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Autore Discussione: Contro il boicottaggio. Piero Fassino, Furio Colombo, Emanuele Fiano  (Letto 3546 volte)
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« inserito:: Febbraio 04, 2008, 05:28:19 pm »

Contro il boicottaggio

Piero Fassino, Furio Colombo, Emanuele Fiano


C´è qualcosa di estremamente paradossale, tradizionale e violento, nell´idea di boicottare la Fiera del libro di Torino, a motivo della centralità tematica dei sessant´anni dalla fondazione dello Stato di Israele. È paradossale che da certa sinistra estrema si invochi il boicottaggio della cultura; ma è purtroppo anche una tradizione che non tramonta in alcune parti di quella sinistra. Si colpiscono così le voci più limpidamente critiche della società israeliana, come quel David Grossman che ha rifiutato di stringere la mano ad Olmert, denunciando con forza quelli che erano per lui i tragici errori nella conduzione della guerra in Libano.

Ma sarebbe paradossale anche se si volessero colpire scrittori schierati a favore della politica del governo Olmert. Sarebbe estraneo all´idea di libertà nella quale noi crediamo; perché il boicottaggio contro la cultura di un intero Stato, è violenza politica.

Il vero dramma è che parte della sinistra radicale italiana, nonostante importanti evoluzioni in senso diverso, come la ferma contrarietà al boicottaggio espressa da Fausto Bertinotti, continui a ritenere Israele "cosa" distante dalla sfera dei valori progressisti, dalla storia del movimento socialista, dall´etica politica che ha contrassegnato il Risorgimento, da cui il sionismo discende e soprattutto dalla Liberazione dal nazifascismo.

Torniamo qui, perché è qui che continua a esserci un nervo scoperto: la festa dei sessant´anni della fondazione di Israele dovrebbe essere festa per tutti i progressisti, di tutto il mondo. Perché un popolo perseguitato ha trovato la sua legittima casa, perché uomini e donne in fuga dall´Europa hanno avuto una patria in cui riconoscersi e rifugiarsi, perché il Medio Oriente ha conosciuto in questo modo un´isola di democrazia e sviluppo, in un panorama di Stati non democratici, compresi quell´Egitto e quella Giordania sotto cui erano un tempo Gaza e la West Bank.

Qui non sono in discussione gli errori politici commessi da una governo o dall´altro, come non sono in discussione i diritti dei due popoli coinvolti, qui è in discussione il diritto ad esistere dello Stato di Israele, che dovrebbe essere patrimonio e impegno di difesa per tutti coloro che si riconoscono nella lotta al nazifascismo e alle leggi razziali e non è in discussione il diritto all´esistenza di uno stato palestinese che era stato proclamato insieme alla nascita dello stato di Israele e che sarà come hanno detto gli scrittori israeliani che ci apprestiamo a onorare a Torino, il destino e il futuro dei due popoli.

Stupisce che vi sia ancora chi non capisce a sinistra che boicottare Israele vuol dire boicottare ogni speranza di pace anche per i palestinesi; il boicottaggio sarebbe un atto di guerra in più in un aerea del mondo in cui mille voci da una parte e dall'altra implorano diritti, pace e dialogo.

Per questo ci schieriamo contro il boicottaggio della Fiera del Libro: non solo perché progressisti e amici di Israele, ma anche perché vogliamo una sinistra laica e aperta alla ragione. Ancora e sempre, l´amicizia con Israele è sinonimo di amore per la libertà e per il progresso.

Sinistra per Israele


Pubblicato il: 04.02.08
Modificato il: 04.02.08 alle ore 12.36   
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 06, 2008, 03:13:50 pm »

Dialogo e proteste

Cestinare senza discutere

La Fiera del Libro di Torino e il boicottaggio


Sollecitato a scrivere sull'inqualificabile contestazione dell'invito rivolto quest'anno a Israele — come è accaduto in passato e accadrà in futuro nei confronti di altri Paesi — a partecipare quale ospite d'onore alla Fiera del Libro di Torino, mi ero astenuto. Mi ero astenuto perché ritengo che si possa e debba discutere di ciò che magari avversiamo ma consideriamo degno e dunque avente il diritto di esser preso in considerazione, ma non di proposte, proteste, affermazioni o negazioni insensate e inaccettabili, che vanno semplicemente considerate irricevibili e cestinate.

Un proverbio viennese dice che certe cose non vanno neppure ignorate, perché già ignorarle è troppo. Discuterne, anche rifiutandole, contribuisce a dar loro consistenza e spessore, come una signora che si fermasse per strada a dimostrare la sua virtù a uno screanzato che l'apostrofasse con termini irripetibili.

Tale è il caso della penosa pagliacciata contro l'invito di Torino.

Purtroppo se ne è già discusso tanto, gonfiando il pallone, e non saranno certo queste mie irrilevanti righe a far troppo danno ulteriore. Non è il caso, in questa circostanza, di chiamare in causa grandi problemi, il diritto di Israele a una piena e riconosciuta esistenza, il diritto dei palestinesi a un loro Stato e a piena dignità di vita dovunque vivano, anche in Israele, né la grandezza letteraria degli scrittori invitati quest'anno, quali Yehoshua.

Non è neppure il caso, in tale circostanza, di criticare o approvare la politica dell'uno o dell'altro governo israeliano o di altro Paese, arabo o no, o dell'autorità palestinese, come non sarebbe il caso di discutere la guerra in Iraq o il carcere di Guantanamo se a Torino fosse il turno degli Stati Uniti e dunque di Philip Roth o DeLillo anziché di Oz o di Grossman. Quando, due settimane fa, la giuria del Premio Nonino, di cui faccio parte, ha premiato — su proposta di Peter Brook, il grande regista di famiglia ebraica — Leila Shahid, rappresentante dei palestinesi presso la Francia, l'Unesco e l'Unione Europea, nessuno si è sognato di protestare, ma anche se qualche scervellato l'avesse fatto, non avremmo perso certo tempo a rispondergli.

Così si sarebbe dovuto fare in questa circostanza.

Liberissimo ognuno, ovviamente, di boicottare la Fiera del Libro di Torino ossia di non andarci, perché non è un obbligo di legge. Ma se qualcuno dovesse cercare di impedire con la forza ad altri di andarvi, dovrebbe esserne impedito con quella forza che, nelle democrazie, è monopolio dello Stato e non della piazza, alla quale si appellano — anche di recente in Italia — solo demagoghi di basso rango.

Claudio Magris
05 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 12, 2008, 11:47:57 pm »

Salone del Libro, paura su misura

Oreste Pivetta


La segnalazione più precisa, più ironica e pungente, ci giunge dal Giornale: la sinistra, appunto, che si divide un’altra volta, Bertinotti nel mirino della contestazione. Perché Rifondazione ha dato forfait e Bertinotti, che aveva preferito le sale del Salone, poi ha disertato anche quelle. Niente.

«Cane che abbaiò non morde», scrive ancora il Giornale. In questo caso a torto, perché quelli di Askatasuna, il centro sociale, o di Free Palestine, in testa nell’organizzazione del corteo anti Lingotto, avranno abbaiato ma non avevano alcuna intenzione di mordere (da segnalare l’ossimoro di un occhiello che si legge in una pagina interna della Stampa: «I falchi di Askatasuna: nessuno sfidi la polizia»...). Tutti, centri sociali e associazioni varie e comitati unitari di base, la scorsa settimana, avevano tante volte manifestato l’intenzione di un corteo per la Palestina, in pace però, per alzare bandiere della Palestina durante giornate in cui si sono viste soprattutto quelle di Israele.

Avevano anche spiegato (anche sull’Unità attraverso la voce di un rappresentante di Askatasuna) che le bandiere bruciate in coda al Primo Maggio dovevano solo giocare da richiamo per la stampa. Che ha accolto l’invito, interpretando il messaggio come un annuncio di guerra e iniziando così a tempestarci di “zone rosse”, violenze annunciate, bandiere offese, come se il finesettimana dovesse diventare un sabato di guerra.

Incurante della cauta tranquillità del sindaco Chiamparino e persino della misura del prefetto e del questore, che assicuravano come di “zone rosse” non si dovesse parlare, dal momento che il Salone del libro doveva sempre considerarsi aperto al pubblico, assicuravano la massima vigilanza ma anche dell’inesistenza di notizie d’allarme.

Si fanno i conti dei danni e, evidentemente, con il rammarico di alcuni, non si elencano vetrine rotte, ma solo biglietti invenduti: è calata l’affluenza.

Naturalmente si tenta di addebitare il calo alla minaccia rappresentata dai manifestanti (che si sono mantenuti ben lontani dal Lingotto, come in doverosa cultura legalitaria avevano concordato con il prefetto, e che per giunta erano solo poche migliaia), senza ombra d’autocritica e d’allusione al peso dell’allarmismo diffuso. Se si scrive una volta, due volte, tre volte che il sabato sarà un girone d’inferno attorno al Lingotto, è ovvio che molti preferiscana rimanere a casa. Agitando lo spettro della guerra civile, sono un po’ riusciti nell’impresa: il boicottaggio

Che non sia successo nulla è un sollievo. La dimostrazione che si possano manifestare anche in modo fragoroso convinzioni aspre nella loro alterità, senza danni, senza botte, senza lacrimogeni in mezzo, conforta. Sta nelle regole e nelle espressioni della democrazia.

Peccato che a Torino, malgrado i tentativi di molti, si sia persa una occasione. Non si sarebbe suggellata tra le bancarelle del Salone la pace in Israele, in quelle stanze non si sarebbe costruita una speranza di vita per i palestinesi, ma un segnale lo si sarebbe potuto dare. Detto che lo Stato d’Israele non si tocca, forse si sarebbe potuto discutere del suo governo. Soprattutto si sarebbero potute esaltare, tra le differenze, le contiguità della cultura degli uni e degli altri, il malessere di una parte e lo strazio dell’altra, sconfessare certe immagini militaresche e bombarole. In quella terra tormentata (usiamo pure il plurale: in quelle terre tormentate) ci sono anime che soffrono e menti che si tormentano: la cultura, a interrogarla senza reticenze, ne offrirebbe un quadro ricco.

Peccato che le domande siano rimaste in silenzio. Colpa di chi ha pensato che bastasse un corteo per porle e di chi non ha osato abbastanza per raccoglierle. Sinceramente pensiamo che dal Salone del libro, ventennale ormai, sarebbe stato necessario il coraggio di rappresentare con la certezza di uno Stato anche la conseguenza dei conflitti. Ma, come qualcuno ha già scritto e detto, la complessità è una parola che mette paura.

Pubblicato il: 12.05.08
Modificato il: 12.05.08 alle ore 15.29   
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