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Autore Discussione: Alessandra Muglia. Il genocidio silenzioso dei Guaraní derubati della terra...  (Letto 2581 volte)
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« inserito:: Ottobre 15, 2014, 04:52:04 pm »

Il genocidio silenzioso dei Guaraní derubati della terra ancestrale
Parla Eliseu Lopes, leader e portavoce dei 47mila Kaiowá, il più numeroso dei tre gruppi Guaraní

di Alessandra Muglia

Un tempo i Guaraní del Brasile, occupavano un territorio di foreste e pianure grande come l’Italia: cacciavano e coltivavano manioca e granoturco. Nell’ultimo secolo sono stati allontanati dalle loro terre per far spazio a grandi allevamenti e a grandi piantagioni, soprattutto di canna da zucchero (che alimentano la fiorente industria nazionale dei biocarburanti). Oggi vivono confinati in riserve affollate o accampati ai margini delle strade. Vivono di stenti, sradicati ed emarginati. “Per noi la terra era tutto. Hanno devastato tutto quello che era nostro. Il governo parla di sviluppo economico ma sono menzogne, questo tipo di sviluppo porta sofferenza e morte – denuncia Eliseu Lopes, leader e portavoce dei 47mila Guaraní-Kaiowá, il più numeroso dei tre gruppi Guaranì.

SILENZIOSO GENOCIDIO Lopes, a Milano per una conferenza di Survival International (www.survival.it), alla casa dei Diritti definisce i contorni di un “genocidio silenzioso”. I nativi chiedono la restituzione della terra ancestrale secondo quanto previsto dalla Costituzione brasiliana. Nel 2007 è stata decisa la mappatura e demarcazione di 36 aree Guaraní. Ma da allora nemmeno una è stata assegnata, costringendo gli indios a sopportare malnutrizione, malattia, violenza e uno dei tassi di suicidio più alti al mondo: 1 ogni 7 giorni tra le tribù dei Guaraní-Kaiowá nello Stato di Mato Grosso do Sul, al confine con il Paraguay. Un tasso 34 volte superiore alla media nazionale.

VIOLENZE E IMPUNITA’
Vista la lentezza con cui procedono le autorità, molte comunità negli ultimi anni hanno deciso di rioccupare le loro terre da sole: è la cosiddetta retomada. Alle rioccupazioni di terre da parte dei nativi spesso seguono minacce, violenze e sgomberi da parte di sicari assoldati da proprietari terrieri e allevatori. Si calcola una media di 1 omicidio ogni 12 giorni. Tanti i leader nativi uccisi per aver guidato queste battaglie. Come Marcos Veron al cui assassinio si è ispirato il film di Marco Bechis “Birdswatchers. La terra degli uomini rossi”, andato anche a Venezia (2008). Poi l’anno scorso è stato ammazzato anche il protagonista del film, il leader Ambrosio Vilhalva che Lopes conosceva bene. “L’impunità di fatto di cui godono quanti attaccano e uccidono i membri della comunità alimentano continue violenze” dice Lopes, lui stesso minacciato di morte. “Sappiamo che il governo non demarcherà la nostra terra se non saremo noi stessi a occuparla, con Lula e Dilma non si è risolto niente, chiunque vinca le elezioni per noi non cambierà niente, la nostra lotta per la terra sarà la stessa”.

L’IMPEGNO DI NEVES
Poco importa ai nativi più avveduti che Aecio Neves, il rivale della “presidenta” Dilma Rousseff al ballottaggio del 26 ottobre, abbia accettato di impegnarsi sulla restituzione delle terre indigene per avere l’appoggio dell’ecologista Marina Silva, arrivata terza al primo turno e ago della bilancia del secondo. “La loro sfiducia è comprensibile.

Il governo brasiliano ha le mani legate sul problema delle terre dei nativi a causa del potere che ha acquisito negli ultimi anni il settore agroalimentare, attraverso il partito ruralista che può far convergere 200 deputati in Parlamento” spiega al Corriere Spensy Pimentel, docente dell’Universidade Federal da Integração Latino-Americana a Brasilia.

Per lui la soluzione è sì politica ma in senso più ampio: “Occorre una profonda riforma politica nel Paese che porti ad avere più equilibrio nella rappresentanza parlamentare”. Anche Carlo Zacquini, missionario laico da circa 50 anni con gli indios in Amazzonia, insiste sui limiti del capo di Stato brasiliano: “Il presidente qui ha reali poteri, sì, ma controllati da uno schema di parlamentari che rappresentano molto più il grande capitale”.

COMPLICITA’
La scrittrice brasiliana Eliane Brum punta il dito sulle responsabilità collettive : “Siamo tutti complici del genocidio, chi per azione, chi per inerzia/omissione - dice al Corriere -. Il tipo di sviluppo che si basa sulla trasformazione della foresta in piantagioni di soia e canna da zucchero, che dà la priorità a dighe come quella di Belo Monte in Amazzonia, si basa su una visione del mondo del XX secolo che considera la natura come un serbatoio infinito. I programmi sociali per abbattere la povertà in Brasile sono stati portati avanti depredando la natura e non puntando a una più equa distribuzione delle ricchezze, con politiche che riducano le disuguaglianze sociali”. Il grido d’allarme (e dolore) lanciato da Lopes si rivolge ai tribunali internazionali (che possono obbligare il governo brasiliano a rispondere delle negligenze che portano alla decimazione dei popoli indigeni) e all’opinione pubblica: all’inizio dell’anno, dopo una campagna di Survival, le autorità brasiliane hanno lanciato l’Operazione Awá e hanno sfrattato i taglialegna illegali che operavano nel territorio degli Awá. Survival ha anche persuaso la Shell a non comprare canna da zucchero prodotta nelle terre sottratte ai Guaraní e sollecitato il colosso americano Bunge che si è impegnato a non rinnovare il contratto alla scadenza. La battaglia continua.

14 ottobre 2014 | 07:43
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/inchieste/genocidio-silenzioso-guarani-derubati-terra-ancestrale/d539f87e-52eb-11e4-8e37-1a517d63eb63.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 05, 2015, 11:16:13 pm »

La ricostruzione
«Facevano telefonare a casa, poi uccidevano con un colpo alla nuca»
Garissa, i racconti dei sopravvissuti. «I musulmani ci hanno protetti e nascosti nella moschea»

Di Alessandra Muglia

Il giorno dopo il massacro di studenti nel campus di Garissa compiuto dagli shebab somali, il Kenya piange i suoi ragazzi, per lo più cristiani. Dalle testimonianze dei sopravvissuti emergono particolari raccapriccianti sull’assalto. I terroristi ieri sono tornati a minacciare nuove stragi («Non ci sarà alcun luogo sicuro per i keniani, fintanto che il Paese manterrà le sue truppe in Somalia»), e tra i cristiani cresce la paura, soprattutto in vista delle funzioni pasquali. Il bilancio ufficiale delle vittime è salito ieri a 148 (142 studenti, 3 agenti e 3 soldati), ma mancano ancora molti ragazzi all’appello: secondi i salesiani i morti potrebbero essere 200. Intanto crescono rabbia e polemiche per un attacco annunciato che a detta di molti poteva essere evitato. Sotto accusa il governo per non avere preso adeguate misure di sicurezza e per avere sottovalutato la minaccia jihadista e l’allerta dell’intelligence. In rete la solidarietà con i keniani corre sotto l’hashtag #WeAreAllKenyans.

Si è finta morta, cospargendosi viso e capelli con il sangue dei compagni uccisi e si è salvata. Helen Titus, 21 anni, cristiana, studentessa di letteratura inglese, è sopravvissuta al massacro nella sua università, a Garissa in Kenya, con macabra prontezza. E con lucidità nonostante lo choc ricostruisce quegli infiniti momenti di terrore: «Appena entrati nel campus gli assalitori si sono diretti verso l’aula magna dove noi cristiani stavamo recitando le preghiere del mattino. Avevano studiato l’edificio, sapevano tutto». Poi si sono diretti verso i dormitori. Hanno urlato ai ragazzi di venir fuori. Alcuni sono scappati buttandosi dalla finestra, riferisce un’altra sopravvissuta, Nina Kozel: «Quelli che si sono nascosti sotto il letto e negli armadi sono stati uccisi sul colpo, mentre quelli che si sono arresi sono stati liberati se musulmani e uccisi se cristiani».

«Buona Pasqua»
I cristiani venivano individuati anche «per come erano vestiti», testimonia Salias Omosa, 20 anni, studentessa di pedagogia, riuscita a scappare dopo aver assistito all’esecuzione di due amici. Gli assalitori, dice, prima di sparare urlavano in swahili «Non abbiamo paura della morte, questa sarà una buona Pasqua per noi». Non solo. I terroristi «hanno costretto i ragazzi a chiamare casa per dire: «Noi moriamo perché Uhuru (Kenyatta, il presidente keniano, ndr) persiste a restare in Somalia», racconta Amuna Geoffreys, che studia per diventare insegnante. Dopo ogni telefonata, uno sparo: venivano uccisi sul colpo, ricostruisce Amuna. Riuscito a nascondersi fuori dall’edificio dietro a un cespuglio, sentiva attraverso una finestra aperta le agghiaccianti minacce rivolte dai jihadisti ai suoi compagni.

I compagni musulmani
Il giorno dopo la strage sono tanti i dettagli che emergono dal racconto dei sopravvissuti. Come la mano tesa tra compagni di fedi diverse. Ahmed Youssouf dice che si trovava all’interno della moschea dell’università con altri compagni musulmani quando è iniziato l’assalto. A un certo punto «i ragazzi cristiani hanno iniziato a riversarsi nella moschea alla ricerca di un rifugio e noi li abbiamo nascosti. Molti di loro poi sono riusciti a scappare e a raggiungere il cancello dell’università».

L’ansia per i dispersi
Un numero imprecisato di studenti del campus manca ancora all’appello: non risultano né tra le vittime né tra i sopravvissuti. Fuori dall’obitorio di Nairobi, dove i cadaveri sono stati trasportati per l’identificazione, familiari e amici scorrono e riscorrono la lista di vittime e sopravvissuti, in continuo cambiamento. Molti hanno passato la notte accampati lì davanti. «Prego Dio che sia ancora viva», implora sotto choc Monica Wamboi che non ha più avuto notizie di sua nipote Bilha, dopo l’attacco. «Abbiamo contattato la polizia e l’ospedale, non sanno nulla». Scoppia in lacrime Mary Chege: «è troppo, troppo dura. I miei compagni, persone con cui ridevo, mangiavo... tutti morti». La speranza è che qualcuno sia ricoverato da qualche parte o che spunti fuori. «Alcuni stanno tornando ora, dopo essere rimasti nascosti nella savana o nei villaggi vicini dopo essere fuggiti durante l’attacco», dice Lennie Bazira a capo della ong Amref Kenya. I suoi operatori durante l’assedio hanno offerto primo soccorso ai feriti, e poi hanno partecipato alle operazioni di recupero dei corpi.

Sotto i cadaveri
Il dottor Hussein Bashir è uno dei soccorritori: «Non ho mai visto nulla del genere», racconta traumatizzato al Corriere. «Quando sono entrato nel campus c’erano 122 corpi con il volto rivolto a terra ammassati uno accanto all’altro, qualcuno sopra, e sangue ovunque. Poveri ragazzi innocenti, molte ragazze, vittime di vere esecuzioni: sono corpi con ferite alla nuca a distanza ravvicinata. È la peggior tragedia a cui abbia assistito in 18 anni di lavoro». Stesso sconcerto per Reuben Nyaora, operatore della ong International Rescue Committee: «C’erano cadaveri dappertutto, con teste tagliate e ferite da proiettile ovunque. Sembravano tutti morti, ma tre donne coperte di sangue sono emerse da un cumulo di cadaveri. «Le ragazze hanno riferito che gli assalitori hanno urlato: “siamo venuti per uccidere ed essere uccisi”. Poi hanno invitato le donne a “nuotare nel sangue”».

4 aprile 2015 | 07:46
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_aprile_04/kenya-massacro-studenti-testimoni-76484b22-da8b-11e4-8d86-255e683820d9.shtml
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