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7141  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Sabino CASSESE I burocrati e il passo che manca inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:40:36 pm
I burocrati e il passo che manca

Di Sabino Cassese

«Un buon passo avanti», l’ha definito il presidente del Consiglio dei ministri. Dei primi dieci testi di riforma amministrativa conosciamo i titoli e la direzione di marcia, che è quella giusta, nel segno della semplificazione. Qualche anno fa, venne calcolato in una decina di giorni per anno il tempo sottratto in media a ciascun italiano maggiorenne dai contatti con la burocrazia. Se un governo riuscisse a restituire anche la metà di questo tempo agli italiani (e a eliminare le rendite parassitarie dei mediatori che servono ad agevolare questi rapporti), compirebbe una fondamentale opera di giustizia risarcitoria. Ma semplificare non è facile, perché gli stessi governi che si propongono questo obiettivo, spesso per giusti motivi (ad esempio, aumentare la trasparenza e ridurre la corruzione), introducono nuove complicazioni.

Questo primo pezzo della riforma viene annunciato con un misto di aggressività (licenziamento dei «furbetti») e di timore (per gli esuberi che produce). Poiché in un’amministrazione ben funzionante c’è poco spazio per «furbetti» (e per corrotti), non si vede perché non fare il primo passo migliorando il modo in cui funziona la macchina dello Stato. La spiegazione va forse cercata in una certa ambivalenza della riforma amministrativa, che spinge il presidente del Consiglio dei ministri a usare il tema dell’anti-burocrazia, senza tuttavia andare fino in fondo.

Renzi sa che i vizi del pubblico impiego sono censurati anche in Quo vado? ma con occhio divertito e tutto sommato benevolo, e che il pubblico dipendente è diviso tra la difesa dei suoi piccoli privilegi e la sofferenza per un sistema complessivamente poco funzionante, di cui quei piccoli privilegi fanno parte.

Il «piatto forte» della riforma deve ancora venire. È la nuova disciplina della dirigenza (per ora ci si è limitati ai dirigenti sanitari, con una soluzione di compromesso), per la quale si deve uscire dal vicolo cieco del sistema di patronato politico imboccato alla fine del secolo scorso, aprendo nuovi canali di promozione a «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» (è uno dei sogni costituzionali rimasti inattuati).

E deve ancora venire il coinvolgimento della pubblica amministrazione nell’opera di riforma. Come osservò qualche tempo fa un acuto osservatore francese, noi italiani mettiamo troppa enfasi sul testo: fatta la legge, pensiamo che sia fatta la riforma. Perché i buoni intenti legislativi e governativi divengano realtà, occorre una cabina di regia, la preparazione della burocrazia al cambiamento, un accurato monitoraggio dell’attuazione e dei risultati, la segnalazione dei punti da correggere. Le riforme amministrative non si compiono da un giorno all’altro, con una sola decisione. Finora, il governo ha dato prova di attivismo, ma non è riuscito a far passare nelle istituzioni il «soffio repubblicano» (Léon Blum adoperò questa espressione al termine della sua esperienza di governo). Tra azione di governo e azione amministrativa vi è ancora scollamento, continue difficoltà, scarso dialogo. Questi si faranno sentire in particolare nella traduzione in realtà del disegno riformatore, che deve ancora affrontare il difficile percorso parlamentare di esame dei decreti delegati approvati dal governo.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 07:39)
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7142  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI - Schengen, la nostra identità in quel trattato. inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:39:22 pm
Schengen, la nostra identità in quel trattato.
Non può bastare la moneta unica

Di ILVO DIAMANTI
25 gennaio 2016
   
Un giorno dopo l'altro, l'Europa appare sempre più divisa. D'altronde, è difficile affidare il progetto unitario a una moneta. Tanto più in tempi di crisi economica e finanziaria. Perché se l'Europa si riduce a un euro, allora si svaluta. E l'anti-europeismo si allarga. Tuttavia, la questione europea diventa critica quando vengono messi in discussione i confini. Meglio: quando vengono ripristinati i controlli sui confini. Non per caso, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, a Davos, ha espresso il timore che l'emergenza prodotta dai flussi di migranti possa compromettere il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone tra gli Stati dell'Unione. Perché in quel caso verrebbe — implicitamente — rimesso in discussione il progetto di costruzione europea. Lo stesso timore è stato ribadito dal premier Matteo Renzi. D'altronde, l'euro, come i mercati, non ha confini. Può circolare comunque e dovunque. Le persone no. E i limiti imposti ai migranti si riproducono e rimbalzano anche sui residenti. Perché le frontiere sottolineano la sovranità degli Stati nazionali rispetto a quella europea. In definitiva: riflettono — e accentuano — la debolezza dell'Europa. Come progetto e come soggetto.

Tuttavia, sarebbe sbagliato trattare i "confini" semplicemente come un problema. Da superare e, possibilmente, eliminare. Per dare forza alla sovranità e all'identità europea.

Le frontiere e i confini: servono. Sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. Come la geografia, le mappe. Servono a orientarci, a rappresentare il mondo intorno a noi. I cambiamenti dei confini — e della geografia — riflettono, a loro volta, i cambiamenti nella distribuzione e nell'organizzazione del potere, su base territoriale. Il nostro disorientamento, negli ultimi decenni, negli ultimi anni, riflette il declino, in alcuni casi, il dissolversi dei nostri punti di riferimento. La trasformazione rapida e violenta del limes, com'era definito il confine (in continua evoluzione) dell'Impero romano. (E come recita il titolo di una nota rivista di geopolitica: liMes, appunto). Noi, infatti, siamo orfani dei muri che per decenni hanno (de)marcato il nostro mondo. Eppure, al tempo stesso, gli davano senso, oltre che rappresentazione. Il muro di Berlino, a Est. Il Mediterraneo a Sud. Erano frontiere politiche, ma anche sociali e culturali. Ideologiche. Oggi non ci sono più. A Est: dallo sfaldamento dell'Unione Sovietica è ri-emersa la Russia. Che, tuttavia, non costituisce più, come prima, "l'altro" polo del Mondo. Ma "un" polo, per quanto importante. Mentre, nel caso del Mediterraneo, non si tratta più di un muro. Non ci separa (e non ci difende) più dall'Africa, né dal Medio-Oriente. È, invece, un confine stretto. Mentre il mondo è divenuto sempre più largo. E sempre più vicino. Incombe su di noi. La globalizzazione, per riprendere una nota definizione di Antony Giddens, è stretching spazio-temporale. Allungamento dei processi e delle relazioni nello spazio e nel tempo. E, dunque, perdita dei confini. Perché tutto ciò che


avviene dovunque, nel mondo, anche molto lontano da noi, può avere riflessi immediati qui. Adesso.

Anche perché tutto avviene e scorre sotto i nostri occhi. Riprodotto e amplificato dai media. In diretta. E tutto rimbalza sulla rete. A cui tutti possono accedere. In tempo reale. Per questo, i confini non ci possono difendere. Ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di confini. Di frontiere. Perché, come ha sostenuto Régis Debray, in un testo alcuni anni fa (dal titolo significativo Eloge des frontières, Gallimard 2010, pubblicato in Italia da ADD, 2012): "…una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l'epidemia dei muri". (D'altronde, neppure i muri possono frenare i movimenti di persone, quando si tratta di esodi spinti dal terrore e dalla fame). Né, tanto meno, possono — né vogliono — fermare i flussi economici e monetari. Per questo, tanto più per questo, abbiamo bisogno di frontiere. Per dare ordine alla nostra visione del mondo. Per sentirci sicuri. Per avere la sensazione che esistano autorità in grado di governare la società. Capaci di esercitare la sovranità nel territorio in cui viviamo.

Perché, in fondo, è questo il fondamento — e il significato — dello Stato. Senza confini e senza frontiere, noi rischiamo di perderci. Di divenire, noi stessi, eterni migranti. Alla ricerca di una terra. Non "promessa". Una terra e basta. Noi abbiamo bisogno di mappe per orientarci. Il trattato di Schengen è importante. Perché supera e apre i confini "interni" all'Europa. Ma, al tempo stesso, marca i confini "esterni". Dentro i quali è possibile la libera circolazione. In base ai quali è possibile negoziare con gli "altri". Così, definisce (cioè, delimita) l'Europa. Lo spazio entro il quale non abbiamo bisogno di passaporti da esibire alle frontiere. Perché non ci sono controlli alle frontiere. Anzi, non ci sono frontiere. Lo spazio dove, cioè, possiamo dirci — e sentirci — europei. Non uno Stato nazionale, ma una Confederazione di Stati nazionali. Che condivide alcuni interessi ma, anzitutto, un sentimento comune.

Per questo, come hanno osservato, polemicamente, Lagarde e Renzi, le limitazioni imposte alle frontiere di alcuni Stati europei rischiano di provocare il fallimento del Trattato di Schengen. E, insieme, del progetto europeo. Perché l'Europa, questa Europa, è senza confini. L'Europa: dove comincia e dove finisce? Chi ne fa parte? Chi ne farà parte? Difficile comprenderlo. Tanto più se, invece di indicare un limes, un territorio condiviso, che distingua noi dagli altri, i governi nazionali sono impegnati a erigere barriere interne all'Europa, invece di delineare e condividere quelle esterne. E in questo modo confermano e, anzi, accentuano l'in-capacità di costruire l'Europa.

Perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com'è possibile costruire un'identità europea? Sentirsi e dirsi europei?

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25 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/01/25/news/la_nostra_identita_in_quel_trattato_non_puo_bastare_la_moneta_unica-131980704/?ref=HRER2-1
7143  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Federico FUBINI. Italia-Ue, parla Gutgeld inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:37:45 pm
Intervista
Italia-Ue, parla Gutgeld: «L’Europa ci tratti come gli altri. Avanti con la spending, le riforme marciano»
Il commissario alla revisione della spesa e consigliere economico di Palazzo Chigi:
«Con l’Unione non è un problema di comunicazione, ma politico»

Di Federico Fubini

Yoram Gutgeld non si lascia distrarre dalle fibrillazioni sulle banche italiane. Da mesi porta avanti la sua opera di commissario alla revisione della spesa con tutta la concretezza di cui è capace: oggi stesso riunisce gli assessori e i direttori generali alla Sanità di tutte le regioni italiane per far entrare nel vivo il nuovo sistema centralizzato degli acquisti. Ma come consigliere economico di Palazzo Chigi, vede bene il contesto: «È nell’interesse della Commissione europea avere un’Italia forte - dice - ed è interesse dell’Italia avere una Commissione forte».

Intanto però a molti la «spending review» sembra ferma. Impressione errata?
«Sì, e lo dimostro. Proprio in questi giorni sta partendo operativamente il nuovo sistema degli acquisti di beni e servizi dell’amministrazione. Passiamo da 33 mila stazioni appaltanti a 35. Ovviamente il processo avverrà in modo graduale, ma iniziamo in questi giorni facendo entrare una quota importante degli acquisti della sanità nel nuovo sistema. Parliamo di circa 15 miliardi di spesa. E entro tre anni potremo raggiungere almeno 50 miliardi».

Avete un’idea dei risparmi possibili da quest’anno?
«I risparmi arriveranno quando faremo le gare nuove d’appalto. E le gare diventeranno effettive in modo graduale, in parte quest’anno, in parte il prossimo e via di seguito. A regime, penso che sia realistico ipotizzare un risparmio attorno medio al 10%».

Lavorate anche su altri fronti della spesa sanitaria?
«Intanto il progetto sugli acquisti non riguarda solo la sanità, ma anche ministeri, comuni e tutte le altre amministrazioni. Ma sulla sanità c’è anche un altro intervento, previsto dalla legge di Stabilità: gli ospedali che non registrano né risultati economici né un’adeguata performance clinica dovranno avviare un percorso di rientro su entrambi i fronti. Vale l’approccio che cerco di dare a tutta la spending review: non si tratta solo di mettere a dieta lo Stato, ma di fargli cambiare stile di vita perché poi non servano sempre nuove diete. L’utilizzo dei costi standard dei Comuni sono un altro esempio».

Tutto avviene su uno sfondo di tensione crescente fra il governo italiano e la Commissione Ue. Come si spiega?
«Ciò che l’Italia sta chiedendo, anche sui conti pubblici, è nelle regole. Non chiediamo niente che non sia previsto. C’è la percezione che su qualche dossier l’approccio della Commissione verso l’Italia sia stato, forse, più rigido rispetto a quello verso altri Paesi. L’Italia chiede solo il rispetto e la considerazione dovuti a un Paese che negli ultimi due anni ha fatto riforme importantissime, come forse pochi altri in Europa. Non a caso stiamo ottenendo risultati apprezzabili di crescita e riduzione della disoccupazione».

Eppure polemiche così accese fra Bruxelles e altri governi si vedono di rado. Un problema di comunicazione?
«Può darsi che in passato la debolezza dell’Italia, dovuta alla mancanza di riforme e a una performance economica nettamente inferiore a quella degli altri, non abbia consentito di chiedere con più forza dei riconoscimenti».

Ma ora perché non cercate di farvi capire meglio in Europa?
«Non credo sia un problema di comunicazione. La questione è politica. Il punto è ottenere a Bruxelles risultati che forse nel passato non siamo stati in grado di raggiungere a causa della nostra debolezza. Lo sottolineo: è un dibattito politico. Temo che discutere di comunicazione sia un pretesto».

Per esempio, state discutendo da più di un anno con Bruxelles sulla «bad bank» per liberare le banche dai crediti in default. Davvero è così importante?
«Sicuramente quello è uno strumento molto utile, soprattutto per le banche piccole, per consentire loro di gestire meglio la questione dei crediti in difficoltà che rendono i loro bilanci più problematici. Quindi sì, è importante».

E non c’è. L’Italia entra nel sistema europeo che fa pagare i risparmiatori in caso di salvataggio pubblico delle banche senza avere risolto il problema.
«Spero che questo negoziato sia agli sgoccioli. Mi auguro sia risolto in tempi brevissimi».

Alcuni dicono che la tempesta sulle banche in Borsa è frutto della tensione fra Roma e Bruxelles. Che ne pensa?
«Abbiamo un sistema bancario solido, fatto per due terzi di banche internazionali, a partire da Unicredit e Intesa Sanpaolo. Per un terzo invece è fatto da banche più piccole, che hanno bisogno di aggregarsi per diventare più forti e di ricapitalizzarsi per gestire il tema dei crediti in difficoltà. Il governo ha affrontato le riforme strutturali che servono a rendere questo pezzo meno forte del sistema bancario altrettanto forte: abbiamo fatto la riforma delle banche popolari e stiamo per fare quella delle banche di credito cooperativo. Anche per questo chiediamo alla Commissione europea più considerazione».

Però il mercato sembra non fidarsi. Perché secondo lei?
«C’è un contesto internazionale di caduta delle Borse negli ultimi giorni. Ma non è vero che i mercati non si fidano dell’Italia. Piazza Affari nel 2015 ha registrato dei progressi fra i maggiori in Europa. Paghiamo sui titoli di Stato interessi più bassi della Spagna, e prima non succedeva. Nell’ultimo anno la fiducia degli investitori nell’Italia è aumentata notevolmente. Ora c’è un fenomeno congiunturale che riguarda certe banche, per i motivi che ci siamo detti».

Senza «bad bank» il problema è gestibile?
«Credo che la cosa fondamentale siano le riforme strutturali. Questo sì. La bad bank sicuramente sarebbe utile, e credo che ci siano tutte le premesse per farla partire. Ma il punto fondamentale è l’insieme di interventi che abbiamo già lanciato per far crescere l’economia».

20 gennaio 2016 (modifica il 20 gennaio 2016 | 09:23)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_20/italia-ue-parla-gutgeldl-europa-ci-tratti-come-altri-avanti-la-spending-riforme-marciano-226cb460-bf47-11e5-b186-10a49a435f1d.shtml
7144  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / MATTEO MACOR e DONATELLA ALFONSO. Genova, operai Ilva occupano la fabbrica... inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:36:14 pm
Genova, operai Ilva occupano la fabbrica: "Non basta la convocazione, venga il ministro"
I lavoratori aderenti a Fiom e Failms hanno invaso via Cornigliano, bloccato il casello della A10.
La Fim Cisl: "No a intimidazioni"


Di MATTEO MACOR e DONATELLA ALFONSO
25 gennaio 2016

L'Ilva di Cornigliano occupata, il traffico del Ponente di Genova bloccato per la manifestazione dei lavoratori di Fiom e Fialms in difesa dell'Accordo di Programma. E i lavoratori non intendono tornare sulle proprie posizioni: la strada resterà bloccata fino a stasera, quando gli operai rientreranno in fabbrica per dormire. Ma la convocazione arrivata da Roma   in cui si chiarisce che la riunione del Collegio di Vigilanza sull'Accordo di Programma sarà convocata al Ministero dello Sviluppo Economico in via Molise il 4 febbraio alle 15.30, non ha convinto i manifestanti: la richiesta resta la stessa, quella della presenza della ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, o del suo collega al Lavoro, Giuliano Poletti." La nostra richiesta è semplice: vogliamo una trattativa vera con il Governo sul processo di vendita. A Genova il Governo sta mettendo in discussione l'accordo di programma, rifiuta di incontrarci, mette in discussione gli impianti, lo stabilimento, i lavoratori genovesi. È una presa in giro, e non ne vogliamo parlare solo con i tecnici, vogliamo un incontro politico. Con il Ministero, la Presidenza del Consiglio, il Governo, per mettere in chiaro che la vendita sarebbe un problema vero, e va rispettato l'accordo". Così i segretario della Fiom genovese Bruno Manganaro.

Ore di tensione. L'assemblea dei lavoratori dell'Ilva convocata questa mattina da Fiom e Failms ha deciso l'occupazione della fabbrica per alzata di mano. I lavoratori sono scesi in strada e hanno occupato la rotonda che si trova tra via Guido Rossa e il terminal Spinelli a Cornigliano con due grandi mezzi. Sono stati incendiati alcuni copertoni e un cassonetto è stato rovesciato in strada. Il traffico è stato bloccato. Poi il corteo si è mosso in direzione della stazione, che si trova a poche centinaia di metri dallo stabilimento. Alla manifestazione non prendono parte Fim-Cisl e Uilm, che hanno preso le distanze dalla scelta di Fiom e Failms.

"Ci vuole una vera convocazione per l'incontro a Roma, non una data su una mail" ha detto il segretario Fiom Bruno Manganaro. L'intenzione è di non riprendere il lavoro finché non sarà garantito che all'incontro - fissato per il 4 febbraio - partecipi anche il ministro Federica Guidi, titolare dello Sviluppo Economico, o Giuliano Poletti, ministro del Lavoro.

Il traffico si è fermato all'altezza della rotonda di via Guido Rossa, ma un gruppetto di manifestanti ha occupato anche via Cornigliano e dato fuoco a cassette della frutta e altri rifiuti trovati accanto ai cassonetti. Il casello autostradale della A10 unico collegamento tra il centro città e il ponente, è

rimasto bloccato sia in entrata che in uscita. La manifestazione non ha invece toccato la stazione ferroviaria.

"Pensiamo che il governo abbia dato uno schiaffo alla città di Genova oltre che ai lavoratori dell'Ilva - ha aggiunto Manganaro - Il governo vuole superare lo scoglio del 10 febbraio senza intimorire i privati con l'accordo di programma di Cornigliano. Il governo senza dichiararlo sta strappando l'accordo di programma, per questo dobbiamo alzare la voce per difendere reddito, posti di lavoro e stabilimento".

Fim-Cisl: no a intimidazioni. "L'iniziativa della Fiom di questa mattina all'Ilva di Cornigliano è legittima" ma è "inaccettabile che in assemblea non si consenta di esprimersi a chi ha idee diverse" e "dichiarare la fabbrica occupata quando metà dei lavoratori sono già entrati a lavorare nonostante le intimidazioni all'entrata" è "una prevaricazione inaccettabile". Lo scrive in una nota il segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli.

Il consenso all'iniziativa "va raccolto con strumenti democratici altrimenti è un'altra cosa - aggiunge Bentivogli - Tentare di occupare una fabbrica e dividere i lavoratori solo con lo scopo di conoscere se il Ministro parteciperà all'incontro è assurdo. Forme di lotta e atteggiamenti di intolleranza contro altri lavoratori, proprio il giorno della commemorazione di Guido Rossa fa capire quanto, per avere visibilità, talvolta si perda ogni buonsenso".

"Continuiamo a pensare che serva unità e pluralismo per lottare per il futuro dell'Ilva e che l'occupazione sia l'obiettivo principale - conclude il leader sindacale - Ci auguriamo che la Fiom Nazionale condanni le prevaricazioni di questa mattina che non fanno onore a una grande organizzazione".

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25 gennaio 2016

Da - http://genova.repubblica.it/cronaca/2016/01/25/news/ilva_genova_protesta-131992594/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_25-01-2016
7145  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Francesco VERDERAMI Le due strade del premier dopo il referendum inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:34:16 pm
SETTEGIORNI
Le due strade del premier dopo il referendum

Di Francesco Verderami

Se è vero che il destino del governo è legato al risultato del referendum, è altrettanto vero che proprio il referendum decreterà la fine della sua missione. Perciò a ottobre, se sarà riuscito a traghettare l’Italia nella Terza Repubblica, Renzi dovrà decidere cosa fare: interrompere la navigazione o proseguire nella rotta.

Ecco la scelta che compete al premier, su questo ragionano i suoi alleati «interni» ed «esterni», dal capogruppo di Ncd Lupi al leader dei forzisti ammutinati Verdini: tutti proiettati sul prossimo futuro. È come se l’autunno fosse già alle porte, è un tema dirimente che impegna anche la minoranza democrat nelle riunioni riservate, è un argomento che ieri ha attraversato il dibattito alla direzione del Pd. Perché se davvero Renzi - doppiato lo scoglio del referendum - decidesse di spingersi fino alle colonne d’Ercole della legislatura, cambierebbe la natura del suo esecutivo. E l’alleanza con una costola del vecchio centrodestra, nata per varare le riforme, si trasformerebbe in una coalizione politica proiettata verso le elezioni.

Su questa analisi convergono le due estreme della maggioranza che fanno da corona al presidente del Consiglio, sebbene le loro reazioni siano contrapposte. Il cambio di ragione sociale del governo avrebbe infatti conseguenze traumatiche nel Pd e - sotto la spinta levatrice della campagna referendaria - legherebbe l’area postberlusconiana a Renzi. Nulla sarebbe più come prima: né la natura della maggioranza né la composizione del Consiglio dei ministri. E c’è un motivo se il premier non affronta la questione, e fa mostra di non vedere il bivio: deve ancora scegliere. Intanto si porta avanti, punta alla consultazione popolare d’autunno per poi regolare i conti nel partito.

In Italia e in Europa si allunga però la fila di quanti ritengono che in realtà abbia già deciso: dall’ex presidente della Camera Casini, secondo cui si andrà alle urne nella «primavera inoltrata» del 2017, al capogruppo del Ppe Weber (come dire Merkel), convinto che il segretario del Pd abbia alzato il tiro su Bruxelles per portare al voto anticipato Roma: «Solo così si spiega cosa sta facendo». È una tesi che ha fatto breccia sulle colonne del Wall Street Journal, è uno scenario che è stato reso immaginifico sul Foglio, con tanto di «grilletto e pallottola d’argento».

Ma le certezze di chi osserva le mosse di Renzi non trovano riscontro (per ora) negli atti di Renzi. Il fatto è che il premier si rende conto di come un cambio di sistema possa determinare effetti imprevedibili: nel ‘94, per esempio, nessuno nel Pds come nel Ppi immaginava che avrebbe vinto Berlusconi. È un ricordo ricorrente nei ragionamenti del leader democrat, che evocando il fondatore del centrodestra confida di emularlo: «Ci sarà il G7 in Italia», ha detto ieri, e probabilmente si terrà nella sua Firenze.

Ai vertici europei - tra il serio e il faceto - ripete spesso ai capi di stato e di governo che «io scadrò dopo di voi». Vuol dire quindi che pensa davvero di proseguire fino al 2018? La risposta si avrà in Europa, dove il braccio di ferro in atto cela il tentativo del premier di crearsi dei varchi, dei margini di manovra nei conti pubblici. Perché il suo sogno è trasformare la legge di Stabilità del 2017 in un manifesto elettorale per il 2018, dove poter dar corso alla riforma dell’Irpef promessa al Paese e aggiungerci un tocco (manco a dirlo) berlusconiano: così come il leader di Forza Italia - a sorpresa - promise il taglio dell’Ici prima che si aprissero le urne, Renzi vorrebbe annunciare l’abolizione del canone Rai, suo vecchio pallino.

Sono proiezioni molto in là nel tempo, ma è ora che il premier deve creare le condizioni per riuscire nell’impresa. Mentre alleati «interni» ed «esterni» - così come i suoi compagni di partito - attendono di capire cosa vorrà fare al bivio: se andare avanti, mettendo in conto un cambio della maggioranza o fermarsi e contemplare la fine anticipata della legislatura. Ma più delle modifiche costituzionali è la revisione del sistema di tassazione la riforma più attesa tra gli elettori. E Renzi dovrebbe spiegare i motivi dell’addio alla promessa.

Nel 1992, Bush senior perse la Casa bianca per mano di Clinton, dopo una campagna elettorale durante la quale i democratici proposero ossessivamente le immagini di quattro anni prima, in cui il candidato repubblicano giurava che non avrebbe messo le mani nelle loro tasche: «Leggete le mie labbra, nessuna nuova tassa». Nel centrodestra hanno già pronti gli spot con l’annuncio di Renzi all’Assemblea del Pd nel luglio dello scorso anno: «... E nel 2018 cambieremo l’Irpef». Le scorciatoie possono rivelarsi pericolose nei cambi di sistema.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 09:36)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_23/due-strade-premier-il-referendum-161e9780-c1ab-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml
7146  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MASSIMO FRANCO Francesco non vuole un muro contro muro inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:32:22 pm
Retroscena il Vaticano
Il Papa e il richiamo sulle unioni civili Parole nette ma caute: Francesco non vuole un muro contro muro
Costringere l’idea della famiglia in schemi troppo integralisti contraddirebbe i suoi stessi insegnamenti

Di Massimo Franco

Non è strano che il Papa abbia invitato a non fare confusione tra «la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Semmai, è singolare la sorpresa con la quale sono state accolte le parole dette ieri da Francesco durante l’incontro con il Tribunale della Sacra Rota. A una settimana dalla manifestazione del Family Day, il suo intervento è stato considerato a favore degli organizzatori. Eppure non poteva essere che così. In Vaticano la legge che sta prendendo corpo in Parlamento e sarà discussa in Senato a partire dal 28 gennaio è vista come una forzatura. Una misura contro la quale non alzare barricate né lanciare anatemi, perché i vertici dell’episcopato hanno accettato mentalmente le unioni civili tra omosessuali.

Il contorno del provvedimento, però, soprattutto per i margini di ambiguità che lascia in materia di adozione dei bambini, è visto come frutto di un’operazione ideologica. E, per quanto la Chiesa, intesa come ecclesiastici, abbia cercato di evitare che una manifestazione di piazza potesse assumere il carattere dello scontro, alla fine ha dovuto «seguire». È come se la base cattolica avesse interpretato la riforma voluta dal governo, e definita ieri «irrinviabile» da Matteo Renzi, come una sorta di provocazione para referendaria. Ed ha risposto con una scelta di piazza che prefigura due campi contrapposti. L’avversario non è tanto quello della mobilitazione in cento piazze che organizzano per oggi Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e Mit. La controparte è il Parlamento, dove il premier vuole far approvare un emendamento che faccia decadere subito tutti quelli contro la legge «firmata» da Monica Cirinnà.

L’adesione al Family Day di una conferenza episcopale regionale dopo l’altra racconta come le gerarchie cattoliche siano state trainate a assecondare l’iniziativa. E come il Papa abbia voluto offrire un imprimatur discreto ma convinto a una folla della quale conosce le intenzioni e le pulsioni: anche a costo di ascoltare parole d’ordine difensive, dure, e che non riflettono la sua pedagogia inclusiva e la sua idea della Chiesa. Proprio ieri, salutando in un messaggio i partecipanti alla Cinquantesima giornata mondiale della comunicazione, Francesco ha invitato a esprimersi con generosità «anche nei riguardi di chi pensa o agisce diversamente».

Si tratta di un accenno che rimanda alle parole dette in tema di famiglia verso «quanti per libera scelta o per infelici circostanze della vita vivono in uno stato oggettivo di errore». Le parole sono nette e insieme problematiche. Lasciano capire perché il Papa non voglia e non possa tenere la

Chiesa a distanza dal Family Day; e, al tempo stesso, perché preferisca che sia il laicato cattolico a guidare la manifestazione. Pesano il passato delle battaglie referendarie perdute su divorzio e aborto; il presente di una situazione politica avvelenata, nella quale Papa e vescovi rischiano seriamente di essere strumentalizzati; e una concezione della famiglia e dei valori cattolici, che il pontefice argentino forse vorrebbe meno «all’italiana».

Gli stendardi delle delegazioni di regioni come Lombardia e Veneto, che hanno annunciato la presenza al Family Day, saranno guidate da esponenti della Lega Nord: rispettivamente Roberto Maroni e Luca Zaia. La destra di Giorgia Meloni sostiene che le parole di Francesco dovrebbero essere «di monito al Parlamento». E il sindaco di Bologna Virginio Merola, del Pd, tradisce una punta di freddezza verso l’arcivescovo della città, monsignor Matteo Zuppi, scelto da Bergoglio, il quale ha detto, all’unisono col presidente della Cei, Angelo Bagnasco, che la legge sulle unioni civili non è una priorità. Insomma, il tentativo delle opposizioni a Renzi di usare il Family Day per attaccare Palazzo Chigi è evidente.

Altrettanto chiaro è che al Vaticano di Francesco un’operazione strumentale di questo tipo non piace. Per due motivi. Il primo è che l’attuale Papa, forse più ancora dei predecessori, non nasconde il fastidio per le ingerenze ecclesiastiche nella politica. Ritiene che una delle ragioni per le quali la Chiesa in Italia avrebbe perso credibilità è stata un’eccessiva contiguità col potere. Ma la seconda ragione, la più importante dal punto di vista culturale, è che costringere l’immagine della famiglia dentro schemi troppo integralisti contraddice gli insegnamenti e gli obiettivi del pontefice latinoamericano. Un «no» troppo gridato, da muro contro muro, a quanti il Papa definisce «in uno stato oggettivo di errore», può aprire la strada a altri rifiuti, più pericolosi.

La famiglia-fortezza prometterebbe di trasformarsi nel baluardo della difesa dei valori cristiani anche contro gli immigrati; e dunque di contribuire ad una lettura «autarchica», blindata e potenzialmente xenofoba del cattolicesimo. È questa la seconda fase che un Family Day declinato in modo integralista potrebbe aprire. Il Papa dei «ponti», il nemico giurato dei muri e delle barriere, si ritroverebbe a dover governare un mondo cattolico italiano e europeo che dalla protezione della «famiglia cristiana» scivola verso quella dell’«immigrazione cristiana» e anti islamica. E pazienza se in una deriva del genere pesano soprattutto gli errori e le forzature del governo e dei suoi avversari. Il risultato sarebbe comunque quello di una regressione.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 08:42)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_23/papa-richiamo-unioni-civili-parole-nette-ma-caute-francesco-non-vuole-muro-contro-muro-cd8f8906-c1a1-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml
7147  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / SERGIO RIZZO Un euro di imposte per ogni litro In Italia la benzina più cara... inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:30:41 pm
L’INCHIESTA

Un euro di imposte per ogni litro
In Italia la benzina più cara d’Europa
Rispetto al 2008 il costo del barile è sceso del 19%, ma le accise sono aumentate del 46%.
Date le quotazioni attuali del greggio, alla pompa non dovrebbe superare i 44 centesimi, ma poco meno del 70% va dritto al fisco


Di Sergio Rizzo

Si mettano l’anima in pace, gli automobilisti. Perché se anche il prezzo del petrolio dovesse sfondare il suo minimo storico, che fu toccato il 10 dicembre 1998 quando le quotazioni del brent calarono a 9 dollari e 55 centesimi, mai e poi mai la benzina costerà meno di un euro al litro. Sospettano i maligni che sia tutto un gioco delle compagnie petrolifere, lestissime a rincarare se il greggio sale e invece lentissime a tagliare se il greggio scende. Nel conto c’è da mettere pure questo, ad essere sinceri.

Ma la vera colpa ce l’hanno le tasse. Negli ultimi anni, con un processo carsico, sfuggito quindi all’attenzione di quasi tutti gli italiani, il gravame fiscale sui carburanti è salito in modo vertiginoso, inarrestabile e furbesco. Al punto che oggi le imposte rappresentano ben oltre i due terzi del costo alla pompa di un litro di gasolio. La pervicacia con cui il fisco si è accanito sui derivati del petrolio viene fuori con tutta la sua arrogante evidenza da un confronto che ha fatto l’ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle fra i prezzi attuali e quelli di sette anni fa. Quando il costo del petrolio sui mercati internazionali era pressoché agli stessi livelli. Allora, nel dicembre 2008, tenendo conto che la moneta europea era decisamente più forte di oggi sul dollaro, le quotazioni del brent si attestavano intorno ai 29 euro e il prezzo medio alla pompa del gasolio per autotrazione era di un euro e 111. Oggi, con un costo medio del petrolio a circa 30 euro, il prezzo medio della nafta è invece di un euro e 251: il 12,6% in più. E questo, si badi bene, nonostante il prezzo al netto delle imposte sia del 18,8 per cento inferiore. Il che significa un rincaro del 31,4% esclusivamente attribuibile alle tasse: niente affatto sorprendente, se si pensa che in 7 anni le accise sono cresciute del 46% e il carico dell’Iva è aumentato a sua volta del 21,8 per cento. Grazie anche a un marchingegno tutto da spiegare.

Nel dicembre 2008 le accise pesavano su un litro di gasolio per 42,3 centesimi. C’erano poi da sommare 18,53 centesimi di Iva: non il 20 per cento (livello dell’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto allora vigente) rispetto ai 50,34 centesimi che all’epoca costituivano il prezzo della nafta al netto del carico fiscale, bensì quasi il doppio. Esattamente, il 36,8 per cento. La ragione? L’Iva non si applica soltanto sul prodotto industriale, ma anche sulle accise: con il risultato surreale che qui si tassano anche le tasse, per la maggior gloria del fisco.
A conti fatti, le imposte, più naturalmente le imposte sulle imposte, toccavano 60,82 centesimi, il 57,4%del totale. Mentre ora si è arrivati a 84,31, e siamo al 67,4%del totale. Una differenza di quasi 23,5 centesimi per litro, che proiettata sulle 22 milioni di tonnellate di gasolio consumate annualmente in Italia significa per il fisco un maggiore introito di quasi 5,2 miliardi di euro ogni 12 mesi. E non è cosa da poco, soprattutto considerando il subdolo meccanismo che abbiamo raccontato. Il solo effetto delle tasse sulle tasse è di quasi 14 centesimi al litro, pari a circa 3 miliardi di euro sui consumi totali di gasolio.

Poi c’è la benzina, e le cose non vanno assolutamente meglio. Perché qui le accise gravano su un litro per 72,8 centesimi, e se si aggiunge anche l’Iva, considerando anche in questo caso l’impatto delle tasse sulle tasse, il peso del prelievo fiscale sfiora un euro su un costo medio alla pompa di un euro e 421. Dato che senza imposte e con le quotazioni attuali del greggio un litro di benzina non dovrebbe costare più di 44 centesimi, se ne deduce che poco meno del 70%del prezzo finale va al fisco.

La conclusione a cui arriva l’ufficio studi della Confartigianato è che i consumatori italiani pagano il gasolio più caro di tutta Europa, con le uniche eccezioni di Svezia e Regno Unito, nonostante un costo nudo e crudo del carburante che è appena al ventesimo posto nel continente. E pagano anche la benzina più cara di tutta l’Unione, escludendo i soli Paesi Bassi. Negli Stati Uniti un litro costa 47 centesimi di euro, in Arabia Saudita 23 centesimi.

Né manca una beffa finale: perché la differenza fra il nostro prezzo della «verde» e la media europea, pari a un euro e 273, è dovuta interamente a quel meccanismo perverso dell’Iva calcolata anche sulle accise di cui abbiamo parlato. Un fatto francamente inaccettabile, da far inorridire anche la costituzione.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 08:14)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_23/euro-imposte-ogni-litro-italia-benzina-piu-cara-d-europa-abacbd4e-c19d-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml
7148  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Maria Cecilia Guerra: governo strizza l’occhio a evasione, agenzie? Agire subito inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:28:48 pm
Salve Ggianni,
ti segnaliamo questo nuovo intervento pubblicato sul sito:
Intervista a Maria Cecilia Guerra: “governo strizza l’occhio a evasione, agenzie? Agire subito”

La paralisi dell’Agenzia delle entrate, la delega fiscale incompiuta e le contraddizioni del governo sul tema dell’evasione. Sul fisco Maria Cecilia Guerra, economista e senatrice Pd con un passato da vice ministro del Lavoro, ha le idee chiare. E non risparmia critiche al governo. A cominciare dallo scontro ingaggiato da Renzi con Junker “perché – dice- avere 35 miliardi di clausole di salvaguardia sui prossimi due anni rende meno credibile le nostre finanze e capisco che la Commissione si interroghi sul tema”.

Senatrice, serviva più rigore nella legge di stabilità?
Dico che è giusto chiedere più flessibilità, ma stando attenti a come vengono usati questi margini. Se vuole la mia, io avrei preferito una legge di stabilità centrata sugli investimenti pubblici e non su misure inutili...

Si riferisce all’abolizione dell’Imu-Tasi sulla prima casa?
È una scelta sbagliatissima, sotto tantissimi profili. Il primo è distributivo: va bene tutelare chi pur avendo tante case non ha liquidità, ma per quello bastava una detrazione. Così si snatura completamente il senso dell’imposta patrimoniale, a vantaggio di chi ha immobili di maggior valore. In secondo luogo perché comprime fortemente l’autonomia degli enti locali, e la compensazione, per come viene fatta, cristallizza l’esistente. Avere tolto l’imposta ai residenti, poi, mi sembra una cosa illogica, perché in questo modo a pagare i servizi dei comuni saranno solo le imprese e i non residenti. Senza contare che l’efficacia di queste misure sul settore immobiliare sarà nulla.

Oltre all’abolizione dell’Imu c’è il bonus alle forze dell’ordine, il bonus ai diciottenni… C’è chi l’ha definita una manovra pre-elettorale.

Guardi, glielo dico sinceramente: io odio tutto ciò che si chiama “bonus”. Non è politica, la politica richiede interventi di tipo strutturato e i bonus hanno la caratteristica tipica dell’elargizione. Può essere interpretato come una captatio benevolentiae a fini elettorali, ma al di là di questo è proprio una cosa spot che stabilisce un legame diretto fra chi dà e chi riceve. Ad esempio se si ritiene che le Forze dell’ordine abbiano una retribuzione inadeguata, che si faccia un intervento strutturale, non questo. Per i diciottenni vale lo stesso: non c’è nessuna ragione di dare 500 euro senza distinguere tra chi ha bisogno e chi no. Meglio allora investire sul diritto allo studio. E poi mi indigna il fatto che siano stati esclusi i ragazzi extracomunitari di seconda generazione, cioè nati in Italia. È una contraddizione in termini, il Pd sta sponsorizzando lo Ius soli temperato…

Tutto da buttare?
Ma no. Ad esempio trovo importante che si continui con la decontribuzione per i neoassunti, anche se l’avrei vincolata all’obbligo di mantenimento dell’occupazione per un certo periodo, una volta terminato il contributo. Così come sono buone le modifiche al sistema forfettario per gli autonomi, per quanto ci sarebbe stato bisogno di un vincolo più stringente sulla possibilità di cumularlo con il reddito da lavoro dipendente. 

Il ministero dell’Economia pochi giorni fa ha presentato gli indirizzi di politica fiscale per il prossimo biennio, che si concentrano su fatturazione elettronica, tracciabilità dei pagamenti e maggiore incrocio delle banche dati. È la strada giusta?
Sicuramente sì. La tracciabilità è fondamentale, così come la fatturazione elettronica che però ha il problema di non poter essere resa obbligatoria. Tempo fa le commissioni finanze di Camera e Senato avevano proposto la trasmissione telematica dei dati rilevanti ai fini fiscali come elemento necessario per la validità stessa della fattura, unita alla trasmissione quotidiana del saldo degli incassi, come fatto con successo in Portogallo. In Senato il governo si era impegnato a considerare questa possibilità, ma poi non ne abbiamo più saputo niente. Quella misura, se implementata e coordinata con la fatturazione elettronica, poteva avere un’enorme capacità di contrasto all’evasione.

Tracciabilità e banche dati. Eppure nella legge di stabilità il governo ha alzato il tetto al contante e per poco non tagliava le spese informatiche dell’Inps. Manca una strategia chiara per contrastare l’evasione?
Non c’è coerenza. Da un lato sono state adottate misure come reverse charge e split payment che vanno nella direzione giusta, ma dall’altra si continua a chiudere un occhio sulla cosiddetta “piccola evasione”. E sul tetto al contante voglio chiarire due cose: la prima è che è assolutamente falso dire che non c’è relazione fra contante e sommerso, tanti studi di rilevanza mondiale lo dimostrano. La seconda è che avere una soglia bassa serve soprattutto per contrastare il riciclaggio. La Francia, per dire, ha abbassato il tetto a mille euro in chiave antiterroristica. E poi a chi giova, al turismo? Gli stranieri possono già portare in Italia fino a 10mila euro, basta lasciare la carta d’identità. Solo chi vuole liberarsi di soldi incassati in nero gira con tremila euro in tasca.

Con la delega fiscale l’elusione fiscale non è più reato penale, e in più le soglie di punibilità di molti reati tributari sono state innalzate. Scelta saggia per attrarre investimenti o si rischia di svuotare l’attività di deterrenza?
Il rischio esiste. Sicuramente abbiamo ceduto qualcosa per adeguarci alle legislazioni degli altri paesi, ma è altrettanto vero che per evitare pianificazioni fiscali aggressive era doveroso fare qualcosa. Il penale non è mai stato un elemento così decisivo, però nel complesso dei decreti legislativi direi che sì, sono state allargate troppo le mani. 

Da vice ministro del Lavoro del governo Letta mise a punto il nuovo Isee, che sta avendo risultati incoraggianti e dimostra che incrociando i dati si possono destinare risorse a chi ne ha più bisogno. Perché non fu esteso anche ai ticket sanitari?

Perché la norma di legge da cui origina quella riforma era riferita alle prestazioni sociali, per cui non potevamo ampliarlo. Già al tempo, però, avevamo coinvolto il ministero della Sanità nei lavori di preparazione, nell’idea che si potesse arrivare a questa applicazione che io ritengo logica. Non includere i ticket è un limite.

C’è lo spazio politico per farlo ora?
Secondo me sì. Ma prima bisogna aspettare il pronunciamento del Consiglio di Stato. Se la sentenza confermasse le posizioni del Tar del Lazio, l’Isee andrebbe comunque ripensato e in quella sede si potrebbe proporre questa estensione. D’altronde non avrebbe senso tenere fuori i ticket, stiamo parlando di servizi essenziali.

Capitolo agenzie fiscali. Dopo la sentenza della Consulta, lei ha presentato più volte emendamenti che proponevano soluzione-ponte per superare il ‘caos dirigenti’. Ma la funzionalità delle strutture è ancora a rischio.

Si deve intervenire subito, lo spazio per farlo c’è. Anche su questo aspetto la delega fiscale è stata sottoutilizzata, perché chiedeva una riorganizzazione complessiva delle agenzie e non quel piccolo intervento che è stato fatto. Quanto alle soluzioni-ponte, la nostra preoccupazione è quella di non lasciare le strutture prive di figure di riferimento, in grado di prendersi la responsabilità sugli atti. Specialmente in un momento nel quale l’Agenzia è alle prese con un numero stratosferico di accertamenti legati alla voluntary. Credo che il problema non sia stato preso seriamente.

Quando ci saranno novità?
Quello che le posso dire è che noi della commissione Finanze stiamo insistendo moltissimo affinché il Parlamento venga al più presto messo al corrente dell’esito delle consultazioni sul nostro sistema agenziale, che sono state fatte chiamando in causa Ocse e Fmi. Per il rapporto non dovrebbe mancare molto.

La scelta di bandire un concorso per dirigenti aperto a tutti come la valuta?
Sbagliata, lo sottolineo tre volte. In un concorso per posizioni apicali non si può escludere la valutazione curriculare, è una cosa che non condivido assolutamente. Vorrei precisare però, che l’obiettivo delle commissioni non è mai stato quello di ‘salvare’ Tizio o Caio. Le nostre proposte sono sempre andate nella direzione di una procedura concorsuale in linea con quanto richiesto dalla Corte (tenendo però conto di competenze ed esperienza), senza mai alcun tentativo di “aggiramento” della sentenza.

Da mesi la questione dei dirigenti è terreno di scontro tra Agenzia delle entrate e Mef: è in atto un gioco di potere?  L’autonomia dell’agenzia è a rischio?
Non ho elementi sufficienti, ma sarei assolutamente contraria a misure che ne compromettessero l’autonomia. Ovviamente l’Agenzia deve essere legata all’indirizzo politico del ministero. Ma tutto ciò che riguarda l’organizzazione interna, comprese le politiche del personale, devono essere affidate alle Entrate.

Prima le frizioni con il ministero, poi l’attacco frontale da parte di Zanetti: Rossella Orlandi paga anche qualche leggerezza sul piano politico? Molti ricordano ancora il suo intervento alla Leopolda…

Guardi io al suo posto, alla Leopolda, non sarei andata. Ma non credo che questo abbia influito, perché in qualsiasi contesto lei sia andata non ha mai avuto una sbavatura su quello che è il suo ruolo istituzionale.

A proposito di ruoli istituzionali, quando Zanetti chiese le dimissioni della Orlandi, lei disse: “Padoan, batti un colpo”: nella vicenda delle agenzie, il ministro continua ad avere una posizione troppo marginale?
Devo dire che anche nel confronto parlamentare non abbiamo avuto risposte compiute sul perché le proposte che noi avanzavamo non potessero essere accolte. E quale sia la posizione di Padoan su questi temi, francamente, non lo so.

E il governo, che posizione ha sulle agenzie fiscali?
Se non so quella del ministro… Diciamo che finora non ha avuto un atteggiamento molto propositivo.

Da – Fisco Equo
7149  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / DOMENICO QUIRICO Le rivoluzioni chiedono il visto ai reporter inserito:: Gennaio 25, 2016, 12:00:48 pm
Le rivoluzioni chiedono il visto ai reporter

23/01/2016
Domenico Quirico

Che il mondo stia cambiando non solo di scorza ma anche di midollo più che le planetarie turpitudini del fanatismo califfale me lo illustra un dettaglio che attiene al minuto orizzonte giornalistico: ovvero anche le rivoluzioni, le ribellioni più o meno globali, in evi difficili come questi, hanno scoperto la burocrazia, la carta da bollo, soprattutto il visto sul passaporto e simili chiappolerie amministrative. Altro che guerre bastarde come le ha rampognate qualche fantasioso analista. 

Siamo di fronte a guerre che aspirano ad essere infaldonate. Con le carte in regola. Con tanto di addio alla globalizzazione: visto che così si serrano nientedimeno i confini che non esistono!

Laddove prima era sregolatezza e caos, l’eldorado dei free-lance disinvoltamente privi di tessere, attestati, certificati di assunzione e visti direttoriali, si intravede, mortuaria e mortifera, la silhouette della burocrazia avvilita ed ottusa, destinata a spegnersi nella impotenza e disutilità dei faciloni che impugnano un timbro. In qualche conventicola insurrezionale certo già si lavora al pestilenziale «badge», come per entrare alla Nato. Per chi vuole testimoniare è un inventario di strazi.

Dieci anni fa volevo raccontare la rivolta dei tuareg nei deserti saheliani e feci tappa in un alloggino alla Villette, a Parigi dove il sole, universale pastore, si era mai arrischiato. Un gruppo di uomini blu, che apparivano ben insabbiati nella capitale francese, si appisolavano al suono dell’imzad e dei loro sogni di piogge infinite. Nessuno chiese di firmar carte o di inviare mail. Per sgranocchiare l’appetitosa guerriglia saheliana mi diedero semplicemente appuntamento in un certo deserto pietroso del Sud dell’Algeria. L’incredibile fu che i loro pick-up si presentarono quasi puntuali. E pure lì niente passaporti foto-tessera attestati della congiunzione amministrativa a qualche setta giornalistica. Al massimo alcune avvertenze per evitare la curiosità pestifera di soldati e gendarmi algerini: A farti passare la frontiera provvediamo noi… siamo o non siamo ribelli?

Per entrare in Siria nella parte controllata dai rivoltosi, non ancora trasmutati in apostoli di un dio intrattabile, si attraversava semplicemente a piedi la frontiera turca: dopo la terra di nessuno c’erano loro. Nessuna domanda superflua, si sospirava la parola giornalista e tutto filava ad olio. I gabbiotti delle guardie di confine li avevano fatte saltare per non farsi venire tentazioni.

I ribelli banyamulenge in Congo li ho trovati lungo la pista, quasi per caso, seduti sotto un’acacia che giocavano con i machete come noi con l’ombrello.

Così scorreva disinvoltamente il mondo delle ribellioni nel secolo appena defunto. La maggior parte di quel formicolaio (con l’esclusione di qualche milizia che praticava la terribile ideologia del massacrare l’uomo per renderlo perfetto) non aspettava altro che l’occasione di raccontare e raccontarsi, di spiegare a un registratore o di trasformare in inchiostro chi erano, e di inargentare i loro progetti. In quel tempo in cui c’era minor etichetta e più cortesia la Rivoluzione era disposta svelarsi al nostro mondo «corrotto e perduto». Oggi il tempo dell’embedded è entrato nella seconda rifioritura, la versione rivoluzionaria, etnico tribale, mistico politica. I giornalisti o vengono uccisi o si cerca di limarli con infiniti impicci come regimi e governi. Le ribellioni non hanno più nulla da raccontarci. Ed è molto pericoloso.

Quando il terzomondismo stantuffava dall’Africa alla America Latina si uncinavano le guerriglie direttamente nella giungla; insurrezioni impazienti, pronte per aver l’eguaglianza a calpestare la fraternità, erano in nostra attesa in bettole fumose, come nei romanzi di Graham Green. 

Oggi anche il più scalcinato movimento vanta uffici di rappresentanza, legazioni, perfino «ambasciate». A cui bisogna fare la fila, metaforicamente su internet o più banalmente di persona. Occorre redigere formulari con domande complesse, nomi di ascendenti frequentazioni geografiche e politiche durata del soggiorno…! Entrare nei territori «liberati», nei «santuari» aggrappati a impervi dorsi montagnosi o perduti in inospitali deserti è diventato più lungo e complicato che entrare nel sospettoso regno del dittatore nordcoreano. Scavalcare frontiere infrante non è più problema logistico, trovare auto, guidatori spericolati e fedeli, evitare i regolari e i falsi rivoluzionari: è diventato un problema di silenzi, attese e pazienze.

Da - http://www.lastampa.it/2016/01/23/cultura/opinioni/editoriali/le-rivoluzioni-chiedono-il-visto-ai-reporter-OeceUbTlIkuame6Sja8gPL/pagina.html
7150  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Donato Masciandaro La doppia bussola di Draghi inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:36:01 am
La doppia bussola di Draghi

Di Donato Masciandaro
23 Gennaio 2016

Il presidente della banca centrale europea (Bce) Draghi ha dato ai mercati due bussole per orientare le proprie aspettative sulla moneta e sulle banche. La prima bussola riguarda il rischio deflazione: la Bce è pronta a marzo, quando saranno disponibili dati aggiornati, ad attuare ogni politica necessaria per fronteggiare rischi di prezzi in caduta.

La seconda bussola riguarda le banche: non ci sono rischi sistemici per il sistema bancario europeo, incluso quello italiano. Inoltre la politica di vigilanza continua ad essere attiva nel raccogliere informazioni, ma non certo nel modificare le regole del gioco. Un messaggio che è necessario venga recepito in modo forte e chiaro a chi di vigilanza si occupa nella Bce – la Presidente Nouy – anche se formalmente separata ed autonoma da Draghi.

In settimane di forte turbolenza dei mercati finanziari, mondiali e locali, occorre che le istituzioni di politica economica diano messaggi chiari e credibili. Questo è apparso l’obiettivo delle dichiarazioni del Presidente Draghi, che ha speso le sue parole su due diversi fronti, entrambi cruciali: la moneta ed i prezzi, cioè la stabilità monetaria da un lato; le banche, ed in generale la stabilità finanziaria, sull’altro.

Il primo fronte è quello istituzionalmente presidiato dalla Bce: occorre che il tasso di inflazione tenda nel medio periodo ad un livello vicino al due per cento. È un dato di fatto che, dal momento dell’inizio della Grande Crisi, l’obiettivo della stabilità monetaria appare molto ambizioso. Ricordiamo i dati, concentrandoci sul periodo della presidenza di Mario Draghi.

Partendo dall'obiettivo dichiarato - considerando come “vicino” uno scostamento non maggiore di 20 punti base - l'inflazione dei prezzi al consumo è stata maggiore dell'obiettivo nel periodo che va dal novembre 2011 al dicembre 2012 (12 mesi), con uno scostamento medio di 60 punti base, è stata poi conforme fino al febbraio 2013 (4 mesi), per poi divenire minore dell'obiettivo fino ad oggi (dati ottobre 2015, 32 mesi), con uno scostamento medio di 145 punti. Inoltre in 5 mesi nell'Unione si è registrata una vera e propria deflazione. Ad oggi dunque per 35 mesi di seguito l'obiettivo della Bce non è stato raggiunto.

Nonostante ciò, l’andamento di un indicatore fondamentale per comprendere l’efficacia della politica monetaria - le aspettative di inflazione – non è stato finora compromesso. Questo è un risultato importante, perché significa che durante la Grande Crisi la dinamica dell’inflazione si è staccata da quella della crescita nel momento giusto: essendo l’economia in recessione, se i prezzi fossero andati a braccetto con la crescita il rischio di cadere in deflazione sarebbe stato ancora più alto. Ma le buone notizie finiscono qui. Ora che i segnali di ripresa economica ci sono, occorrerebbe che anche i prezzi non fossero anemici. Invece – e Draghi lo ha sottolineato – le pressioni al ribasso dei prezzi delle materie prime, nonché le incertezze legate vuoi alla dinamica dei tassi di cambio, vuoi a quelle dei salari, potrebbero intaccare anche le aspettative. Aspettative di inflazione strutturalmente al ribasso renderebbero il ritorno del rischio deflazione più probabile.

Cosa fare? Per influenzare nella giusta direzione le aspettative, Draghi ha innanzitutto escluso la possibilità che si possa ridiscutere l’obiettivo inflazionistico. Infatti taluni - nel partito delle cosiddette colombe - sostengono che la credibilità della azione di politica monetaria potrebbe essere aumentata innalzando l’obiettivo inflazionistico dal due al quattro percento. Sul fronte opposto - i cosiddetti falchi – si sostiene che solo un orientamento più restrittivo convincerebbe i mercati che si può e si deve tornare alla normalità; per cui l’obiettivo inflazionistico - come nel Giappone prima di Abe – dovrebbe essere dell’uno per cento. La Bce respinge entrambe le posizioni: l’assunto è che, in questa fase, ridefinire l’obiettivo possa minare la credibilità della banca centrale. Allo stesso modo, la Bce non considera l’idea di ridefinire l’orizzonte temporale, allungandolo. Quindi hic manebimus optime, in attesa dei nuovi dati a marzo, dichiarando di essere pronti ad utilizzare tutti gli strumenti disponibili. Dunque, per verificare se nuove fonti di incertezza possano aver intaccato le aspettative d’inflazione, l’appuntamento è rinviato a marzo.

Tra le possibili fonti di incertezza, Draghi ha citato il tema della volatilità finanziaria. L’atteggiamento della Bce – ma anche delle altre maggiori banche centrali dei Paesi avanzati – rispetto ai rischi da instabilità finanziaria è molto chiaro. La Grande Crisi ci ha lasciato due lezioni: che i rischi finanziari non vanno sottovalutati; allo stesso tempo, che vanno affrontati e gestiti con la appropriata politica economica, vale a dire la politica macro prudenziale. La bussola di Draghi è stata chiara: oggi non esistono rischi sistemici nell’Unione, né generali né specifici (Portogallo ed Italia inclusi). Non a caso, il tema di un intervento macro prudenziale non è stato neanche citato. Invece, è stato rimarcato che la vigilanza sulle banche – la politica micro prudenziale – deve lavorare su un orizzonte di medio periodo. Il che significa che la raccolta di informazioni deve essere continua, ma il disegno delle regole e la loro implementazione deve essere di natura strutturale, non congiunturale. Draghi è molto attento a non invadere il perimetro delle competenze della vigilanza europea, che è di responsabilità della presidente Nouy. Una prudenza che mostra le contraddizioni di avere nella stessa istituzione sia i poteri di politica monetaria che quelli di vigilanza. Con istituzioni e responsabilità separate, i potenziali conflitti sono espliciti, e questo li rende meno probabili. L’Unione ha scelto la strada dei “separati in casa”, con tutte le relative incognite. Il messaggio di Draghi sulla politica di vigilanza non poteva che essere implicito, ma non per questo è stato meno chiaro. Speriamo che la presidente Nouy abbia voglia di recepirlo.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-01-23/la-doppia-bussola-draghi-094022.shtml?uuid=ACzCvyFC
7151  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Lucrezia REICHLIN. - L’Italia, l’Ue e il mondo Le regole che è giusto rivedere inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:33:49 am
L’Italia, l’Ue e il mondo
Le regole che è giusto rivedere

Di Lucrezia Reichlin

A leggere i giornali della settimana scorsa si poteva pensare che il mondo si trovasse sull’orlo del precipizio. L’allarmismo della stampa è il riflesso del nervosismo dei mercati, che senza dubbio c’è stato. Ma un distacco dagli eventi di questi giorni e un’analisi più pacata sono necessari.

Vorrei cominciare col richiamare alcuni fatti. Il mercato, innanzitutto. L’andamento del mercato azionario ha un legame tenue con la dinamica dell’economia reale. I modelli economici più semplici ci dicono che il primo anticipa la seconda, ma i fatti smentiscono ciò: i corsi azionari sono influenzati dal cosiddetto premio al rischio. Questo, a sua volta, è difficile da prevedere poiché riflette meccanismi psicologici legati a eccessi di ottimismo e pessimismo. Infatti, i periodi di alta volatilità del mercato sono molto più frequenti delle recessioni che, nelle economie mature, avvengono in media una volta ogni 10 anni.

Il secondo elemento da valutare è la Cina, ovvero un’economia che ha avuto una crescita media del 10 per cento per oltre dieci anni, crescita trainata dall’industria manifatturiera e dalle esportazioni. Quel Paese vive ora una fase di riequilibrio dell’economia verso i servizi e il consumo interno che ne comporta un naturale rallentamento: la crescita nel 2015 è stimata al 7% e nel 2016 al 6,7. Non si prevede un crollo, ma un semplice aggiustamento. Questa diminuzione di qualche punto, secondo le stime della maggior parte degli esperti, avrà un impatto minimo sulla crescita di Usa ed Europa, anche se la Germania è leggermente più esposta.

Veniamo all’Italia. Tutti i segnali dell’economia reale indicano che il 2016 confermerà la ripresa del 2015 anche al di là delle aspettative annunciate pochi mesi fa. Tutti questi fatti sono rassicuranti, ma ciò non significa che i rischi siano assenti. Passiamo quindi ad esaminare questi ultimi. Per quanto riguarda l’economia reale, il fattore di rischio principale non è a mio avviso la Cina, ma sono gli Stati Uniti. L’economia Usa è in ripresa da più di sei anni e ciò storicamente suggerisce che una recessione non sia lontana. I dati della produzione (non quelli dell’occupazione che li seguono con ampio ritardo e quindi non possono essere usati come indicatore del futuro) continuano a mandare segnali di un progressivo indebolimento dell’economia. Se gli Usa dovessero entrare in recessione tra la fine del 2016 e il 2017, l’Europa seguirebbe dopo qualche mese. Per noi sarebbe troppo presto: abbiamo ancora bisogno di correre per recuperare quanto abbiamo perduto dal 2008 a oggi.



Ma la grande volatilità nei mercati finanziari deriva soprattutto dai movimenti di capitali. E questi sono conseguenza dell’apprezzamento del dollaro combinato a un alto indebitamento dei Paesi emergenti, del calo del prezzo del petrolio e della liberalizzazione in corso del mercato dei capitali in Cina. In una economia in cui i mercati finanziari sono integrati a livello globale e in cui i flussi finanziari sono molto più ingenti di quanto sarebbe giustificato dall’import-export di merci e servizi, anche piccoli cambiamenti nelle aspettative provocano grandi spostamenti di capitali e quindi una volatilità difficile da comprendere sulla base dell’andamento dell’economia reale, ma che su quella stessa economia reale può avere però conseguenze. Da qui il ruolo chiave delle Banche centrali nel garantire liquidità al sistema e calmare le acque.

E l’Italia? L’Italia è finalmente uscita dai giorni più bui e sta consolidando la sua ripresa, ma è appesantita da sei anni in cui ha oscillato tra stagnazione e recessione. I crediti malati sono la conseguenza di questa crisi e alla crisi possiamo attribuire anche un buon 25 per cento del nostro debito pubblico. Per questo, nonostante i buoni segnali provenienti dall’economia reale, restiamo vulnerabili al primo singhiozzo del mercato. Non solo. Se effettivamente l’insieme dei rischi globali - e in particolare un rallentamento degli Usa - dovessero accorciare la ripresa europea, noi ci ritroveremmo ad affrontare un nuovo choc negativo senza esserci ancora liberati dell’eredità dell’ultima crisi, quindi con pochi strumenti per affrontare la nuova. L’Italia non è il solo Paese dell’area euro che si trova in questa situazione. La crisi delle banche portoghesi, ad esempio, si iscrive nello stesso scenario.

Non c’è dunque tempo da perdere. Il problema delle banche e del trattamento delle sofferenze va affrontato con rapidità e lucidità. Era una crisi annunciata. Siamo arrivati in ritardo. Ma ciò che sta avvenendo in Italia deve valere da richiamo per l’Europa e farle comprendere che lo sforzo di riforma di questi ultimi anni è stato tutto mirato alla costruzione di regole appropriate per il «tempo di pace», cioè quando il peso della crisi sarà riassorbito. L’Europa, invece, non ha dedicato sufficiente attenzione a come accompagnare la transizione verso quella situazione di «normalità». Senza affrontare il problema della transizione, regole che sono da ritenersi giuste in tempi normali potrebbero rivelarsi controproducenti nel breve periodo. Il bail-in è un esempio illuminante di questa situazione. Ecco il tema che l’Italia e gli altri Paesi come noi esposti a nuove turbolenze per via del debito e delle sofferenze bancarie dovrebbero mettere al centro della discu ssione con Bruxelles.

24 gennaio 2016 (modifica il 24 gennaio 2016 | 08:28)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_24/italia-ue-regole-rivedere-editoriale-reichlin-66ab8efa-c26a-11e5-9b69-aff8e7a41687.shtml
7152  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Papa Francesco sulla famiglia non ha fatto nessun ... inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:32:43 am
Papa Francesco sulla famiglia non ha fatto nessun passo indietro
Bergoglio ha chiesto di non confondere unioni civili e matrimonio, ma nello stesso giorno ha parlato di amore misericordioso per quanti vivono situazioni diverse dalle nozze, per scelta o per circostanze della vita.
Sullo scontro di piazza, tra organizzatori del Family Day e associazioni laiche, non interviene.
E all'episcopato italiano già da tempo ha ricordato che non deve occuparsi di politica

Di EUGENIO SCALFARI
24 gennaio 2016
   
"La Chiesa ha indicato al mondo che non ci può essere confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione". Questo ha detto papa Francesco nel suo discorso di venerdì all'apertura dell'anno giudiziario del tribunale della Sacra Rota e questo avrebbe significato un passo indietro rispetto all'apertura verso la modernità contenuta nelle prescrizioni del Concilio Vaticano II la cui citazione finora Francesco ha sempre assunto come il maggior compito del suo pontificato. Ma non ha detto soltanto questo. Nel finale del suo intervento ha anche affrontato il tema dei mutamenti che possono verificarsi dentro e fuori della famiglia consacrata dal matrimonio religioso: "La famiglia fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo appartiene al sogno di Dio ma i responsabili dei processi matrimoniali non dovranno mai dimenticare il necessario amore misericordioso verso quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato obiettivo di errore".

Infatti, nello stesso giorno del suo intervento al tribunale rotale, il Papa ha inviato anche un messaggio ai partecipanti alla cinquantesima giornata mondiale della comunicazione in cui ha invitato a "esprimersi con gentilezza e comprensione anche nei confronti di quanti, in merito al matrimonio pensano e agiscono diversamente". Che questo sia il suo atteggiamento nei confronti delle cosiddette unioni civili tra persone sessualmente eterogenee o anche dello stesso sesso, è noto da tempo. Il Papa insomma distingue tra famiglie matrimoniali e unioni civili di qualunque tipo e non nega affatto che la stessa posizione sia riconosciuta legalmente.

Nel contrasto di piazza che si sta verificando tra associazioni cattoliche nel "Family Day" che avrà luogo il 30 prossimo e le molteplici associazioni laiche che andranno avanti fino a quando la legge presentata dal governo sarà discussa e, in forma emendata, approvata (dal 28 prossimo) Francesco non interviene; il compito spetta semmai all'episcopato italiano al quale tuttavia viene ricordato che non deve più occuparsi di politica ma chiarire la posizione pastorale sui problemi in discussione.

Il cosiddetto passo indietro di Francesco sul tema della famiglia non c'è dunque stato. Naturalmente Francesco, come già avvenuto nella discussione sinodale sul tema dell'accesso dei divorziati risposati che chiedono di esser riammessi ai sacramenti, deve cercare soluzioni di compromesso (temporaneo) per mantenere l'unità della Chiesa sinodale. Sul tema dei sacramenti ai divorziati risposati il compromesso è stato di affidare ai vescovi e ai confessori da essi delegati, di decidere se il richiedente può essere riaccolto oppure no. In questo modo l'uscio della riammissione è stato aperto per metà, caso per caso; ma è sempre possibile ai richiedenti della riammissione che abbiano ricevuto parere negativo dal confessore di ripresentarsi dopo qualche tempo penitenziale e formulare di nuovo la richiesta ed è altrettanto possibile, anzi è praticamente certo, che quella seconda richiesta sia accolta.

In questa fase - come sappiamo - la tensione tra il Papa e la Curia ha raggiunto il suo massimo, sicché Francesco deve tenere unita la più larga maggioranza possibile dell'episcopato che privilegia l'azione pastorale e rappresenta in questo modo la Chiesa missionaria voluta da Francesco. Questo spiega ampiamente il compromesso in materia di matrimonio e di unioni civili.

Del resto la parola famiglia è una parola pluri-significativa: designa una comunità di persone unite tra loro da vincoli di affetto o di amicizia o di semplice appartenenza ad una comunità. Nell'antica Grecia e nell'antica Roma la famiglia comprendeva uomo e donna, nonché figli e nipoti, ma anche parenti lontani nel grado di parentela e schiavi, giocolieri, buffoni. Quella insomma che nella Roma classica era chiamata "gens" e aveva anche un nome: la gens Giulia o Claudia o Scipia o Flavia. Ma in tempi attuali esistono anche in tutto il mondo le famiglie mafiose, che prendono il nome del loro capo. Sicché la famiglia matrimoniale non ha natura diversa da quella legalizzata delle unioni civili; sempre di famiglie si tratta, di unioni con analoghi contenuti ma diversi termini lessicali che li distinguono. Il Papa tutte queste varianti le conosce benissimo.

Del resto c'è un altro elemento che Francesco conosce altrettanto bene: la concezione musulmana della famiglia è completamente diversa da quella cattolica, a cominciare dalla supremazia del maschio e dalla poligamia. Ma anche la concezione ebraica è diversa perché la Bibbia dell'Antico Testamento prevede famiglie con due o anche tre mogli per un solo marito. Francesco predica il Dio unico, specialmente tra i tre monoteismi ma per tutte le forme di divinità trascendente. Un Dio unico con scritture e tradizioni diverse, ma unico comunque, sicché le diversità tra le scritture e le tradizioni hanno un impatto assai modesto e sono comunque soggetti a cambiamenti continui che incidono sulla lettera ma non sull'essenza spirituale delle religioni. E questo è tutto per quanto riguarda papa Francesco.

Ma ora c'è il côté laico da descrivere. Chi sono e che cosa pensano su questi problemi?

***

I laici si dicono tali indipendentemente dall'essere o non essere religiosi d'una qualunque religione. Di solito sono contrari alla trascendenza; una delle "bibbie" del pensiero laico è infatti Baruch Spinoza, che aveva teorizzato l'immanenza della divinità con il motto ormai famoso "Deus sive Natura". Comunque non si è laici e non ci si autodefinisce come tali se non per il fatto che ci s'identifica con i valori di libertà, eguaglianza, fraternità. Gustavo Zagrebelsky, su Repubblica di ieri, sostiene che il laico s'identifica con la democrazia, cioè con l'attribuzione del potere al cosiddetto popolo sovrano. Vero, ma fino ad un certo punto. Non sempre infatti il popolo sovrano sostiene con fatti e non solo con parole tutti e tre quei valori. L'Atene di Pericle era piena di schiavi e così pure la Roma repubblicana e poi imperiale. Ed anche la Galilea dove Gesù di Nazaret predicò duemila anni fa. Infine la democrazia borghese ha sempre puntato sulla libertà a spese dell'eguaglianza e la democrazia operaia pur d'ottenere l'uguaglianza ha messo molto spesso in soffitta la libertà.

Concludo su questo punto che i laici sono certamente democratici sempreché quei valori siano tutti e tre considerati con pari forza, il che vuol dire la difesa dei diritti e insieme ad essi dei doveri che ciascun diritto comporta come corrispettivo in favore di quella stessa comunità che riconosce i diritti.

Personalmente critico Renzi tutte le volte (e purtroppo sono parecchie) che deturpa sia i diritti che i doveri, sia sullo scacchiere nazionale che su quello internazionale; ma nel caso in questione che riguarda le unioni civili, l'appoggio che sta dando alla legge proposta dalla senatrice Cirinnà rappresenta un impegno del nostro presidente del Consiglio che merita piena lode. Lode che si accresce quando vediamo che gli si oppongono la Lega, Forza Italia e Grillo con motivazioni prive di senso, per nascondere quella vera di attacco antirenziano. Ci sono mille possibili motivazioni di antirenzismo, a cominciare dalla legge costituzionale e dal referendum che dovrebbe confermarla, ma questa contro la legge Cirinnà no, non regge per nessuna ragione da chi professa una libertà anarchica (Grillo) o un clericalismo da strage di San Bartolomeo.

Naturalmente anche Renzi, come papa Francesco, ha studiato qualche compromesso per superare l'ostilità dei cattolici del suo partito. Ma la Cirinnà, sia pure emendata ma sostanzialmente integra, è un passo avanti notevole, del quale si parla da trent'anni senza che nulla sia stato fatto finora. Nel frattempo la questione è stata legalizzata in tutti gli altri Paesi dell'Occidente, in modo ancor più integrale; si tratta in grande maggioranza di Paesi dove le religioni dominanti sono di carattere protestante e quindi con meno remore al contrario di quanto avviene da noi. L'Italia o è laica nel senso sopraddetto o è cattolica ma oggi con un Papa aperto all'incontro con la modernità. Perciò la legge Cirinnà si discuterà il 28 prossimo e si voterà. Il risultato favorevole non è sicuro, ma probabile. L'ho già detto: spero questa volta che Renzi vinca.

Ci sarebbe ora da parlare dell'Europa. Lo faremo domenica prossima. Oggi posso solo dire che ci sono, in un'Europa divisa in mille pezzi, due sole posizioni positive: quella di Draghi che sta lottando con tutti i mezzi per uscire dal pericolo di un'altra recessione e quella di Schäuble che propone un piano Marshall europeo che aiuti i Paesi africani dove nasce l'emigrazione che ha l'Europa come obiettivo.

Mi sia consentito chiudere con un brano tratto da una poesia di Thomas S. Eliot che - mi sembra - coglie pienamente la transitorietà del tempo che ci attraversa: "Una dopo l'altra / case sorgono cadono crollano vengono ampliate vengono demolite distrutte restaurate... /C'è un tempo per costruire / e un tempo per vivere e generare / e un tempo perché il vento infranga il vetro sconnesso... / Dobbiamo muovere ancora e ancora / verso un'altra intensità/ per un'unione più compiuta, più profonda / attraverso il buio freddo e la vuota desolazione, / il grido dell'onda, il grido del vento, la vastità delle acque /della procellaria e del delfino. Nella mia fine è il mio principio".

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24 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/24/news/papa_francesco_sulla_famiglia_non_ha_fatto_nessun_passo_indietro-131923450/?ref=HRER2-1
7153  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Gian Antonio STELLA - Slovenia-Croazia: il filo spinato separa gli italiani ... inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:31:26 am
ISTRIA
Slovenia-Croazia: il filo spinato separa gli italiani dagli italiani
Le misure anti-immigrati riaprono antiche ferite in una terra martoriata

Di GIAN ANTONIO STELLA

C’è il filo spinato, adesso, su quello che doveva essere «un confine di seta». E Mario Beluk, che come tanti istriani porta un cognome slavo ma è italiano e parla italiano e appartiene alla minoranza italiana, non si dà pace: «Ce l’hanno sbattuto sul muso». Era andato a caccia, quel giorno: «Mi telefona l’Emilia: “papà, torna a casa di corsa!” Torno e trovo sui miei campi duecento operai, poliziotti, ruspe, caterpillar… Chiedo: “ma come, a casa mia?!” Niente da fare. Neanche scusa, mi hanno chiesto. E adesso siamo qui, prigionieri».

Non era mai esistito quel confine attuale sul Dragogna, il fiume che dalla Savrinia scende al mare, sfociando nel Vallone di Pirano attraverso le saline. Non sotto i Romani né sotto gli Ostrogoti né sotto i Bizantini e poi il patriarcato di Aquileia e l’Esarcato di Ravenna e Carlo Magno e giù giù per secoli e secoli sotto Venezia e poi Napoleone e l’Impero austro-ungarico e il Regno d’Italia e l’Adriatische Kustenland nazista e il Territorio libero di Trieste e la Jugoslavia di Tito... Mai.

E per millenni gli istriani avevano vissuto la loro terra come uno spazio unico, aperto, indiviso. E avevano amato l’Istria, fino all’impazzimento e all’odio fratricida e alle foibe e alle pulizie etniche degli anni Quaranta, proprio per questo suo essere terra plurale. Capace di donare alla cultura veneziana e italiana musicisti come il violinista Giuseppe Tartini, medici come l’inventore del termometro Santorio Santorio, intellettuali all’epoca celeberrimi come l’illuminista Gian Rinaldo Carli. E qui vissero artisti come Vittore e Benedetto Carpaccio e altri ancora.

Senza dimenticare, in tempi più vicini, scrittori quali Fulvio Tomizza, papà italiano e mamma slovena, che nel romanzo Materada (1960) raccontò lo sfacelo sanguinoso nel suo piccolo mondo antico. La contrada dov’era nato e dove da sempre i vicini di casa di lingua diversa si erano prestati lo stesso rastrello e si erano sposati nelle stesse chiese e avevano brindato agli stessi battesimi. O poeti della musica come Sergio Endrigo, autore di versi struggenti sulla sua Pola, abbandonata dopo la guerra per prendere la strada dell’esodo: «Da quella volta non ti ho rivista più/ Strada fiorita della gioventù/ Come vorrei essere un albero che sa/ Dove nasce e dove morirà…»

Il primo trauma arrivò alla fine di giugno del 1991, quando la signora Anna Del Bello Budak, che aveva casa a poche decine di metri dal Dragogna ed era a tavola con la famiglia, sentì un rumore assordante. Corsa fuori, vide le ruspe irrompere nel suo orto di piselli, sradicare centotrenta alberelli carichi di pesche, rovesciare tonnellate di ghiaia sulle piante di patate. La gente intorno

ricorda ancora lo scontro con i poliziotti: «Fermi! Fermi! Cosa fate?» «Ordini superiori». «Non potete farlo!». «Ordini superiori». «Mostratemi le carte!». «Ordini superiori».

All’arrivo dei cronisti Matia Potocar, il direttore del cantiere, ridacchiava: «Un posto di frontiera? Ma no, è solo un punto di sosta per i camion». E davanti alle perplessità di tutti, giurava: «Solo cestna. Capito? Ristrutturazione cestna: strada». Poche ore dopo, per la prima volta nella storia, sul curvone dell’antica via Flavia tracciata nel primo secolo dopo Cristo dall’imperatore Vespasiano, c’era un confine. Di qua la Slovenia, di là la Croazia. Stati sovrani. Alla Milicja di Capodistria facevano dei gran sorrisoni: «Sarà un confine dimostrativo. I cittadini dell’attuale Jugoslavia circoleranno liberamente...».

Pochi mesi e già le comunità che vivevano lungo il Dragogna raccontavano storie da incubo. Come quella di Duilio Visentin che, colpito in terra croata da una gravissima emorragia e caricato su un’ambulanza per una corsa disperata verso l’ospedale di Isola, era stato fermato al confine sloveno: «Documenti!». «Mio marito sta morendo». «Documenti!». «Muore!». «Documenti!».

O la storia di un funerale a Villa Cucini, una contrada sulle alture: il nuovo confine aveva collocato il paese in Slovenia, la chiesa e il cimitero in Croazia. Impossibile seppellire il nonno nella tomba di famiglia: «Il lasciapassare? Ce l’avete il lasciapassare?». Per non dire d’un incendio a Bresovizza coi vicini di casa che si precipitavano generosamente coi secchi e i badili a dare una mano al di là del confine appena inventato: «Altolà! Documenti».

«Maledetti tutti i nazionalisti!», imprecava il vecchio Virgilio Babich. Non si era mai mosso dalla casetta in cui era venuto al mondo in contrada Mulini. Mai. Eppure era riuscito a cambiar tre volte passaporto: nato italiano di sentimenti italiani, era diventato poi sloveno e infine, per uno spostamento amministrativo, cittadino di Umago quindi croato: «Dopo la guerra ero deciso a venire in Italia. Papà scoppiò a piangere: “E io cosa faccio? Sono vecchio…”. Mi fermai. Me ne sono pentito sempre».

Quel nuovo confine gli era insopportabile: «Ho un po’ di terra di qua e un po’ di là, la luce mi arriva da Buie in Croazia, e l’acqua da Capodistria in Slovenia, la pensione finisce nella mia vecchia banca in Slovenia, ma non posso portarmela qui perché esporterei capitali…».

Insomma, pasticci, disagi, angherie insopportabili. Per un quarto di secolo la comunità italiana sopravvissuta in Istria, spaccata dal nuovo confine proprio mentre riscopriva la propria identità dopo gli anni bui del comunismo titino, ha sperato, atteso, sognato che quella frontiera, divenuta addirittura più rigida dopo l’ingresso della Slovenia nella Unione Europea, diventasse davvero di seta dentro la grande madre Europa.

Macché. La pressione alle frontiere delle masse di profughi in fuga dal Medio Oriente ha fatto precipitare tutto. E Lubiana, dimentica delle decine di migliaia di slavi in fuga dal regime comunista accolti allora anche dall’Italia come Paese di transito verso altre mete, ha steso lungo il confine croato chilometri e chilometri di filo spinato. Uno shock.

La nostra comunità ha protestato. E mentre depositava fiori lungo quelle matasse di filo spinato, ha scritto al premier sloveno Miro Cerar una lettera accorata. Dove, «pur riconoscendo l’eccezionalità della situazione» bolla come inaccettabile, «dopo le drammatiche vicende del Ventesimo secolo», l’erezione di una nuova cortina di ferro. Destinata pare a essere ulteriormente rafforzata. Una barriera che ai più vecchi fa tornare in mente gli anni in cui si sentirono, di giorno in giorno, chiudere in una morsa. Fino a sospirare sull’addio cantato in una poesia da Arturo Daici: «Adio vojo dirghe a la caseta/ Dove che go pasà la gioventù/ adio a questa tera benedeta/ perché se vado no te vedo più...».

23 gennaio 2016 (modifica il 24 gennaio 2016 | 09:49)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_gennaio_23/slovenia-croazia-istria-italiani-confine-immigrati-jugoslavia-gian-antonio-stella-dd20f99c-c203-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml
7154  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Fiorenza SARZANINI. L’emergenza migranti inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:30:14 am
L’emergenza migranti
L’intesa Roma-Berlino su Schengen «Per sospenderlo servirà il sì di tutti»
La proposta al vertice dei ministri dell’Interno Ue ad Amsterdam: chi vorrà sospenderlo dovrà concordare l’iniziativa con gli altri Paesi. L’alternativa, gradita alle nazioni del Nord Europa, è la sospensione di 2 anni dell’accordo sulla libera circolazione

Di Fiorenza Sarzanini
fsarzanini@corriere.it

Lo Stato che vuole ripristinare temporaneamente i controlli alle frontiere dovrà concordare l’iniziativa con gli altri Paesi dell’Unione. In questo modo si creerà un tavolo di coordinamento per evitare iniziative estemporanee che mettono in difficoltà gli altri partner e rischiano di far saltare l’intero sistema. L’ultimo tentativo per tenere in vita il Trattato di Schengen passa dalla proposta, informale, che sarà formulata oggi da Italia e Germania. Al Consiglio dei ministri dell’Interno che si svolge ad Amsterdam, si cercherà una mediazione con chi difende la «linea dura» ponendo come priorità la «blindatura» dei confini esterni. L’alternativa, se non si riuscirà a trovare una soluzione, è la sospensione per due anni dell’accordo sulla libera circolazione. Una possibilità che Roma cerca in ogni modo di contrastare fidando proprio sull’appoggio di Berlino, visto che due giorni fa è stato il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, a dire che «distruggere il sistema Schengen vuol dire mettere l’Europa drammaticamente in pericolo, dal punto di vista politico ed economico». Il pericolo è fin troppo evidente: un’invasione sulle nostre coste con l’apertura di nuove rotte dall’Albania e dal Montenegro e una nuova impennata dalla Libia. I segnali sono già inquietanti: negli ultimi tre giorni sono sbarcati più di mille migranti. Anche il 2016 si annuncia come un anno drammatico per la gestione dei flussi migratori e il blocco di alcuni Stati può stringere l’Italia in una vera e propria morsa.


L’asse del Nord
Danimarca, Austria e Svezia hanno già chiuso i confini con un provvedimento unilaterale provvisorio e, con l’appoggio di Polonia e Ungheria, insisteranno per una sospensione di Schengen per almeno due anni. A maggio i controlli alle loro frontiere dovranno infatti essere interrotti e questo ha alimentato l’ipotesi che vogliano creare una sorta di mini Schengen alla quale parteciperebbero la Germania (che ha preso un provvedimento analogo giustificandolo come necessario di fronte alle iniziative dei Paesi confinanti) e il Belgio, anche se gli analisti sono scettici e ritengono si tratti esclusivamente di una forma di pressione nei confronti di Italia e Grecia affinché rendano operativi i centri di identificazione, i cosiddetti «hotspot» sui quali la cancelliera Angela Merkel ha ribadito di voler «prestare attenzione». Domenica il commissario europeo alle Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, ha smentito in maniera categorica - «non esiste alcun piano di questo tipo» - l’ipotesi anticipata dal Financial Times di una estromissione di Atene dall’area Schengen e il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha rincarato la dose: «Le soluzioni come l’esclusione di alcuni Stati non risolvono nulla». Una posizione sostenuta dai socialisti europei con il presidente del gruppo al Parlamento europeo, Gianni Pittella, che sottolinea come «qualsiasi ipotesi di mini Schengen o di isolamento della Grecia è assolutamente inaccettabile. Invece di velleitarie scorciatoie solitarie gli Stati membri mettano in pratica le decisioni del Consiglio. È l’unico modo per salvare l’Europa da se stessa».

L’appoggio dell’Onu
Sono diverse le questioni all’ordine del giorno di lunedì e tra le principali c’è quella riguardante l’accordo di Dublino con il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che chiederà nuovamente la modifica di quella norma che obbliga i richiedenti asilo a registrarsi nel Paese di primo ingresso. L’obiettivo è infatti una distribuzione equa all’interno dell’Unione e uno snellimento delle procedure di registrazione. «Noi stiamo facendo la nostra parte - sottolinea il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico - e per questo ci auguriamo che non prevalgano gli egoismi nazionali. Se dovesse cadere il trattato di Schengen saremmo costretti a rivolgerci all’Onu visto che noi abbiamo la responsabilità della difesa del Mediterraneo. Importante è trovare un’intesa su tutti i punti in discussione, tenendo conto che anche sugli hotspot abbiamo rispettato tutte le richieste». Con il via libera alle sue istanze, l’Italia potrebbe a sua volta versare la propria quota per il finanziamento di tre miliardi alla Turchia dove, dall’inizio del conflitto, sono già transitati due milioni di siriani. Si tratta di 280 milioni di euro che dovrebbero però essere scomputati dalla legge di Stabilità, come si è impegnato a fare la scorsa settimana il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, nel pieno dello scontro tra Italia e Ue sui migranti, ma anche su tutti gli altri temi in agenda, con un’attenzione particolare ai provvedimenti sulle banche, e sulla flessibilità.

25 gennaio 2016 (modifica il 25 gennaio 2016 | 08:55)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_25/intesa-roma-berlino-schengen-per-sospenderlo-servira-si-tutti-3f85a48e-c330-11e5-b326-365a9a1e3b10.shtml
7155  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Enrico MARRO - Le nuove tutele per i lavoratori autonomi: dalla maternità ai ... inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:28:51 am
Le nuove tutele per i lavoratori autonomi: dalla maternità ai compensi, ecco come si cambia
Il nuovo statuto dei lavori prevede la possibilità di continuare a lavorare per chi aspetta un bimbo.
Misure contro la povertà, la figura del tutor per ridurre il tasso di abbandono scolastico

Di Enrico Marro

Piano contro la povertà e Statuto dei lavoratori autonomi. A Palazzo Chigi si lavora per approvare giovedì in consiglio dei ministri due disegni di legge collegati alla legge di Stabilità, che quindi godranno di una corsia preferenziale in Parlamento. Il primo sarà un ddl delega al governo per potenziare e riordinare gli strumenti a sostegno dei più bisognosi: secondo l’Istat gli italiani in condizioni di «povertà assoluta», cioè non in grado di acquistare un paniere di beni e servizi essenziali, sono 4,1 milioni. A questo fine la legge di Stabilità ha stanziato 600 milioni per la messa a regime del Sia, il Sostegno per l’inclusione attiva, e 220 milioni per l’Asdi, l’assegno che scatta dopo la Naspi (Nuova indennità di disoccupazione) per le persone in condizioni di bisogno.

Il secondo disegno di legge introduce o rafforza una serie di tutele (maternità, malattia) e di sostegni per i lavoratori autonomi. Qui la manovra di bilancio prevede 10 milioni per il 2016 e 50 per il 2017 (bisogna considerare che quest’anno serve meno perché le misure entreranno in vigore solo dopo l’approvazione di Camera e Senato).

Intesa con le fondazioni
A completamento degli interventi sulla povertà, nelle prossime settimane, verrà firmato un protocollo d’intesa con le fondazioni bancarie e con il Terzo settore (non profit) per il finanziamento di progetti di contrasto dell’abbandono scolastico e di miglioramento della qualità dell’istruzione nelle situazioni più disagiate. Si va dall’erogazione di sostegni monetari alla messa a disposizione di tutor per gli studenti. Le fondazioni forniranno una dotazione di 150 milioni di euro in tre anni che verranno distribuiti sui progetti selezionati fra quelli presentati da istituzioni scolastiche e locali. Per incentivare il progetto il governo concede un credito d’imposta col quale le fondazioni recupereranno fino a 100 milioni di euro.

800 milioni per i poveri
Va subito detto che il pacchetto povertà rappresenta un primissimo passo, quasi un atto dovuto, visto che tutti gli organismi internazionali rimproverano all’Italia la mancanza di strumenti universali di intervento (su questo piano, in Europa, siamo in compagnia della Grecia). Le risorse stanziate sono chiaramente insufficienti. Basti pensare che gli 800 milioni previsti per quest’anno (che saliranno a un miliardo nel 2017) equivalgono ad appena 200 euro in media a testa per i 4 milioni di poveri assoluti. Per questo la delega assegnerà al governo anche il riordino dell’assistenza. Arriverà un stretta sui requisiti per determinate prestazioni. La delega resterà sul vago. Per non creare allarme, verrà precisato che la riforma interverrà sulle prestazioni future e non su quelle in essere e non colpirà i disabili. Nel mirino, in particolare, le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali delle pensioni degli italiani residenti all’estero. «Paghiamo integrazioni e maggiorazioni a persone che vivono e pagano le tasse altrove, riducendo il costo dell’assistenza in questi Paesi», ha denunciato in Parlamento il presidente dell’Inps, Tito Boeri.
La delega sulla povertà prevede l’estensione a tutto il territorio nazionale del Sia (sostegno all’inclusione attiva), assegno introdotto in forma sperimentale nel 2014 in 12 cità con più di 250 mila abitanti e che può arrivare fino a 400 euro al mese, a integrazione del reddito delle famiglie con Isee inferiore a 3 mila euro. L’intervento privilegerà quelle con figli minori.

Tutele per le partite Iva
«Lo Statuto del lavoro autonomo e l’intervento sulla povertà — dice il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei — estendono tutele e diritti in un disegno di continuità con il Jobs act». Ma vediamo le principali novità previste dal collegato che riguarderà le partite Iva individuali e gli iscritti alla gestione separata dell’Inps (collaboratori). Questi lavoratori potranno dedurre tutte le spese di formazione dall’imponibile fino a 10 mila euro l’anno. Che scendono a 5 mila per le spese per certificazioni professionali.

L’assegno di maternità per 5 mesi non sarà più vincolato alla sospensione dell’attività lavorativa, ma verrà erogato anche se la lavoratrice autonoma, come spesso accade, deve continuare a far fronte agli impegni presi. Inoltre, in caso di malattia grave, comprese quelle oncologiche, si potrà sospendere il pagamento dei contributi sociali fino a un massimo di due anni (recuperando poi con pagamenti rateizzati). Infine, ci saranno norme di tutela contrattuale per impedire clausole vessatorie (per esempio, modifiche unilaterali di quanto pattuito) e ritardi nei pagamenti da parte dei committenti. Dovrebbe esserci anche un capitolo sullo smartworking, quello svolto senza postazione fissa. Il lavoratore dovrà ricevere un trattamento economico non inferiore a quello dei lavoratori dipendenti della stessa azienda, «a parità di mansioni svolte», e avrà diritto all’assicurazione sugli infortuni.

25 gennaio 2016 (modifica il 25 gennaio 2016 | 07:04)
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