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Autore Discussione: MARIANA MAZZUCATO. La ricchezza giusta per la sinistra  (Letto 2395 volte)
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« inserito:: Giugno 16, 2015, 11:05:30 pm »

La ricchezza giusta per la sinistra
Le idee. E' necessaria una visione più audace per costruire uno stato sociale

Di MARIANA MAZZUCATO
16 giugno 2015
   
Una teoria sulle ragioni della sconfitta del Partito laburista alle elezioni britanniche comincia a prendere piede. Ma è una teoria sbagliata. Per quelli che basano le loro previsioni sui sondaggi, il risultato è stato una sorpresa. Meno per quelli che hanno seguito il Labour negli ultimi anni. Per molti aspetti il partito laburista proponeva una versione light del Partito conservatore: "Anche noi vogliamo ridurre il disavanzo, ma meno. Anche noi pensiamo che l'immigrazione sia un problema e vogliamo far entrare meno immigrati, ma più dei Tories". In altre parole, i laburisti non hanno fatto nessuno sforzo serio per elaborare una visione che spiegasse perché lasciar crescere il disavanzo ora può essere la chiave per la crescita futura: si guardi agli Stati Uniti, che nel 2009 hanno avuto un disavanzo del 10 per cento e oggi crescono più di qualsiasi Paese europeo che ha tenuto i conti pubblici in attivo. E nessun tentativo serio di spiegare perché l'immigrazione è uno dei maggiori punti di forza dell'economia britannica: attira capitale umano e rende meno insulare e provinciale la nostra mentalità.

Ma forse la parte più tragica della storia è quello che è successo dopo le elezioni. Il Labour si sta giustamente interrogando ma le risposte che sta trovando sono a loro volta versioni della visione conservatrice. Sentiamo dire da Tony Blair, da Chuka Umunna (ministro ombra dell'Industria, spesso chiamato l'Obama inglese, che si è ritirato dalla corsa per prendere il posto di Miliband) e da Liz Kendall (che a quella corsa partecipa ed è una delle favorite) che il Labour ha perso perché non ha abbracciato il mondo delle imprese: cioè non è stato, come si usa dire, abbastanza. E questo mondo come lo hanno chiamato? Il mondo dei "creatori di ricchezza".

Le imprese "creatrici di ricchezza"? Quali imprese? Va detto che nel 2011 Miliband cercò di distinguere fra le imprese che creano effettivamente valore per l'economia e quelle che si limitano solo a estrarre valore: il capitalismo produttivo contro il capitalismo predatorio, secondo la sua definizione. Ma Miliband fu immediatamente messo a tacere dal suo stesso partito: le sue affermazioni suonavano "anti-impresa". È un peccato, perché se avesse continuato su quella strada forse oggi il Labour non si troverebbe in questa situazione. Il Guardian/Observer nel 2014 mi ha etichettata come una dei guru del Partito laburista  -  ma posso immodestamente dire che se davvero fossi stata un punto di riferimento il Labour non avrebbe fatto questo errore. Nei miei libri faccio molta attenzione a non parlare di "imprese"  -  settore privato o settore pubblico  -  ma di un particolare tipo di settore privato di cui abbiamo bisogno, di un particolare tipo di settore pubblico, e di un particolare tipo di rapporto, in termini di "ecosistema", fra di essi. Limitarsi a parlare delle imprese come creatrici di ricchezza non c'entra nulla con il punto in questione: anzi, lo contraddice.

Perché è importante questa distinzione? Perché il capitalismo produttivo è un capitalismo in cui le imprese, lo Stato e i lavoratori operano insieme per creare ricchezza. Sono cioè tutti potenziali creatori di ricchezza. Gli emblemi di ricchezza nella moderna economia della conoscenza, dall'iPhone alla Tesla S, hanno tutti fatto leva su un settore pubblico strategico, disposto a farsi carico dei rischi e delle incertezze maggiori lavorando fianco a fianco con un settore privato disposto a reinvestire i suoi profitti nelle aree "a valle", come ricerca e sviluppo o la formazione del capitale umano. Oggi sono a rischio entrambi. Da una parte un settore pubblico timoroso, che cede agli appelli a introdurre ancora più austerity, che discute delle dimensioni del disavanzo invece che della composizione del disavanzo, che parla solo di limiti allo spending e non di investimento strategico. E dall'altra un settore privato ultra-finanziarizzato, che spende più per riacquistare le proprie azioni che in ricerca e sviluppo e formazione del capitale umano.

I lavoratori, naturalmente, sono anche loro creatori di ricchezza, non solo per il contributo che offrono, con il loro capitale umano, alla produzione di nuovi prodotti e servizi, ma anche perché, nel capitalismo moderno, si assumono a loro volta dei rischi, avendo scarse garanzie di un lavoro permanente e potendo trovarsi a fare molti sacrifici.

La ricchezza è insomma frutto di un lavoro collettivo, decentralizzato, con diversi attori pubblici, privati, individui e organizzazioni. È l'assenza di questo punto di vista ad aver creato una relazione disfunzionale tra imprese e Stato. Le imprese, presentandosi come le (sole) creatrici di ricchezza, hanno convinto sia i Tories che i laburisti a introdurre misure come la patent box (le agevolazioni fiscali sui guadagni legati ai brevetti, che si stanno diffondendo in quasi tutti i Paesi europei incluso l'Italia) che non accrescono in alcun modo l'innovazione (i brevetti sono già un monopolio garantito per 20 anni) ma servono solo a far diminuire il tax revenue pubblico ed aumentare la disuguaglianza. Ed è stato proprio il Labour a ridurre da dieci a due anni la durata degli investimenti di private equity necessaria per ottenere una cospicua riduzione delle tasse. È possibile immaginare politiche più filo-impresa di queste?

Simili politiche disfunzionali sono spesso state motivate dal desiderio di rendere l'economia più innovativa e competitiva. Ma in pratica sia il Labour che i Tories si sono limitati ai soliti discorsi sul dare più risorse alle piccole imprese cosa che ha poco senso quando la maggior parte delle piccole imprese sono poco innovative, poco produttive e creano anche poco lavoro. Le poche piccole imprese di valore hanno bisogno di un enorme appoggio pubblico, come quello che ricevono negli Usa, ed anche di una relazione più simbiotica con le grandi imprese. La cosa migliore che qualsiasi governo potrebbe fare per le piccole imprese è insistere perché le grandi imprese comincino a investire di più, rendendo maggiormente dinamico e mutualistico il rapporto con le imprese più piccole loro fornitrici. Ma questo vuole dire appunto mettere pressione sane sulle imprese: non essere solo timidamente friendly.

Fino a quando il Partito laburista  -  e qualsiasi partito progressista  -  non imparerà a discutere in modo serio di questi argomenti continuerà a perdere. Oggi un nuovo leader laburista ha l'opportunità concreta per elaborare una visione più ambiziosa di come si fa a creare ricchezza  -  invece di proporre una versione più contrita della visione conservatrice. E questa visione più coraggiosa  -  della ricchezza di una nazione creata da tutti, e non solo dalle imprese  -  può servire anche a costruire fondamenta più solide per lo Stato sociale (che storicamente ha aumentato le opportunità per tutti), finanziato non più solo dal contribuente volenteroso, ma anche attraverso i profitti condivisi delle fatiche di tutti i creatori di ricchezza.

© Riproduzione riservata
16 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/16/news/la_ricchezza_giusta_per_la_sinistra-116947706/?ref=HREA-1
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 19, 2015, 06:21:30 pm »

Solo lo spirito del Dopoguerra potrà salvarci dalla crisi eterna
L'emergenza ellenica riguarda tutta l'economia, dai dati "macro" alle singole imprese.
Ma l'ipocrisia tedesca e il rigore "copia e incolla" non servono: bisogna agire come la Germania post-1945.
L'austerità non aiuta, come sapeva bene Keynes, però ai greci si chiedono tagli su tagli

Di MARIANA MAZZUCATO
13 luglio 2015

Gli economisti si dividono in macroeconomisti e microeconomisti. I primi focalizzano la loro attenzione sugli aggregati, come l'inflazione, l'occupazione e la crescita del Pil. I secondi si occupano delle decisioni a livello individuale, che si tratti di un consumatore, di un lavoratore o di un'impresa. La crisi della Grecia pone al tempo stesso un problema macroeconomico e un problema microeconomico, ma le soluzioni di rigore "copia-incolla" proposte dai creditori non hanno affrontato l'enormità di nessuno di questi due problemi.

Alla fine degli anni Novanta la Germania aveva un problema di domanda aggregata (un concetto macroeconomico). Dopo un decennio di moderazione salariale, che aveva fatto calare il costo unitario del lavoro, ma anche il tenore di vita, non c'era più abbastanza domanda in Germania per i beni prodotti dalla Germania stessa, che quindi dovette andare a cercare domanda all'esterno. La liquidità in eccedenza nelle banche tedesche fu prestata all'estero, a banche straniere come quelle greche. Le banche greche prendevano i prestiti dalla Germania e prestavano a loro volta alle imprese greche per consentire loro di acquistare beni tedeschi, incrementando in tal modo le esportazioni teutoniche. Tutto questo ha fatto crescere tanto l'indebitamento del settore privato ellenico. Non a caso sono le banche tedesche a detenere una grossa fetta del debito greco (21 miliardi di euro).

Il fattore cruciale è che il maggiore indebitamento non è stato accompagnato da un incremento della competitività (un concetto microeconomico). Le imprese greche non investivano in quelle aree che fanno aumentare la produttività (formazione del capitale umano, ricerca e sviluppo, nuove tecnologie e cambiamenti strategici nella struttura delle organizzazioni). Oltre a questo, lo Stato non funzionava, per via della mancanza di riforme serie del settore pubblico. Pertanto, quando è arrivata la crisi finanziaria, il settore privato greco si è ritrovato altamente indebitato, senza la capacità di reagire.

Come altrove, questa massa di debito privato si è tradotta in un secondo momento in un debito pubblico di vaste proporzioni. Se è vero che il sistema greco era gravato di varie tipologie di inefficienze, è semplicemente falso che i problemi siano dovuti esclusivamente all'inefficienza del settore pubblico e a "rigidità" di vario genere. La causa principale è stata l'inefficienza del settore privato, capace di tirare avanti solo indebitandosi e sfruttando i "fondi strutturali" dell'Unione Europea per compensare la propria carenza di investimenti. Quando la crisi finanziaria ha messo a nudo il problema, il governo ha finito per dover soccorrere le banche e si è ritrovato a fare i conti con un tracollo del gettito fiscale, a causa del calo dei redditi e dell'occupazione. I livelli del debito in rapporto al Pil in Grecia, come in quasi tutti i Paesi, sono cresciuti in modo esponenziale dopo la crisi, per le ragioni che abbiamo detto.

La reazione della Trojka è stata di imporre misure di rigore, che come adesso ben sappiamo hanno provocato una contrazione del Pil greco del 25 per cento e una disoccupazione a livelli record, distruggendo in modo permanente le opportunità per generazioni di giovani greci. Syriza ha ereditato questo disastro e si è focalizzata sulla necessità di accrescere la liquidità incrementando le entrate fiscali attraverso la lotta contro l'evasione, la corruzione e le pratiche monopolistiche, nonché il contrabbando di carburante e tabacco. Ha accettato di riformare la normativa del lavoro, di tagliare la spesa e di alzare l'età pensionabile. Errori sono stati commessi dal giovane governo, ma certo non si può dire che non stesse facendo progressi, perché molte riforme avevano già preso il via. Anzi, nei primi quattro mesi di governo Tsipras il Tesoro ellenico aveva ridotto drasticamente il disavanzo e aveva un avanzo primario (cioè senza calcolare il pagamento degli interessi sul debito) di 2,16 miliardi di euro, molto al di sopra degli obbiettivi iniziali di un disavanzo di 287 milioni di euro.

L'austerità ha aiutato? No. Come sottolineava John Maynard Keynes, nei periodi di recessione, quando i consumatori e il settore privato tagliano le spese, non ha senso che lo Stato faccia altrettanto: è così che una recessione si trasforma in depressione. Invece la Trojka ha chiesto sempre più tagli e sempre più in fretta, lasciando ai greci poco spazio di manovra per continuare con le riforme intraprese e al tempo stesso cercare di accrescere la competitività attraverso una strategia di investimenti.

La crisi economica ha prodotto una crisi umanitaria a tutti gli effetti, con la gente incapace di acquistare cibo e medicine. Secondo uno studio, per ogni punto percentuale in meno di spesa pubblica si è avuto un aumento dello 0,43 per cento dei suicidi fra gli uomini: escludendo altri fattori che possono indurre al suicidio, tra il 2009 e il 2010 si sono uccisi «unicamente per il rigore di bilancio» 551 uomini. Syriza ha reagito promettendo cure mediche gratuite per disoccupati e non assicurati, garanzie per l'alloggio ed elettricità gratuita per 60 milioni di euro. Si è anche impegnata a stanziare 765 milioni di euro per fornire sussidi alimentari.

La priorità data da Syriza alla crisi umanitaria e il rifiuto di imporre altre misure di austerità sono stati accolti con grande preoccupazione e una totale mancanza di riconoscimento per le riforme già avviate. I media hanno alimentato questo processo e il resto è storia: quello che è successo poi, ovviamente, è stato abbondantemente raccontato dai giornali.

L'indisponibilità a condonare almeno in parte il debito greco è ovviamente un atto di ipocrisia, se si considera che al termine della guerra la Germania ottenne il condono del 60 per cento del suo debito. Una seconda forma di ipocrisia, spesso trascurata dai mezzi di informazione, è il fatto che tante banche sono state salvate e condonate senza che la cosa abbia suscitato grande scandalo fra i ministri dell'Economia. Oggi il salvataggio di cui avrebbe bisogno la Grecia ammonta a circa 370 miliardi di euro, ma non è nulla in confronto ai salvataggi internazionali messi in piedi per banche come la Citigroup (2.513 miliardi di dollari), la Morgan Stanley (2.041 miliardi), la Barclays (868 miliardi), la Goldman Sachs (814 miliardi), la JP Morgan (391 miliardi), la Bnp Paribas (175 miliardi) e la Dresdner Bank (135 miliardi). Probabilmente l'impazienza di Obama nei confronti della Merkel nasce dal fatto che lui conosce queste cifre! Sa perfettamente che quando il debito è troppo grosso, ed è impossibile che venga restituito alle condizioni correnti, dev'essere ristrutturato.

Il terzo tipo di ipocrisia è il fatto che mentre la Germania imponeva ai greci (e agli altri vicini del Sud) politiche di austerità, per quanto la riguardava incrementava la spesa per ricerca e sviluppo, collegamenti fra scienza e industria, prestiti strategici alle sue medie imprese (attraverso una banca di investimenti pubblica molto dinamica come la KfW) e così via. Tutte queste politiche ovviamente hanno migliorato la competitività tedesca a scapito di quella altrui. La Siemens non si è aggiudicata appalti all'estero perché paga poco i suoi lavoratori, ma perché è una delle aziende più innovative al mondo, anche grazie a questi investimenti pubblici. Un concetto microeconomico. Che rimanda a un altro macroeconomico: una vera unione monetaria è impossibile tra paesi così divergenti nella competitività.

Riassumendo, la rigorosa disciplina di bilancio usata oggi dall'Eurogruppo per mettere "in riga" la Grecia non porterà crescita al Paese ellenico. La mancanza di domanda aggregata (problema macroeconomico) e la mancanza di investimenti in aree capaci di accrescere la produttività e l'innovazione (problema microeconomico) serviranno solo a rendere la Grecia più debole e pericolosa per gli stessi prestatori. Sì, servono riforme di vasta portata, ma riforme che aiutino a migliorare questi due aspetti. Non soltanto tagli. Allo stesso modo, è necessario che la Germania si impegni di più a livello nazionale per accrescere la domanda interna, e che consenta in altri Paesi europei quel genere di politiche che le hanno permesso di raggiungere una competitività reale. Il fatto che l'Eurogruppo non comprenda tutto questo è dimostrazione di incapacità di pensare a lungo termine e ignoranza economica (chi comprerà le merci tedesche se l'austerità soffoca la domanda negli altri paesi?).

Speriamo questa settimana di vedere meno mediocrità e più capacità di pensare in grande, come successe dopo la guerra e come abbiamo bisogno che succeda adesso, dopo una delle peggiori crisi finanziarie della storia.

© 2015 Mariana Mazzucato

(Traduzione di Fabio Galimberti)
© Riproduzione riservata
13 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/07/13/news/solo_lo_spirito_del_dopoguerra_potra_salvarci_dalla_crisi_eterna-118949339/?ref=HREA-1
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