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Autore Discussione: Enzo Biagi. Questo è diario di una giornata, 22 novembre 1963, venerdì  (Letto 3220 volte)
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« inserito:: Novembre 22, 2013, 07:57:13 pm »

15/11/2013

Il film del 22 novembre Protagonista, l’America


Ecco il racconto - inedito - scritto da Enzo Biagi nella giornata che cambiò la Storia, ora per ora, con molti protagonisti


Questo è diario di una giornata, 22 novembre 1963, venerdì. Una cronaca succinta, si capisce: protagonista è l’America.

Sono le otto. Sulla Highway 169 corre una Ford rossa, modello giardinetta. Robert Dean Stround, agricoltore, accende la radio: piove, il bollettino prevede un po’ di neve nella serata. Sta andando al mercato col nonno, Tilton Pear Stround, ottantun anni: «Vedrai che aumenta il prezzo del foraggio», dice il vecchio.

Will Fritz, capo della sezione omicidi di Dallas, ha già fatto colazione e non ha neppure dato un’occhiata ai giornali, come fa sempre. È uscito presto, questa mattina, ci tiene che il servizio fili liscio. Gli dispiacerebbe che anche Kennedy fosse accolto male. A Stevenson, due settimane fa, tirarono persino i pomodori.

Allan Smith, boy-scout di anni quattordici, anzi, per la verità: caposquadra dei boys-scouts, è contento: la Stockard Junior High School fa vacanza; gli studenti vanno a vedere il Presidente. Può guardare con comodo i fumetti di Dick O’Shai, il piccolo cow-boy.

A Chicago, in un appartamentino della Michigan Avenue, muore Irving Vaugham, il più vecchio cronista sportivo della città. Gli volevano bene. «Irving», dicono i colleghi, «era in gamba: non adoperava mai metafore e frasi fatte». Danny Kaye è allegro, si fa la barba canticchiando: alle dieci, a Beverly Hill, gli daranno il premio Brotherhood.

Nella hall dell’Hotel Texas, a Fort Worth, c’è una enorme confusione. Duemilacinquecento persone prenderanno parte al «breakfast» in onore di John Kennedy. Fa freddo, ma il Presidente scende senza cappotto e senza cappello. Si scusa per il ritardo di Jacqueline. «A lei - dice ridendo - occorre più tempo». Jackie, come la chiamano in famiglia, è incerta: ha portato con sé tre abiti, un tailleur bianco, che ha comperato a Parigi, una gonna nera, con mantello; sceglie un vestito rosa chiaro, di lana, con un cappellino dello stesso colore, che si intona perfettamente.

Robert Rodgers, di Gastonia, North Carolina, impiegato, esce per andare all’ufficio. Dice a Mary, la moglie: «Ho deciso: investo i nostri risparmi in azioni della General Motors». Mary vorrebbe cambiare la macchina, e una pelliccia; non gli dà come di consueto il solito bacio.

I ragazzi dello Spartans di Chicago cominciano l’allenamento; domenica debbono affrontare quei diavoli dell’Illinois, ed è in gioco il titolo. Si prevedono ottantamila spettatori; non si può davvero perdere. Sul campo sgocciola una nebbia grigia. Il terreno è pesante.

Un tipo che chiameremo X.Y., che potrebbe anche chiamarsi Lee H. Oswald, beve il caffè in silenzio. Il bambino piange nel letto, la moglie sta friggendo le uova. X.Y. è un giovanotto piccolo, gli occhi gonfi da pugilatore, i capelli che diradano sono mossi, in disordine. Ogni tanto si tocca la tasca posteriore dei pantaloni. Il bambino continua a frignare.

«Fallo stare zitto», scatta.

A Washington, miss Maud Shaw, governante di John e Carolina Kennedy, è un po’ arrabbiata. Questa mattina John Kennedy Jr. fa i capricci: non vuole prendere le gocce di vitamina.

Ore 10,35. L’aereo del Presidente Kennedy rulla sulla pista di Fort Worth. Dalla torre danno il premesso di decollo: via libera. Le condizioni atmosferiche non sono eccellenti, ma il volo si annuncia tranquillo.

A Dallas, Will Fritz ispeziona i suoi uomini. «Attenti - ripete - che non voglio storie». «Tutto in ordine, capo», lo assicurano i poliziotti.

Sulla 169ª la Ford rossa che porta Robert Dean Stround e il nonno al mercato ha rallentato la marcia; è sceso un nebbione compatto, e si vedono a mala pena i fari gialli delle altre vetture. Il ragazzo Allan Smith, quarto corso della Stockard Junior High Scholl è proprio contento: è in prima fila, e quando il corteo del Presidente arriverà, lui potrà vederlo benissimo.

Allo Stock Exchange di New York, i risparmi di Robert Rodgers di Gastonia, N. C., vengono scambiati con le azioni della General Motors. Alla Borsa del grano di Minneapolis, russi e americani discutono sulle modalità di pagamento delle forniture. Buoni affari, oggi, negli Usa.

Il tipo che chiamiamo X.Y., e che potrebbe anche chiamarsi Lee H. Oswald, si affaccia ogni tanto alla finestra d’angolo di un edificio di Dallas. C’è molta gente sulla strada. Da un pacco avvolto in carta di giornale tira fuori un fucile col binocolo. «Da qui», pensa, «non si può sbagliare». Ha ventiquattro anni, ma ha girato il mondo, è stato anche in Russia. Lavorava in una fabbrica di Minsk; ha sposato una ragazza di laggiù. La Russia, pensava, è il Paese della libertà e della giustizia. Buttò il suo passaporto sulla scrivania di un impiegato dell’ambasciata americana a Mosca, gridando: «È come uscire di prigione». Non è agitato.

A Chicago i ragazzi dello «Spartans» hanno finito di provare gli schemi della partita, e corrono sotto le docce. L’allenatore si raccomanda: «Cinema nel pomeriggio, e a letto presto. Intesi?».

Sono le 11,37. Il D.C. 8 che ha sui fianchi la scritta «United State of America» atterra a Dallas. Jacqueline Kennedy scende per prima. Stringe molte mani, c’è una piccola folla festosa sparsa attorno alla scaletta. Qualcuno le offre un grande mazzo di rose bianche. Si forma subito il corteo delle automobili. La gente applaude il Presidente. Dice Jackie: «Non puoi proprio dire che Dallas non ti sia amica», e John sorride.

Will Fritz è soddisfatto, tutto procede per il meglio, e magari alla fine non è escluso un elogio, e perché no?, un aumento di stipendio. Allan Smith, il boy-scout, batte le mani ai poliziotti in motocicletta che passano rombando. Proprio un bello spettacolo. Miss Maud Shaw porta i bambini Kennedy a giocare nel parco; fa indossare a John Jr. e a Carolina il paltoncino perché tira vento. Il personaggio che chiamiamo X.Y. e che potrebbe chiamarsi anche Lee. H. Oswald prova un paio di volte il caricatore del fucile. Tutto in ordine. Sulla Ford rossa modello giardinetta Robert Dean Stround e il nonno ascoltano la radio; dice che Kennedy è arrivato a Dallas, e che farà un discorso.

Sono le 12,30. L’autocolonna del Presidente sfila sotto il passaggio che porta alla Stemmon Expressway. Adesso il corteo è proprio arrivato davanti allo studente Allan Smith, di quattordici anni, caposquadra dei boy-scouts. Allan applaude. Poi si sentono tre spari. Un gran trambusto. «Il Presidente», racconta il ragazzo piangendo, «sorrideva». Quando la pallottola l’ha colpito la sua faccia è diventata bianca, ed è caduto sulle ginocchia di Jackie che si è alzata gridando: «Oh Dio».

Le auto corrono verso l’ospedale. Will Fritz e i suoi uomini si precipitano agli ascensori dell’edificio da dove hanno sparato. Salgono al quinto piano. Per terra ci sono tre bossoli.

Jacqueline sostiene un braccio di John Kennedy; il sangue è caduto sulla sottana, ha macchiato le calze. Le rose bianche rimangono sul sedile, abbandonate.

Walter Cronkite, commentatore numero uno della C.B.S., sta per andare a pranzo. Lo chiamano d’urgenza in servizio. Radio e tv iniziano una drammatica serie di trasmissioni. Sulla Ford rossa modello giardinetta il vecchio Tilton Pear Stround dice al nipote: «Quelli della televisione ci rimettono un milione di pubblicità». 

Will Fritz ha sguinzagliato i suoi uomini: «Che Dio ci aiuti», pensa. I medici del Park Lane Hospital tentano la trasfusione di sangue; Jacqueline attende nella stanza accanto alla sala operatoria. Si controlla, non piange.

Sono le 13. Walter Cronkite riceve una cartella e legge: «Il Presidente è morto».

Will Fritz, nella sede della polizia, comincia gli interrogatori. Il ragazzo Smith racconta al nonno: «La faccia del Presidente è diventata bianca». 

La Ford rossa modello giardinetta degli Stround cammina nella nebbia: ora la radio trasmette l’«Ave Maria» di Gounod. Attraversa un passaggio a livello, «Non si vede un accidente», dice il giovane Robert Pear. Non si vede nemmeno il treno che sta arrivando. «Due morti a un passaggio a livello», telefona mezz’ora più tardi un cronista del «The Des Moines Register».

La Borsa di New York cade: le azioni della General Motors perdono due dollari e un quarto. La signora Rodgers di Gastonia, N.C., pensa alla sua pelliccia. Danny Kaye pensa che nessuno saprà nulla del suo premio. Il nostro personaggio che chiamiamo X.Y. e che potrebbbe anche chiamarsi Lee H. Oswald, pensa di andare in un cinema, o in un teatro. Guarda un giornale. Danno un film di Disney: «The Incredibler Journey», Un viaggio incredibile. Compera un biglietto ed entra.

Un operaio di Cape Cod, Massachusets, che ha sentito la notizia per radio, pensa di avvertire la madre del Presidente. La signora Rose ha settantadue anni. Il padre, Joseph, sta dormendo. Jacqueline Kennedy pensa a come farà a dirlo ai suoi bambini, vuole essere lei, tocca a lei, Lee H. Oswald pensa a quello che dirà se lo arresteranno: «Non so di che cosa si tratta, non ho fatto niente». 

Il direttore del «Chicago Sun Times» non sa che titolo mettere al suo pezzo. Pensa un po’, poi scrive «L’America piange».

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/15/esteri/speciali/jfk-50-anni-dopo/approfondimenti/il-film-del-novembre-protagonista-lamerica-j2Apeipr2gdrW7mGfvFseO/pagina.html
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 27, 2014, 04:25:13 pm »

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Enzo Biagi intervista Primo Levi: “Come nascono i lager? Facendo finta di nulla”

L'incontro tra il partigiano antifascista torinese e il giornalista andò in onda su Raiuno l'8 giugno 1982 nel programma "Questo secolo". Lo scrittore raccontò la sua vita dal capoluogo piemontese al campo di concentramento polacco di Auschwitz e ritorno: "Non credemmo a quanto dicevano gli inglesi sullo sterminio degli ebrei. Eravamo stupidi e anestetizzati: abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato"


di Enzo Biagi

27 gennaio 2014

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?
Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?
Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?
Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?
Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?
Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?
Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?
Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?
Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?
Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?
Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?
Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?
Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio, vuol dire accampamento, vuol dire luogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?
Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?
L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?
Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?
Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?
Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.
Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?
È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?
In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?
Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.
Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?
Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?
Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?
Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi.
Biagi, grazie a lei.


Da Il Fatto Quotidiano del 26 gennaio 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/27/enzo-biagi-intervista-primo-levi-come-nascono-i-lager-facendo-finta-di-nulla/858417/
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 27, 2014, 04:37:16 pm »

«Qui dove anche Dio ha taciuto»

di ANTONIO FERRARI e ALESSIA RASTELLI

Era logico. Era scritto. Era giusto che l’ultima tappa del viaggio di Vera, protagonista della web serie «Il rumore della memoria», online su Corriere.it, cominciasse dove tutto ha avuto origine: al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano.
In quel luogo sotterraneo, diventato oggi Memoriale della Shoah, con i vagoni-merce usati dai nazisti per ammassare i deportati verso i lager, Vera Vigevani Jarach, ebrea italiana emigrata a Buenos Aires, che ha perso il nonno ad Auschwitz e l’unica figlia desaparecida in Argentina, ha avuto infatti lo «schianto». Lo choc che le ha suggerito, anzi le ha imposto, di compiere questo lungo e doloroso itinerario nella memoria. Realizzato in poco tempo e con grande passione, grazie al Corriere della Sera.

Proprio al Binario 21, il titolo della web serie - con la sesta e ultima puntata diffusa oggi, 27 gennaio, Giornata della Memoria – trova la sua spiegazione. Sopra al Memoriale, continua infatti, ogni giorno, l’attività della Stazione, e alla partenza o all’arrivo delle modernissime Frecce e degli Intercity, il tetto trema, riproducendo ossessivamente quel sinistro rumore che accompagnò la partenza dei deportati, ignari allora di iniziare un lungo viaggio verso la morte. Furono pochissimi i sopravvissuti. Li abbiamo definiti, in un precedente docuweb, «Salvi per caso».

La scelta della persona che avrebbe accompagnato Vera al Binario 21 poteva e doveva cadere assolutamente su una donna straordinaria: Liliana Segre. Per almeno due ragioni: è una sopravvissuta che partì proprio dal sotterraneo della stazione di Milano, il 30 gennaio del 1944; caricata poco più che bambina su un treno per Auschwitz, dove giunse il 6 febbraio, Liliana era nello stesso convoglio, il numero 6, dove si trovava il nonno di Vera, Ettore Felice Camerino. Non si sono conosciuti, forse non si sono neppure guardati e notati. Liliana aveva 13 anni ed era vicina a suo padre. Camerino aveva 74 anni ed era solo. Ad Auschwitz si separarono anche i loro destini. Il nonno di Vera subito «al gas», e la piccola Liliana al lavoro «da schiava».

Con grande fierezza e profonda umanità, la Segre, con Vera che si appoggiava al suo braccio quasi a cercarne conforto, è entrata al Memoriale. È stata un’ora di assoluta intensità, cementata dall’intimità che si è creata tra due donne che condividevano i rispettivi dolori. Abbiamo trascorso molti giorni con Vera, in Argentina, in Italia e in Polonia, ma al Binario 21, forse per la prima volta, la protagonista de «Il rumore della memoria» è rimasta senza parole, rapita e commossa dalle frasi gravi della Segre. I cui racconti hanno accompagnato Vera e tutto noi nell’ultima tappa del viaggio: i campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau, distanti meno di tre chilometri, in linea d’aria, l’uno dall’altro.

Auschwitz è noto in tutto il mondo, e nel lager, trasformato in museo della memoria, tutto è rimasto più o meno com’era allora. Birkenau, se possibile, è ancora più mostruoso: 40 volte più esteso di Auschwitz, trasmette subito l’immagine della meticolosa organizzazione dello sterminio: la stessa che colpì, al primo impatto, nel campo di Treblinka, il grande scrittore Vasilij Grossman, giornalista-inviato al seguito dell’Armata rossa, che liberò per prima i campi organizzati dai nazisti.
La voce di Liliana, sottofondo che il regista della web serie Marco Bechis ha continuato a proporre, è stata la colonna sonora della visita ai luoghi dell’orrore. La Segre ha raccontato a Vera e a tutti noi che cosa fecero i nazisti per annientare l’identità e la dignità di ciascuno dei deportati. Con i numeri incisi sul braccio intendevano cancellare la storia di un nome, quindi la storia di una vita; con l’umiliazione della rasatura e l’ordine di spogliarsi, davanti a tutti, volevano assassinare anche la dignità e l’onore. Lo stesso accadeva in una baracca-dormitorio, dove si può entrare ancora oggi, in cui i nazisti allestirono due file interminabili di rudimentali latrine, a pochi centimetri di distanza l’una dall’altra, senza alcun tipo di separazione, e di pudore. I forni e i camini del campo di Birkenau sono stati distrutti dai tedeschi in ritirata. Ovviamente non volevano che si trovassero le prove del genocidio. Nelle due notti trascorse in un piccolo albergo di Aushwitz, con Vera abbiamo condiviso un incubo: nessuno di noi è riuscito a dormire.

Finisce questo viaggio, che è il nostro contributo alla Giornata della Memoria. Ci resteranno anche la tenera immagine di questa coraggiosa signora ebrea che crede nella giustizia e nei Giusti. Che ha camminato con Gabriele Nissim nel Giardino di Gariwo sul Monte Stella di Milano, dove ci sono gli alberi di coloro che hanno saputo ascoltare la coscienza. Ai quali, il 6 marzo (da due anni, la Giornata europea dei Giusti), se ne aggiungeranno altri. E infine, Vera a Mestre, che accarezza un altro albero, ancora più caro: quello che porta (e preserva) il nome della figlia, Franca, drogata e gettata viva in mare, a 18 anni, dai militari argentini. Anche lei, come il nonno ucciso ad Auschwitz, senza una tomba.

@ferrariant
@al_rastelli
27 gennaio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cultura/speciali/2014/il-rumore-della-memoria/notizie/qui-dove-anche-dio-ha-taciuto-eba17ec0-86b8-11e3-a3e0-a62aec411b64.shtml
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