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Autore Discussione: PIETRO GARIBALDI Proposta un po' generica  (Letto 2920 volte)
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« inserito:: Marzo 01, 2009, 10:39:14 am »

1/3/2009
 
Proposta un po' generica
 
PIETRO GARIBALDI
 

Nello stesso giorno in cui a Torino migliaia di lavoratori manifestavano per le piazze in difesa di lavoro e retribuzioni, Dario Franceschini, il neo segretario del Pd, ha offerto al governo l’appoggio dell’opposizione per l’introduzione immediata di un assegno a chi perde il posto di lavoro. Nel mezzo della peggior recessione degli ultimi vent’anni, il tema del sostegno ai disoccupati è molto sentito tra i milioni di lavoratori che rischiano di perdere il posto nei prossimi mesi. L’offerta di Franceschini potrebbe anche aprire un nuovo clima politico tra governo e opposizione.

In realtà, guardando con più attenzione la realtà italiana, il tema del sostegno ai disoccupati è molto più complesso e una proposta troppo generica rischia di essere poco efficace. Indubbiamente in Italia gli ammortizzatori sociali sono una selva in cui è difficile muoversi.

Anche perché vi sono grandi disuguaglianze a seconda del tipo di contratto che il disoccupato aveva quando era occupato, del settore di provenienza e della dimensione dell’impresa in cui lavorava. Tuttavia non si deve pensare che chi perde il lavoro non abbia alcuna forma di sostegno. Oggi in Italia ogni lavoratore dipendente che perde il posto di lavoro con almeno due anni di anzianità ha diritto all’indennità ordinaria di disoccupazione, un assegno di sei mesi pari al 60% della retribuzione precedente con un tetto di 800 euro. L’indennità ordinaria è certamente inadeguata rispetto alla media europea e andrebbe riformata in modo sostanziale, anche perché purtroppo finisce per applicarsi soltanto a un nuovo disoccupato su tre. Il neo segretario avrebbe forse dovuto concentrare la sua attenzione sul problema dei precari, oggi più di 4 milioni di lavoratori, che non hanno accesso all’indennità ordinaria e rischiano di trovarsi senza alcun sostegno nel caso in cui il loro contratto arrivi a scadenza o non venga rinnovato.

La vera riforma da proporre al governo sarebbe quella di introdurre un sussidio unico di disoccupazione, a cui si acceda indipendentemente dal tipo di contratto con cui si è stati impiegati. Al sussidio unico dovrebbero aver accesso anche i lavoratori parasubordinati e i lavoratori a progetto con un unico rapporto di lavoro. Una volta entrato a regime, questo strumento sarebbe in larga parte finanziato dai contributi pagati da imprese e lavoratori durante il rapporto di lavoro. Tuttavia la prima generazione di precari, quella che rischia il posto nei prossimi mesi, diventerà disoccupata senza aver versato alcun contributo. Servirebbe quindi un atto di solidarietà per garantire ai lavoratori precari il sussidio già dal prossimo anno.

Nelle scorse settimane il governo, attraverso una nota ufficiale del ministro Sacconi, ha sostenuto che con la recessione in corso non è il momento d’introdurre una riforma strutturale dell’indennità di disoccupazione. La strada intrapresa dal governo, in accordo con le Regioni e i sindacati, è stata invece quella di procedere con gli ammortizzatori in deroga. Oggi in Italia, oltre all’indennità di disoccupazione ordinaria, i lavoratori delle grandi imprese hanno diritto all’assegno di mobilità, un sostegno al reddito che può arrivare fino a tre anni nelle aree più depresse del Paese e per i lavoratori più anziani. Attraverso la deroga, il governo sceglie di volta in volta particolari settori o categorie di lavoratori - che possono andare dalle piccole imprese tessili alle imprese di servizi legati alla manifattura - a cui concedere l’assegno di mobilità o altre forme di sostegno al reddito. Il meccanismo delle deroghe è tanto arbitrario quanto rozzo e dobbiamo tutti augurarci che sia presto superato, anche perché la deroga è concessa a settori che non avevano in alcun modo contribuito al finanziamento dell’indennità. Inoltre, se si riformano gli ammortizzatori cercando costantemente l’appoggio dei sindacati, si finirà sempre per escludere i lavoratori precari, poco presenti tra i sindacati confederali.

L’introduzione di un sussidio unico non potrebbe avvenire a costo zero. Berton Richiardi e Sacchi sulla voce.info sostengono che sarebbero necessari circa 10 miliardi di euro. Con il meccanismo delle deroghe il governo ne avrebbe stanziati fino a 8 con la cooperazione delle Regioni. Siamo quindi convinti che si potrebbe fare di più e meglio. Se il governo correggesse la rotta rispetto agli ammortizzatori in deroga e l’opposizione elaborasse una vera e propria proposta di sussidio unico, forse si potrebbe arrivare a una riforma bipartisan degli ammortizzatori sociali. A beneficiarne non sarebbe solo il clima politico, ma l’intero Paese.

pietro.garibaldi@unito.it
da lastampa.it
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Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Marzo 03, 2009, 04:55:12 pm »

3/3/2009
 
Madri o figli

 
PIETRO GARIBALDI
 
Scegliere tra madri e figli è sempre difficile. Nel caso della medicina e degli interventi chirurgici d’urgenza su una donna incinta, la scelta tra madre e figlio può addirittura diventare drammatica. Nel campo della politica economica, per fortuna, la scelta tra generazioni diverse non è mai così difficile. Ma quando le risorse a disposizione sono poche e le necessità di interventi urgenti e strutturali sono molteplici, anche la politica economica si trova a dover preferire le madri ai figli. La necessità di riformare gli ammortizzatori sociali riguarda più che altro i figli. Nella recessione in corso i veri soggetti a rischio sono i giovani precari.

Per i lavoratori sotto i 35 anni, l'entrata nel mercato del lavoro avviene quasi sempre con un posto a tempo determinato o con un contratto a progetto. Se quest’ultimo non verrà rinnovato, il giovane si troverà completamente abbandonato dallo Stato, in quanto privo di qualunque sostegno al reddito. Il rischio di cadere in una trappola di povertà è reale, specialmente se il giovane disoccupato deve far fronte ai costi dell’affitto.

Il presidente del Consiglio domenica scorsa ha chiaramente detto che non vi sono risorse a sufficienza per introdurre un sussidio unico di disoccupazione destinato a tutti i lavoratori, indipendentemente dal tipo di contratto. Su questo giornale, Enrico Letta, il responsabile del Welfare del Pd, ha però rilanciato e ha sostenuto che l’opposizione, pur di trovare le risorse necessarie a finanziare il sussidio di disoccupazione, sarebbe addirittura disponibile ad appoggiare una riforma delle pensioni. In altre parole, il Pd ha detto che questa volta preferirebbe i figli alle madri. Il problema non è nuovo e l’Italia ha davvero bisogno di avere più Welfare e meno pensioni. Per rendersene conto è sufficiente ricordare che la spesa pensionistica in Italia si aggira intorno al 15 per cento del prodotto interno lordo, mentre la spesa per gli ammortizzatori sociali non arriva al 2 per cento. Se aggiungiamo la spesa per le politiche attive del lavoro, superiamo di poco i due punti percentuali. Negli altri Paesi europei la differenza tra la spesa pensionistica e le altre spese di assistenza è molto più ridotta. Una riforma delle pensioni non deve mai essere fatta per fare cassa e qualunque cambiamento va programmato con grande cautela.

Alcuni interventi sono però doverosi. Innanzitutto vi è l’esigenza di portare progressivamente l’età pensionabile delle donne (oggi intorno ai sessant’anni) vicino a quella degli uomini (oggi intorno a sessantacinque anni). Sulla necessità e urgenza di uguagliare l’età si è pubblicamente espresso anche il senatore Dini, il padre della più importante riforma delle pensioni degli ultimi quindici anni. Le stime di Boeri e Brugiavini su lavoce.info sostengono però che le risorse derivanti da un’uguaglianza dell’età pensionabile tra uomo e donna sarebbero minime. Più importante sarebbe invece accelerare la transizione al sistema pensionistico contributivo, quello introdotto dalla riforma Dini del 1996. La riforma più efficace e più equa dal punto di vista delle scelte individuali sarebbe quella che introduce riduzioni attuariali a tutte le pensioni maturate dal 2010 in poi per chi, sia esso uomo o donna, andrà in pensione prima dei 65 anni di età previsti dalla riforma Dini per accedere alle pensioni di vecchiaia.

Al di là degli aspetti tecnici della riforma pensionistica, trovare oggi le risorse per finanziare gli ammortizzatori sociali significa affrontare il nodo politico della scelta tra un aiuto ai giovani o una continua protezione ai più anziani. L’Italia è spesso considerata un Paese gerontocratico, dove i giovani contano quasi nulla nei posti di comando. La composizione della spesa pubblica tutta spostata verso le pensioni sembra confermare quest’impressione. Nel mezzo di una grave recessione, avere il coraggio di togliere alla madri per dare ai figli non sarebbe solo un’importante scelta politica, ma sarebbe un primo passo verso uno Stato più equo con le generazioni dei più giovani, quelle da cui dipende il futuro del Paese.

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