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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 62973 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:56:07 am »

Elezioni 2011

18/05/2011 - RETROSCENA

La capitale dei moderati si è ribellata ai pasdaran

La festa dei sostenitori di Pisapi, appoggiato da PD, SEL, IDV e altre forze del centro-sinistra.

Il partito democratico ha quasi raggiunto il PDL, con il 28,4 per cento delle preferenze

Parlare di "pericolo rosso" non è servito, anche i ricchi hanno votato Pisapia.

L’ex Governatore Bassetti: processo irreversibile, qui il berlusconismo è finito

MICHELE BRAMBILLA
MILANO

Ma Milano è stata davvero una sorpresa? Certamente sì per chi ragiona sui dati, sui numeri, sui flussi elettorali; insomma per chi crede che la ragione sia tutto. Chi invece dà più ascolto alle sensazioni che ai ragionamenti oggi non è poi così tanto sorpreso, perché da giorni avvertiva qualcosa nell’aria. Segnali strani ricordavano che la storia è fatta di imprevisti, e che un imprevisto stava per irrompere. Forse il pienone davanti alla stazione centrale, quando c’è stato il primo concerto per Pisapia. Forse quell’altro pienone per il secondo concerto, quello di piazza Duomo venerdì sera, con Vecchioni che canta Milano mia portami via, fa tanto freddo, ho schifo e non ne posso più. In piazza Duomo c’era più gente quella sera che non il giorno dopo, all’ennesima festa scudetto del Milan, con Roberto Lassini sul pullman rossonero.

Forse chissà, perfino Vecchioni che vince a Sanremo (e chi l’avrebbe mai detto?) è stato l’indizio di un’aria nuova. «La ruota gira», dicono a Milano. E poi chi vive a Milano è difficile spiegarlo - ma insomma, qualcosa intercettava. Quelle vecchie massime sentite qua e là, alla fermata dell’autobus, in metropolitana, al supermercato: «A tirarla troppo, la corda si spezza», per dire che non sempre vale la regola del mercato delle bestie, dove chi urla di più la vacca è sua. «Milano è troppo sobria per quella gente là» abbiamo sentito dire da una signora, che per «quella gente là» intendeva i pasdaran della politica urlata, i titolisti dal pugno nello stomaco, i professionisti del dossieraggio: gente che non è neanche di Milano e non sa che quello stile lì a Milano può funzionare sul breve ma non alla distanza. Perché «il troppo stroppia» è un altro proverbio che fa parte del patrimonio di saggezza di questa città.

Se, come pare, Berlusconi imposterà le prossime due settimane di campagna elettorale sul «pericolo rosso», sul «non diamo la città in mano agli estremisti», Giuliano Pisapia può stare tranquillo. Perché che Pisapia sia un estremista, o il capo di un’eventuale giunta di estremisti, a Milano non la beve nessuno. Non ci hanno creduto neppure gli abitanti della zona uno, vale a dire centro storico, fortino solitamente inespugnabile del centrodestra. Chi più «moderato» degli abitanti di quella ricca e prestigiosa zona della città? Eppure anche loro hanno votato per Pisapia. Tutte e nove le zone in cui è divisa Milano hanno votato per Pisapia. Nel 2006, la Moratti aveva conquistato otto di queste nove zone.

Qualcosa è cambiato, ed è un grave errore del centrodestra non capire che a Milano «moderato» non vuol dire elettore di centro destra ma vuol dire, appunto, moderato. Cioè il contrario di estremista. E per i milanesi gli estremisti - è quasi un gioco di parole, ma è così - sono quelli che hanno accusato Pisapia di essere un estremista. Roberto Lassini, il candidato del Pdl che ha tappezzato la città con i manifesti «Via le Br dalle Procure», nonostante abbia ricevuto l’entusiastico endorsement del Giornale ha preso 872 preferenze. Una miseria. E Berlusconi? Gli sono giovati i toni da guerra santa usati al Nuovo e al Palasharp? Aveva preso 53.000 preferenze cinque anni fa, ne ha prese 27.972 adesso.

«Sono convinto che certi toni e un certo involgarimento abbiano indotto una parte degli elettori a spostarsi dal centro destra al centro sinistra», ci dice Carlo Tognoli, ex sindaco socialista dal 1976 al 1986. «Pisapia è rimasto tranquillo, non ha nemmeno parlato troppo di politica, è rimasto sui problemi della città. E la gente lo ha premiato perché lo stile violento non è nelle corde di Milano». Torna la Milano di un tempo? La Milano che dal 1946 al 1993 ha sempre avuto sindaci socialisti o socialdemocratici, prima del quasi ventennio di centro destra? «Non è quello - dice Tognoli è che Milano è sempre stata moderata. La sinistra, qui, era riformista, non massimalista. E la destra erano i liberali di Malagodi. Oggi Milano ha ribadito la sua vocazione alla moderazione e ha dato un segnale a tutto il Paese».

Letizia Moratti ha preso 273.401 voti, 80.009 in meno rispetto ai 353.410 di cinque anni fa. Un tracollo. E oggi pare evidente che il sindaco ci ha messo del suo quando si è convertita al «metodo Boffo» cercando di squalificare Pisapia con accuse farlocche; ma pare evidente pure che la deriva era già cominciata con i manifesti del soldato semplice Lassini e con le invettive del colonnello Santanché: e qui il responsabile va cercato altrove. Anche la Lega, che pure non ha partecipato al tiro contro Pisapia, ha immagine e tradizione di partito dalle parole pesanti, e Milano l’ha fatta passare dal 14 per cento dell’anno scorso al 9,63 di oggi. Perché per un po’ si va avanti, ma poi «dura minga», non può durare.

Certamente Milano non è stata una sorpresa per Piero Bassetti, ex presidente della Camera di Commercio e primo presidente della Regione Lombardia. Aveva detto in tempi non sospetti: «Un’ondata inaspettata metterà fine al berlusconismo», e aveva parlato di un nuovo 25 aprile. Linguaggio da comunista? Ma Bassetti è un democristiano, il democristiano che inventò il centro sinistra a Milano. «Avevo intuito che stava per succedere una cosa molto grossa. Pisapia è stato votato non solo dalla Milano progressista ma anche dal centro illuminato: non è un caso che abbia vinto pure in zona uno. Il messaggio è stato chiaro: basta con il berlusconismo. È stata la rivolta di una città moderata contro l’estremismo. È la moderazione che ha vinto».

Secondo Bassetti «Pisapia è stato intelligente nel mettere insieme una coalizione che non è un insieme di partiti ma un nuovo blocco sociale. E a messo in moto un processo irreversibile». Irreversibile? Massimo Cacciari, che ha sempre detto che Berlusconi sarebbe finito quando avrebbe perso Milano, oggi è molto cauto. «Ma Cacciari di Milano non capisce niente - dice Bassetti - è meglio che si occupi di Venezia. Io non dico che il berlusconismo è finito, perché il voto al Sud mi suggerisce il contrario. Ma per Milano, Berlusconi è una pagina voltata. Di questo sono sicuro».

Non è detto che Milano incoronerà Pisapia sindaco perché il centro destra ha le sue carte da giocare. Ma su che cosa sia la moderazione e che cosa sia l’estremismo, questa città ha già detto una parola chiara. E quello che dice Milano, di solito dopo un po’ lo dice tutto il Paese.

da - lastampa.it/focus/elezioni2011/
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« Risposta #31 inserito:: Maggio 21, 2011, 04:19:22 pm »

21/5/2011

Telecomizi di un leader stanco

MICHELE BRAMBILLA

Il Silvio Berlusconi che ieri è riapparso sulla scena dopo quattro giorni di silenzio è sembrato al tempo stesso un uomo potente e un uomo stanco. Potente perché ha dimostrato quasi ostentato - di disporre come nessun altro del principale mezzo di persuasione di massa: la televisione. E stanco perché stanca era la sua faccia, stanchi i suoi occhi cerchiati, stanche e vecchie soprattutto le sue parole, con quella ripetizione ossessiva del pericolo comunista.

Bersani ha annunciato che protesterà contro l'autorità che controlla le comunicazioni, e c'è da capirlo. Il presidente del Consiglio ha parlato a reti praticamente unificate, diffondendo i suoi monologhi (faceva tenerezza sentire i conduttori dei tg che li chiamavano «interviste») senza alcun contraddittorio. Bersani ha parlato di Bielorussia ed è certamente un'esagerazione perché non siamo in Bielorussia e oggi ci saranno altri media a dare spazio a opinioni diverse da quelle del premier; però è un fatto che quella di ieri sera è parsa una prova di forza che assomiglia molto a una prova di prepotenza.

Ma proprio per questo non sappiamo quanto Bersani - e con lui Pisapia, De Magistris e tutto il centrosinistra - debbano dolersi della raffica di telecomizi. Il modo con cui Berlusconi ha deciso di irrompere nella campagna per i ballottaggi finirà inevitabilmente con il dare fiato a chi sostiene, da sempre, che le elezioni in Italia non si giocano ad armi pari. Come replicare a chi dirà, oggi, che c'è un gigantesco conflitto di interessi, con il presidente del Consiglio che in campagna elettorale usa le sue tre televisioni - e due canali di Stato su tre - per chiedere il voto agli elettori? Ci sbaglieremo, ma ci pare che mai come ieri sera Berlusconi abbia usato in modo così plateale il suo potere televisivo.

E forse questa scelta di non «contenersi», questa decisione di non rispettare neppure alcuna forma o etichetta, è il segnale di una debolezza. Può darsi benissimo che il centrodestra vinca i ballottaggi (le due partite di Milano e Napoli sono ancora aperte) ma l'impressione che Berlusconi ha dato ieri è quella di un leader che si sente minacciato come non mai, e che per questo spara contemporaneamente tutte le munizioni rimaste.

È un'impressione confermata anche dalle argomentazioni usate. Dicevamo dello spauracchio del comunismo. Berlusconi ha parlato di una Milano invasa dalle bandiere rosse e del progetto di Pisapia di fare del capoluogo lombardo «una Stalingrado d'Italia». Ma chi vive a Milano ha la stessa impressione? Ce l'hanno i cittadini che vedono, semmai, le strade invase dai manifesti del Pdl che hanno coperto quasi ovunque quelli di Pisapia? Ce l'ha la grande borghesia - quella, ad esempio, di un Piero Bassetti, primo presidente della Regione e democristiano che da tempo ha deciso di appoggiare il centrosinistra? Si può ancora far credere che qualcuno (addirittura un qualcuno che disporrà dei soli poteri di un sindaco) possa resuscitare il comunismo? A chi contestava a Montanelli, negli ultimi anni della sua vita, di non far più battaglie contro i comunisti, Indro rispondeva: «Io sono ancora anticomunista. Ma le battaglie le faccio contro i vivi, non contro i morti».

E ancora: i cattolici milanesi davvero penseranno che Pisapia farà della città «una zingaropoli islamica»? Non pare affatto che il cardinal Tettamanzi, e i parroci con lui, abbiano simili paure. E di nuovo: il premier ha promesso «meno tasse per tutti». Era il suo slogan tanti anni fa, quando la sua avventura politica era agli inizi. A Milano e Napoli crederanno davvero che Berlusconi possa cominciare adesso a fare ciò che non ha fatto finora?

Il Silvio Berlusconi di ieri sera è parso un leader logorato da tante battaglie. Un leader che si è sforzato di mostrare il sorriso vincente d'antan prima di passare a leggere il «gobbo» di fronte a lui. Può darsi benissimo che vincerà anche questa partita. Ma ieri non ha dato l'impressione di credere alla vittoria.

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« Risposta #32 inserito:: Giugno 20, 2011, 08:43:07 am »

19/6/2011

Se Monza fosse capitale d'Italia

MICHELE BRAMBILLA

Dice la leggenda che Sant’Ambrogio, lasciando Monza, non lasciò una benedizione, ma una maledizione.
Sarete sempre una città di poveretti». Vero o falso che sia l’aneddoto, è un fatto che da allora i rapporti tra Milano e Monza non sono mai stati buoni; perfino tra cristiani, se è vero che ancora oggi la Chiesa monzese, pur facendo parte della diocesi milanese, segue il rito romano e rifiuta quello ambrosiano.

Non parliamo poi dei rapporti fra commercianti. Sempre una leggenda - ma questa volta forse più verosimile - dice che nel 1964, quando a Milano venne inaugurata la metropolitana, furono i commercianti monzesi a non volere il prolungamento della linea. Erano terrorizzati dal pensiero che, potendo andare rapidamente a Milano - dove c’era più scelta e perfino più possibilità di risparmiare - i monzesi non avrebbero più fatto la spesa nella loro città. Ancora oggi la metropolitana milanese a Monza non arriva. Arriva in paesi che si chiamano Cassina de’ Pecchi, Vimodrone, Gorgonzola, Gessate, Bussero e così via: ma non a Monza, che pure ha quasi centotrentamila abitanti ed è, per popolazione, la terza città della Lombardia dopo Milano e Brescia. Probabilmente non c’è al mondo un caso analogo di una città di 130 mila abitanti che non sia collegata a una metropoli di quasi due milioni di abitanti distante solo quattro o cinque chilometri da confine a confine.

Sono nato e cresciuto a Monza e so, purtroppo, quanto pesi questo (voluto, incredibilmente) isolamento. Oltretutto, la situazione è andata via via peggiorando nel tempo. Mio nonno faceva il valigiaio a Milano, in una traversa di corso Buenos Aires, e abitava a Biassono, in Brianza, oltre Monza: a mezzogiorno faceva in tempo ad andare a casa a pranzo con il tram. Poi sono nato io ed è sparito pure il tram, per andare a Milano bisogna infilarsi in tangenziale e maledire i commercianti del 1964.

Monza ha avuto il suo momento di semi-gloria nell’Ottocento, quando prosperava l’industria del cappello ed era chiamata la «Manchester d’Italia». Ma poi i maschi hanno cominciato a non mettere più il cappello, e le industrie hanno chiuso. E così Monza ha dovuto sempre affidare la propria notorietà a gente venuta da fuori: ai Savoia che ci venivano d’estate nella Villa costruita dagli austriaci; all’anarchico toscano Gaetano Bresci, che qui uccise re Umberto I, davanti alla palestra Forti e Liberi, il 29 luglio 1900; e ai milanesi, che negli Anni Venti vollero costruire nel Parco (anche quello opera di forestieri: i francesi) il celeberrimo autodromo. Pochi anche i monzesi illustri. Per dire: il più famoso tra i viventi è Adriano Galliani.

Ci voleva dunque Bossi, per interrompere l’infausta profezia di Sant’Ambrogio, e fare di Monza una capitale. Ammesso che Roma accetti il non trascurabile trasferimento.

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« Risposta #33 inserito:: Giugno 22, 2011, 12:18:04 pm »

22/6/2011
 
E la Lega abbassa la testa
 
 
MICHELE BRAMBILLA
 
Chi si aspettava fuoco e fiamme dal dibattito di ieri al Senato è rimasto deluso. Berlusconi ha parlato 45 minuti in modo tale da non sembrare neanche Berlusconi. Ha scelto un profilo basso e toni ancora più bassi. Non ha mai alzato la voce. Non ha attaccato i giudici e non ha attaccato la stampa: se non andiamo errati, non ha neppure citato i comunisti.

Parlando del suo governo, non ne ha rielencato i meriti come è solito fare: più modestamente, ha detto che a questo governo non c’è alternativa perché «le tre o quattro opposizioni sono divise e non sono in grado di esprimere un leader».

Si è spinto perfino a dire che «le contraddizioni della minoranza sono più gravi dei travagli della maggioranza», ammettendo quindi che la maggioranza è travagliata. Anche qui possiamo sbagliarci: ma non ci pare che il Cavaliere avesse mai presentato il suo «prodotto», in passato, sostenendo che è meno peggio di quello della concorrenza.

Pure parlando di sé Berlusconi pareva un altro. Intanto parlava in prima e non in terza persona, come quando - in settembre e in dicembre, durante dibattiti quelli sì infuocati - diceva «questo signore ha chiamato Obama» e «questo signore ha chiamato Putin». E poi è arrivato addirittura a ipotizzare, lui che aveva annunciato di voler governare fino a centovent’anni, un ruolo da pensionato: «Non voglio essere presidente del Consiglio a vita». S’è spinto perfino a parlare della sua «eredità politica», quindi di un dopo-Berlusconi.

Insomma il premier ha fatto il moderato, forse per assicurare a tutti - all’opposizione, ma più ancora ai suoi - che non è affatto allo sbando, che ha i nervi saldi, che nonostante tutto tiene la situazione in pugno.

Basterà questo stile, ben diverso da quello dei comizi pre elettorali di un mese fa, a tranquillizzare gli alleati e, quel che più conta, gli italiani? Ne dubitiamo. Cominciamo dagli italiani. Berlusconi ha annunciato che entro la pausa estiva farà la riforma fiscale, introducendo tre sole aliquote, più basse delle attuali. Per i contribuenti è certamente una bella notizia. Ma è anche credibile? Intanto, il premier non ha spiegato in quale modo una tale riduzione delle tasse «non produrrà buchi di bilancio»: e spiegare come si possa tirare la coperta senza farla risultare corta almeno da un lato, non è proprio un dettaglio. E poi agli italiani questo discorso delle tre aliquote pare di averlo già sentito: perfino nella primavera del 1994, quando Berlusconi si insediò per la prima volta a Palazzo Chigi. E’ credibile che nelle poche settimane che li separano dalle meritate vacanze, i nostri governanti possano fare ciò che non è stato fatto in diciassette anni?

Quanto agli alleati, c’è da chiedersi di quale stomaco siano dotati i leghisti, ancora una volta costretti a digerire di tutto. Solo tre giorni fa, a Pontida, Bossi aveva giurato che quattro ministeri sarebbero stati trasferiti al Nord, altrimenti la Lega avrebbe dichiarato guerra al governo. Ieri però il governo ha dato parere favorevole agli ordini del giorno (presentati dall’opposizione) contro il trasferimento dei ministeri, e la Lega s’è dovuta accontentare di una vaga promessa di «sedi di rappresentanza operative». E sulla Libia? Anche qui a Pontida i leghisti avevano intimato l’immediato ritiro, ma ieri Berlusconi ha glissato rinviando tutto a settembre e alle decisioni della Nato.

Per questo la Lega è tutt’altro che tranquillizzata, anche se ancora una volta sarà costretta ad abbassare la testa dopo avere alzato la voce. Troppo importante stare al governo.

Ma forse anche l’opposizione oggi non ha interesse a forzare la mano. Un po’ perché la grande coalizione da contrapporre al centrodestra non ha, al momento, né un leader né una composizione. E un po’, forse, perché condivide la preoccupazione su una possibile ricaduta a livello europeo. Il timore che l’Italia possa fare la fine della Grecia non è campato per aria. E quindi, per dare la spallata a Berlusconi, meglio aspettare un momento più propizio.

Insomma la situazione è seria, ma la nostra politica ha reagito con il fermo proposito che di questi tempi è sulla bocca di tutti gli italiani: ne parliamo dopo le ferie.

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« Risposta #34 inserito:: Luglio 17, 2011, 07:00:56 pm »

17/7/2011

L'inganno dei mercanti di morte

MICHELE BRAMBILLA


È probabile che i grandi affaristi che nei Paesi più poveri del mondo stanno spacciando l’Eternit come una meraviglia del progresso siano persone che vivono senza timor d’inferno né speranza di paradiso; e che non sappiano, quindi, che stanno riuscendo nella non facile impresa di violare ben tre dei quattro «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio»: omicidio volontario; oppressione dei poveri; frode nella mercede agli operai.

Fu papa Sarto – san Pio X – a volere che nel suo Catechismo Maggiore si sottolineasse con forza una delle tendenze più gravi del suo tempo: il considerare la povera gente come carne da macello da sacrificare sull’altare dello sviluppo industriale. Era il 1905, quando quel pontefice pubblicò il suo Catechismo. Solo due anni dopo, a Casale Monferrato, veniva inaugurato il grande stabilimento della Eternit. Era una fabbrica che pareva un portento della modernità: produceva un materiale che costava poco e che si diceva fosse, appunto, «eterno», tanto era resistente la miscela di cemento e amianto che lo costituiva; e garantiva posti di lavoro praticamente a tutte le famiglie del paese. Posti di lavoro, per giunta, che sembravano garantire condizioni di vita e di salute molto meno pesanti di quelli tradizionali del Monferrato: i campi, le risaie, le cave.

Si sapeva già, in quel 1907, dell’inganno? Si sapeva che l’amianto uccideva? Forse sì e forse no. Sicuramente già c’era il dubbio: i primi studi sulla pericolosità dell’asbesto sono della fine dell’Ottocento. Ma quel che è sicuro, sicurissimo, è che dagli anni Cinquanta i dubbi erano diventati certezze. All’inizio degli anni Sessanta la comunità scientifica internazionale lanciò pubblicamente l’allarme: l’amianto provoca il mesotelioma pleurico, terribile cancro ancora oggi inguaribile; o altrimenti l’asbestosi, che non è un tumore ma riduce progressivamente la capacità respiratoria, fino a rendere la vita quasi impossibile.

Ma che cos’erano i mezzi di informazione negli anni Sessanta? Con quanta velocità circolavano le notizie, e soprattutto con quale capacità di penetrazione? Così i grandi produttori di Eternit poterono contare ancora sull’ignoranza della povera gente. Si è dovuti arrivare al 1992 perché l’amianto venisse proibito dallo Stato italiano.

Messi al bando nel mondo più ricco, i mercanti di amianto (possiamo chiamarli «mercanti di morte»?) hanno ora trovato nuove terre popolate da gente che non sa. Il Sudamerica, ma anche l’India. È in quelle terre, oggi, che la terribile polvere di amianto vola dalle fabbriche ai tetti ai campi e infine ai polmoni di uomini e donne che ignorano, e che proprio perché ignorano sono perfetti per assicurare profitti e sonni tranquilli a chi in sonno ha già messo, da un pezzo, la coscienza.

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« Risposta #35 inserito:: Luglio 20, 2011, 10:09:22 am »

18/7/2011

Incattiviti dai privilegi della casta

MICHELE BRAMBILLA

Due fatti curiosi hanno dominato - in mancanza di meglio - il dibattito politico domenicale.

Il primo è, anzi sono, le rivelazioni che un anonimo ex dipendente di Montecitorio ha pubblicato su Facebook. Per vendicarsi del licenziamento dopo quindici anni di contratti da precario, ha messo in piazza, ossia in rete, le furbate, gli imbroglietti, i trucchi meschini con cui i parlamentari si arrotondano lo stipendio, aggirano le code, gratificano gli amici e le amiche e così via.

Il secondo è l’eco dell’intervista che il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni ha concesso al Tg3 sabato sera, quando ha parlato di sacrifici e di necessità - da parte della politica - di dare «un segnale forte». Parole sacrosante, ma rese un po’ meno sacrosante dall’essere state pronunciate in diretta da Porto Cervo, dove l’abbronzatissimo governatore si mostrava agli italiani (freschi della legnata della manovra) attorniato da una piccola flotta di yacht. Vedendolo così, la giornalista che l’intervistava non ha potuto trattenersi dal salutarlo con un «buone vacanze».

Chiariamo subito che la demagogia non ci piace. Un politico ha il diritto di andare in vacanza. Quanto alle rivelazioni su Facebook, si potrebbe dire che la parola di un anonimo vale quello che vale, cioè zero (e infatti c’è già chi ipotizza che si tratti di una bufala); e che in quei piccoli espedienti - dall’uso della raccomandazione ad altre furbizie siamo maestri noi tutti, e non solo i politici.

Ma la vera notizia non sta né nelle vacanze di Formigoni né nello scempio denunciato dal precario licenziato. La vera notizia sta nella reazione che i due episodi hanno scatenato. L’anonimo di Facebook ha raggiunto in poche ore più di centomila «fan»; e, sempre sulla rete, s’è scaricato subito un diluvio di critiche, quando non di insulti, nei confronti del governatore che da Porto Cervo chiede sobrietà ai politici.

E’ il segno di un’insofferenza, quando non di un rancore, crescente. Gli italiani percepiscono sempre più i politici come - per usare la solita logora parola - una «casta» che si fa gli affari suoi, e che se li fa con impunità e senza vergogna. Ci sono certamente esagerazioni, in tanta rabbia che monta; così come ce ne sono sempre quando si generalizza. Tuttavia è impressionante vedere come i politici non sappiano comunicare altra immagine di sé. La discussione di questi giorni sull’autorizzazione all’arresto di Papa ne è un esempio, con Bossi che fiuta l’aria e dice sì all’arresto, salvo poi innescare la solita retromarcia. E ancora: il mancato taglio ai propri compensi e privilegi durante la manovra - denunciato anche dai giornali filogovernativi - è un altro pessimo segnale di distacco da quel che cova nel Paese.

Sono storie vecchie, già lette e sentite da anni. Non a caso, ogni volta che dobbiamo citare qualche esempio di politico specchiato e gentiluomo, ci tocca aprire i libri di storia: Einaudi, Nenni, De Gasperi. Il più vicino ai nostri giorni è Pertini, che era nato non uno ma due secoli fa.

Però questa volta fa specie un particolare. Questa classe politica che oggi la gente percepisce come una «casta» da mandare a casa al più presto, non è altro che l’espressione di quella «antipolitica» che al tempo di Mani Pulite aveva spazzato via un’altra casta: quella dei partiti. Si disse che finalmente nel Palazzo sarebbero entrati uomini e donne che venivano non da intrallazzi di corrente, ma da aziende, uffici, insomma dal mondo del lavoro. Gente concreta, che conosceva i problemi di tutti i giorni. Di uomini e donne di questo tipo era formata la prima leva di partiti come Forza Italia e la Lega, vale a dire l’ossatura dell’attuale governo.

Ora ci tocca rivedere contro questa nuova classe politica la stessa furia che abbatté la vecchia. Rispetto ad allora, non volano più le monetine solo perché nel frattempo hanno inventato il web. Ma c’è poco da stare tranquilli perché, sempre rispetto ad allora, c’è anche una crisi economica che ha aumentato, e non di poco, la disparità tra i vertici e la base. Siamo a un nuovo redde rationem? Chissà. Certo è che sono passati vent’anni da quando i politici di oggi sostituirono, quasi per acclamazione, quelli della Prima Repubblica. E vent’anni sono più o meno il periodo che di solito occorre agli italiani per cambiare idea e passare da piazza Venezia a piazzale Loreto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8991
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« Risposta #36 inserito:: Luglio 23, 2011, 07:09:03 pm »

Politica

23/07/2011 - DECENTRAMENTO: I DICASTERI IN «PADANIA»

Il giorno dei ministeri alla Villa Reale Ma nessuno lo sa

Il 13 luglio sono arrivati alla Villa Reale i primi arredi per gli uffici in cui avranno sede i dicasteri. I mobili sono stati prodotti a Scordia, nel catanese, nonostante la Brianza sia considerata "la capitale del mobile"

Monza ignora l'iniziativa: e le porte sono scrostate

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A MONZA

Questa mattina alla Villa Reale di Monza verranno inaugurati i tre ministeri che, come promesso da Bossi a Pontida, sono stati trasferiti al Nord. Sono quelli delle Riforme, della Semplificazione e dell’Economia. L’evento è storico, ma in città non pare di cogliere una fervente attesa.

Dei ministeri sembra non ne sappia niente nessuno. A quanto pare anche in Comune non si hanno molte notizie. Si dice che l’altro giorno ci sia stata una riunione di giunta piuttosto agitata, perché da Roma non sarebbe arrivato alcun protocollo dell’inaugurazione. Si sa solo che sarà alle 11 e mezza. Non è neanche chiaro dei tre ministri quanti e quali ci saranno.

L’altro ieri, tanto per vedere la fibrillazione che di solito accompagna i preparativi dell’ultimo momento, siamo andati alla Villa Reale. In effetti di gente che lavorava ce n’era parecchia. Ma dei ministeri nessuno sapeva niente. Gli operai erano lì a montare e smontare palco e seggiole per i concerti estivi programmati davanti all’ingresso dell’antica reggia. La nuova reggia - quella di Calderoli Bossi e Tremonti - è in una palazzina sul lato destro. Si chiama «la Cavallerizza», e lì un tempo c’erano gli appartamenti reali.

È una piccola palazzina, tanto che ci siamo sorpresi nel sapere che i tre ministeri sarebbero stati tutti lì dentro. Poi ci hanno addirittura spiegato che in realtà la Semplificazione, le Riforme e l’Economia avrebbero occupato solo il piano terra. «Sono centottanta metri quadrati», ci hanno detto. Ma su un autorevole giornale abbiamo letto che non sono più di cento. Per tagliare la testa al toro abbiamo telefonato al sindaco, il leghista Marco Mariani, l’uomo che a Pontida portò sul palco la targa del ministero alla Villa Reale di Monza. «Sinceramente - ci ha detto - non so di preciso quanti metri quadrati siano. Cento? Ma no, saranno almeno centocinquanta». Anche prendendo per buona la stima più generosa - centottanta - a ciascun ministro, anzi a ciascun ministero, non resterebbe che una sessantina di metri quadri. Un monolocale, in pratica. Forse è un segnale di austerità della politica.

Il fatto è che a Monza, nonostante quanto proclamato da Bossi alcune settimane fa, non saranno trasferiti dei ministeri; ma saranno aperti, come ci spiega ancora il sindaco Mariani, «uffici decentrati dei ministeri». E per aprirli non sembra che ci sia sprecati molto. I locali sono di proprietà del Demanio, e li ha ristrutturati la Sovrintendenza. Fino a qualche giorno fa ospitavano il Consorzio del Parco e della Villa Reale, che adesso deve sloggiare. All’ingresso non è ancora esposta alcuna targa: ieri abbiamo sbirciato dietro la porta e abbiamo visto che le targhe sono dentro, su tre cavalletti di legno, nella parte destra del corridoio. L’intonaco accanto alla porta è scrostato, la vetrata piuttosto modesta. Sono nuovi - assicurano - gli arredi, e questa è una buona notizia, anche se da queste parti ha creato qualche malumore il fatto che i mobili siano stati acquistati in provincia di Catania, e da là trasportati in camion la scorsa settimana. Uno schiaffo, se si pensa che il paese confinante con Monza, Lissone, è la capitale dei mobilieri. Dei nuovi uffici nessuno pare saper nulla. Lo sfrattato, e cioè il dottor Pietro Petraroia, direttore del Consorzio del Parco e della Villa Reale, ci dirotta dal ministero Calderoli: «Chiedete al suo capo di gabinetto». Anche il sindaco Mariani assicura di non essere del tutto al corrente: «Che cosa si farà in quegli uffici? Chi ci sarà? Chiedete a Bossi, Calderoli e Tremonti». Ma i tre ministri ci saranno oggi, all’inaugurazione? «Così mi hanno detto, ma dovete chiederlo a loro». E come mai non c’è neanche una targa all’ingresso? «La targa? Non lo so, se non c’è la metteranno».

Che cosa saranno dunque i ministeri a Monza? Partiti come sedi centrali, sono poi diventate sedi decentrate, ma il timore è che finiscano per l’essere quello che fu, ad esempio, il Parlamento del Nord a Bagnolo San Vito, in provincia di Mantova, negli anni Novanta: pura immagine. Simbolo, per non dire folclore. Come la dichiarazione di avvenuta secessione dopo il referendum dei gazebo; o il rito dell’ampolla.

Simbolica sembra anche la scelta della Villa Reale. Un luogo maestoso, ma anche e soprattutto un monumento al degrado, visto che è di fatto abbandonata dal 29 luglio del 1900, quando l’anarchico Gaetano Bresci uccise, proprio lì davanti, il re Umberto I. Da quel giorno i Savoia non vollero più sapere di venire a Monza e donarono la Villa ai Comuni di Monza e di Milano, che non seppero mai che farsene. Oggi la Villa è di proprietà del Consorzio, a sua volta di proprietà del Comune di Monza, della Regione e del Ministero dei Beni culturali. Il Consorzio si è assunto la titanica impresa di ristrutturarla e di utilizzarla, con il concorso di privati, per esposizioni, alta ristorazione, bar, convention. Ma per adesso la Villa (seicento stanze) è ancora quasi tutta inutilizzata e in più punti sembra cadere a pezzi.

Ma oggi ci sarà l’inaugurazione. Staremo a vedere. Anche perché lì a un passo, di fronte alla Cappella Espiatoria, i monarchici celebreranno (con sei giorni di anticipo) il centounesimo anniversario del regicidio.

Sarà una scena surreale: leghisti da un lato della strada e monarchici dall’altro. O forse sarà un segno dei tempi, visto l’ideale passaggio di consegne tra l’Umberto di allora e l’Umberto di oggi.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/412702/
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« Risposta #37 inserito:: Luglio 28, 2011, 05:33:28 pm »

Politica

28/07/2011 - IL CASO

E adesso anche tra i padani tutti scaricano le sedi a Monza

Il sindaco: "Pensate che io sia così importante da imporle?"

Anche gli industriali scettici

MICHELE BRAMBILLA
MONZA

Chi pensasse a una Monza preoccupata per la lettera del presidente Napolitano, si sbaglierebbe di grosso. Nessuno ha paura di perdere i ministeri per il semplice fatto che nessuno pensa che i ministeri ci siano davvero.

La cittadinanza pare comunque essersi divisa in due partiti: gli indignati e gli indifferenti. I primi sono quelli che sabato hanno protestato gridando che «la Villa Reale è di tutti»; perfino il consorzio che gestisce Parco e Villa è furibondo per essere stato messo di fronte al fatto compiuto. I secondi, gli indifferenti, sono la stragrande maggioranza dei cittadini.

Per dire: tra gli indifferenti c’è anche la famosa «parte produttiva del Paese», la categoria che a sentire Bossi aveva più di ogni altra necessità di questo decentramento. La reazione degli imprenditori è stata talmente fredda che all’inaugurazione l’Associazione Industriali di Monza e Brianza (la più antica d’Italia) non è neppure stata invitata. «Sicuramente - ci dice il presidente degli industriali di Monza, Renato Cerioli - c’è stato un problema di informazione. Questi uffici non si capisce cosa siano e a cosa servano. Per questo la loro apertura è stata accolta con diffidenza dagli imprenditori. Per ora c’è il timore che servano solo ad aumentare la spesa pubblica, in un periodo in cui ci sarebbe da tagliare».

Ma allora chi li ha voluti questi uffici a Monza? A Roma qualche parlamentare di centrodestra cerca di prendere le distanze e insinua: è un’iniziativa della Lega per aiutare il suo sindaco, Marco Mariani, in vista delle elezioni comunali dell’anno prossimo. Mariani sorride: «Ma davvero voi pensate che io sia così importante? Così potente da convincere il Consiglio dei ministri a emanare un decreto con il quale apre a Monza gli uffici di tre ministeri? Andiamo... Oltretutto faccio presente che sabato i ministri presenti erano quattro, e due - Tremonti e la Brambilla - sono del Pdl, non della Lega».

La lettera del Capo dello Stato non inquieta il sindaco Mariani. «Il Presidente ha tutto il sacrosanto diritto di chiedere spiegazioni. Ma mi sento di tranquillizzarlo perché non c’è stato un trasferimento di ministeri, bensì la semplice apertura di uffici distaccati. Come mi risulta ce ne siano altri: La Russa non ha forse detto che ne ha uno a Milano?». Il sindaco prende ad esempio Paesi come la Francia («Lo Stato centralista per eccellenza») e la Gran Bretagna «che da tempo hanno uffici decentrati sul territorio» e nega il pericolo di un effetto contagio: «Ma va! Non è che ciascuno adesso possa aprire una sede dove vuole. È una cosa controllata dal Consiglio dei ministri!».

Eppure l’effetto contagio è proprio quello che preoccupa Napolitano. «Il Presidente ha ragione - dice Giuseppe Civati, monzese, consigliere regionale e ormai uno dei volti nuovi del Pd a livello nazionale -. Ci sono già le prime autocandidature: Milano vuole il ministero del Lavoro, a Bologna chiedono l’Istruzione, a Catanzaro sono pronti per il Turismo... Anche Cota a Torino e Gobbo a Venezia ne reclamano qualcuno, mentre a Parma per il momento si accontenterebbero di un’agenzia». Secondo Civati questa storia «è al tempo stesso una farsa e un dramma». E spiega: «Una farsa perché non si capisce a che cosa possa servire uno sportello sul territorio per la Semplificazione e le Riforme: se lo vede un cittadino che entra e chiede due etti di federalismo? E un dramma per come è ridotto il senso dello Stato».

Difficile, se non impossibile, trovare a Monza entusiasti convinti. Il presidente della Provincia Dario Allevi, Pdl, non nasconde le ragioni dei perplessi: «In effetti l’inaugurazione è stata organizzata un po’ troppo in fretta, lasciando spazio a diversi dubbi e interrogativi. Ora spetta ai ministri dare un senso a questi uffici decentrati. Se saranno davvero uno sportello utile ai cittadini, benissimo. Altrimenti resteranno una cornice senza contenuti».

E per dare un’idea di quanto a Monza siano caldi sulla questione, così ci ha risposto il sindaco quando gli abbiamo chiesto se gli uffici inaugurati sabato fossero già chiusi: «Credo di sì. Ma non dipende da me...». Per la cronaca: sono già chiusi. Riapriranno a settembre. Forse.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/413385/
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« Risposta #38 inserito:: Agosto 03, 2011, 04:25:19 pm »

30/7/2011

La fiducia smarrita

MICHELE BRAMBILLA


Quella di Giulio Tremonti sembra, a prima vista, solo l’ennesima disavventura di un politico finito nel tritacarne delle inchieste della magistratura e dei mass media. Una situazione che ormai in Italia è routine, a causa dello scontro tra i due «partiti» più attivi nel Paese: il partito cosiddetto giustizialista e il partito cosiddetto garantista. Il primo è animato da una visione ultra giacobina del mondo (prima ancora che della politica) e pretende da ogni essere umano una condizione simile a quella dell’Immacolata Concezione. Il secondo – non facendo mai alcuna distinzione tra peccati veniali e peccati mortali, ad esempio tra una corruzione e un affitto, o tra una tangente e una multa – mira a sostenere la tesi autoassolutoria del «tutti colpevoli e quindi tutti innocenti».

Sia i primi sia secondi hanno interesse a passare ai raggi x ogni minimo aspetto della vita, pubblica e privata, dei rivali. Per questo la «macchina del fango», per usare un’espressione ormai condivisa da destra e sinistra, è sempre in azione. Tuttavia, ci mancherebbe altro se la magistratura – e in diverso modo i cittadini – non potessero e dovessero chiedere conto ai politici della loro condotta, soprattutto quando c’è il sospetto di irregolarità.
E dunque è sacrosanto che anche il ministro dell’Economia sia chiamato a chiarire, come sta cercando di fare in questi giorni.

Fino a questo punto, insomma, il «caso Tremonti» avrebbe tutte le caratteristiche per essere catalogato come l’ennesimo capitolo del tormentone politico giudiziario cominciato nel 1992. Ma dicevamo che questa storia è così «solo a prima vista».

C’è infatti qualcosa di ben più inquietante delle «solite» storie di mazzette o di nero. Nella sua autodifesa Tremonti ha detto una cosa che ci ha lasciati di sale. Nella lettera al Corriere delle sera, nella quale ha cercato di assicurare di aver commesso errori ma non reati, il ministro ha detto che scelse la casa di Milanese per una questione di «privacy»; e nel colloquio con Massimo Giannini di Repubblica ha precisato lasciandosi scappare (facciamo finta che gli sia scappata) la «bomba». Ha detto che se ha preferito pagare di tasca sua un affitto piuttosto che alloggiare alla caserma della Guardia di Finanza, è perché là, dalle Fiamme gialle, non era più tranquillo: «Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso perfino pedinato». Ma da chi, e per conto di chi? Alla magistratura Tremonti aveva parlato di strane «cordate» e riferito di aver ammonito Berlusconi, ai primi di giugno, quasi prevedesse una campagna di stampa contro di lui: «Non accetterò che si usi contro di me il metodo Boffo».

Tremonti sta disperatamente cercando di giustificare la casa messagli a disposizione da Milanese? Oppure davvero alla Guardia di Finanza lo spiavano? Quale che sia la verità, c’è da restarne sconvolti.
Caso uno: Tremonti mente. Vuol dire che abbiamo un ministro che getta ingiustamente discredito su un corpo dello Stato e, indirettamente, sul suo presidente del Consiglio.

Caso due: Tremonti dice la verità. E allora vorrebbe dire che le istituzioni dello Stato sono lacerate da una guerra tra bande, che un ministro non può fidarsi neppure di un corpo di cui, peraltro, egli stesso ha per legge il controllo. Le caserme sono da sempre i luoghi più sicuri per i servitori dello Stato: rifugi per le più alte cariche istituzionali, e dimore dei magistrati in prima linea contro mafia e terrorismo. Certo ciascuno aveva le proprie preferenze: è noto ad esempio che Cossiga preferiva i carabinieri alla polizia. Ma non s’è mai sentito un uomo di governo che paga un affitto di tasca sua perché si sente in pericolo in una caserma.

In entrambi i casi è evidente che è in corso una faida tra istituzioni fatta a suon di colpi bassi. In entrambi i casi è evidente che tutto sia ormai fuori controllo, se un ministro che si sente spiato (o che dice di sentirsi spiato) non è in grado neppure di sostituire i vertici di un corpo che cade sotto la sua competenza. In entrambi i casi è lecito per noi porsi una domanda: ma da chi siamo governati?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9036
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 13, 2011, 11:18:35 am »

13/8/2011

La sconfitta del Cavaliere

MICHELE BRAMBILLA

Non sappiamo se il decreto di ieri sera sia l’ultimo atto del Berlusconi politico: è probabile che non lo sarà, visto che l’uomo ha già dimostrato più volte una straordinaria capacità nel seppellire i suoi aspiranti becchini.

Ma a proposito di funerali, non c’è dubbio che ieri ne sia stato celebrato uno, e che l’officiante e il defunto siano singolarmente la medesima persona: Silvio Berlusconi, appunto.
Non tanto il Berlusconi di oggi, che come abbiamo detto in qualche modo se la caverà ancora per un po’: ma il Berlusconi del ’94, quello della discesa in campo, quello del meno tasse per tutti, del più società e meno Stato, del basta con la politica politicante, del basta con le mani dello Stato nelle tasche dei cittadini, quello della rivoluzione liberale, del nuovo Rinascimento italiano.

Non pensi il lettore che queste siano parole di un accanito anti-berlusconiano. Al contrario, immagini per ipotesi che a pronunciarle sia un elettore di Berlusconi. Mi metto nei panni, infatti, di uno di quei tanti italiani che hanno sperato che l’imprenditore Silvio Berlusconi avrebbe finalmente impresso una svolta a un Paese rallentato, quando non paralizzato, dalla vecchia partitocrazia. Ci ha sperato nel ’94, il giorno in cui il nostro connazionale più vincente del momento si presentò in tv dicendo «l’Italia è il Paese che amo». Ri-sperato nel 2001, quando a Berlusconi venne concessa una prova d’appello nella convinzione che poteri ostili – la stampa, la magistratura, la finanza dei salotti buoni – gli avevano impedito di governare sette anni prima. Ri-ri-sperato nel 2008, quando il fallimento di una coalizione troppo eterogenea (quella guidata da Prodi) aveva indotto tanti elettori a consegnare nelle mani di Berlusconi una disperata delega in bianco.

Che cosa deve pensare oggi questo elettore di centrodestra? Da quella discesa in campo sono passati diciassette anni, di cui dieci con Berlusconi presidente del Consiglio, e: 1) le tasse non sono mai state alte come adesso; 2) la presenza dello Stato non è mai stata invadente come adesso; 3) le piccole e medie imprese, cioè il mondo più antropologicamente berlusconiano, non sono mai state in sofferenza come adesso; 4) non ci saranno più le correnti dei vecchi tempi democristiani, ma in confronto alla maggioranza di oggi la Dc di allora appare unita come un partito comunista della Bulgaria.

Intendiamoci bene. Sarebbe ingiusto dare a Berlusconi tutte le colpe di uno scenario tanto tetro. La crisi è mondiale. Questo governo ci ha messo del suo per aggravarla: ma è mondiale.
Però Berlusconi con la manovra di ieri ha perso una grandissima occasione, l’ennesima, per mostrare quella diversità che aveva promesso agli italiani entrando in politica.

Le sue misure sono quelle della vecchia politica. L’imposta di solidarietà non colpisce affatto i «super-ricchi», come qualche sciagurato ha detto: colpisce il ceto medio, ma soprattutto colpisce quel ceto medio costretto all’onestà dall’essere lavoratore dipendente. Lascia invece nella loro arrogante impunità i veri super-ricchi, che sono coloro ai quali questo sistema permette e permetterà ancora di evadere mantenendo la coscienza in un sonno beato. Sempre ipotizzando che chi scrive sia un elettore di Berlusconi, mi chiedo se non debba sentirsi deluso da un centrodestra che si è tanto riempito la bocca con i valori della famiglia e della Chiesa (la quale, purtroppo, ha permesso che se la riempisse). Mi chiedo insomma perché un lavoratore del ceto medio con una famiglia numerosa non abbia alcuno sgravio fiscale, quando in Francia chi ha quattro figli non paga neppure un centesimo di quella che per noi è l’Irpef.

Quanto ai tagli dei costi della politica, il premier e il suo governo sono stati addirittura beffardi. Ne hanno annunciato per 8,5 miliardi di euro. Ma poi, quando li hanno illustrati agli enti locali, s’è visto che non sono tagli alla casta, ma ai servizi, e quindi ai cittadini.
Ancora una volta insomma a dare l’oro alla Patria saranno i soliti tartassati. Si dirà – forse sarà lui stesso a dirlo – che Berlusconi poverino, non l’hanno lasciato governare. Che c’è sempre qualcuno che gli impone una linea che non è la sua. E’ un vecchio ritornello che non funziona più. Anche se così fosse, infatti, nulla toglierebbe alla sconfitta personale di un uomo che aveva promesso decisionismo ed efficienza, che doveva far funzionare il consiglio dei ministri come i suoi consigli di amministrazione e il Paese come una delle sue aziende.

L’altro ieri Tremonti, aprendo il suo incontro con i colleghi parlamentari, aveva detto che siamo di fronte a un caso di eterogenesi dei fini. Si riferiva ad altro. Ma nulla è più «eterogenesi dei fini» dell’avventura politica di un uomo che comincia annunciando la riduzione delle tasse e finisce aumentandole; che comincia mostrando come modello il successo delle sue aziende e finisce con l’Italia sull’orlo del fallimento.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9090
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 28, 2011, 05:05:17 pm »

28/8/2011

Cosa si aspetta da Pisapia

MICHELE BRAMBILLA

Da anni di fronte al centrodestra e al cosiddetto berlusconismo la sinistra cerca di esibire non tanto idee diverse ma facce diverse. O se preferite delle mani diverse, come quelle che Enrico Berlinguer mostrò a una tribuna politica assicurando che le mani del Pci erano pulite. Più che dire «le nostre idee sono migliori», da tempo la sinistra dice «noi siamo migliori».

Sui programmi, sulla visione dello Stato e del mondo, non ci sono più da un pezzo grandi differenze tra destra e sinistra, che neppure sulle tasse riescono a distinguersi. La vera contrapposizione è sulla questione morale. La sinistra ha attaccato e attacca il centrodestra soprattutto su vicende che hanno a che fare con la coscienza individuale prima ancora che con la teoria politica: i conflitti di interessi del premier, le leggi ad personam per evitare i processi, le feste di Casoria, le D’Addario, i bunga bunga, le igieniste dentali imposte in Consiglio regionale, le nipoti di Mubarak, le case a propria insaputa, le conversioni alla Scilipoti. Di fronte a certi spettacoli e a certi figuri, la sinistra ha cercato di presentarsi al Paese come un’alternativa innanzitutto umana: noi siamo diversi, siamo più onesti, perfino più colti e meno cafoni. E così la partita si gioca ormai da anni, più che su un piano politico, su un piano antropologico.

Ma proprio ora che Berlusconi sembra, per tanti motivi, non lontano dall’epilogo, questa strategia della «superiorità antropologica» rischia di rivelarsi una trappola. Guai ad autodefinirsi migliori, e soprattutto guai a pretendersi immuni dal peccato originale. Può sempre capitare un caso come quello di Filippo Penati, finito al centro di un’inchiesta per tangenti. Penati, Pd, ex sindaco di Sesto San Giovanni ed ex presidente della Provincia di Milano, è accusato di avere preso tangenti. E’ colpevole? Non lo sappiamo e gli auguriamo di no. Ma quel che sta uscendo in questi giorni fa quasi passare in secondo piano la sua colpevolezza o innocenza. Perché è un qualcosa che sta incrinando proprio quell’immagine di diversità antropologica che il Pd vanta come credenziale numero uno.

E’ la gestione di tutta questa storia a cozzare contro quell’ostentazione di diversità. Intanto tutto sta succedendo a Milano, e Milano è stata nei mesi scorsi l’icona del cambiamento. La vittoria della sinistra, salutata da piazze piene e colorate di arancione, ha fatto sperare a molti che l’ora della svolta fosse vicina per tutto il Paese. Ora leggiamo nelle carte dei magistrati che il giorno stesso della vittoria di Pisapia c’era già qualcuno che cercava di approfittarne: «Ciao Filippo, considerata com’è andata a Milano, credo che si possa risolvere la questione di Piero (Piero Di Caterina, uno degli imprenditori coinvolti nell’inchiesta, ndr) prima che si vada oltre certi limiti e si degeneri». Così era scritto in un sms inviato a Penati da uno dei suoi collaboratori, il quale evidentemente pensava di risolvere tutto con qualche commessa pubblica da parte della nuova amministrazione del Comune di Milano. Il peggio della vecchia politica.

Poi c’è lui, Penati, che si autosospende dal partito ma resta in Consiglio regionale. Poi c’è la tentazione di lasciare che la prescrizione copra tutto, dimenticandosi di quante volte si è accusato Berlusconi di averla fatta franca grazie alla prescrizione. Poi c’è un Bersani prima tentennante e poi morbido, che quasi plaude Penati per aver fatto un passo indietro. Sbaglieremo, ma c’è la tentazione di scaricare Penati come Craxi cercò di scaricare Mario Chiesa dandogli del mariuolo finito chissà come nel partito. Ma Penati – già capo della segreteria politica di Bersani – sta al Pd molto più di quanto Chiesa stesse al Psi.

Il caso Penati è insomma molto più che un processo per tangenti. Lui rischia una condanna per corruzione. Ma il Pd, se non si mostra credibile nella pretesa diversità, rischia la sua stessa ragione sociale. E Giuliano Pisapia, divenuto sindaco anche contro il Pd che gli aveva preferito un altro candidato, se vuol mantenere l’appoggio di tutti quei milanesi che da lui si aspettano pulizia e trasparenza, deve dimostrare subito di poter tagliare i ponti con la lobby delle tangenti, fin dagli anni di tangentopoli trasversale nella sinistra milanese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9135
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« Risposta #41 inserito:: Settembre 14, 2011, 11:56:13 am »

News

14/09/2011 - intervista

La Gelmini attacca: "Basta falsità la mia non è solo la scuola dei tagli"

Come ogni anno, il ministro Mariastella Gelmini è al centro delle polemiche "Ma sulla scuola - accusa - si fa troppa disinformazione"

Il ministro: i risparmi indispensabili per abbattere sprechi e organici gonfiati. Ora va superata la logica dell’anzianità: più soldi ai docenti più bravi

MICHELE BRAMBILLA
Milano

Il piglio è quello dell’ «adesso parlo io». Sono giorni che gliene dicono di tutti i colori, o che ne dicono di tutti i colori sulla scuola, che per lei è la stessa cosa. E così Mariastella Gelmini ha una gran voglia di replicare a quella che ritiene un’opera di disinformazione. «Sembra che la scuola sia partita nel caos - dice - e che il governo abbia pensato a fare una sola cosa: tagliare».

E lei naturalmente dice che non è così.
«È ovvio che far partire una “macchina” con un milione di addetti e otto milioni di studenti non è semplice. Ma la verità è che lunedì l’anno scolastico è cominciato regolarmente. E mi permetta di aggiungere: è partito regolarmente anche grazie a uno sforzo eccezionale della pubblica amministrazione».

Perché eccezionale?

«Perché quest’anno ci sono stati 67.000 nuovi ingressi tra insegnanti e personale amministrativo. Lei immagina che cosa vuol dire assegnare una sede a ciascuno di questi 67.000, convocare tutti i vincitori dei concorsi, prendere atto delle rinunce eccetera eccetera, e tutto questo in poco più di un mese? Gli uffici centrali e periferici della scuola hanno fatto un lavoro straordinario di cui non parla nessuno».

Ma la contestazione che vien fatta è un’altra, signor ministro. Non crede che dopo tanti tagli sia a rischio la qualità della didattica?
«Credo che la crisi che stiamo vivendo sia drammatica, e che sacrifici siano stati imposti a tutti i settori, non solo alla scuola. Ma, detto questo, si leggono autentiche leggende metropolitane».

Ad esempio?

«La storia delle classi pollaio. Sembra che in Italia ci siano solo classi con più di trenta alunni! Sa quante sono, in realtà, le classi con più di trenta alunni? 2.108 su 350.000, lo 0,6 per cento».

Non è che le altre classi sono a quota 29, o giù di lì?

«Proprio oggi l’Ocse ha diffuso il suo rapporto sulla scuola, e sa che cosa dice? Che la media Ocse è di 23 alunni per classe, e la media italiana di 22. Io capisco le critiche politiche, ma ci sono dati che non possono essere ribaltati».

Il rapporto che lei cita, però, dice anche che in Italia per l’istruzione si investe il 4,8 per cento del Pil, mentre la media Ocse è del 5,9; quella di Stati Uniti, Norvegia e Corea è superiore al 7 per cento.
«È vero, ma il rapporto dice anche che in Italia, a differenza degli altri Paesi che hanno una percentuale di Pil superiore, nella scuola ci sono pochissimi investimenti privati. Per questa carenza l’Ocse ci rimprovera, e ha ragione. Ma guai a parlare, in Italia, di investimenti privati nella scuola! C’è una resistenza ideologica fortissima».

Torniamo alle critiche di questo inizio d’anno. Gli insegnanti di sostegno?
«Altra leggenda nera. Dicono che li abbiamo ridotti. Rispondo solo con un dato: quest’anno sono 94.430, il numero più alto nella storia della scuola italiana. Non c’è altro da aggiungere, credo».

I precari?
«Sono calati di sette punti percentuali».

La riduzione delle ore di lezione?
«Alle superiori le abbiamo ridotte perché le ricerche hanno certificato che erano troppe, e che oltre un certo limite cala la soglia di attenzione degli studenti. Se poi facciamo un discorso generale, le leggo un’altra frase testuale del rapporto Ocse: “Gli studenti italiani beneficiano di classi relativamente meno numerose e di tempi di istruzione più lunghi”. In Italia gli studenti dai 7 ai 14 anni fanno 8.316 ore di lezione; la media Ocse è di 6.739 ore».

Ma perché sono calate le ore di storia dell’arte?
«Anche questa è disinformazione, mi creda. Sono rimaste invariate nelle medie e nei licei umanistici, e calate solo negli istituti tecnici perché l’indirizzo di quelle scuole dev’essere un altro. E comunque siamo sopra la media Ocse».

E il fatto che non ci siano più soldi per i servizi? Che molte scuole debbano chiedere alle famiglie un contributo volontario?
«Le cosiddette spese di funzionamento erano state ridotte negli anni scorsi, perché il precedente governo aveva voluto salvare certi organici gonfiati, così mancavano i soldi per la gestione ordinaria. Ma ormai da due anni siamo tornati agli stanziamenti di prima del 2007, quindi a cifre superiori ai settecento milioni di euro. Chi chiede un contributo alle famiglie, lo fa per attività particolari, non per la gestione ordinaria».

Torniamo all’Ocse. Dice che per l’università la spesa pro capite è molto più bassa della media europea.
«Sì, ma l’abbiamo aumentata di otto punti. All’università c’erano molti sprechi, li abbiamo eliminati e ora molti atenei stanno migliorando i loro bilanci. La strada è ancora lunga ma l’abbiamo imboccata nel senso giusto».

Perché gli insegnanti italiani guadagnano meno che nel resto d’Europa?
«Perché sono i primi a pagare le scelte degli anni scorsi, e cioè l’aumento indiscriminato di ore e di cattedre per fare della scuola un ammortizzatore sociale. Noi ora, grazie ai risparmi, abbiamo recuperato gli scatti di anzianità.Ma la nostra sfida è quella di superare la logica dell’anzianità e di premiare il merito, perché non è giusto che tutti gli insegnanti guadagnino lo stesso stipendio. Non sarà facile cambiare, in un sistema ingessato come quello della scuola: ma non c’è altra via».

Che cosa l’amareggia di più in questi giorni?
«Certo vorrei che si parlasse anche delle tante novità positive introdotte dalla riforma, degli investimenti per le nuove tecnologie, dei nuovi indirizzi delle superiori che stanno avendo molto seguito... Ma la cosa più triste è che si alimenta nelle famiglie l’illusione che si possa tornare alla scuola di prima, quella che dava l’impressione di essere ricca ma spendeva tanto e male. Quella scuola non tornerà, perché anche se cambiasse il governo, chi verrà dopo di me dovrà fare i conti con questa realtà».

da - http://www3.lastampa.it/scuola/sezioni/news/articolo/lstp/420101/
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« Risposta #42 inserito:: Settembre 19, 2011, 12:07:39 pm »

Politica

19/09/2011 - NERVOSISMO NELLA LEGA

Il crepuscolo leghista fra bugie, liti intestine e attacchi ai giornali

E il Senatùr non trova più le parole per ammaliare la sua "gente"

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A VENEZIA

Forse se ne sono accorti in pochi, ma appena Bossi ha finito il comizio Roberto Cota, che era lì sul palco accanto a lui, l’ha toccato quasi di nascosto per attirare la sua attenzione e gli ha fatto il gesto del pugno. Il pugno, fai il pugno» gli ha probabilmente sussurrato. E allora il Senatur ha alzato il braccio buono e ha agitato il pugno alla piccola folla che stava lì davanti, e che ha ricambiato con un «Bos-si Bos-si», il vecchio coro che ci favella del tempo che fu, per usare le parole di un altro coro, quel «Va’ pensiero» che la Lega ha scippato al Risorgimento. In quel tenero suggerimento del governatore del Piemonte c’è molto dell’aria crepuscolare che ha accompagnato ieri la festa dei popoli padani. Il capo vecchio, stanco e bisognoso d’essere imbeccato; le patetiche bugie («Siamo in cinquantamila»); il timore di contestazioni interne; la percezione che «il tempo è scaduto», com’era scritto sul cartello di un manifestante in prima fila.

I leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che i giornalisti non capiscono né la Lega, né la gente del Nord. Per molto tempo è stato così. Ma il tempo è scaduto anche per queste recriminazioni, e i continui attacchi dal palco ai giornalisti - alcuni indicati con il dito, altri resi identificabili in tutti i modi - hanno suscitato nei cronisti più compassione che indignazione, perché quando un partito dà la colpa di tutto alla stampa, è come quando un allenatore dà la colpa agli arbitri. Non è per un pregiudizio che diciamo che quello di ieri è stato un triste spettacolo, anzi uno spettacolo triste, che è peggio. La Lega - piaccia o no - è fra i partiti italiani quello che ha da tempo il progetto politico più forte: il federalismo, e poi magari la secessione, comunque la rivendicazione di più potere e autonomia per una parte del Paese.

Proprio per questo fa tristezza vedere il fondatore, e ancora di più la sua ristretta corte, incapaci di sottomettere a quel progetto una questione familiare. Bossi che indica nel figlio Renzo - per il quale s’è addirittura inventato una laurea in Economia a Londra - il proprio successore, è uno spettacolo triste e ahimè caro Bossi, tanto italiano. È uno spettacolo triste anche il cercare di agitare la folla parlando o meglio sbraitando come se si fosse un partito d’opposizione, e non uno che negli ultimi dieci anni è stato al governo per più di otto. Rosi Mauro, furibonda perché nel partito (non sui giornali: nel partito, anche se senza uscire allo scoperto) la chiamano «la badante», ha urlato contro le tasse, la cassa integrazione e «la nostra gente» che perde i posti di lavoro. Di chi la colpa di tutto questo? Dell’opposizione? O dei giornali?

Ma sì: i giornali. Calderoli comincia il suo intervento così: «Hanno scritto che la Lega è spaccata. Sapete che cosa c’è di spaccato?
I coglioni! I giornalisti ci hanno spaccato i coglioni». Poco dopo fa il gesto dell’ombrello, più avanti dice che «senza Bossi noi non saremmo un cazzo», perché questo è oggi il bon ton di un ministro. Ma quello che fa più tristezza è l’ostentazione di una verità virtuale. Rosi Mauro strappa applausi quando grida che «grazie alla Lega non hanno alzato l’età pensionabile delle donne», e c’è da chiedersi se chi applaude sappia o no che l’età pensionabile, dal governo di cui la Lega fa parte, è stata invece alzata; poi ne strappa altri sbandierando i «contratti territoriali, un’iniziativa della Lega grazie alla quale gli stipendi al Nord adesso sono più alti», e c’è da chiedersi quale film stiano vedendo quelli che applaudono. Chi ha parlato ieri dal palco di Riva Martiri evidentemente è convinto di avere di fronte un popolo disposto a credere a tutto.

Tornando a Calderoli, come spiegare l’incredibile discorso di ieri? È partito attaccando i giornalisti perché si sono inventati spaccature nella Lega, poi si è scagliato con durezza mai vista contro gli oppositori interni - «quattro sfigatelli» - e soprattutto contro i sindaci di Verona Flavio Tosi e di Varese Attilio Fontana, mai nominati ma evocati più che chiaramente. Le spaccature interne sono un’invenzione dei giornalisti? Sarà, ma la Lega ieri ha fatto di tutto per renderle palesi. Non hanno fatto parlare i capigruppi della Camera (Reguzzoni) e del Senato (Bricolo) per paura che venissero fischiati. E non hanno fatto parlare Tosi per paura che venisse applaudito. Roberto Maroni, quando è venuto il suo turno, ha detto che di spaccature non ce n’è e molto democristianamente ha chiamato accanto a sé e abbracciato Calderoli (chissà quanto hanno gradito i maroniani Tosi e Fontana, da Calderoli appena presi a male parole). Anche il rito dell’ampolla, cioè il momento finale della festa, ha confermato che la spaccatura non è solo nella testa dei «giornalai»: accanto a Bossi c’era tutto il cosiddetto «cerchio magico» (il figlio, Rosi Mauro, Reguzzoni, Bricolo più il fido Calderoli) ma di Maroni e dei suoi nemmeno l’ombra.

Dicevamo che l’impressione è quella di un gruppo dirigente convinto che i propri elettori e militanti siano disposti a credere sempre a tutto. Ma è così? Finché si tratta di dare del pirla ai giornalisti, non c’è problema. Non ce n’è nemmeno quando Bossi dice che in Italia è tornato il fascismo perché non c’è più libertà di esprimersi e di manifestare, e lo dice proprio lui che ha appena chiesto il licenziamento del direttore di «Panorama» per un articolo sgradito. Ma su tutto il resto, fino a quando gli crederanno? Ieri i militanti erano pochi ma uniti nell’esprimere un solo concetto: non ne possiamo più. C’era un cartello con una spina staccata, ce n’era uno con scritto «basta tasse» e soprattutto ce n’erano tanti con scritto «secessione». Quando Bossi parlava, un solo coro lo interrompeva a tempi regolari: «secessione-secessione». E lui ha dato l’impressione di non sapere che cosa rispondere, di limitarsi a prendere tempo. Ha detto che sì, prima o poi «la faremo finita», ma che comunque bisogna trovare «una via democratica alla secessione». Poi per cercare di tenersi buoni questi impazienti militanti stanchi di promesse, ha chiuso gettando in mare, oltre che l’acqua del Po, quella del Piave; e ha aggiunto che sul Piave gli alpini avrebbero dovuto voltarsi e sparare dall’altra parte. E anche questa battuta, che un tempo avrebbe generato indignazione, oggi genera più che altro tristezza.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/420804/
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« Risposta #43 inserito:: Settembre 22, 2011, 04:06:48 pm »

22/9/2011

Un pesante distacco dalla realtà

MICHELE BRAMBILLA

Di che cosa si parla in questi giorni in Italia? Ascoltando i discorsi della gente comune, non solo degli imprenditori, ma anche dei semplici dipendenti o di chi si incontra al bar o al supermercato, diremmo che non ci sono dubbi sull’argomento più gettonato. Più che un argomento è una domanda: quanto durerà questo governo?

Dalle inchieste dei magistrati emergono comportamenti incredibili da parte di chi è incaricato di guidare il Paese; e già questo è un fatto che fa chiedere a molti che cos’altro debba ancora succedere. Ma poi, soprattutto, c’è una crisi economica senza precedenti. Quando mai s’è sentito parlare di un possibile fallimento dell’Italia? Saranno anche paure esagerate, ma molti italiani si sono precipitati in banca per vendere i propri titoli di Stato nel timore che possano non essere rimborsati.

Anche dall’estero si guarda all’Italia come a un Paese sull’orlo del baratro e quindi bisognoso di una svolta. L’Europa ci ha appena imposto un manovra di cui il nostro governo, se non altro per un bieco calcolo di consensi elettorali, avrebbe volentieri fatto a meno. Standard and Poor’s dopo aver declassato l’Italia ieri ha declassato sette nostre banche.

I grandi giornali di mezzo mondo ci chiedono che cosa aspettiamo a darci una mossa, per mossa intendendo il cambiamento della guida politica.

E questa è oggettivamente la richiesta che viene da grandissima parte del Paese. Non solo del Paese politicamente schierato, quello in servizio antiberlusconiano effettivo e permanente: ma anche di quel mondo che in Berlusconi ha sperato, più o meno convintamente. Da Confindustria a quegli imprenditori del Nord che, come ha raccontato Marco Alfieri in un reportage su questo giornale, per Berlusconi avevano messo anche la faccia, e che ora non ne possono più. Insomma: giusta o sbagliata che sia, sale la richiesta di un cambio di passo. Per essere più espliciti, di una nuova guida politica. Che è tutta da studiare, e che non è detto che debba comportare un ribaltone parlamentare con un cambio di maggioranza: ma che dia il segno tangibile di una novità, di un taglio netto con una gestione politica che ci ha portati sull’orlo del fallimento.

Tutti dunque ne parlano. Tutti tranne chi dovrebbe per primo porsi il problema. Ieri Berlusconi è salito al Quirinale e qualche povero illuso aveva messo in giro la voce che, di fronte al Capo dello Stato, il premier avrebbe affrontato il discorso su un suo possibile passo indietro. Ma lasciando il Colle il premier ha assicurato che l’argomento non è neppure stato sfiorato. E uno dei suoi uomini, il ministro Giancarlo Galan, l’ha liquidata così: «Ho parlato con Berlusconi e mi ha detto che posso rassicurare gli italiani: il Presidente della Repubblica non si è dimesso». Quanto a Bossi, le sue parole sono state le seguenti: «Il governo va avanti? Penso di sì. Non so cosa sia andato a fare Berlusconi dal presidente Napolitano».

Temiamo di saperlo noi. Al Capo dello Stato che gli riportava le preoccupazioni sue, del Paese intero e di mezzo mondo, il premier pare abbia risposto di stare tranquillo, che le cose vanno bene, che è tutta colpa degli speculatori stranieri, che non bisogna dare retta ai giornali, che le inchieste della magistratura lo rinvigoriscono e che presto tirerà fuori dal cappello un piano per lo sviluppo che farà ripartire l’economia.

Viene in mente il titolo di un film di una decina di anni fa: «Fuori dal mondo». Solo che quel film parlava dell’estraniarsi volontario, dal mondo, di una suora di clausura. Mentre qui fuori dal mondo ci sono ahimè coloro che il mondo dovrebbero guidarlo. Le battute di Galan, gli sproloqui di Bossi e il Berlusconi che annuncia l’arma segreta danno l’idea di una classe dirigente ormai totalmente staccata dalla realtà.

Ieri abbiamo letto un pezzo della prefazione che Giulio Andreotti ha scritto a un libro sulla storia della Dc. Rievocando i tempi del dopoguerra, della Costituzione e della ricostruzione, Andreotti ricorda che non solo la Dc, ma anche gli altri partiti fissavano sempre, prima di ogni iniziativa politica, un obiettivo a lungo termine, un progetto per il Paese futuro. Saranno anche nostalgie del passato. Ma la miopia di chi ha preso il posto di quei politici fa di tutto per alimentarle.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9228
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« Risposta #44 inserito:: Settembre 22, 2011, 04:55:21 pm »

Politica

19/09/2011 - NERVOSISMO NELLA LEGA

Il crepuscolo leghista fra bugie, liti intestine e attacchi ai giornali
E il Senatùr non trova più le parole per ammaliare la sua "gente"

MICHELE BRAMBILLA

INVIATO A VENEZIA
Forse se ne sono accorti in pochi, ma appena Bossi ha finito il comizio Roberto Cota, che era lì sul palco accanto a lui, l’ha toccato quasi di nascosto per attirare la sua attenzione e gli ha fatto il gesto del pugno. Il pugno, fai il pugno» gli ha probabilmente sussurrato. E allora il Senatur ha alzato il braccio buono e ha agitato il pugno alla piccola folla che stava lì davanti, e che ha ricambiato con un «Bos-si Bos-si», il vecchio coro che ci favella del tempo che fu, per usare le parole di un altro coro, quel «Va’ pensiero» che la Lega ha scippato al Risorgimento. In quel tenero suggerimento del governatore del Piemonte c’è molto dell’aria crepuscolare che ha accompagnato ieri la festa dei popoli padani. Il capo vecchio, stanco e bisognoso d’essere imbeccato; le patetiche bugie («Siamo in cinquantamila»); il timore di contestazioni interne; la percezione che «il tempo è scaduto», com’era scritto sul cartello di un manifestante in prima fila.

I leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che i giornalisti non capiscono né la Lega, né la gente del Nord. Per molto tempo è stato così. Ma il tempo è scaduto anche per queste recriminazioni, e i continui attacchi dal palco ai giornalisti - alcuni indicati con il dito, altri resi identificabili in tutti i modi - hanno suscitato nei cronisti più compassione che indignazione, perché quando un partito dà la colpa di tutto alla stampa, è come quando un allenatore dà la colpa agli arbitri. Non è per un pregiudizio che diciamo che quello di ieri è stato un triste spettacolo, anzi uno spettacolo triste, che è peggio. La Lega - piaccia o no - è fra i partiti italiani quello che ha da tempo il progetto politico più forte: il federalismo, e poi magari la secessione, comunque la rivendicazione di più potere e autonomia per una parte del Paese.

Proprio per questo fa tristezza vedere il fondatore, e ancora di più la sua ristretta corte, incapaci di sottomettere a quel progetto una questione familiare. Bossi che indica nel figlio Renzo - per il quale s’è addirittura inventato una laurea in Economia a Londra - il proprio successore, è uno spettacolo triste e ahimè caro Bossi, tanto italiano. È uno spettacolo triste anche il cercare di agitare la folla parlando o meglio sbraitando come se si fosse un partito d’opposizione, e non uno che negli ultimi dieci anni è stato al governo per più di otto. Rosi Mauro, furibonda perché nel partito (non sui giornali: nel partito, anche se senza uscire allo scoperto) la chiamano «la badante», ha urlato contro le tasse, la cassa integrazione e «la nostra gente» che perde i posti di lavoro. Di chi la colpa di tutto questo? Dell’opposizione? O dei giornali?

Ma sì: i giornali. Calderoli comincia il suo intervento così: «Hanno scritto che la Lega è spaccata. Sapete che cosa c’è di spaccato? I coglioni! I giornalisti ci hanno spaccato i coglioni». Poco dopo fa il gesto dell’ombrello, più avanti dice che «senza Bossi noi non saremmo un cazzo», perché questo è oggi il bon ton di un ministro. Ma quello che fa più tristezza è l’ostentazione di una verità virtuale. Rosi Mauro strappa applausi quando grida che «grazie alla Lega non hanno alzato l’età pensionabile delle donne», e c’è da chiedersi se chi applaude sappia o no che l’età pensionabile, dal governo di cui la Lega fa parte, è stata invece alzata; poi ne strappa altri sbandierando i «contratti territoriali, un’iniziativa della Lega grazie alla quale gli stipendi al Nord adesso sono più alti», e c’è da chiedersi quale film stiano vedendo quelli che applaudono. Chi ha parlato ieri dal palco di Riva Martiri evidentemente è convinto di avere di fronte un popolo disposto a credere a tutto.

Tornando a Calderoli, come spiegare l’incredibile discorso di ieri? È partito attaccando i giornalisti perché si sono inventati spaccature nella Lega, poi si è scagliato con durezza mai vista contro gli oppositori interni - «quattro sfigatelli» - e soprattutto contro i sindaci di Verona Flavio Tosi e di Varese Attilio Fontana, mai nominati ma evocati più che chiaramente. Le spaccature interne sono un’invenzione dei giornalisti? Sarà, ma la Lega ieri ha fatto di tutto per renderle palesi. Non hanno fatto parlare i capigruppi della Camera (Reguzzoni) e del Senato (Bricolo) per paura che venissero fischiati. E non hanno fatto parlare Tosi per paura che venisse applaudito. Roberto Maroni, quando è venuto il suo turno, ha detto che di spaccature non ce n’è e molto democristianamente ha chiamato accanto a sé e abbracciato Calderoli (chissà quanto hanno gradito i maroniani Tosi e Fontana, da Calderoli appena presi a male parole). Anche il rito dell’ampolla, cioè il momento finale della festa, ha confermato che la spaccatura non è solo nella testa dei «giornalai»: accanto a Bossi c’era tutto il cosiddetto «cerchio magico» (il figlio, Rosi Mauro, Reguzzoni, Bricolo più il fido Calderoli) ma di Maroni e dei suoi nemmeno l’ombra.

Dicevamo che l’impressione è quella di un gruppo dirigente convinto che i propri elettori e militanti siano disposti a credere sempre a tutto. Ma è così? Finché si tratta di dare del pirla ai giornalisti, non c’è problema. Non ce n’è nemmeno quando Bossi dice che in Italia è tornato il fascismo perché non c’è più libertà di esprimersi e di manifestare, e lo dice proprio lui che ha appena chiesto il licenziamento del direttore di «Panorama» per un articolo sgradito. Ma su tutto il resto, fino a quando gli crederanno? Ieri i militanti erano pochi ma uniti nell’esprimere un solo concetto: non ne possiamo più. C’era un cartello con una spina staccata, ce n’era uno con scritto «basta tasse» e soprattutto ce n’erano tanti con scritto «secessione». Quando Bossi parlava, un solo coro lo interrompeva a tempi regolari: «secessione-secessione». E lui ha dato l’impressione di non sapere che cosa rispondere, di limitarsi a prendere tempo. Ha detto che sì, prima o poi «la faremo finita», ma che comunque bisogna trovare «una via democratica alla secessione». Poi per cercare di tenersi buoni questi impazienti militanti stanchi di promesse, ha chiuso gettando in mare, oltre che l’acqua del Po, quella del Piave; e ha aggiunto che sul Piave gli alpini avrebbero dovuto voltarsi e sparare dall’altra parte. E anche questa battuta, che un tempo avrebbe generato indignazione, oggi genera più che altro tristezza.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/420804/
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