu inventato il Bric, il Financial Times obiettava che «un Paese con una crescita striminzita come i suoi costumi da bagno, preda di ogni crisi finanziaria che capiti in giro, luogo di instabilità cronica, la cui infinita capacità di farsi del male da solo è leggendaria quanto i suoi talenti nel calcio e nel carnevale, non sembra paragonabile a questi titani emergenti». Adesso, nota l’Economist, «per certi versi il Brasile surclassa gli altri Bric. Al contrario della Cina, è una democrazia. A differenza dell’India, non è lacerato da conflitti etnici o religiosi e non ha vicini ostili. Al contrario della Russia, le sue esportazioni non sono solo petrolio e armi, e tratta gli investitori stranieri con rispetto».

Con un territorio che è tre volte quello dell’India, il 90 per cento dei suoi abitanti alfabetizzati, un Pil di 2000 miliardi di dollari, equivalente a quello della Russia, e un Pil pro capite di 10 mila dollari all’anno (il triplo di quello indiano e più del doppio di quello cinese), il Brasile ha anche impressionanti riserve energetiche. Nel 2007, la scoperta di enormi giacimenti di petrolio offshore ha aperto al Brasile la possibilità di competere nell’arena delle potenze petrolifere. Il Brasile, come gli altri Bric, ha anche problemi: è al 75° posto nella classifica della corruzione redatta dal Transparency International’s corruption perceptions index (la Cina è 79ª, l’India 84ª, la Russia 146ª). Il World Economic Forum piazza il Brasile al 56° posto per la competitività economica (la Cina è 29ª, l'India 49ª, la Russia 63ª). Povertà e ineguaglianza sono ancora acute. Il coefficiente Gini, che calcola del disparità nella distribuzione della ricchezza, è 0,57 per il Brasile (1 è il massimo: tutta la ricchezza è concentrata in una sola persona), mentre è 0,45 negli Usa, 0,42 in Cina, 0,37 in India e 0,42 in Russia.

Così, come indicatore di opportunità economiche, il Bric è il benvenuto, anche se forse avrebbe senso che l’Indonesia sostituisse la Russia. In termini politici, Cina, India e Russia sono potenze concorrenti in Asia, mentre Brasile e India sono state danneggiate dalla sottovalutazione della moneta cinese. Perciò il Bric non è destinato a diventare una importante organizzazione politica tra Paesi con gusti e mentalità affini.

*già Assistant Secretary of Defense negli Stati Uniti, docente alla Harvard University, autore di «Soft Power: The Means to Success in World Politics»
Copyright Project Syndicate, www.project-syndicate.org

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7332&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Giugno 23, 2010, 05:53:45 pm »

23/6/2010

Il futuro dell'Europa appeso alla sua moneta
   
JOSEPH S. NYE*


Nella prima metà del secolo passato l’Europa si spaccò nel corso di due guerre e distrusse il suo ruolo centrale nella politica mondiale. Nella seconda metà del secolo leader lungimiranti seppero guardare oltre lo spirito di rivalsa e gradualmente costruirono le istituzioni dell’integrazione europea. Il pensiero di una Francia e di una Germania in conflitto tra loro oggi pare impossibile, e lo sviluppo dell’Unione europea ha enormemente migliorato la forza di attrazione dell’Europa e la sua capacità diplomatica a livello mondiale. Purtroppo, questa storica conquista viene ora messa in discussione.

Nel maggio del 2010, i mercati finanziari hanno perso fiducia nella capacità della Grecia di gestire il suo deficit di bilancio e di rimborsare il suo debito. I timori di una ricaduta hanno cominciato a influenzare altri Paesi, come il Portogallo e la Spagna, tra i 16 membri della zona euro. In risposta, i governi europei, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale hanno messo a punto un programma di emergenza da 700 miliardi a tutela della zona euro per calmare le tempeste finanziarie. Se questo intervento garantisce un momentaneo sollievo, l’incertezza perdura nei mercati finanziari. Il mese scorso, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha dichiarato che, «se l’euro fallisce non cade solo una moneta... sarà l’Europa a fallire e con essa l’idea dell’unità europea».

L’unità europea si trova già a fronteggiare notevoli vincoli. L’integrazione fiscale è limitata. Le identità nazionali rimangono più forti rispetto alla comune identità europea, nonostante sei decenni d’integrazione, e gli interessi nazionali sono ancora forti anche se meno rispetto al passato.

L’allargamento dell’Ue a 27 Stati (con altri in arrivo) significa che le istituzioni europee rischiano di restare sui generis, e non consente di dare vita a una forte Europa federale o a un solo Stato. L’integrazione giuridica è in crescita, e le sentenze della Corte europea hanno costretto i Paesi membri a cambiare le loro politiche. Ma l’integrazione tra ramo legislativo e ramo esecutivo è rimasta indietro, e se l’Europa ha creato un presidente e una figura centrale per le relazioni esterne, la politica estera e di difesa sono integrate solo parzialmente.

Nel corso dei decenni, l’Europa ha altalenato tra eccessivo ottimismo e attacchi di «euro-pessimismo» come oggi. Come ha di recente osservato il giornalista Marcus Walker, si credeva che l’Europa sarebbe salita alla ribalta come protagonista sulla scena mondiale, sostenuta dal trattato di Lisbona. Al contrario sta cominciando a sembrare la parte perdente in un nuovo ordine geopolitico dominato dagli Stati Uniti e dalle potenze emergenti guidate dalla Cina. «Un’immagine determinante» secondo Walker è stata la riunione del 18 dicembre 2009, che mediò il modesto accordo di Copenhagen - un incontro guidato da Stati Uniti e Cina, che invitarono i leader di India, Brasile e Sud Africa, ma non gli europei. E ora la recente crisi finanziaria ha messo in luce i limiti di integrazione fiscale della zona euro e sollevato interrogativi sul ruolo e sul futuro dell’euro.

Qual è il futuro dell’Europa? Come ha osservato l’Economist, «si sente parlare dappertutto del relativo declino dell’Europa... Si ascoltano cifre deprimenti sulla futura rilevanza dell’Europa, e con qualche ragione. Nel 1900 l’Europa rappresentava un quarto della popolazione mondiale. Entro il 2060 potrà contare giusto per il 6%, e quasi un terzo della popolazione avrà più di 65 anni».

L’Europa ha di fronte seri problemi demografici, ma la dimensione della popolazione non è strettamente correlata con il potere, e le previsioni sulla caduta dell’Europa hanno una lunga storia di errori di previsione. Negli Anni 80 gli analisti parlavano di euro-sclerosi e di un malessere paralizzante, ma nei successivi decenni l’Europa ha mostrato una crescita imponente e sviluppo istituzionale.

L’approccio dell’Ue alla condivisione del potere, ritagliando accordi e risolvendo conflitti per mezzo di commissioni multiple può essere frustrante e mancare di mordente, ma è sempre più rilevante per molte questioni in un mondo interconnesso e interdipendente. Come dice Mark Leonard, direttore del Consiglio europeo per le Relazioni Estere: «L’idea comune è che l’ora dell’Europa è arrivata e tramontata. La sua mancanza di visione, le divisioni, l’ossessione per il contesto legale, la mancanza di volontà nel progettare un potere militare e l’economia sclerotica sono in contrasto con degli Stati Uniti più dominanti di Roma... Ma il problema non è l’Europa, è la nostra comprensione arcaica del potere».

Il politologo americano Andrew Moravcsik ugualmente sostiene che le nazioni europee, singolarmente e collettivamente, sono gli unici Stati, a parte gli Usa, in grado di «esercitare una influenza globale che spazia dai mezzi di coercizione all’offensiva diplomatica. Nella misura in cui il termine conserva un significato, il mondo è bipolare, ed è probabile che rimarrà tale nel prossimo futuro».

Moravcsik sostiene che la prognosi pessimistica è basata su una visione realistica del XIX secolo secondo la quale «il potere è legato alla quota relativa di risorse globali, e le nazioni sono impegnate in una costante rivalità a costo zero». Inoltre, come lui stesso indica, l’Europa è la seconda potenza militare del mondo, con il 21% della spesa militare complessiva, rispetto al 5% per la Cina, il 3% per la Russia, il 2% per l’India, e 1,5% per il Brasile.

Decine di migliaia di truppe degli Stati membri dell’Ue sono state dispiegate al di fuori dei loro Paesi d’origine in Sierra Leone, Congo, Costa d’Avorio, Ciad, Libano e Afghanistan. In termini di potere economico, l’Europa ha il più grande mercato del mondo, e rappresenta il 17% del commercio mondiale, rispetto al 12% degli Stati Uniti. L’Europa dispensa anche la metà dell’assistenza estera nel mondo, rispetto al 20% degli Stati Uniti.

Ma tutta questa forza potenziale può essere inutile se gli europei non risolvono i problemi immediati derivanti dalla perdita di fiducia dei mercati finanziari nei confronti dell’euro. Tutti coloro che ammirano l’esperimento europeo devono sperare che ci riescano.

*Professore alla Harvard University
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7509&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Luglio 20, 2010, 03:51:56 pm »

20/7/2010

Il dollaro e il dragone

JOSEPH S. NYE

Per molti anni, i funzionari americani hanno fatto pressione affinché la Cina rivalutasse la sua valuta. Denunciando che il renminbi sottovalutato rappresenta una concorrenza sleale, poiché distrugge posti di lavoro americani e contribuisce al deficit commerciale degli Stati Uniti. Come dovrebbero ora rispondere i funzionari degli Stati Uniti?

Poco prima della recente riunione del G-20 a Toronto la Cina ha annunciato una formula che permetterebbe un modesto apprezzamento del renminbi, ma alcuni congressisti americani restano scettici e minacciano di aumentare le tariffe sui prodotti cinesi.

L'America assorbe le importazioni cinesi e paga in dollari, la Cina li incassa e ha così accumulato 2.500 miliardi di dollari in riserve valutarie, in gran parte titoli del Tesoro Usa. Secondo alcuni osservatori, questo rappresenta un cambiamento fondamentale nell’equilibrio globale del potere, perché la Cina potrebbe mettere in ginocchio gli Stati Uniti con la minaccia di vendere i suoi dollari.

Ma, se la Cina dovesse mettere in ginocchio gli Stati Uniti questa operazione potrebbe atterrarla. La Cina non solo ridurrebbe il valore delle sue riserve con la caduta del valore del dollaro ma metterebbe in pericolo la costante volontà dell’America di importare prodotti cinesi a buon mercato, il che significherebbe perdita di posti di lavoro e instabilità nel Paese.

Giudicare se l’interdipendenza economica genera potere richiede una valutazione dell’equilibrio delle asimmetrie, non solo di una parte dell’equazione. In questo caso, l’interdipendenza ha creato un «equilibrio del terrore finanziario», analogo alla Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti e l’Unione sovietica non usarono mai il loro potenziale per distruggersi a vicenda in una guerra nucleare.

Nel febbraio del 2010, arrabbiati per una vendita di armi americane a Taiwan, un gruppo di alti ufficiali delle forze armate ha chiesto al governo cinese di vendere titoli di Stato Usa per rappresaglia. La loro proposta non è stata ascoltata. Invece, Yi Gang, direttore in Cina dell’amministrazione statale della valuta estera, ha spiegato che «gli investimenti cinesi in titoli del tesoro statunitense seguono le regole del mercato e non vogliamo politicizzarli». Altrimenti il dolore sarebbe reciproco.

Tuttavia, questo equilibrio non garantisce la stabilità. C’è sempre il pericolo di azioni con conseguenze impreviste, tanto più che da entrambi i Paesi ci si possono aspettare manovre per modificare il contesto e ridurre la propria vulnerabilità. Ad esempio, dopo la crisi finanziaria del 2008, mentre gli Stati Uniti facevano pressioni sulla Cina perché lasciasse apprezzare la sua moneta, i funzionari della banca centrale cinese hanno iniziato a dire che l’America aveva bisogno di aumentare i suoi risparmi, ridurre il deficit, e agire per supportare il ruolo del dollaro come valuta di riserva con diritti speciali di prelievo garantiti dal Fmi.

Ma la Cina abbaia più di quanto non morda. La accresciuta potenza finanziaria della Cina potrebbe avere aumentato la sua capacità di resistere alle pressioni americane, ma nonostante le fosche previsioni, il suo ruolo di creditore non è stato sufficiente per costringere gli Stati Uniti a cambiare le sue politiche.

Mentre la Cina ha adottato misure minori per rallentare l’aumento delle sue partecipazioni in dollari, non è stata disposta a rischiare una moneta pienamente convertibile per motivi politici interni. Così, è improbabile che il renminbi sfidi il ruolo del dollaro come principale componente delle riserve mondiali (oltre 60%) nel prossimo decennio.

Tuttavia, a mano a mano che la Cina aumenta gradualmente il consumo interno, piuttosto che affidarsi alle esportazioni come motore della crescita economica, i suoi leader possono cominciare a sentirsi meno dipendenti di quanto lo siano dall’accesso al mercato statunitense come fonte di creazione di posti di lavoro, cosa che è cruciale per la stabilità politica interna. In tal caso, il mantenimento di un renminbi debole proteggerebbe la bilancia commerciale da un diluvio di importazioni.

Le asimmetrie nei mercati valutari sono un aspetto particolarmente importante del potere economico, dal momento che sono alla base del commercio mondiale e dei mercati finanziari. Limitando la convertibilità della propria valuta la Cina sta evitando la capacità dei mercati valutari di disciplinare le decisioni economiche interne.

Si confronti, ad esempio, la disciplina che le banche internazionali e il Fondo monetario internazionale sono stati in grado di imporre ad Indonesia e Corea del Sud nel 1998, con la relativa libertà degli Stati Uniti - agevolata dalla denominazione del debito in dollari americani - nell’aumentare la spesa pubblica in risposta alla crisi finanziaria del 2008. Infatti, anziché indebolirsi, il dollaro si è apprezzato in quanto gli investitori guardano alla forza alla base degli Stati Uniti come a un rifugio sicuro.

Ovviamente, un Paese la cui moneta rappresenta una parte significativa delle riserve mondiali può guadagnare potere internazionale da questa posizione, grazie a termini più agevoli per l’adeguamento economico e la capacità di influenzare gli altri Paesi. Come ebbe occasione di dire una volta il presidente francese Charles De Gaulle, «poiché il dollaro è la moneta di riferimento in tutto il mondo, può costringere altri a subire gli effetti della sua cattiva gestione. Questo non è accettabile. Questo non può durare».

Ma lo ha fatto. La forza militare ed economica americana rafforza la fiducia nel dollaro come un rifugio sicuro. Per citare un analista canadese, «l’effetto combinato di un mercato avanzato di capitali e di una potente macchina militare per difendere quel mercato, e altre misure di sicurezza, come ad esempio una forte tradizione di tutela dei diritti di proprietà e una reputazione di diritti onorati, hanno reso possibile attrarre capitali con grande facilità».

Il G-20 è incentrato sulla necessità di «riequilibrare» i flussi finanziari, modificando il vecchio modello dei deficit degli Stati Uniti che incontrano le corrispondenti eccedenze cinesi. Ciò richiederebbe cambiamenti politicamente difficili in consumi e investimenti, con l’America che accresce i suoi risparmi e la Cina che aumenta il consumo interno.

Tali cambiamenti non avvengono velocemente. Nessuna delle due parti ha fretta di rompere la simmetria delle vulnerabilità interdipendenti, ma entrambe continuano a tentare di modellare la struttura e il quadro istituzionale dei loro rapporti di mercato. Per il bene dell’economia globale, speriamo che nessuna delle due parti faccia male i propri conti.

*Docente alla Harvard University e autore del libro di prossima uscita «Il potere nel 21° secolo».

Copyright: Project Syndicate, 2010.
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7613&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Agosto 11, 2010, 10:44:12 am »

11/8/2010

Immigrazione Obama chiude

JOSEPH S. NYE*

Il dibattito sull’immigrazione blocca gli Stati Uniti. Lo Stato dell’Arizona ha recentemente adottato una legge che incoraggia la polizia locale a verificare il permesso di immigrazione di persone che sono state fermate per altre ragioni - e richiede agli immigrati di esibire su richiesta la prova del loro status giuridico.

L’amministrazione Obama ha criticato la legge, gruppi religiosi hanno protestato che è discriminatoria e una corte federale ha emesso un provvedimento temporaneo, stabilendo che l’immigrazione è una questione federale. Indipendentemente dal risultato della causa legale, la legge dell’Arizona ha dimostrato di essere popolare in altri Stati, e rappresenta la crescente importanza dell’immigrazione come problema politico.

Se gli Stati Uniti si ripiegassero su se stessi e riducessero drasticamente l’immigrazione, ci sarebbero gravi conseguenze per la posizione dell’America nel mondo. Con i suoi attuali livelli di immigrazione, l’America è uno dei pochi Paesi industrializzati che può evitare il declino demografico e mantenere la sua quota di popolazione mondiale, ma questo potrebbe cambiare se le reazioni agli attentati terroristici o la xenofobia facessero chiudere i confini. I timori per gli effetti dell’immigrazione sui valori nazionali e sull’identità americana accompagnano la nazione fin dai suoi primi anni. Il partito ottocentesco «Know Nothing» fu costruito sull’opposizione agli immigrati, in particolare irlandesi. Gli asiatici furono esclusi dal 1882 in poi, e, con l’atto di restrizione all’immigrazione del 1924, l’afflusso di immigrati ha rallentato per quattro decenni. Nel corso del ventesimo secolo, la nazione ha registrato la più alta percentuale di residenti nati all’estero nel 1910 - 14,7% della popolazione. Oggi, l’11,7% dei residenti degli Stati Uniti sono nati all’estero.

Nonostante appartengano a una nazione di immigrati, la maggior parte degli americani sono scettici riguardo l’immigrazione. In base ai sondaggi molti o addirittura la maggioranza vogliono meno immigrati. La recessione esaspera queste opinioni e nel 2009 la metà degli americani era favorevole a ridurre l’immigrazione legale rispetto al 39% del 2008.

Tanto il numero come l’origine dei nuovi immigrati hanno causato preoccupazioni circa gli effetti dell’immigrazione sulla cultura americana. I dati del censimento del 2000 mostrano una popolazione ispanica in impennata, in gran parte per via delle ondate di nuovi immigrati, legali e illegali. Infatti, i demografi prevedono che nel 2050 i bianchi non ispanici saranno solo una piccola maggioranza dei residenti degli Stati Uniti. Gli ispanici saranno il 25%, gli afro-americani il 14%, gli asiatici l’8%. L’evidenza suggerisce che gli immigrati più recenti si assimilano tanto in fretta quanto i loro predecessori. La necessità di comunicare in modo efficace, insieme con le forze di mercato, produce un potente incentivo a padroneggiare l’inglese e accettare un certo grado di assimilazione. Anche i moderni mezzi di comunicazione aiutano i nuovi immigrati a saperne di più sul loro nuovo Paese molto prima rispetto agli immigrati di un secolo fa.

Mentre un tasso troppo veloce di immigrazione può causare problemi sociali, i sostenitori affermano che, nel lungo periodo, l’immigrazione rafforza il potere degli Stati Uniti. Infatti, 83 Paesi e territori, compresi i Paesi più sviluppati, attualmente hanno tassi di fertilità al di sotto del livello necessario per mantenere un livello costante di popolazione. Ad esempio il Giappone per mantenere la sua popolazione al livello attuale dovrebbe accettare 350 mila nuovi arrivi all’anno per i prossimi 50 anni ed è difficile per una cultura storicamente ostile all’immigrazione. Per contro e nonostante l’ambivalenza, gli Stati Uniti restano un Paese di immigrazione.

L’ufficio censimenti prevede che la popolazione americana crescerà del 49% nei prossimi quattro decenni. Oggi gli Stati Uniti sono il terzo Paese più popoloso al mondo ed è probabile che lo saranno ancora tra 50 anni (dopo solo Cina e India). Non solo l’immigrazione è importante per il potere economico, ma, dato che quasi tutti i Paesi sviluppati stanno andando incontro all’invecchiamento della popolazione e si trovano a fronteggiare il fardello dell’assistenza alle vecchie generazioni, potrebbe contribuire a ridurre l’asprezza del problema politico.

In più, anche se gli studi suggeriscono che nel breve termine i benefici economici direttamente misurabili a livello nazionale sono relativamente piccoli e che la manodopera non specializzata può soffrire della concorrenza, gli immigrati qualificati possono essere importante per particolari settori economici. Un aumento dell’1% nel numero di laureati immigrati porta ad un aumento del 6% nei brevetti pro capite. Nel 1998 gli ingegneri di origine cinese e indiana erano responsabili di un quarto delle imprese di alta tecnologia della Silicon Valley, che rappresentano vendite per 17.800 milioni di dollari e nel 2005 gli immigrati nati all’estero avevano contribuito ad avviare una su quattro delle scoperte tecnologiche americane nel corso del decennio precedente. Altrettanto importanti sono i benefici dell’immigrazione per l’immagine dell’America. Il fatto che la gente voglia andare negli Stati Uniti, insieme con la mobilità verticale degli immigrati, migliora l’attrattiva del Paese. L’America è una calamita e molte persone possono pensare a se stesse come americani, perché molti americani di successo sembrano persone in altri Paesi.

Inoltre, le relazioni tra gli immigrati e le loro famiglie e gli amici rimasti a casa aiutano a trasmettere informazioni precise e positive circa gli Stati Uniti. In più la presenza di culture multiple crea collegamenti con altri Paesi e aiuta ad allargare le competenze americane in un’era di globalizzazione. Piuttosto che diluire la forza di dissuasione e quella di persuasione, l’immigrazione aumenta entrambe. Uno statista asiatico di alto livello, acuto osservatore di lunga data degli Stati Uniti e della Cina, conclude che la Cina non supererà gli Stati Uniti come potenza leader del XXI secolo grazie alla capacità americana di attrarre i migliori e più brillanti dal resto del mondo e fonderli in una diversa cultura della creatività. La Cina ha una popolazione interna più ampia su cui far affidamento ma, a suo avviso, la sua cultura sino-centrica la renderà meno creativa rispetto agli Stati Uniti. Mentre si può capire la resistenza dei comuni cittadini americani alla concorrenza da parte degli immigrati stranieri in un periodo di alta disoccupazione, sarebbe ironico se il dibattito in corso conducesse a politiche che precludessero agli Usa uno dei suoi peculiari elementi di forza.

* Ex assistente al segretario alla Difesa e professore alla Harvard University
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7696&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Ottobre 25, 2010, 05:15:41 pm »

25/10/2010

Un coordinamento per l'economia globale
   
JOSEPH S. NYE*


Un governo globale è improbabile nel ventunesimo secolo ma vari livelli di governance esistono già. Il mondo ha centinaia di trattati, istituzioni, regimi per disciplinare le relazioni tra gli Stati che coinvolgono telecomunicazioni, aviazione civile, esportazioni transoceaniche, commercio e anche la proliferazione nucleare.

Ma queste istituzioni sono raramente autosufficienti. Richiedono ancora la guida delle grandi potenze. E resta da vedere se le grandi potenze di questo secolo potranno svolgere questo ruolo.

Con l’aumentare del potere di Cina e India, come cambierà la loro condotta? Ironia della sorte, per quelli che prevedono a metà del secolo un mondo tripolare diviso tra Stati Uniti, Cina e India, tutti e tre questi Stati – i più popolosi al mondo - sono tra i più protettivi della propria sovranità.

Alcuni sostengono che le nostre attuali istituzioni globali sono sufficientemente aperte e flessibili perché la Cina trovi il proprio interesse a diventare quello che Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, ha una volta chiamato un «azionista responsabile». Altri ritengono che la Cina voglia imporre il proprio marchio e, via via che ne aumenta il potere, creare un proprio sistema istituzionale internazionale.

I Paesi dell’Unione europea sono stati i più disposti a sperimentare la limitazione della sovranità statale e possono spingere per una maggiore innovazione istituzionale. Ma è improbabile che, salvo un disastro come la Seconda guerra mondiale, il mondo sia testimone di «un momento costituzionale», come quello sperimentato con la creazione del sistema delle Nazioni Unite dopo il 1945.

Oggi, come istituzione universale, l’Onu svolge un ruolo cruciale nella legittimazione, nella diplomazia delle crisi, nel mantenimento della pace e nelle missioni umanitarie, ma le sue dimensioni hanno dimostrato di essere uno svantaggio per molte altre funzioni. Come ha dimostrato il summit sul cambiamento climatico tenutosi nel 2009 a Copenaghen, riunioni di 192 Stati sono spesso ingombranti e soggette a blocchi politici e a mosse tattiche da agenti in gran parte estranei che d’altra parte mancano delle risorse per risolvere i problemi funzionali. Come ha detto recentemente il segretario di Stato Usa Hillary Clinton: «L’Onu resta l’istituzione più importante a livello mondiale... ma noi siamo costantemente messi di fronte ai suoi limiti... L’Onu non ha mai inteso affrontare ogni sfida. Né deve farlo». In effetti, il dilemma principale che la comunità internazionale deve affrontare è come includere tutti ed essere ancora in grado di agire. La risposta probabilmente si trova in ciò che gli europei hanno ribattezzato «geometria variabile». Ci saranno molti multilateralismi e «mini-lateralismi», che varieranno a seconda del tema con la distribuzione delle risorse energetiche.

Ad esempio, per gli affari monetari, nel 1944 la conferenza di Bretton Woods ha creato il Fondo Monetario Internazionale e da allora si è allargata a 186 Paesi. Ma la predominanza mondiale del dollaro è stata la caratteristica fondamentale della cooperazione monetaria fino agli Anni 70. Dopo l’indebolimento del dollaro e la decisione del presidente Richard M. Nixon di porre fine alla sua convertibilità in oro, nel 1975 la Francia convocò i leader di cinque Paesi nella biblioteca del castello di Rambouillet per discutere di affari monetari. Il gruppo presto crebbe a sette, e successivamente, ampliato nel campo di applicazione e nel numero di aderenti - tra cui la Russia e un vasto apparato burocratico e informativo -, divenne il G-8.

In seguito il G-8 ha iniziato la pratica di invitare cinque ospiti delle economie emergenti. Durante la crisi finanziaria del 2008 questo quadro si è evoluto nel G-20, che permette una partecipazione più ampia.

Allo stesso tempo il G-7 ha continuato a riunirsi con un’agenda monetaria più ristretta; sono nate nuove istituzioni, come il Financial Stability Board mentre le discussioni bilaterali tra gli Stati Uniti e la Cina hanno svolto un ruolo sempre più importante. Come ha detto un esperto diplomatico: «Se si sta cercando di negoziare un accordo di cambio con 20 Paesi o un piano di salvataggio del Messico, come nei primi tempi di Clinton, con 20 Paesi non è facile. Sopra i dieci ottenere risultati diventa troppo dannatamente difficile». Ha ragione, naturalmente. Dopo tutto, con tre Paesi, ci sono tre relazioni bilaterali; con dieci ce ne sono 45; e con 100 interlocutori ce ne sono quasi 5.000. Ecco perché, su questioni come il cambiamento climatico le Nazioni Unite continueranno a svolgere un ruolo, ma negoziati più incisivi sono più probabili in gruppi più piccoli come il Major Economies Forum, dove meno di una dozzina di Paesi rappresentano l’80% delle emissioni di gas a effetto serra.

Gran parte del lavoro di governance globale si baserà su reti formali e informali. Le organizzazioni di rete (come il G-20) sono utilizzate per fissare gli ordini del giorno, la creazione del consenso, il coordinamento della politica, lo scambio di conoscenze, e la determinazione di norme. Come sostiene Anne-Marie Slaughter, direttore della pianificazione politica al Dipartimento di Stato Usa, «il potere che scaturisce da questo tipo di connettività non è quello di imporre risultati. Le reti non sono dirette e controllate, per quanto siano gestite e orchestrate. Più soggetti sono integrati in un insieme che è maggiore della somma delle sue parti». In altre parole, la rete fornisce il potere per ottenere i risultati preferiti insieme agli altri interlocutori, piuttosto che agendo su di loro.

Per far fronte alle sfide transnazionali che caratterizzano l’età dell’informazione globale, la comunità internazionale dovrà continuare a sviluppare una serie di reti complementari e di istituzioni che integrano il quadro globale delle Nazioni Unite. Ma se i principali Paesi sono divisi, è improbabile che anche le organizzazioni di rete, come il G-20 possano fissare l’agenda che permette alle Nazioni Unite e a istituzioni finanziarie come Bretton Woods di agire.

Nel periodo immediatamente successivo alla crisi finanziaria del 2008, il G-20 sembrava aiutare i governi a coordinare le loro azioni e a evitare il protezionismo dilagante. Il mondo attende con ansia di vedere come funzionerà quando si riunirà nuovamente a Seul, a novembre.


*ex assistente del segretario alla Difesa, è professore alla Harvard University e autore del libro di prossima uscita «The Future of Power». Copyright: Project Syndicate, 2010 www.project-syndicate.org

Traduzione di Carla Reschia

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7998&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Novembre 23, 2010, 09:52:24 am »

23/11/2010

Aprirsi al mondo la via di Tokyo per la rinascita
   
JOSEPH NYE

Le attuali tensioni fra Cina e Giappone hanno riacceso il dibatti to sul declino nipponico dopo il suo momento di gloria, negli Anni 80. Nella misura in cui questo senso di declino è fondato sulla realtà, il Giappone potrà riprendersi?

L’economia giapponese ha sofferto due decenni di crescita lenta per l’inadeguatezza delle decisioni politiche seguite al crollo della massiccia bolla speculativa sul prezzo degli asset nei primi Anni 90. Nel 2010, l’economia cinese ha superato globalmente quella giapponese anche se è solo un sesto in termini pro capite. Nel 1988 fra le prime dieci aziende al mondo per capitalizzazione di mercato otto erano giapponesi, oggi non ce n’è nessuna. Ma, nonostante le sue recenti scarse performance, Tokyo mantiene risorse impressionanti. Ha la terza economia del mondo, industrie sofisticate e le forze militari convenzionali meglio equipaggiate tra i Paesi asiatici.

Solo due decenni fa molti americani temevano il sorpasso dopo che il reddito pro capite giapponese aveva superato quello degli Stati Uniti. I libri prevedevano un blocco del Pacifico guidato dai giapponesi che avrebbe tagliato fuori gli Stati Uniti, e persino un’eventuale guerra tra i due Paesi. Il futurologo Herman Kahn prevedeva che il Giappone sarebbe diventato una superpotenza nucleare e che questa transizione sarebbe stata come «il cambiamento portato sulla scena europea e mondiale nel 1870 dall'ascesa della Prussia».

Questi punti di vista testimoniavano l’impressionante record giapponese. Oggi, tuttavia, servono come utile promemoria del pericolo di proiezioni lineari basate sulle risorse di potere in rapido aumento. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale il Giappone rappresentava il 5% della produzione industriale mondiale. Devastato dalla guerra, non riguadagnò quel livello fino al 1964. Dal 1950 al 1974 il Giappone registrò in media un notevole tasso di crescita annuo del 10%, e nel 1980 era la seconda economia nazionale più grande del mondo, con il 15% della produzione mondiale.

Il Giappone era diventato anche il più grande creditore del mondo e il più grande donatore di aiuti esteri. La sua tecnologia era approssimativamente uguale a quella degli Stati Uniti - e anche leggermente più avanti in alcuni rami di produzione. Il Giappone si dotò di armi con molta moderazione (limitando le spese militari a circa l'1% del Pnl), e s’incentrò sulla crescita economica.

Questa non era la prima volta che il Giappone riusciva a reinventarsi in modo sorprendente. Un secolo e mezzo fa, il Giappone fu il primo Paese non occidentale ad adattarsi con successo alla globalizzazione moderna. Dopo secoli di isolamento, la restaurazione Meiji e scelse selettivamente dal resto del mondo, e nel giro di 50 anni il Paese era diventato abbastanza forte per sconfiggere una grande potenza europea nella guerra russo-giapponese. Può il Giappone reinventarsi ancora una volta? Nel 2000, il discorso di un primo ministro sugli obiettivi nel ventunesimo secolo chiese proprio questo. Poco è successo. Data la stagnazione economica, le debolezze del sistema politico, l'invecchiamento della popolazione e la resistenza all’immigrazione, un cambiamento fondamentale non sarà facile.

Ma Tokyo mantiene un alto tenore di vita, una forza lavoro altamente qualificata, una società stabile, e aree di eccellenza tecnologica e produttiva. Inoltre, la sua cultura (sia tradizionale che popolare), gli aiuti allo sviluppo e il sostegno delle istituzioni internazionali forniscono risorse che ne fanno un polo di attrazione. Ma sembra improbabile che un Giappone risorto, tra un decennio o due, possa diventare un competitore globale da un punto di vista economico o militare, come era stato previsto due decenni fa. Circa delle dimensioni della California, il Giappone non avrà mai la scala geografica o demografica di Cina o Usa. E il suo potere seduttivo viene vanificato da atteggiamenti e politiche etnocentrici.

Alcuni politici giapponesi parlano di una revisione dell'articolo 9 della Costituzione, che limita le forze all’autodifesa e alcuni hanno parlato di armamento nucleare. Entrambi al momento sembrano poco saggi e improvvidi.

In alternativa, se il Giappone fosse alleato con la Cina, le risorse combinate dei due Paesi creerebbero una coalizione potente. Nel 2006 la Cina è diventata il principale partner commerciale del Giappone e il nuovo governo formato dal Partito Democratico del Giappone nel 2009 ha lavorato per un miglioramento delle relazioni bilaterali. Ma un’alleanza appare improbabile. Le ferite del 1930 non sono guarite e Cina e Giappone hanno visioni contrastanti sul ruolo del Giappone in Asia e nel mondo. Ad esempio, la Cina ha bloccato gli sforzi del Giappone per diventare membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Più di recente, dopo che i funzionari marittimi giapponesi hanno arrestato il capitano di una barca da pesca cinese vicino alle contestate isole Senkaku, la Cina ha risposto duramente, arrestando uomini d'affari giapponesi, cancellando le visite degli studenti e sospendendo le esportazioni di minerali rari da cui le industrie giapponesi dipendono.

Il comportamento della Cina ha scioccato molti giapponesi e cancellato il suo appeal in Giappone. Come ha detto un professore giapponese, in termini calcistici la Cina ha segnato un «autogol». Nella prospettiva altamente improbabile che gli Stati Uniti dovessero ritirarsi dalla regione dell'Asia Orientale, il Giappone potrebbe far fronte comune con la Cina, ma è più probabile che il Giappone mantenga la sua alleanza con gli Usa per salvaguardare la sua indipendenza dalla Cina.

Oggi il pericolo principale per il Giappone è una tendenza a ripiegarsi su se stesso piuttosto che a diventare una potenza globale civile che realizza il suo grande potenziale per la produzione di beni pubblici globali. Ad esempio, il bilancio degli aiuti del Giappone è diminuito, e rispetto a due decenni fa è sceso della metà il numero degli studenti giapponesi che studia all'estero. Un Giappone introverso sarebbe una perdita per il mondo intero.

Joseph Nye, ex Assistente Segretario alla Difesa, è professore alla Harvard University. Il suo libro «The Future of Power» sarà pubblicato a febbraio.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8121&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Dicembre 06, 2010, 09:21:41 am »

6/12/2010

L'enigma Nord Corea

JOSEPH S. NYE*


Che cosa sta succedendo in Corea del Nord? Il 23 novembre, il suo esercito ha sparato circa 200 colpi di artiglieria sull’isola di Yeonpyeong nella Corea del Sud, vicino al confine marittimo contestato tra i due Paesi, uccidendo quattro persone - tra cui due civili - e demolendo decine di case e altre strutture. La presenza di civili, molti dei quali hanno dovuto essere evacuati, ha reso l’attacco della Corea del Nord ancora più provocatorio dell’affondamento a marzo del Cheonan, la nave da guerra della Corea del Sud, che causò la morte di 46 marinai.

E, proprio poche settimane prima del bombardamento di Yeonpyeong, la Corea del Nord ha mostrato a una delegazione di scienziati americani un nuovo e in precedenza ignoto impianto per l’arricchimento dell’uranio, che aumenterà la capacità del regime di dotarsi di armi nucleari.

Il programma nucleare della Corea del Nord è da due decenni motivo di preoccupazione. Pyongyang ha violato i suoi obblighi verso il Trattato di non-proliferazione nucleare riprocessando segretamente nei primi Anni 90 plutonio sufficiente a produrre due armi nucleari. Dopo essersi ritirata da un accordo per il disarmo negoziato dall’amministrazione Clinton nel 1994, ha espulso gli ispettori ell’Aiea (International Atomic Energy Agency) e ha iniziato la conversione del combustibile esaurito che potrebbe produrre plutonio per altre sei bombe.

Ora, con il suo nuovo impianto di arricchimento, l’accesso della Corea del Nord a materie fissili aumenterà notevolmente. I suoi leader hanno fama di vendere articoli pericolosi come missili, stupefacenti e valuta contraffatta e molti temono che possano trasferire materiale nucleare ad altri Paesi o gruppi terroristici. Le recenti rivelazioni di WikiLeaks di documenti diplomatici americani classificati, per esempio, suggeriscono che la Corea del Nord sta aiutando l’Iran nel suo programma missilistico avanzato. L’amministrazione di George W. Bush inizialmente sperava di poter risolvere il problema nucleare nordcoreano con un cambio di regime. L’idea era che l’isolamento e le sanzioni avrebbero rovesciato la dittatura di Kim Jong-il. Ma il regime si è dimostrato resistente, e l’amministrazione Bush ha infine accettato di aderire ai colloqui a sei con Cina, Russia, Giappone e le due Coree.

Nel settembre 2005 per un attimo parve che i colloqui avessero portato la Corea del Nord ad accettare di rinunciare al proprio programma nucleare in cambio di garanzie sulla sicurezza e della rimozione delle sanzioni. Ma l’accordo presto crollò e la Corea del Nord ha rifiutato di tornare al tavolo dei negoziati fino a quando gli Stati Uniti non hanno smesso di far chiudere i conti bancari sospetti di falsificare e riciclare denaro sporco per il regime di Kim. Poi, con la diplomazia in stallo, la Corea del Nord ha lanciato una serie di missili nel Mar del Giappone. Tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno approvato una risoluzione di condanna per il comportamento della Corea del Nord e la Cina l’ha ammonita, invitandola a moderare il suo comportamento. In risposta, nel 2006, la Corea del Nord ha fatto esplodere un ordigno nucleare, e nel 2009 lo ha rifatto.

Apparentemente, la Corea del Nord è un Paese debole, con un sistema economico disastroso. Partendo da livelli simili, mezzo secolo fa, la Corea del Sud è cresciuta fino a diventare una delle economie più prospere al mondo, con quasi 50 milioni di persone che godono di un reddito pro capite di 30 mila dollari (a parità di prezzo di acquisto). La Corea del Nord ha la metà della popolazione e un reddito pro capite di meno di 2000 dollari. Negli Anni 90 la Corea del Nord ha sofferto di una carestia che probabilmente ha ucciso 1-2 milioni di persone, e anche oggi dipende dalla Cina per il cibo e il carburante.

Come può allora la Corea del Nord pensare di sfidare il suo vicino? Per prima cosa, la Corea del Nord ha «il potere della debolezza». In certe situazioni, la debolezza - e la minaccia che un partner crollerà - può essere una fonte di potere contrattuale. Il debitore in bancarotta che deve 1000 dollari ha poco potere, ma se deve un miliardo di dollari può disporre di un notevole potere contrattuale - come testimonia la sorte delle istituzioni giudicate «troppo grandi per fallire» durante la crisi finanziaria del 2008.

Come ha osservato il Financial Times, «Kim Jong-il è probabilmente l’unico leader mondiale che riesce a far sembrare Pechino impotente. I diplomatici dicono che Kim gioca spudoratamente con i timori cinesi. Se i cinesi non tengono in piedi grazie agli aiuti la sua economia in rovina, sostiene, dovranno affrontare i rifugiati che si riversano oltre confine e i possibili disordini che ne nasceranno». La Cina non vuole una Corea del Nord aggressiva e dotata di potere nucleare, ma è ancora più preoccupata da uno Stato fallito che collassa ai suoi confini. La Cina ha cercato di persuadere il regime di Kim a seguire il suo esempio orientandosi al mercato, ma Kim teme che l’apertura economica porterebbe a un’apertura politica e alla perdita del suo controllo dittatoriale. Così, benché la Cina stia cercando di moderare l’attuale crisi, la sua influenza è limitata.

L’altra fonte di potere della Corea del Nord è la sua audacia nel giocare una mano debole. Sì, un’invasione militare su vasta scala finirebbe con una sconfitta devastante da parte delle superiori forze militari della Corea del Sud e degli Stati Uniti, e le odierne manovre navali nel Mar Giallo sono destinate a ricordare alla Corea del Nord questa disparità. Ma, con 15 mila cannoni d’artiglieria nascosti nella zona demilitarizzata, a sole 30 miglia a Nord di Seul, la Corea del Nord sa che con pochi colpi di mortaio potrebbe gettare nel caos il mercato azionario e l’economia della Corea del Sud avendo in confronto meno da perdere. Ostentando la sua volontà di assumersi i rischi maggiori, il Nord spera di potenziare ulteriormente la sua forza contrattuale. La maggior parte degli osservatori attribuiscono le recenti provocazioni alla anticipata successione al potere a Pyongyang. Kim Jong-il aveva avuto anni per prepararsi a sostituire suo padre, Kim Il-sung, ma molti rapporti suggeriscono che sia quasi in punto di morte. Questo autunno, ha promosso il suo finora poco visto figlio, Kim Jong-un, al rango di generale, presentandolo a una conferenza del partito comunista.

La dimostrazione del successo militare nel «proteggere» il regime può effettivamente essere destinata a rafforzare la salita al potere del generale ventottenne. Se è così, il comportamento a rischio che abbiamo appena visto è parte del processo di consolidamento di un sistema politico unico: una monarchia ereditaria comunista.

*Ex assistente del Segretario della Difesa e professore ad Harvard

(Traduzione di Carla Reschia)
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8170&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Febbraio 10, 2011, 11:38:12 am »

10/2/2011

La realtà del potere virtuale

JOSEPH S. NYE*

Mentre i regimi arabi combattono contro dimostrazioni alimentate da Twitter e Al Jazeera e i diplomatici americani cercano di comprendere l’impatto di Wikileaks, appare chiaro che questa era dell’informazione globale richiede una comprensione più sofisticata di come funzioni il potere nella politica mondiale. Questo è l’argomento del mio nuovo libro, The Future of Power. Due tipi di cambi di potere si stanno verificando in questo secolo - la transizione del potere e la sua diffusione. Il passaggio del potere da uno Stato dominante a un altro è un modello storico noto, ma la diffusione di potere è un processo più innovativo. Oggi il problema, per tutti gli Stati, è che il più sta accadendo al di fuori del controllo, anche dei più potenti tra loro.

Per quanto riguarda la transizione di potere, l’attenzione si concentra molto sul presunto declino americano, spesso con facili analogie storiche con la Gran Bretagna e con Roma. Ma Roma ha conservato il suo predominio per più di tre secoli dopo l’apogeo della sua potenza, e, anche allora, non si è arresa al sorgere di un altro Stato, ma ha subito la morte dei mille tagli inflitta dalle varie tribù barbariche. In effetti, per tutte le predizioni alla moda sul sorpasso di Cina, India o Brasile sugli Stati Uniti nei prossimi decenni, le minacce più gravi possono arrivare dai moderni barbari e da attori non statali. In un mondo basato sull’informazione minato dall’insicurezza informatica la diffusione del potere rappresenta una minaccia maggiore rispetto alla transizione del potere.

Che cosa significa esercitare il potere nell’era dell’informazione globale del XXI secolo? Quali risorse generano potere? Ogni epoca ha le sue risposte. Nel XVI secolo, il controllo delle colonie e dei lingotti d’oro ha dato la supremazia alla Spagna; l’Olanda del XVII secolo ha tratto profitto dal commercio e dalla finanza; la Francia del XVIII secolo si avvantaggiò grazie alla maggiore popolazione e agli eserciti, e nel XIX secolo il potere britannico poggiava sul primato industriale e navale. La saggezza popolare ha sempre ritenuto che lo Stato con l’esercito più grande prevale. Nell’epoca dell’informazione, tuttavia, può essere lo Stato con la migliore storia a vincere. Oggi, è tutt’altro che chiaro come misurare un equilibrio di potere, e tanto meno come sviluppare strategie di sopravvivenza vincenti per questo nuovo mondo.

La maggior parte delle attuali proiezioni su un cambiamento nell’equilibrio globale del potere si basano principalmente su un unico fattore: le stime sulla crescita del Pil dei Paesi. Ignorano quindi le altre dimensioni del potere, sia quello coercitivo, militare, sia quello morbido della propaganda, per non parlare della difficoltà politica di combinarli in strategie di successo. Gli Stati resteranno l’attore dominante sulla scena mondiale, ma troveranno il palcoscenico molto più affollato e difficile da controllare. Una parte molto più grande delle loro popolazioni che mai prima aveva avuto accesso al potere che deriva dall’informazione.

I governi si sono sempre preoccupati per il flusso e il controllo delle informazioni, e il periodo attuale non è il primo a essere fortemente influenzato da cambiamenti epocali nelle tecnologie dell’informazione. La novità - e lo vediamo manifestarsi oggi in Medio Oriente - è la velocità di comunicazione e il progresso tecnologico di una più ampia gamma di attori.

L’attuale era dell’informazione, a volte definita la «Terza Rivoluzione Industriale», si basa su rapidi progressi tecnologici nei computer, nelle comunicazioni e nel software, che a loro volta hanno portato a una significativa riduzione del costo di creazione, elaborazione, trasmissione, e ricerca di informazioni di ogni genere. E questo significa che la politica mondiale non può più essere la sola associazione di governi.

Con il diminuire dei costi per l’informatica e la comunicazione, diminuiscono gli ostacoli all’ingresso. Individui e organizzazioni private, che vanno dalle aziende alle Ong ai terroristi, sono così abilitati a svolgere un ruolo diretto nella politica mondiale.

La diffusione delle informazioni significa che il potere sarà distribuito più ampiamente e le reti informali eroderanno il monopolio della burocrazia tradizionale. La velocità del tempo di Internet significa che tutti i governi hanno meno controllo sulle loro agende. I leader politici potranno godere di un minor grado di libertà prima di dover rispondere degli eventi, e quindi dovranno competere con un crescente numero e varietà di attori per essere ascoltati.

Vediamo come faticano i politici americani per far fronte alle turbolenze del Medio Oriente. La caduta del regime tunisino aveva profonde radici nazionali, ma i tempi hanno preso di sorpresa gli altri Paesi, ivi compreso il governo Usa. Alcuni osservatori attribuiscono l’accelerazione della rivoluzione a Twitter e Wikileaks.

Mentre l’amministrazione Obama definisce la politica verso l’Egitto e lo Yemen, si trova ad affrontare un dilemma. In Yemen, il regime di Ali Abdullah Saleh ha fornito assistenza strategica per affrontare la minaccia del terrorismo affiliato ad Al Qaeda. In Egitto, il governo di Hosni Mubarak ha contribuito a moderare il conflitto israelo-palestinese e a equilibrare il potere iraniano nella regione. Il semplicistico appoggio alla democrazia da parte dell’amministrazione di George W. Bush s’è rivelato costoso sia in Iraq come nella Striscia di Gaza, dove le elezioni hanno permesso un governo ostile guidato da Hamas. Nell’era dell’informazione, la politica intelligente coniuga potere coercitivo e forza di persuasione. Dato quello che gli Stati Uniti rappresentano, l’amministrazione Obama non può permettersi di trascurare l’opera di propaganda su democrazia, libertà e apertura.

Così, Obama e il segretario di Stato americano Hillary Clinton hanno lanciato appelli pubblici e privati per la riforma e il cambiamento in Egitto e nel mondo arabo, pur sollecitando limiti alla violenza da parte di tutti. Inoltre, si sono allineati con la libertà di informazione contro gli sforzi da parte del regime egiziano per bloccare l’accesso a Internet. Come evolveranno gli eventi in Medio Oriente nessuno può dirlo, ma nell’era dell’informazione confermare la libertà di accesso sarà una componente importante per una gestione accorta del potere.

*Joseph S. Nye, ex assistente Segretario alla Difesa, è professore ad Harvard e autore di «The Future of Power».
Copyright: Project Syndicate, 2011
www.project-syndicate.org

(Traduzione di Carla Reschia)

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!