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Autore Discussione: Umberto Saba e il sottile male di vivere  (Letto 5296 volte)
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« inserito:: Agosto 23, 2007, 07:28:42 pm »

L’ANNIVERSARIO

Protagonista di Trieste primo ’900: il 25 agosto 1957 la morte a Gorizia

Le stazioni di un’esistenza nomade e il ricorso alla psicanalisi di Weiss

Umberto Saba e il sottile male di vivere

Licio Damiani


Oltre la bellezza letteraria: una militanza poetica tra confessione e realtà Il Ritratto di Umberto Saba, dipinto nel 1923 dall'isontino Vittorio Bolaffio – ora nelle collezioni della Rai del Friuli-Venezia Giulia – rappresenta visivamente una delle analisi più profonde compiute sull'uomo e sul poeta di cui ricorre il 25 agosto il cinquantenario della morte. I colori sono limpidi e asprigni come i versi dell'autore del Canzoniere. Gli occhi azzurrissimi nel volto chiaro, un po' molle, scrutano l'osservatore con paziente comprensione, la bocca, sebbene chiusa, sembra in procinto di «creare la parola». Quell'umiltà, quella semplicità, quel «doloroso amore della vita», quella pietà anche, che fanno corpo con la poesia dello scrittore triestino, si riassumono in un atteggiamento di onestà indifesa. Il ritratto, con il bianco e nero dell'abito, è accolto dall'immenso azzurro del mare, lo stesso «azzurro fonte» dei «grandi occhi che toccano per dolcezza dell'anima i confini materni». Intorno alla figura si dispiega l'ammattonato rosa-arancione del molo e accosto alla banchina del piccolo porto «aperto ai sogni» palpita una vela: il «fiore bianco» sulla tomba di Narciso cantata nella lirica che prende il nome dal giovinetto della mitologia, o il «sapore di un ricordo». Al ritratto, definito «bellissimo», Saba dedicò un sonetto pubblicato nel 1928 a Pola sulla rivista Histria nobilissima. Il commento al quadro si traduce sinteticamente in un trepido profilo autobiografico: «Questo che hai dipinto è il volto mio. / La mia stanchezza, il mio ardore mortale / render seppe tua man tremante e frale, / buon Bolaffio, pittore umile e pio...». Anche in Bolaffio, come in Saba, in Italo Svevo, e in altri scrittori triestini, l'arte si esercitava sul fondo di una materia autobiografica con l'immediata oscura necessità di una confessione personale. Il passo del linguaggio è il passo del narrare, sostanzioso, energico, sensibile piuttosto all'acuto travaglio della ricerca sulla verità psicologica che alle suggestioni dell'estetismo. Pittura nell'uno, poesia nell'altro. L'atmosfera cristallina e trasparente del quadro potrebbe richiamare anche un'altra affermazione dello scrittore: «L'impressione che lascia, nel suo insieme, la lettura del Canzoniere è quella di una coraggiosa affermazione della vita sullo sfondo di una bella giornata. Di una bella giornata vissuta a Trieste». In quella Trieste dei famosi versi che ne assimilano la «scontrosa grazia» a «un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore». La città «d'una maschia adolescenza, / che di tra il mare e i duri colli senza / forma e misura crebbe».
Trieste costituì il filo rosso di tutta l'opera del poeta. Un lungo, e assorto monologo, e, nel contempo, un «protratto dialogo con gli uomini e con le cose», come ebbe a osservare l’italianista Bruno Maier. Un'opera che sublimò l'intera esperienza di una vita, secondo quanto gli piaceva dire usando termini della psicanalisi di cui era appassionato cultore. Alla psicanalisi si era accostato attraverso Edoardo Weiss, che aveva diffuso a Trieste il pensiero di Freud influenzando in quella ricca e fortunata stagione il fior fiore degli artisti e dei letterati triestini, a cominciare da Svevo e da Carlo e Giani Stuparich. Umberto Saba (pseudonimo di Umberto Poli) nacque a Trieste il 9 marzo 1883. Il padre Ugo Edoardo, commerciante veneziano, convertitosi alla religione ebraica per sposare Rachele Coen, abbandonò la famiglia ancora prima che il figlio nascesse. Il trauma incise in modo determinante sulla formazione di Umberto. Nei primi anni di vita egli venne allevato dalla balia slovena Peppa Sabaz. Il legame affettivo intenso e lungo nel tempo indusse alcuni critici a ritenere nel nome d'arte Saba, usato per la prima volta nel 1910 per la raccolta Poesie con prefazione di Silvio Benco, un omaggio alla nutrice dal «volto incoronato / di capelli bianchissimi, pù duro / delle pietraie... del Carso». Altri invece propendono per un richiamo alla parola ebraica saba, pane. Abbandonati gli studi commerciali, il giovane si impiegò nel 1897 come commesso reincarnando, per certi aspetti, i tormenti esistenziali del protagonista del romanzo sveviano Una vita.
Risale ai primissimi anni del Novecento la passione per la musica, scaturita dall'amicizia con il violinista Ugo Chiesa. In quel medesimo tempo cominciò a scrivere poesie e racconti firmandosi Ugo Chopin Poli. Le prime liriche furono fortemente influenzate dalle letture del Parini, del Foscolo e, soprattutto, di Petrarca e Leopardi. Nel 1903 Saba si trasferì a Pisa, alla cui università frequentò i corsi di archeologia, tedesco e latino, mentre abbandonò subito quello di letteratura italiana, annoiato dal metodo storico filologico di Vittorio Cian. Ma un violento litigio con Chiesa lo indusse, l'anno dopo, a rientrare a Trieste in preda a una forte depressione. Di un viaggio a piedi nel Montenegro relazionò nel gennaio 1905 in un articolo sul quotidiano triestino Il Lavoratore. Nel gennaio dell'anno successivo ripartì per Firenze, dove frequentò i circoli della rivista La Voce diretta da Giuseppe Prezzolini. Il rapporto di Saba con gli autori triestini vicini alla Voce (Scipio Slataper, i fratelli Stuparich, Virgilio Giotti, il gradese Biagio Marin) si manifestò nella concezione della poesia come autobiografia, scavo interiore, esame di coscienza, maturata negli anni in cui compose Casa e campagna e Trieste e una donna (1909-1912). All'impronta vociana sono da ricondurre altri motivi: la «poesia onesta», riferita al grande esempio dato dal Manzoni con gli Inni sacri, e la «poesia disonesta» del D'Annunzio. E, tuttavia, del Vate immaginifico egli subì subito il fascino. All'incontro alla Versiliana nel settembre 1906, ottenuto tramite il figlio Gabriellino, gli apparve «un bianco immacolato signore... ancora giovane, che aveva, e sapeva di avere, un sorriso affascinante». Egli fu «dal primo istante squisito», nonostante «la noia che deve avergli provocato la presenza di quel giovane poeta, che aveva alcune umane stranezze, e vestiva (anche questo però allora usava) un palamidone grigio azzurro coi risvolti di seta», Saba scrisse in Ricordi – Racconti 1910-1947, pubblicato nel 1956. Nell'aprile del 1907, in quanto cittadino italiano seppur residente nell'impero austro-ungarico, assolse gli obblighi di leva. Dopo alcuni mesi trascorsi in convalescenza al deposito di Monte Uliveto (Firenze) per disturbi nervosi, prestò servizio a Salerno. Nacquero da questa esperienza i Versi militari. Durante uno dei saltuari ritorni a casa conobbe Carolina Woelfler, sposata nel febbraio 1909 con rito ebraico: era la «meravigliosa Lina», una delle figure centrali del Canzoniere. «Quando triste rincaso e lei m'aspetta / alla finestra, se la bella e cara / moglie, ad un gesto, il mio male sospetta, / se il disgusto mi legge, od altro, in faccia, / tosto al mio collo le amorose braccia, come due serpi, vigorose getta». Il 24 gennaio dell'anno successivo nacque la figlia Linuccia. Poco tempo dopo Saba partì per Firenze, dove conobbe alcuni dei principali collaboratori della Voce, tra i quali Ardengo Soffici, Medardo Rosso, Gaetano Salvemini, Giuseppe Ungaretti, Pietro Jahier, Camillo Sbarbaro, Roberto Longhi, Clemente Rebora, Riccardo Bacchelli. Al rientro a Trieste gli capitò addosso una crisi coniugale dalla quale trasse il dramma Il letterato Vincenzo. Lina, durante la sua assenza, si era innamorata di un artista amico. Fu necessario un anno per arrivare alla riappacificazione.
Risale al 1911 il saggio Quello che resta da fare ai poeti, enunciazione di una poetica sincera «delle cose», degli «oggetti», della «realtà» interna ed esterna, che punti non su un'esteriore bellezza «letteraria», ma che faccia tutt'uno con il motivo rappresentato attraverso un lessico concreto, spontaneo, naturale. Nel 1912 Saba si trasferì con la famiglia a Bologna e poi a Milano. Nel 1915, all'entrata in guerra dell'Italia, venne richiamato alle armi e destinato ai servizi sedentari. In quell'epoca fu uno dei pochi intellettuali italiani a leggere intensamente Nietzsche. Si rinnovavano le crisi psicologiche, nelle quali scavava attraverso lo strumento psicanalitico, avendo come analista il Weiss.
Di nuovo a Trieste al termine del conflitto, rilevò la libreria antiquaria Maiylaender in via San Nicolò: «Un tempo al mio pensiero / parve un rifugio, e agli orrori del tempo. / Ma quel tempo è passato oggi, e la vita / con lui, che amavo», avrebbe scritto nel 1951 in Quasi un racconto. Nel 1919 prese corpo la prima redazione del Canzoniere che raccoglieva l'intera produzione poetica: dato alle stampe nel 1921 avrebbe conosciuto successivi ampliamenti, fino all'edizione Einaudi del 1961. Tra molteplici varianti, ritocchi e risistemazioni, il Canzoniere trasmetteva la volontà del poeta di crearsi uno spazio preciso nel gotha della lirica italiana. Assidue, frattanto, erano le frequentazioni di Virgilio Giotti e di Giorgio Voghera, profonda e duratura l'amicizia stretta nel 1922 con il critico Giacomo Debenedetti, che nel 1959 curò il volume postumo Epigrafe – Ultime prose. In seguito entrò in rapporto con i letterati raccolti intorno alla rivista Solaria, dalla quale nel 1928 ricevette l'omaggio di un numero monografico. Cominciavano a guardarlo come un maestro alcuni giovani scrittori: Giovanni Comisso, Sandro Penna, Carlo Levi, che nel 1950 gli schizzò un ritratto, e, sopratutto, Pier Antonio Quarantotti Gambini, il Proust capodistriano oggi ingiustamente dimenticato, forse perché l'Italia caciarona dei nostri tempi ha voluto rimuovere le memorie dell'Istria italiana di cui fu appassionato cantore. Nel libro Il poeta innamorato uscito anch'esso postumo, nel 1984, Quarantotti Gambini incluse molti ricordi dell'autore di Trieste e una donna e nel 1958 dedicò «A Umberto Saba e a Virgilio Giotti vivi come quando scrivevo queste pagine» il romanzo-fiume La calda vita: titolo tratto da un verso del Canzoniere: «Non sono quella che un tempo più amavi / la calda vita?».
Nel 1938, con le leggi razziali fasciste, fu costretto a cedere formalmente la proprietà della libreria di San Nicolò al commesso e a stabilirsi a Parigi. Dopo l'8 settembre 1943 si rifugiò con la famiglia a Firenze, confortato soltanto dalle visite quotidiane di Eugenio Montale. Intanto a Lugano, presentato da Giovanni Contini, usciva, Ultime cose. Nei primi mesi del 1945 fu a Roma e poi a Milano, dove restò per una decina d'anni dedicandosi alla seconda edizione del Canzoniere, alle raccolte Mediterranee e Uccelli e alla collaborazione al Corriere della Sera. Dal 1950 la malattia nervosa peggiorò. Nel novembre 1956 in clinica a Gorizia dove era ricoverato, lo raggiunse la notizia della morte della moglie. Si spense nove mesi dopo, il 25 agosto 1957. Nel 1975, curato dalla figlia Linuccia, uscì postumo il romanzo incompiuto Ernesto, «narrazione realistica, e insieme casta e innocente, con ampi squarci in dialetto triestino, di una giovanile esperienza d'amore omosessuale», affermazione coraggiosa di una contraddittoria «diversità» – è stato scritto – collocabile «in quel raffinato estetismo tanto avvertito nella Mitteleuropa del primo Novecento, Mann e Musil in primis».(23 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it
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