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Autore Discussione: Maria Laura Rodotà. Il voto negli usa Dalla Florida le ragioni della vittoria  (Letto 2208 volte)
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« inserito:: Novembre 09, 2014, 11:44:43 am »

Il voto negli usa
Dalla Florida le ragioni della vittoria
Tre fattori hanno contribuito alle pesante sconfitta dei democratici: la politica in mano ai miliardari, la mancanza di autopromozione, la gestione del voto

Di Maria Laura Rodotà

Lo tsunami repubblicano, commentavano stanotte perplessi alcuni abitanti liberal della Florida del sud, ha sdoganato svariate catastrofi naturali che lo stato patisce o rischia; delle Rick Scott, il governatore rieletto non ammette l’esistenza. Anzitutto, il riscaldamento globale, l’aumento del livello del mare e l’erosione delle migliaia di chilometri di sue coste. Scott ci crede, ovvero non crede, davvero; il multimilionario abita a Naples, cittadina costruita per i ricchi nel sud-ovest, in un villone sulla spiaggia a un metro sul livello del mare. Potrebbe avere problemi, ma non ci pensa e non ci crede. Questo atteggiamento positivo lo ha portato a iniziare una campagna elettorale come “il governatore meno popolare d’America” e a finirla da vincitore, sia pure con l’1 per cento in più.

Lo ha aiutato la ripresa economica, non hanno fatto male i 100 milioni di finanziamenti elettorali dei suoi grandi sponsor, da costruttori che stanno finendo di cementificare la Florida alle compagnie farmaceutiche ed assicurative che curano gli anziani trasferitisi qui (le compagnie farmaceutiche hanno anche combattuto con successo il referendum sulla medical marijuana, sarebbe stata una forma di concorrenza). Non ha guastato che il suo oppositore fosse Charlie Crist, un ex governatore ben noto e pure apprezzato, ma giudicato un voltagabbana, o almeno un repubblicano troppo moderato per i repubblicani e troppo inaffidabile per i democratici. Sono andati a votarlo in pochi a Miami e nella democratica o quasi South Florida. Ovunque tranne nella Broward County, Fort Lauderdale e dintorni. Per questo Crist ha chiesto ai giudici di prolungare lì le ore di voto. Per questo, dopo aver preso atto delle solite irregolarità nelle procedure di voto, ha inizialmente rifiutato di fare il discorso della sconfitta, poi ha chiesto la riconta dei voti (genere Florida di Bush-Gore del 2000), poi ha gridato ai brogli.

D’altra parte, in questo, la Florida è una certezza. Data una qualunque elezione, succederà qualcosa di strano. A Fort Lauderdale, alla Broward’s Croissant Park Elementary school è saltata la luce e hanno votato al telefono. Fuori Miami, alla Southwest Regional Library di Pembroke Pines gli elettori non hanno trovato il seggio e nessuno li aveva avvertiti di essere stati spostati altrove. A West Kendall, la maggioranza non era stata informata che questa volta sarebbe dovuta andare a votare altrove. A Tampa, seconda area metropolitana dello stato, in coda c’era molta gente disinteressata ai due governatori, venuta per votare sì alla legalizzazione della marijuana medica (che non è passata, serviva un 60 per cento di sì, si è arrivati al 57, i molti anziani antidroga a ogni costo hanno avuto la meglio). E insomma, la Florida resta lo stato più elettoralmente pittoresco dell’Unione (lo sa bene Al Gore, che perse la presidenza nel 2000 per poche centinaia di voti poco chiari). Lo ricorda chi seguì le ultime presidenziali, nel 2012, quando il risultato finale fu proclamato dopo molti giorni e successe di tutto. Però stavolta l’anomalia floridiana pare meno picaresca e più sintomatica delle disfunzionalità forse senza ritorno della politica americana.

Primo, la politica ufficialmente in mano ai miliardari e alle grandi corporations (sancita dalla sentenza del 2010 della Corte Suprema sul caso Citizen United, quella secondo la quale “le corporations sono persone”). L’abbronzato-argentato Christ, governatore piacione e popolare nonostante il cambio di partito, quest’estate era in testa ai sondaggi. E’ stato superato da Rick Scott, faccia e cranio da cattivo di film d’azione, azione politica da cattivo dei Simpson, dai tagli a sanità e scuola (poi mitigati, nonostante i sostenitori del Tea Party ci siano rimasti male, quando causa impopolarità rischiava di non essere rieletto) alle minacce di smantellare le ciclabili (idem: la Florida è piatta e i poveri che lavorano in alberghi e strutture turisti vanno al lavoro pedalando, bus ce n’è pochi). Scott ha avuto più del doppio dei finanziamenti elettorali di Crist (che ha proposto iniziative più che innovative, come riprendere i rapporti con Cuba e cavalcare gli investimenti turistici nell’isola), e si vede. Le stazioni tv della Florida sono state bombardate di annunci del governatore repubblicano.

Secondo. Nessuno spot rivendicava i suoi successi. Tutti hanno attaccato Crist. La politica americana non è battaglia delle idee ma neanche più duello di punti di vista, slogan, o se non altro “sound bites” televisivi, frasi brevi e d’effetto. E’ un scambio di attacchi negativi. Si tenta di distruggere l’avversario, non per convincere gli incerti (che in uno scenario politico polarizzato sono sempre meno); per persuadere i suoi potenziali elettori a rimanere a casa. In elezioni in cui conta la percentuale di già convertiti che si presenta ai seggi, il gioco è questo, e si gioca in modo brutale (oddio: stavolta pochi democratici si sono presentati, molti indipendenti anche, altri indipendenti hanno sfiduciato i democratici e Obama).

Terzo. La gestione del voto, dal ridisegno dei collegi elettorali alla legislazione approvata dagli stati su voto anticipato, necessità di preiscrizione in tempi contingentati e di documenti da esisbire. Gli stati governati da repubblicani hanno lavorato molto per rendere il voto più difficile alle minoranze (sempre più numerose, in molti casi, come gli ispanici in Florida e Texas) tendenti a votare democratico. In Florida le nuove leggi sono complesse, la gestione dei seggi è diciamo creativa. E la vittoria del governatore repubblicano potrebbe renderla ancora più creativa nel 2016, quando la Florida, stato in bilico per definizione, potrebbe ancora essere decisiva nell’elezione del presidente. Meglio: nel manovrare norme e seggi e spogli elettorali. “Con una simile valanga repubblicana, Hillary avrà problemi alla Camera anche se vince nel 2016”, commentava stanotte Chuck Todd della Nbc. Avrà problemi anche nella sempre incerta Florida, forse, adesso (o forse cavalcherà la sconfitta facendo la salvatrice del partito, ma vista stanotte non sembra impresa facile).

5 novembre 2014 | 06:19
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_05/dalla-florida-ragioni-vittoria-c20f8b46-64a8-11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 08, 2015, 12:03:57 am »

IL COMMENTO
«Su lottiam l’ideale /nostro Rolex sarà...»
L’ossessione delle marche prestigiose e la polemica (buffa) con dubbio sul no global che avrebbe indossato l’orologio di marca durante gli scontri di Milano

Di Maria Laura Rodotà

«Su lottiam l’ideale/nostro Rolex sarà...» (dall’Internazionale parafrasata dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ha definito gli spaccatutto di Milano “figli di papà col Rolex”; al premier Matteo Renzi la battuta è piaciuta; oggi la Rolex -come non capirla- ha comprato una pagina sui quotidiani per pubblicare una lettera indignata dell’amministratore delegato di Rolex Italia; giustamente furioso per «l’affiancamento dell’immagine del Rolex alla devastazione di Milano» ; come non capirlo).

Le marche prestigiose sono un’ossessione. Certi oggetti dalle griffes prodotti hanno quel che Thorstein Veblen nella sua Teoria della classe agiata chiamava «superior honorific character». Tanto superior che - a differenza di altri manufatti che indicano chiaramente appartenenza sociale, scelte politico-culturali e fedina penale - l’orologio Rolex è trasversale, bipartisan, così ecumenico da risultare, come si dice ora, poco trasparente.

Lo portano -vabbe’, modelli diversi- boss della Camorra e raffinate docenti universitarie che finora hanno votato Sel. Anziane imprenditrici che si son fatte da sole e figli di ministri che lo han ricevuto come regalo di laurea, costava diecimila euro e veniva da uno che trafficava in appalti, ma come si fa a rifiutare un Rolex, via.

Al netto della polemica buffa, che ha fatto iniziare la giornata con due risate a molti di noi, si resta con un dubbio: non è che i nostri governanti e i loro consiglieri pecchino, talvolta, di pressappochismo nelle analisi? O che detti consiglieri-comunicatori gli suggeriscano battute aggressive ma fuori fuoco? E che l’imprecisione, ignorata quando il maltrattato è un poveraccio, può mal disporre grandi imprese serie?

Insomma: la Rolex ha ragione. Sta probabilmente combattendo - non lo sappiamo, gli svizzeri sono discreti - una battaglia a tutto campo per preservare il buon nome. Forse tenta di esercitare la sua moral suasion su narcos e commercialisti. Forse si lamenta e propone alternative, come fecero alcune griffes coi tamarri del reality Jersey Shore, non volevano che indossassero le loro cose, per ovvi motivi. Da noi, in pubblico, finora ha taciuto, anche nel caso del figlio del ministro delle Infrastrutture. Ora non ne può più. Perché poi, seriamente: molti di noi hanno amici col Rolex. Non bruciano le auto, al massimo le posteggiano sul marciapiede. Si sa. Che diamine.

6 maggio 2015 | 10:25
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_06/su-lottiam-l-ideale-nostro-rolex-sara-6db99d44-f3c7-11e4-8aa5-4ce77690d798.shtml
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