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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 132920 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Febbraio 18, 2009, 11:01:59 am »

18/2/2009
 
Sfascio a Sinistra
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Walter Veltroni ieri ha fatto uno di quei gesti che possono essere definiti onorevoli ed efficaci. L’onorabilità delle dimissioni in un Paese in cui raramente vi si fa ricorso si dimostra da sola. Quanto all’efficacia, c’è poco da discuterne.

Le dimissioni date come sono state date, improvvise e irreversibili, hanno esposto in tutta la loro crudezza le condizioni in cui versa il Partito democratico. Rimosso l’esile velo di una timida leadership, ci si è accorti che sotto non c’è altro che un’area politica allo sbando. L’improvvisazione, l’impreparazione, la confusione che hanno dominato la giornata di ieri sono state i migliori testimoni di una mancanza di strategia, individuale e collettiva, ai vertici del Pd, sia da parte degli uomini finora al comando, sia di quanti erano in posizione critica.

Questo pesante giudizio si basa, intanto, sulla modalità della scelta di Veltroni. È stato raccontato che nemmeno i più stretti collaboratori del segretario fossero stati informati: è solo un dettaglio, ma fra i più inquietanti. Esiste forse migliore prova di quanto poco ci si parli o ci si consulti al vertice di questo partito? Che dire poi della sorpresa che ha colto tutta l’élite del Pd di fronte a queste dimissioni? A dispetto della tanto lodata esperienza di una classe politica che si vanta della propria finezza, non uno dei leader aveva previsto questa mossa. Il che vuol dire, banalmente, che nessuno di tutti quelli che hanno criticato Veltroni aveva davvero fatto un calcolo delle possibilità, delle mosse, e nemmeno aveva riflettuto a fondo sulle caratteristiche del segretario.

Ma se la costernazione che ha colto il gruppo dirigente ha suonato l’allarme sulla sua profonda debolezza, è l’ipocrisia che ne è seguita a indicare un pessimo futuro. Che dire di quel «no» collettivo risuonato all’annuncio di abbandono del segretario? L’hanno pronunciato leader come Letta che non ha mai nascosto la sua distanza da Veltroni, come Bersani che è già sceso in campo contro il segretario e come Rutelli che non nasconde il suo disagio a stare in compagnia di molti di loro. Non c’era D’Alema, ma pensiamo che avrebbe anche lui opposto il suo rifiuto, e cercato di non far precipitare la situazione.

Più che desiderio di ricucire, quel «no» è apparso come un desiderio di guadagnare tempo. La discussione infatti si è rapidamente orientata non sul merito, ma sul calendario. Quel calendario che è la gabbia mentale e fisica di questa politica oggi: elezioni a giugno, cda Rai da nominare forse già domani, tesseramento in ritardo, testamento biologico da approvare. Pareva di veder passare negli occhi di molti dei presenti lo scorrere di questa agenda. Il Pd da mesi non fa altro che navigare così, da un appuntamento istituzionale all’altro, vedendo in ognuno l’occasione di piccole sconfitte e vittorie: un processo che ormai da anni, fra scadenze parlamentari e urne, ha sostituito per questo partito il percorso appassionato e visionario della strategia politica.

Non ci siamo dunque meravigliati quando, invece di svenire, urlare o fare un drammatico gesto qualunque, il coordinamento del Partito democratico ha imboccato la strada di un altro calendario: ha cominciato a discutere di segretari provvisori, transizione, reggenza collettiva, e date, sempre date, su quando e come convocare il congresso per altre primarie e un altro segretario. Naturalmente calcolando già - senza mai dirselo - quale e quanto vantaggio andasse a chi, in questa nuova situazione, nella formazione delle prossime liste per le Europee. Si spiega così la via che infine è stata imboccata per il prossimo futuro: quella burocratico-formale di un’altra mezza transizione nella transizione, di un segretario part-time, di un coordinamento che tenga insieme i cocci. In maniera da poter non ammettere che il vaso è rotto.

La sinistra ha molte responsabilità nella propria continua sconfitta di questi ultimi anni. Ma nessuna è forse così rilevante quanto la rimozione con cui continua a negarsi la verità su se stessa.

da lastampa.it
 
 
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« Risposta #61 inserito:: Febbraio 23, 2009, 10:43:46 am »

23/2/2009
 
Il Pd e l'arca perduta

 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Nel suo quarto film Indiana Jones si trova davanti al solito ponticello di legno sospeso su un burrone: nella prima pellicola, a vent’anni, lo avrebbe imboccato di corsa; ora Jones è ancora piacevole e gagliardo, ma nella sua quarta e finale avventura, si ferma sull’orlo del vuoto, bloccato dall’ansia e dalla paura.

Senza nessuna irriverenza, lo sguardo sull’assemblea del Pd che sabato ha eletto Dario Franceschini portava alla mente la fatale e inarrestabile decadenza dei miti: una selva di volti conosciuti, fedeli a se stessi negli anni, con carriere onorevoli, lunghe e faticose, ma privi ormai di slanci, con bassa adrenalina, preoccupati del futuro e dalla mancanza di forza. Anche gli Indiana Jones invecchiano. E che fossero ex Dc o ex Pci o neoradicali o vecchi liberisti, non era più rilevante.

Non era più rilevante di fronte all’improvviso ingrigirsi dei loro lineamenti, avvenuto nel corso di una sola settimana. Non è solo questione di numeri di anni, ma di quel senso d’impotenza, del tempo e della fine, che con la vecchiaia ti coglie.

Non so. Sfoglio i giornali, guardo la tv e leggo le parole dei miei colleghi che ruotano intorno ai termini nomenklatura, controllo, patti. Non è quello che ho visto alla nuova fiera di Roma. In quel rituale con cui si è conclusa la crisi nata dalle dimissioni di Veltroni c’era solo (almeno ai miei occhi) l’aggrapparsi alle poche certezze - i regolamenti, il voto - una banale scimmiottatura delle assemblee «decisive» di un tempo. Mi veniva da dire: «Magari qui ci fosse una nomenklatura!». L’esistenza di una nomenklatura significherebbe almeno l’esistenza di progetti, truppe, trattative, signori della guerra, complotti; insomma, di segni di vitalità e di ambizione. Ma non c’era nulla di tutto questo: le decisioni finali sono scivolate via con la rassegnazione di chi sa di non poter fare diversamente.

L’assemblea del Pd riunitasi a Roma, 1200 convenuti su 2800, cioè solo il 43 per cento del numero totale, era insomma quella di una classe dirigente piegata dalle sue molteplici sconfitte. Composta in genere da gente che ha scelto la politica come professione, è vero: ma appesantita, più che dal proprio interesse, dall’impossibilità di capire come questi interessi - quelli della politica che hanno rappresentato - possano ancora essere affermati.

Non è irrilevante capire di cosa sia fatta questa classe dirigente. Solo gli inesperti o gli illusi possono vedere oggi in questi uomini e donne la forza del potere. La cosiddetta nomenklatura, se la si guarda bene, è fatta di persone che hanno varcato i sessant’anni, sono tutti ex - in una maniera o nell’altra - di un qualche incarico o altro, e hanno già quasi tutti preso la strada che conviene agli ex: studi, libri, incarichi internazionali, passeggiate con i nipotini, o fondazioni.

La verità è che le dimissioni di Veltroni sono state per tutti loro uno shock quale nessuno avrebbe potuto anticipare nel subbuglio che ha animato questi sedici mesi di esperienza del Pd. Tolto Veltroni, il Re è rimasto nudo. E non perché ha portato alla luce finalmente i piani e le malizie, ma perché, al contrario, ha esposto la mancanza di tutto questo. Finché c’è stata battaglia interna, l’adrenalina della tenzone ha come oscurato i contorni della realtà vera, quella esterna. Tolta la benda, il ponticello è lì, Indiana: le sue marce tavolette sono il crollo nel voto operaio in tutta Italia, sono il dilagare di ricette come le ronde per la sicurezza cittadina e i milioni di disoccupati in arrivo. Insufficienze della sinistra tanto quanto decisionismo della destra. Fenomeni strutturali destinati a non finire, e che certo non si possono spiegare come il risultato della «litigiosità» interna delle correnti del partito, nonostante quello che ha detto Veltroni nel suo addio e la fascinazione di tutti noi osservatori per le spaccature dentro qualsiasi organizzazione politica.

Una sola osservazione basta a confermare queste mie opinioni («sensazioni»?). Sia chi voleva le primarie sia chi voleva evitarle sabato a Roma ha proposto la propria linea sulla base della stessa analisi: che il Pd rischia un tracollo finale e ravvicinato. Con la differenza che i sostenitori delle primarie pensavano che le urne popolari avrebbero dato a un partito avvilito almeno la chance di arrivare, alle prossime elezioni e alla crisi occupazionale di primavera, con il sostegno della passione di base. Mentre i secondi, quelli che poi hanno votato Franceschini segretario, pensavano che la situazione sia così grave che gettarsi nell’entusiasmante scelta interna di nuovi volti avrebbe privato il partito di ogni capacità decisionale di fronte a questi stessi temuti appuntamenti dei prossimi mesi.

La somma finale, insomma non cambia. Al di là di quello che farà il nuovo segretario, una cosa possiamo dire con sicurezza: che mai la consapevolezza della propria durata terrena, in senso fisico e metafisico, è stata così presente nelle menti (e nei cuori) del Partito democratico.
 
da lastampa.it
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« Risposta #62 inserito:: Marzo 05, 2009, 09:22:13 am »

5/3/2009
 
Giustizia è sfatta
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.

Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo «disguido» delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.

Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative «audaci» da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.

La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come «chiariti»: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith. Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.

A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di «nera». Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di «soap» giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti.

Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso «transgender» che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.

Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!

Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come «materiale organico» e «Dna», nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.

Ora, di fronte alle smentite, si dice: «La politica ha messo fretta». Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.

Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo.

Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento.

da lastampa.it
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« Risposta #63 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:12:51 am »

23/3/2009
 
Il politico e il leader carismatico
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Scriveva, negli Anni Venti, Max Weber che la leadership carismatica è definita da «una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva dagli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non sono accessibili alle persone normali, ma sono considerati di origine divina o esemplari, e sulla loro base l’individuo in questione è trattato come un leader».

Pensando a queste note, ieri, non si poteva che provare simpatia per il presidente della Camera mentre teneva il suo discorso alla Fiera di Roma per dire addio ad An e scioglierla nel Pdl. Nell’eterna saga del suo dualismo con Silvio Berlusconi (uno dei pochi punti fermi della politica italiana, esattamente come il dualismo Veltroni/D’Alema) Gianfranco Fini ha provato, come sempre fa da anni, a mantenere il proprio ruolo di alleato leale ma diverso, mettendo paletti e definendo regole per il futuro partito unico. Ma, in realtà, che partita davvero può giocare un normale (sia pur talentuoso) politico di fronte a un leader quale quello raccontato da Weber?

La vera novità del Pdl unificato, che nascerà formalmente nell’assemblea convocata a Roma da venerdì a domenica prossima, è proprio la scelta di una leadership carismatica. Concetto che nella storia abbiamo visto spesso emergere, nel bene e nel male, da Gandhi a Hitler (la definizione, dice Weber, non ha in sé un giudizio «morale»). Ma mai nessuno ha finora provato a tradurlo in una regola politica, applicandolo cioè alla formazione di un partito, che rimane, dopo tutto, un’entità burocratica, sia pure nel senso più alto. Compito di una organizzazione è selezionare la classe dirigente, coordinare le politiche di un’area di pensiero, lavorare al rapporto fra cittadini e istituzioni (coltivando consenso o dissenso), produrre cultura politica. Un partito è insomma uno dei bracci operativi della democrazia, nel senso proprio di fluidificare il rapporto tra potere e cittadinanza.

Tant’è che i partiti moderni, in particolare quello americano, sebbene considerato «leggero» (e a cui pure si riferisce il nuovo Pdl), sono su base elettiva - a cominciare dalle primarie. Il «carisma», è vero, è sempre stato un concetto forte della politica, in particolare negli Usa. Ma come attributo della personalità: ad esempio, Carter (senza carisma) e Obama (carismatico) sono stati eletti e hanno governato con le stesse regole. Viceversa, i partiti in cui la classe dirigente non è selezionata da una scelta di base (penso al partito comunista dell’Unione Sovietica) sono solo una finzione che copre o autoritarismo o populismo.

Tecnicamente, dunque (e mi piacerebbe ascoltare il parere dei costituzionalisti), partito e leadership carismatica dovrebbero essere incompatibili. E segni di questa incompatibilità si avvertono fin da ora anche sulla strada appena iniziata dal Pdl.

Silvio Berlusconi è l’indiscusso leader della sua area politica e della stessa Italia. Altro però è che venga eletto come guida del suo partito senza nessuna (nemmeno formale) selezione. Sappiamo che se un pazzo volesse presentarsi contro di lui nella prossima assemblea non potrebbe, perché non è prevista nemmeno la procedura per un diverso candidato: si può immaginare qualcosa di più debole? La leadership così eletta si riproduce infatti immediatamente nell’alterazione delle regole della stessa organizzazione: sarà ancora Silvio Berlusconi, eletto plebiscitariamente, a nominare gli organismi che guideranno il partito. Allora a cosa servono i delegati, e a che serve il partito se non a esprimere la propria classe dirigente? Aggiungiamo che nelle intenzioni del premier la segreteria sarà formata dai ministri più qualcun altro: che ruolo ha un partito espressione diretta di un governo, visto che invece dovrebbe lavorare esattamente lì dove il governo non arriva?

Si può obiettare, e a ragione, che il Pd prova che nella sostanza le primarie e le elezioni assembleari possono essere aggirate e ridursi a commedia. Ma, è sempre il Pd a provarlo, il principio comunque diventa vitale quando poi si arriva alla crisi di una gestione.

Torniamo così a Fini. Il presidente della Camera non può non sapere queste cose. Per questo ha riproposto un partito con «dialettica interna», che non si appiattisca sul «pensiero unico», né sul «culto della personalità», né su un presidenzialismo «che emargini il Parlamento». Ma la sua è una concezione normale, terrena potremmo dire, del lavoro politico. Quella di Silvio Berlusconi è invece una concezione eccezionale. Il partito che nasce è una emanazione e un sostegno al leader assoluto, del governo come delle piazze. Del resto è già così: chi in Italia può competere per forza popolare e fortuna personale con Silvio Berlusconi? Solo che fondare un partito su una leadership carismatica vuol dire formalizzare questa superiorità assoluta.

Quella del presidente della Camera potrebbe essere dunque definita una battaglia permanentemente persa. E molti osservatori lo scrivono. Ma c’è un’idea politica anche nell’ostinazione con cui si ripresentano le proprie convinzioni. E soprattutto c’è sempre un’idea politica nell’attesa stessa. Tanto per citare di nuovo Max Weber: «Per la sua peculiare natura e per la mancanza di un’organizzazione formale, l’autorità carismatica dipende dalla cosiddetta legittimità politica percepita. Se dovesse vacillare la forza di siffatta fede, lo stesso potere del capo carismatico potrebbe decadere rapidamente, il che per l’appunto costituisce una manifestazione di come questa forma di autorità sia instabile».
 
da lastampa.it
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« Risposta #64 inserito:: Marzo 27, 2009, 11:46:10 am »

27/3/2009
 
Fritzl vicino di casa
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Italians do it better, dice un’ambigua battuta autocelebratoria con cui gli italiani amano spesso presentarsi nel mondo. Sappiamo fare quasi tutto meglio degli altri, incluso, pare, lo stupro. A Torino non uno ma ben due stupratori hanno abusato per 25 anni non di una figlia, bensì di quattro, figlie, nipoti e cugine, di anni 20, 18, 9 e 6. La prima tenuta segregata in stanze senza elettricità. Trama evocativa di Uomini che odiano le donne, primo libro della popolare trilogia di Stieg Larsson.

Altro che il signor Fritzl, il mostro papà stupratore austriaco che per quasi tre decenni ha tenuto chiusa nel sottoscala sua figlia e i 6 bambini che le ha fatto concepire. Dopo aver ossessivamente osservato e cercato di spiegare come è possibile che nella «placida cittadina» austriaca piena di «famiglie normali» (sono i termini più usati da esperti e giornalisti) si nascondesse un mostro, cosa ci inventeremo per negarci che non uno ma più mostri si nascondevano anche nell’amata Torino, città dell’amata Italia?

O faremo scivolare tutto in un breve attimo di pietà che si scioglie nel leggere la condizione sociale di questa famiglia? Sia il padre che il figlio stupratori sono in effetti venditori ambulanti: è molto semplice dirsi che in fondo si tratta solo di «degrado sociale». Degrado. Dolce concetto che viene in soccorso alla nostra coscienza ogni volta che c’è qualcosa che ci rifiutiamo di capire: se qualcosa di spaventoso avviene nel mondo dei ricchi si tratta di degrado morale; se invece avviene nel mondo dei poveri è degrado economico. Ci si lascia così alle spalle, dopo una giusta fitta di pena, quello che non riusciamo a digerire.

Ma stavolta vorrei fermare la vostra attenzione almeno per la durata del tempo di lettura di queste parole. Gli stupri sono in Italia un fenomeno di violenza che nasce tutto in famiglia. Padri, fratelli, zii, fidanzati. Le statistiche parlano di più del 60 per cento di violenze consumate dietro le accoglienti mura di una casa. Troppi per attribuirli a occasioni, a ignoranza, a povertà o a malattie morali. Gli stupri non si raccolgono solo in un particolare luogo (il Sud, ad esempio) o in una categoria sociale. Se si guardano le statistiche, la violenza sulle «proprie» donne è una passione interclassista e nazionale. Eppure, mentre il caso Caffarella di Roma ha assorbito attenzione pubblica e delle forze di polizia, lì dove non c’è uno straniero, preferibilmente romeno, regna in genere il completo silenzio. Per questo il caso Fritzl ha fatto paura: perché rompeva il silenzio ed esponeva lo scempio. In Italia abbiamo letto e rabbrividito, tutto sommato attribuendo l’episodio all’anima austriaca che ha portato quel Paese in passato nel ruolo di «carnefice volontario» accanto ai nazisti. Ma ora che un caso del genere scoppia a Torino, una dei luoghi più dignitosi d’Italia, sapremo guardare il mostro negli occhi? Sarà il caso di Torino seppellito presto da sterili sociologismi e dalla voglia di guardare dall’altra parte? O ne faremo, come merita, un caso ben più grande e ben più scottante di quello austriaco?

Non sono domande inutili. La corte austriaca, con qualche superficialità, si è lavata la coscienza con un processo veloce. In Italia invece non abbiamo mai portato alla sbarra - a mia memoria - un padre che approfitta delle figlie. Il perché è chiaro: il primo responsabile (non colpevole, che è colui che commette la violenza) è il silenzio di tutti coloro che sono in grado di sapere e che invece guardano dall’altra parte. Penso ai silenzi del resto delle famiglie, dei vicini, degli assistenti sociali, dei professori, ma soprattutto delle altre donne di questi uomini violenti. Le madri, le zie, le cugine, che non possono non sapere, avvertire, o riconoscere i segni - nelle lenzuola, nei vomiti, nelle assenze, nelle depressioni - dello sporco che si accumula in casa. Invece, quando qualche mostro arriva in tribunale, come nel caso Fritzl, questo altro universo femminile che ha visto e taciuto, non appare mai. Derubricato con un altro sociologismo da salotto: «vittime». Queste donne, si dice, sono vittime anche loro della stessa dipendenza dai mostri.

Questo è invece il punto da cui partire per smantellare l’omertà che permette questo crimine: dal silenzio delle donne complici. È davvero vittima chi guarda la violenza e tace? È davvero vittima chi si presta a uno dei più odiosi crimini del mondo, la tortura? In nome della dignità stessa delle donne, penso che si debba, in casi come questi, togliere loro ogni copertura, e chiamarle in tribunale esattamente come gli uomini che hanno coperto. Il loro coinvolgimento penale può essere il momento di rottura della catena.

Per altro non c’è bisogno di nessun’altra legge per iniziare il nuovo corso. C’è già un nome per la responsabilità di chi copre un crimine, e si chiama: favoreggiamento. Leva risultata potente persino per combattere l’omertà intorno alla mafia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #65 inserito:: Aprile 07, 2009, 06:54:48 pm »

7/4/2009
 
Stavolta lo Stato c'è

 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Come sempre, i racconti dei sopravvissuti ci dicono che nelle difficoltà gli italiani danno il meglio di se stessi. Ma il terremoto che ha devastato l’Abruzzo sembra svelare qualcosa di diverso.

Svela qualcosa di diverso anche nell’operare della classe politica: una sorta di dignità e di assunzione di responsabilità, non scontate nel velenoso clima politico che avvolge il Paese. La macchina dello Stato ha ben operato. C’è certo la polemica che riguarda lo studioso che forse aveva previsto il terremoto. Ma questa è una discussione incerta, esposta com’è ad argomenti scientifici che avranno bisogno di tempo per essere dipanati. Quel che conta in queste ore è il tempismo, l’efficienza e il volume dell’intervento di soccorso: da questo punto di vista il primo bilancio è positivo. I soccorsi si sono messi in moto pochi minuti dopo la scossa più grave, stando alle testimonianze più importanti, quelle delle vittime. I vigili del fuoco sono stati velocissimi ad arrivare e a cominciare a scavare. Nel giro di poche ore hanno poi portato sui vari luoghi le unità cinofile e le grandi attrezzature, tipo gru, che servono nei casi di crolli di interi edifici.

La Protezione civile ha ben coordinato tutti i suoi bracci operativi: ad esempio, e non è un dettaglio secondario, il sito Internet è stato immediatamente attivato dopo la scossa, dando informazioni anche prima dei canali all news tv, che pure hanno ben lavorato. Altro esempio di organizzazione: le Ferrovie hanno fermato i treni per controlli e hanno riaperto le linee locali con il massimo della velocità. Così com’è stato fatto per le autostrade verso L’Aquila, già sbarrate all’alba per far passare i soccorsi. Ancora: la richiesta di sangue è scattata così immediatamente che a mezzogiorno ce n’era già a sufficienza. Le tendopoli sono state erette in mattinata e il trasporto feriti in ospedali anche lontani è stato efficiente.

Se ritorniamo a tutte le altre tragedie di questi ultimi anni, ci si ricorderà che le prime preziose ore sono sempre andate perse nella confusione - dal terremoto del Friuli, 6 maggio 1976 (all’epoca non c’era ancora la Protezione civile), a quello dell’Irpinia, 23 novembre 1980 (2735 morti), a quello in Umbria, 6 settembre 1997 (quando la Basilica di San Francesco ad Assisi venne danneggiata), e cito qui anche la frana tragica del maggio 1998 a Sarno, vicino a Napoli, in cui i soccorsi persero quasi un intero giorno. In tutte queste occasioni abbiamo sempre assistito alla generosità dei cittadini, ma non alla stessa prontezza dello Stato.

Lo Stato va dunque congratulato, oggi. In parte la macchina si è messa in moto grazie proprio alle esperienze passate. Ma in parte la prontezza va riconosciuta anche al clima instaurato dal governo, che è quello di un interventismo misurato sul fare. Efficace è stato soprattutto il fatto che il premier si sia recato di persona in Abruzzo, facendo una conferenza stampa con gli operativi dei settori. Anticipiamo critiche da sinistra che diranno, comunque, che Berlusconi come al solito riduce tutto al suo protagonismo. Ma questa volta anche nella maggioranza del centrosinistra sembra emergere un approccio diverso, che prende atto della nuova situazione: Dario Franceschini non ha dato la stura alle polemiche, anzi ha «messo a disposizione» gli uomini e le strutture del Pd. Il leader democratico ha anche telefonato al premier, e persino la spiegazione della sua assenza in Abruzzo in queste ore (spiegazione fornita informalmente dal suo portavoce) ha una nota di serio buonsenso: «Non siamo andati per non sembrare che eravamo lì a contendere le luci della ribalta», insomma per non «politicizzare» il dramma. Né abbiamo udito nessun fischio o grido «assassini», come di solito succede durante la commemorazione alla Camera.

Nel clima di lutto generale ieri l’Italia politica, governo e opposizione, si è comportata con dignità. In questa serietà ritrovata emerge anche un metodo che appare efficace agli occhi dei cittadini. Ha fatto bene Berlusconi a «metterci la faccia», andando a rassicurare gli italiani che lo Stato non è così lontano. È un metodo che nel passato - vedi Napoli - gli ha già portato un successo. E la decisione di Dario Franceschini di mettere prima a disposizione la forza locale del Pd e poi recarsi presto in Abruzzo, come dice ancora il suo portavoce, non appare un passo improvvisato: va ricordato che fu proprio lui a presentarsi a Lampedusa durante la rivolta degli immigrati un paio di mesi fa. Anche quella fu una mossa premiante per lui; nei fatti fu il primo passo che lo distinse dal grigiore dell’apparato, alcune settimane prima dell’imprevista elezione a segretario.

Piace immaginare, in queste ore di lutto, che tutto questo potrebbe davvero contenere una lezione sui nuovi tempi di crisi e di drammi: uscire dai Palazzi e confrontarsi con la concretezza della vita reale è ben più premiante che misurarsi fra schieramenti opposti nelle cupe aule di Camera e Senato.
 
da lastampa.it
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« Risposta #66 inserito:: Aprile 14, 2009, 02:55:47 pm »

14/4/2009
 
I moderati
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Dal buio in fondo al tunnel della sconfitta della sinistra, si avanza un nuovo soldato: il moderato. Il termine è aleggiato intorno a Dario Franceschini e al suo Pd per la tregua istituzionale scelta nel periodo del terremoto; è stato imbracciato da un politico mite per eccellenza, Enrico Letta, che nel suo nuovo libro in uscita, Costruire una cattedrale, lo usa in maniera tutt’altro che timida. E - se possiamo presumere che i media ancora rispecchiano il paese - forse non è un caso che sia stato ritirato fuori dal nuovo direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli per declinare la identità del suo giornale nel saluto ai lettori.

Che si tratti di tendenza, speranza, o anche soltanto di un semplice augurio, l’idea ha preso forma, in maniera conscia o inconscia, durante la settimana di lutto che abbiamo alle spalle: che si sia davvero di fronte a un tempo di nuova moderazione?

Già solo la domanda è un segno. I moderati sono spariti da anni dall’orizzonte della nostra politica, trascinati via dal disfacimento della Dc, divenuti sinonimo di trasformismo, debolezza, ambiguità nella corsa iperidentitaria del bipolarimo tra destra e sinistra. In questi ultimi anni il loro posto è stato preso infatti, e con un po’ di imbarazzo per la non perfetta simmetria, dai Centristi.

Ma moderato, almeno come se ne sente parlare in questi abbozzi di discussione, non è affatto il centro. Nel dire questo, prendo in prestito proprio una definizione di Enrico Letta: «L’elettorato non è bipolare, ma tripolare: diviso non tra destra e sinistra ma tra progressisti, moderati e populisti». Questa è, come si vede, una riscrittura radicale delle definizioni che usiamo oggi: non più destra, non più sinistra, e nemmeno centro. Si parla di una nuova geometria in cui sotto il termine «populista» si allineano parti della destra, della sinistra e delle terre di mezzo attuali. Per dirla ancora con Enrico Letta: «Si tratta di unire progressisti e moderati, in un patto che non potrà includere né la Lega da una parte, né Di Pietro e i comunisti dall’altra».

Se questa idea andrà avanti o no non lo sappiamo. E’ interessante invece cogliere gli elementi da cui nasce questo ragionare, che sembra tentare molti nel centro sinistra di oggi.

Il terremoto ha segnato una svolta significativa del Pd. E’ troppo parlare di unità nazionale. Ma certo il nuovo segretario del partito dei democratici si è preso una bella responsabilità: quella di rompere la prigione berlusconismo-antiberlusconismo. E non certo per «tradire» o fare «inciuci». Tanto è vero che, in piena emergenza terremoto, ha piazzato alla Camera una formidabile manovra parlamentare che si è infilata dentro le contraddizioni del governo e ha permesso l’affossamento delle misure più «populiste» (quelle della Lega) sugli immigrati. Mi piace pensare, dunque, che la rottura dello schema «sì o no a Berlusconi» sia il merito di uno sguardo che si è alzato dalla quotidianità.

Il tremito che ha scosso l’Abruzzo - come sempre accade nel cortocircuito che lega catastrofi e politica - è stato nel nostro paese un momento quasi catartico di risveglio: la materializzazione dello sfascio, della fragilità, della insicurezza su cui poggiano i nostri piedi, è stata la stessa che la crisi economica filtra nella nostra coscienza. Il tremore della terra è diventato il segno di tempi più duri per tutti, la scoperta, il sapore dei tempi in cui viviamo. La cautela, l’attenzione con cui il Pd si è mosso, sono state - credo - non un consenso al premier Berlusconi, ma una presa d’atto di questo nuovo mondo.

Vorrei ricordare qui un dettaglio, andato perso la scorsa settimana nella travolgente cronaca del dolore, ma non sfuggito a chi fa politica, specialmente nel centro sinistra. Stanno emergendo segni sempre più consistenti di nuove reazioni popolari alla crisi. Penso ai sequestri di manager, alle ribellioni, agli attacchi e a tutte quelle azioni che l’economista francese Jean-Paul Fitoussi ha già definito, senza giri di parole, «una rivolta popolare non coordinata, spontanea. E molto pericolosa». Che nasce stavolta da una dimensione «intellettuale» della crisi economica: la sensazione, cito ancora Fitoussi, che «la gente ha avuto di essere stata presa in giro». «Le fondamenta della democrazia sono in pericolo», non esita a dire il francese, e con lui molti intellettuali italiani oggi, nello schieramento di centro destra come in quello di centro sinistra. Se questa è la dimensione della crisi che ci viene addosso, forse la «moderazione» è un’illusione. Ma è certo un buon luogo da cui tirare un respiro, riflettere, e contare fino a tre prima di lanciarsi nel vuoto.
 
da lastampa.it
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« Risposta #67 inserito:: Aprile 20, 2009, 04:41:04 pm »

20/4/2009
 
Chiamatela Exodus
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Si chiama Pinar. Ma le onde del Mediterraneo ricordano una sua sorella di molti anni fa, che vagava ugualmente senza meta, senza approdo, col suo carico di umanità a perdere, incastrata dalle logiche dei trattati internazionali nella marginalità della Storia.

Quella sorella si chiamava Exodus. Per chi è troppo giovane, ma anche per chi ha l’età del ricordo, vorrei richiamare qui quella memoria. L’Exodus salpò ai primi di luglio del 1947 da Porto Venere. Una carretta del mare, coperta di ruggine, un goffo battello che, col nome di President Warfield, era servito in Virginia, Usa, a portare turisti su e giù per il Potomac. La comandava un giovane ebreo di 27 anni. Era stata ristrutturata nel cantiere dell’Olivo a Porto Venere e si avviava verso la più grande impresa dell’emigrazione ebraica clandestina: trasportare dall’altra parte del Mediterraneo, stivati su quattro piani di cuccette, 4.515 profughi ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Non era la prima, e non fu l’ultima, su quella rotta, ma il suo viaggio divenne il simbolo del diritto di un popolo a emigrare.

Alla fine della seconda guerra mondiale, il Golfo della Spezia divenne uno dei luoghi di speranza per migliaia di ebrei europei, uomini, donne e bambini che avevano conosciuto la persecuzione, lo sterminio, i Lager. Nello Stato ebraico, La Spezia è chiamata ancora oggi «Schàar Zion», Porta di Sion. Da questa nostra città partirono tra l’estate del 1945 e la primavera del 1948 oltre 23 mila ebrei. Ma la traversata non fu semplice. L’arrivo di profughi in Palestina era stato bloccato a un numero di 75 mila entrate in cinque anni, secondo gli accordi del dopoguerra che avrebbero dovuto fermare il conflitto arabo-palestinese. Lo Stato di Israele, in questi accordi, non era previsto. La Gran Bretagna, che aveva il Mandato per la Palestina, combatté in tutti i modi l’arrivo dei profughi ebrei.

Nel maggio del 1946 l’immigrazione clandestina ebraica divenne un caso internazionale: l’Inghilterra bloccò la partenza dal porto della Spezia di due imbarcazioni, la Fede di Savona e il motoveliero Fenice, cariche di 1.014 persone. I profughi rimasero bloccati sulle navi, in condizioni disastrose, e partirono solo grazie all’aiuto di tutta la città italiana, l’intervento dei giornalisti di tutto il mondo e la visita a bordo di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito laburista britannico. Nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1947 salpò quindi la nave Trade Winds/Tikva, allestita in Portogallo, con 1.414 profughi imbarcati a Porto Venere. E a luglio la Exodus, che con i suoi 4.515 passeggeri era la più grande impresa di trasferimento illegale di clandestini nel Mediterraneo.

Exodus mosse da Porto Venere, sostò a Port-de-Bouc, caricò a Sète, fu assalita e speronata dai cacciatorpediniere britannici davanti a Kfar Vitkin, proprio quando era in vista la costa della Palestina. Ci furono morti a bordo e la nave fu sequestrata dalla Corona. Gli inglesi rimandarono i profughi ad Amburgo, al campo di Poppendorf, un ex Lager trasformato in campo di prigionia per gli ebrei. Solo con la fine del mandato britannico i profughi poterono tornare in Palestina, quando la nave, insieme con altre, salpò di nuovo dal Golfo della Spezia. La vicenda fu narrata nel 1958 da un celebre romanzo di Leon Uris, e nel 1960 da un film di Otto Preminger interpretato da Paul Newman e Eva Marie Saint.

Il Mediterraneo, il mare nostro, è sempre stato l’acqua su cui galleggiano i nostri ricordi, le nostre identità e le nostre coscienze. Oggi Israele è una potenza, che desta sentimenti forti, di amore e di antagonismo. Ma allora gli ebrei erano solo una massa di persone senza nome e senza volto, senza passato e senza futuro. Il Mediterraneo fu il loro purgatorio, la loro culla ma anche la loro speranza.

La Pinar non sarà forse mai famosa come la Exodus e non passerà alla storia. Ma il suo vagare in mare stretta tra ragioni di Stato e ragioni della umanità non è molto diverso. Allora gli italiani scelsero l’umanità. Oggi fanno la stessa, giusta, scelta. Questi illegali di oggi con la pelle nera sono i nuovi ebrei che scappano dall’Olocausto nascosto della globalizzazione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #68 inserito:: Maggio 15, 2009, 12:39:24 pm »

15/5/2009
 
La forza del silenzio
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Gli U2 le dedicarono nel 2003 una canzone, Walk on (va’ avanti). È bastato perché il cd All that you can’t leave behind, che contiene il brano, fosse messo al bando dalla Birmania.

Non può essere né importato, né scaricato e nemmeno ascoltato. Come chiamare il raggiungimento di una vetta di tale stupidità censoria? Purtroppo nel mondo dei persecutori il ridicolo è spesso direttamente proporzionale alla crudeltà. E il caso della band irlandese è il miglior ritratto della stolidità feroce con cui il regime dei militari Birmani continua a perseguitare il leader politico dell’opposizione. Il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ieri è stata ricondotta in carcere. Nell’alba di Rangoon i militari hanno rimesso tra le sbarre questa donna di 63 anni, che ne ha già fatti 19 di galera e 6 agli arresti domiciliari. Una donna malata, cui non viene permesso di essere visitata dal suo medico, perché lui stesso in carcere. È accusata di aver ospitato per due giorni un americano che aveva raggiunto la sua casa traversando a nuoto il lago su cui si affaccia.

A questo punto si dovrebbero spiegare la Birmania, la Cina, e gli equilibri asiatici. Ma di fronte a decisioni così grottesche, parlare di politica servirebbe solo a nobilitare i persecutori e i loro protettori: in questo caso la Cina. Propongo invece di salutare la nuova tappa in carcere di Aung San Suu Kyi come un suo ennesimo trionfo. Che un gruppo di militari che tiene in mano con la forza un Paese abbia così paura di una donna fragile e anziana è solo il segno della suprema forza che questa donna incarna. Aung San Suu Kyi non è una vittima, ma il vero centro del potere in Birmania. In queste ore, insieme con la pietà, dovremmo forse riflettere proprio su questo.

Aung San Suu Kyi è sulla scena politica da una vita, fin da bambina, figlia di un padre dell’indipendenza Birmana, assassinato, e di una madre che continuò il lavoro del marito. Ragazza di quelle élite asiatiche (come di quasi tutti i Paesi del Terzo Mondo) che vengono educate nelle capitali intellettuali dell’Impero - Oxford o Harvard, Uk o Usa - e poi tornano dall’Impero come alleate dell’Occidente e classe dirigente. La sua biografia ricorda molto quella di Benazir Bhutto. Ma una particolarità è solo di Suu Kyi e anche in questo ultimo giro di vite contro di lei viene riconosciuta ed esaltata. Non è il suo essere élite, e nemmeno donna, bensì il suo percorso verso l’affermazione delle sue idee. Questa leader Birmana è diversa da tutti gli altri leader politici per aver scelto una strada occidentale nei valori, ma tutta «asiatica» nel metodo. L’esatto contrario dell’azione politica come la si concepisce in Occidente. Là dove, nella nostra cultura, la leadership è esposizione, movimento, scontro aperto, visibilità, immagine, riflesso pubblico, totem mediatico, quella di Suu Kyi è leadership al contrario: costruita sull’assenza, sul silenzio, sulla paziente accettazione del tempo e della sofferenza. Potere tutto interiore, e interiorizzato.

Mancava da anni sulla scena politica mondiale un ribaltamento del genere, una leadership autenticamente diversa, tutta «orientale». Non si vedeva dalla non violenza del Mahatma Gandhi. Da allora non appariva sulla scena mondiale il poderoso scontro fra divise militari e una sola tunica: un blindato fronteggiato a mani e piedi nudi, un grido di guerra respinto dal silenzio. Aung San Suu Kyi si richiama al Mahatma. Si dichiara profondamente influenzata dal suo pensiero. Dopo anni di rumore globale, sferragliare di metallo e accozzaglia d’immagini, appelli, manifestazioni e martiri, del leader dell’opposizione birmana avvertiamo solo l’assenza, non una parola, non una foto, non un’immagine a raccontarci le sue intenzioni. Un supremo silenzio che, come un buco nero, si allarga inevitabile, divorando la pesante materia del mondo intorno.

Noi occidentali non sappiamo riconoscere questo potere, e in queste ore pensiamo a Aung San Suu Kyi come a una vittima. Ma è certo che i militari del suo Paese sanno bene chi hanno di fronte.
 
da lastampa.it
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« Risposta #69 inserito:: Maggio 20, 2009, 10:43:59 am »

20/5/2009
 
Giovani come tanti
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Ma, insomma, cosa mai devono fare, questi ragazzi? Se vogliono fare le letterine, li si accusa di seguire i più volgari modelli culturali.

Se si chiudono in casa e chattano tutto il tempo, ci si allarma per una generazione distaccata dalla realtà. Se bevono ogni sera nella movida, li si descrive sulla strada dell’alcolismo. Se vanno in piazza per il Papa, li si guarda come premoderni. Se invece hanno rapporti sessuali, li si proclama amorali precoci. Se si iscrivono obbedienti alla trafila delle primarie del Pd, li si descrive come precoci burocrati. Se diventano giovani leader alla Bocconi o all’Aspen, li si racconta come mostri di ambizione. E se manifestano in piazza - come succede in questi giorni - non ne parliamo: eccole lì, le nuove leve del terrorismo.

È possibile che un Paese come il nostro, malato di misoginia e di xenofobia, risulti alla fine malato anche di fobia antigiovani. Ma, se di fobie si tratta, sotto si nasconde una serpe vera. Gli studenti asini, e le veline, e i solitari, e gli ambiziosi, rimangono relativamente visibili (e infatti se ne fregano delle nostre analisi - non so se lo sapete), ma affrontare ogni forma di rivolta giovanile come una questione di ordine pubblico è un azzardo. Arriviamo così a Torino, che in una settimana è stata il set di due episodi raccontati come paradigmatici di un clima e di un futuro. Parlo del centinaio di Cobas - li cito qui perché molti di loro erano giovani - che hanno attaccato Rinaldini e la Cgil, e le poche centinaia di studenti dell’anti-G8. Tante parole. Ma alla fine gli scontri di massa si sono risolti in un po’ di «cariche di alleggerimento» e tre-feriti-tre. Ugualmente si può dire dell’aggressione dei Cobas: non è affatto un avvenimento nuovo nella vita del sindacato, e la dimensione della contestazione è stata ridicola. Eppure, in entrambi i casi, come succede sempre più spesso, l’intera Nazione Istituzionale si è levata adombrando il pericolo terrorismo.

Scusate se non mi unisco al coro, ma sia Torino (in grande) sia io (in piccolo) nella nostra comune vita ne abbiamo viste di ben peggiori. E la caduta dal palco di Rinaldini non è certo quella di Lama alla Università di Roma.

Non voglio giustificare. Ma il terrorismo è stato una cosa seria. Le intemperanze, i musi, il ridicolo, gli «scazzi» e le violenze sono invece buona parte di quello che i giovani fanno in ogni società, in ogni tempo e in ogni luogo. Anche ora, in molti Paesi d’Europa. Questione di libertà, questione di testosterone.

Perché dunque invocare sempre così facilmente l’ombra della rivolta armata, oggi in Italia? Non voglio dare questa risposta - essa stessa molto complessa. Dare un avvertimento tuttavia non costa molto. Per cui - per quel che serve - lo butto lì: se ogni ribellione, ogni contrazione della società deve essere rubricata sotto il nome di potenziale terrorismo, state attenti. Invocare l’Apocalisse a ogni tuono può davvero condurvici.

 
da lastampa.it
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« Risposta #70 inserito:: Maggio 24, 2009, 05:48:17 pm »

24/5/2009
 
Se la star dei giornali va sul Web

LUCIA ANNUNZIATA
 

Noi giornalisti siamo tutti egocentrici. Anzi per dirla tutta, ognuno di noi - dal principiante al vecchio notista - si sente una star, unica e irripetibile. Per cui, confesso, quando il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, manager fra i più autorevoli (nonché fra i più simpatici) del settore editoriale, ha detto a Bagnaia, «i cimiteri sono pieni di persone indispensabili», mi si è gelato il sangue. Il presidente Confalonieri parlava di Mentana, fino a poche ore fa grande star dell’informazione proprio di Mediaset, ma tutti sappiamo riconoscere una campana quando suona per ognuno di noi.

Pausa. Respiro. Non preoccupatevi. Non intendo ora addentrarmi nella questione se Mentana sia o meno una vittima di censura politica. Personalmente penso che lo sia. Ma in questo caso, non è di questo che voglio parlare.

Il presidente di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani, con la sua affermazione ha in realtà dato voce a una opinione molto condivisa, e non da poco tempo, dagli editori in tutto il mondo. L’idea che l’epoca delle grandi firme, dei Grandi Giornalisti, sia arrivata alla sua fine. Una idea affiorata sulle acque di quel meraviglioso fiume dell’innovazione tecnologica che ha cambiato la nostra vita, lo splendente flusso delle notizie h24, le dirette, i satelliti, la banda larga, la immediatezza del luogo-non luogo. Che bisogno c’è di giornalisti, quando abbiamo la possibilità di stare ovunque, sempre, con un semplice click?

La domanda riecheggia da anni nelle nostre redazioni, e finora è sempre più o meno finita nei seminari sull’informazione di cui il mondo è pieno. E lì sarebbe rimasta, se la caduta economica a picco del settore dell’editoria (tra gli altri) non l’avesse recuperata come il Santo Graal.

Oggi l’editoria internazionale, in testa l’imprenditore dalle uova d’oro Rupert Murdoch - e, pare, anche l’editoria italiana raccolta a Bagnaia - vuole passare su Internet, e vuole far pagare i contenuti. Il ragionamento funziona più o meno così: le notizie sono più o meno le stesse, prodotte da un alveare operoso ma senza nome dei vari media, e saranno dunque inevitabilmente gratis. Altro sono i contenuti e questi si faranno pagare. Dunque meno giornalisti per lavorare al corpaccione unico delle news generali, e poche pepite d’oro da far pagare care. Se si aggiunge al costo finale l’assenza della carta, con tutti gli enormi benefici anche per la «sostenibilità» (altra parola da «seminario»), voilà.

A parte la complicata distinzione fra contenuti e notizie che ha già dato vita a una disputa annosa e non meno divisiva di quella sulla essenza del corpo di Cristo fra Ario e Atanasio, la domanda rimane sempre la stessa: ma che razza di contenuti sono questi da spingere a comprare in una rete gratuita e zeppa di notizie un particolare accesso a una particolare testata?

Fino ad oggi nel mondo ci sono vari esempi di successo online. L’informazione economica, che è assolutamente necessaria, di Bloomberg, dei servizi speciali del Ft, o di Economist o di WSJ, e che riesce, in parte, a farsi pagare. Nell’informazione politico-generalista, ci sono esempi di altissimo livello, come «politico.com», da tutti guardato come esempio: ma anche questo sito, pur fatto da superfirme superpagate, al momento per sfidare Washington Post e New York Times rimane gratuito.

Per farci pagare l’accesso al Web avremo dunque bisogno di offrire grandi cose. Notizie esclusive (scoop, si diceva quando eravamo ingenui)? Le analisi migliori? Storie senza pari? Risate irripetibili? Informazioni senza le quali non possiamo uscire? Qualunque di queste cose sia, per essere acquistate dovranno essere, appunto, uniche, irripetibili, migliori, senza pari, impossibili da ignorare. E chi farà questi strepitosi «contenuti», se non strepitosi giornalisti? Ecco, così, tanto per indicare un dettaglio.

Non parliamo dunque di Mentana, ma parliamo di Fiorello. Persino lui, che è una vera grande star, se messo dentro il tritacarne di una Tv da pagare non raccoglie milioni ma solo decine di migliaia di spettatori. Figuriamoci se spendo un euro per andarmi a leggere un testo di cui non conosco nemmeno l’autore.

da lastampa.it
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« Risposta #71 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:18:55 am »

25/5/2009
 
Ambasciatori in missione con il marito
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Quando la scorsa settimana, nel pieno del dibattito sulle torture durante la presidenza di George W. Bush, un ennesimo traduttore arabo venne cacciato dall’esercito americano perché gay, il comico Jon Stewart così trafisse le ipocrisie americane: «Permettiamo agli interrogatori di usare il waterboarding per i terroristi, ma cacciamo perché gay i traduttori che ci potrebbero dire cosa rivelano i terroristi sotto tortura».

«Don’t ask, don’t tell» - Non chiedere e non spiegare.

La formula, che è da sempre nel mondo anglosassone la base della ricerca della felicità in condizioni di incertezza - per esempio, nel matrimonio - è diventata da anni sinonimo della pilatesca fuga a cui hanno fatto ricorso una serie di Amministrazioni statunitensi di fronte a uno dei più scomodi tra i diritti civili: il riconoscimento dei gay nell’esercito. Fu Clinton - Bill, presidente Usa - nel primo mandato a dovervisi adeguare, dopo aver fatto molte promesse, intimorito dalla reazione dei conservatori. La storia torna a galla ora, rimessa in moto da un secondo Clinton, Hillary, Segretario di Stato, che ha deciso di picconare il muro delle fobie pubbliche antiomosessuali. Non si tratta di militari, stavolta, ma - da un certo punto di vista - il riconoscimento è persino più audace: il Dipartimento di Stato riconoscerà ai compagni/e dei diplomatici americani gay gli stessi diritti delle coppie eterosessuali. E forse gli Usa rischieranno di pentirsene. A volte succede. Ma, se di rivoluzione nel linguaggio internazionale si vuol parlare, quale migliore shock che quello di portare a tavola, a ricevere i potenti di turno, insieme con il Signor Ambasciatore anche il suo Signor compagno?

È un bel ribaltamento, intanto, contro l’ipocrisia. I Mr e Mrs Ambasciatori esistono già oggi: nelle mani di Hillary e Obama c’è un recente appello di ben 2200 membri dell’Amministrazione Esteri di sgombrare la vita diplomatica dalle ambiguità connesse al problema di compagni di vita che finora vengono inclusi come «parte della famiglia», ma che non hanno diritto, ad esempio in situazioni di guerra, di essere evacuati insieme con i loro compagni/e. Il caso più famoso lo ha fatto esplodere nel 2007 un apprezzato diplomatico, Michael Guest, che dopo 26 anni di servizio si dimise dal Foreign Service per protesta contro le regole che gli impedivano di riconoscere il suo compagno, «obbligandomi così a scegliere tra la lealtà al mio partner e quella nei confronti della patria». Guest è poi stato chiamato da Obama a far parte del «transition team» nel Dipartimento di Stato.

Molti punti di vista possono essere letti, ovviamente, in questa decisione di Hillary Clinton. Secondo gli ultimi dati, il 57 per cento della popolazione Usa sotto i 35 è a favore dei matrimoni gay. Una tendenza che contraddice la cautela con cui il presidente Obama ha deciso di gestire in questi mesi la questione dei diritti civili. È possibile dunque che il Segretario di Stato voglia aiutare Obama trascinando avanti lei stessa la palla in campo. O che voglia aiutarlo magari riprendendo in mano una torcia liberal tipica dei Clinton e della loro generazione. O anche solo che voglia «compensare» la cautela nazionale della Casa Bianca, aprendo una campagna di immagine internazionale.

Perché, alla fine, di questo poi si tratterà. Immaginiamo l’impatto che avranno sul piano diplomatico queste coppie «same-gender»; immaginiamo gli sconvolgimenti del più arido e del più tradizionale settore della burocrazia, quello dei «foreign offices» esposti alla frizione di una rivoluzione sessuale aperta; immaginiamo imbarazzi di cerimoniali, e autentici problemi di rispetto religioso, come potrebbero verificarsi in Medio Oriente o anche in Vaticano. Ma qualunque sarà l’intoppo, questa decisione di Foggy Bottom si irraggerà in tutta l’amministrazione pubblica americana, e anche in quelle mondiali. Con effetti non meno rivoluzionari di quelli già avuti nelle relazioni internazionali dall’elezione del primo presidente Usa nero.
 
da lastampa.it
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« Risposta #72 inserito:: Maggio 28, 2009, 09:56:36 am »

28/5/2009
 
L'ombra del complotto
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Si scrive «Bilderberg», e si legge «Complotto». L’incontro annuale del gruppo che riunisce circa 150 degli uomini più influenti del pianeta (italiani inclusi).

Bilderberg, che prende il nome dall’hotel olandese dove ne avvenne la fondazione nel 1954, ha attirato anche quest’anno (fra il 14 e il 17 maggio) l’attenzione di sempre. Con una notevole eccezione. Dal blog degli appassionati dei complotti mondiali (tipo infowars) stavolta l’attenzione è trasmigrata sull’autorevole quotidiano Politico.com iniziando a Washington una vera e propria caccia alla conferma o no dei presenti in Grecia.

L’interesse è dovuto al fatto che all’incontro, tenutosi presso Atene nell’Hotel Astir Palace, ha partecipato un gruppo di rappresentanti di alto livello dell’Amministrazione Obama, fra cui Richard Holbrooke, inviato sulla questione Pakistan-Afghanistan, e James Steinberg, vicesegretario di Stato. La presenza di membri di un’Amministrazione Usa in queste riunioni non è inusuale - dopotutto è Henry Kissinger il grande padre di questa specie di fondazione. Ma che in questa tradizione si calasse anche l’Amministrazione Obama, considerata così di rottura, questa volta ha fatto notizia.

È solo un dettaglio, dopotutto. Ma utile a far avvertire un clima. Sotto la superficie più o meno tranquilla con cui guida la sua nave il presidente americano Barack Obama, i cambi e le decisioni avviate da Washington sono tutti a pelle scoperta. In patria e altrove. Né potrebbe essere diversamente. La macchina della politica Usa, accelerata dal fuoco di combustione della crisi economica, alimenta dubbi e domande, in moltissimi Paesi. Rientra così in scena la vecchia ombra - quella dei complotti internazionali, che è sempre il sostituto per ogni mancanza di certezze.

Non sarà sfuggito a molti che in queste ultime settimane alcuni quotidiani italiani riportano voci che il nostro governo teme un «complotto» appunto, che nasce negli Usa e nel mondo anglosassone in generale. E di cui i numerosi attacchi di vari quotidiani stranieri potrebbero essere, si dice, uno specchio.

Il complotto è un’ombra che tradizionalmente si avverte nella politica italiana. Vi hanno fatto ricorso Andreotti e ambienti socialisti per Mani Pulite. La sinistra vi ha attinto a piene mani per molti dei suoi problemi. Oggi però pare rispuntare anche dentro il centrodestra, sostenendo che a ledere il rapporto fra Usa e Italia sia l’eccessiva vicinanza dell’attuale premier Silvio Berlusconi al premier russo Putin.

Accantonando, tuttavia, le ricostruzioni fantasiose, di cui sempre i complotti fanno parte, è possibile ascoltare alcune segnalazioni interessanti da voci dentro un paio di think tank in Usa e in Gran Bretagna. La questione Putin, si dice, è senza dubbio molto sentita in Inghilterra. E non da ora. Si vada ad esempio a recuperare un vecchio articolo dell’Economist del 7 novembre 2008, cioè pochi giorni dopo l’elezione di Obama. Il titolo è da messa in guardia: «Per Obama non c’è verso di ignorare Putin», e in un passaggio vi si legge che «alcuni leader europei, dopo la vittoria di Obama, aumentano le proprie scommesse sulla Russia. Silvio Berlusconi, il presidente italiano gaffeur, ha fatto una visita a Mosca dall’interessante scelta di tempi (intriguingly timed visit to Moscow, nel testo, nda) ed ha dato vita a una controversia riferendosi ad Obama come “giovane, bello e abbronzato”». L’articolo prosegue definendo l’Italia «uno dei Paesi che si sono avvicinati a Mosca molto più di quanto Washington desideri, a partire dalla crisi in Georgia».

Da allora molto tempo è passato, ma non è mai venuta meno la «specialità» di alcuni rapporti dell’Italia - quello con la Russia, e anche quello con l’Iran, come ci ha ricordato la recente cancellata visita di Frattini.

Non è questione di «abbronzato» ovviamente, si dice dalla sponda americana di uno dei think tank di Washington. «È piuttosto questione di distanza siderale» nel come si guarda oggi alle relazioni internazionali. Anche qui, eliminando ogni ridicolo cenno ai complotti, basta guardare all’agenda delle visite Usa-Europa. Nei primi fatidici cento giorni l’Italia non è stata mai inclusa in nessuna delle visite ufficiali, né del Presidente Obama, né del segretario di Stato americano.

L’assenza di questo passaggio - che sarà certamente recuperato con la visita del G8 - è stata notevolmente esposta proprio nel tanto celebrato primo viaggio europeo organizzato a più mani e più voci dall’amministrazione Usa in Europa. Come si ricorderà, il vicepresidente Biden scelse come sua tappa Bruxelles, mentre il Segretario di Stato Clinton, arrivata in Europa dall’Estremo Oriente, è passata per Sharm el Sheik in Egitto, per poi andare a Bruxelles, in Svizzera (per un incontro con i russi) e infine in Turchia. Obama invece ha fatto Londra, Francia, Germania e Praga. Non si trattò di un’alzata di spalle verso l’Italia, si disse. E infatti non fu uno sgarbo personale, dal momento che altre nazioni non vennero incluse. Ma in quegli itinerari c’è una logica: gli Usa attuali si rapportano all’Europa innanzitutto come istituzione collettiva, in cui privilegiare solo i rapporti con le nazioni più forti. E intendono avere con l’Europa rapporti chiari, ma non più di divisione di ruoli. Hillary Clinton, ad esempio, all’Europa diede un’indicazione chiara: unità transatlantica, ma nessun «messaggio doppio» in rapporti delicati e controversi con altri Paesi. L’avvertimento aveva a che fare con Russia e Iran, come poi si è ben visto.

A proposito: l’unico incontro fra un rappresentante Usa, la Clinton, e il nostro premier, Silvio Berlusconi, è stato a Sharm el Sheik.
 
da lastampa.it
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« Risposta #73 inserito:: Giugno 07, 2009, 12:14:45 am »

3/6/2009
 
Se Obama va a Maometto
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Non sappiamo ancora cosa dirà. Ma sappiamo dove lo dirà. Il che, secondo le regole della politica odierna, è quasi quanto basta. Barak Obama parlerà domani al mondo musulmano dall’Aula Magna dell’Università del Cairo, dove si presenta dopo aver reso omaggio ai custodi della Mecca, i reali della casa saudita, a Riad. Lo seguirà un’opinione pubblica musulmana che non ha mai guardato con tanto favore a un leader occidentale: lo approva il 25 per cento degli egiziani (contro il 6 a favore di Bush).

Lo approva il 29 per cento dei sauditi (per Bush il 12), il 37 per cento dei turchi (per Bush il 14), il 15 per cento dei siriani (per Bush il 4). È una dislocazione geografica e di umori sufficiente a farci dire che qualcosa già è accaduto nelle relazioni fra Stati Uniti e mondo arabo.

Obama terrà domani al Cairo il quarto discorso di politica estera della sua presidenza. Ognuno di questi interventi è stato fatto in un luogo intimamente connesso al senso del messaggio. Il primo, sul ritiro dall’Iraq, il 27 febbraio, è stato pronunciato nel campo di addestramento dei marines di Camp Lejeune, in North Carolina, davanti a uomini e donne che stavano per partire per le basi di Baghdad. E cominciava: «Sono venuto a parlarvi di come la guerra in Iraq finirà». Il secondo, del 5 aprile, forse il più visionario, su un mondo privo di armi nucleari, è stato pronunciato a Praga, già ponte della Guerra fredda fra Est e Ovest. Che si riferisse a quell’epoca, Obama l’ha lasciato capire da un romantico omaggio alla moglie: «Sono l’uomo che accompagna Michelle», parafrasando John e Jackie Kennedy del viaggio europeo nel 1961. Il terzo discorso, del 21 maggio, sulla sicurezza nazionale, ha annunciato la chiusura di Guantanamo, ed era ai National Archives di Washington, tempio in cui è custodita la storia della Repubblica Usa.

Al Cairo si attende ora un altro segmento della visione strategica dei nuovi Stati Uniti. Gli inviti alla cautela degli esperti, in questa vigilia, sono numerosi. Fortissime le resistenze in Israele e in una parte dello stesso mondo democratico americano contro le pressioni dell’amministrazione per fermare gli insediamenti. Problematica, a dir poco, è nel mondo arabo ogni soluzione (fosse anche quella - impossibile - dei due Stati) che implichi il pieno riconoscimento di Israele. Sullo sfondo c’è, poi, il ruolo attivo che Obama ha preso nel rilanciare in Afghanistan quella che ogni giorno appare sempre più come una nuova guerra ai talebani. Viceversa, le aperture all’Iran e la chiusura di Guantanamo sono, per ora, più gesti di buona volontà che impegni. Eppure, contro ogni voce della ragione, di cui sempre abbondano diplomatici ed esperti, il luogo scelto dal presidente per parlare ai musulmani appare già un’offerta in sé.

I Presidenti americani viaggiano molto. Attraversano il globo in lungo e in largo. Ma i colloqui veri, gli accordi finali, le amicizie strategiche si stringono solo a Washington. Come avvenne per l’accordo di una pace da Nobel fra Arafat e Rabin nel 1993. Come avviene per tutti i leader mondiali oggi in palpitante attesa di un invito alla Casa Bianca. Il mondo imperiale è infatti una piramide, dove la legittimazione dei Barbari non può che avvenire nella Nuova Roma.

Stavolta questa piramide si capovolge. Obama parla ai musulmani lì dove i musulmani vivono, parla alle madrasse dell’universo arabo da una grande università araba, porta sé stesso al loro livello e nei loro luoghi, pellegrino fra i pellegrini, dove il conflitto è nato. L’Egitto, ricordiamolo, è la patria del fondamentalismo islamico, il paese che ha dato i natali agli uomini più vicini a Osama Bin Laden. Nonché il punto di equilibrio, quieto ma pericolosamente ancora in bilico, tra Occidente e Oriente. È difficile dunque non vedere in questa scelta del Presidente degli Stati Uniti un desiderio di spaccare i ruoli, riscrivere le regole, riconoscere e non umiliare le diversità. In un’epoca di conflitti fatti da immagini, valori, disprezzi reali e percepiti, in un mondo in cui i rapporti fra culture pesano quanto una volta i rapporti fra testate nucleari, un gesto di modestia e di omaggio può fare molta strada.

Non è un’idea nuova quella di Obama. I migliori strateghi e politici hanno vinto guerre con il riconoscimento delle differenze altrui. Il generale Edmund Henry Hynman Allenby, primo visconte Allenby, dopo aver sconfitto l’Impero Ottomano in Palestina, facendo il suo ingresso a Gerusalemme alla testa delle truppe, l’11 dicembre 1917, smontò da cavallo e attraversò a piedi la Porta di Jaffa, «in segno di rispetto dello status di città sacra per ebrei, cattolici e musulmani». Poco importa se, con il senno di poi, oggi diciamo che quel gesto di rispetto sarebbe stato pagato molto caro da Gerusalemme. In quel momento bastò a trasformare una potenza di conquista in un protettore per molti anni. Forse la visita di Obama in Medio Oriente non sarà risolutiva. Ma ciò non toglie che, recandosi al Cairo, oggi Obama scriva una forte pagina culturale, rendendo reale la metafora dell’impossibilità: per la prima volta vedremo la montagna che va da Maometto.
 
da lastampa.it
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« Risposta #74 inserito:: Giugno 15, 2009, 06:29:19 pm »

15/6/2009
 
Sembra Tienanmen
 

LUCIA ANNUNZIATA
 
C’è un solo parallelo capace di descrivere la sanguinosa rivolta in corso in Iran: Tienanmen.
Esattamente come a Pechino, vent’anni e dieci giorni fa (il 4 giugno 1989), i carri armati che ripulirono la piazza Tienanmen ufficializzarono agli occhi del mondo la debolezza del governo cinese, così ieri a Teheran la repressione feroce di una ribellione contro l’esito elettorale rende visibili le crepe aperte nel governo di Mahmoud Ahmadinejad. Sia la Cina allora sia l’Iran adesso sono infatti sistemi basati sullo stesso principio, lo stesso pilastro: sono cioè entrambi governi di natura teocratica, fondati sulla pretesa di rappresentare l’intera nazione, senza dubbi e senza dissidenza, in quanto espressione di una autorità superiore, intoccabile. Rompi l’intoccabilità di questa origine prepolitica o superpolitica, e rompi il pilastro stesso su cui questi governi si reggono. Il dio della Cina era allora il Partito comunista, quello di Teheran è oggi Allah, ma in entrambi i casi la pubblica rivolta indica che la loro identità di intoccabili è saltata.
Prima di Tienanmen non c’erano state proteste antigovernative, se non quelle pilotate della rivoluzione culturale.

Ieri a Teheran è avvenuta la prima rivolta della piazza contro le autorità, dalla rivoluzione del 1979. Tienanmen rivelò che nel cuore del Partito comunista stesso c’era una spaccatura, ieri a Teheran si è messa in piazza l’esistenza di due anime, e di due concetti religiosi, dentro il cuore di un sistema apparentemente granitico.

Il futuro dell’Iran sarà quello della Cina, che dopo le repressioni di Tienanmen avviò un corso accelerato di rinnovamento? Non lo sappiamo ancora, ma questa ipotesi apre una seconda porta all’Occidente, laddove tutto sembrava chiuso.
L’Occidente sperava che dalle urne elettorali uscisse una vittoria dei moderati. E certo, se avesse vinto Hossein Mousavi, sarebbe stato molto comodo. Un problema che da anni tormenta il nostro Primo Mondo - l’esistenza di uno Stato forte e antagonista come l’Iran - sarebbe stato improvvisamente cancellato. Si capisce dunque la passione con cui molti osservatori, dopo il verdetto delle urne, si sono precipitati a sottolineare che la rielezione di Ahmadinejad è la sconfitta della speranza di pace per Obama, e dunque per tutti noi.

Ma non è un po’ frettolosa questa conclusione, di fronte agli eventi in corso?
Il successo dei riformisti sarebbe stato un miracolo: e i miracoli, come si è visto, in politica non accadono - nemmeno quelli provocati dal fascino del presidente Obama. Viceversa, la rivolta popolare al voto fa intravedere la possibilità di un percorso forse più lungo ma più concreto e anche più efficace di un miracolo. La vittoria di Mousavi non sarebbe stata comunque serena e pacifica; avrebbe provocato in ogni caso una spaccatura in Iran, di natura molto più velenosa della attuale. Già adesso i riformisti iraniani sono identificati come fantocci dell’imperialismo Usa. Una loro affermazione avrebbe portato i conservatori a un contrattacco di delegittimazione, sollevando davanti a un popolo fieramente indipendente e religioso, come quello iraniano, lo spettro dell’intervento americano. E come in questi anni abbiamo visto tragicamente ripetersi (non possiamo che rimandare all’Iraq), la carta del golpe Usa è sempre la più efficace nella propaganda nazionalistica di molti paesi - arabi e/o africani, e non solo.

Il rischio della vittoria riformista era dunque quello di rendere apparentemente tutto più facile, ma anche più fragile. Una rottura pubblica, un dissenso che sfocia in lotta politica aperta, avvia invece, come dicevamo, una destabilizzazione profonda. È una strada lunga, sanguinosa, ma con più potenzialità di provocare un solido cambiamento.
 
da lastampa.it
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