LA-U dell'OLIVO
Maggio 15, 2024, 01:51:38 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 [3] 4 5
  Stampa  
Autore Discussione: BARACK OBAMA.  (Letto 37641 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #30 inserito:: Gennaio 22, 2009, 12:45:30 am »

Dopo il giuramento del nuovo presidente Usa arrivano le prime reazioni dal mondo

E la stampa araba sottolinea la mano tesa all'Islam durante il discorso di Obama

Solana: "Ora lavoriamo insieme"

I Taliban chiedono stop alla guerra

 
ROMA - L'era Obama apre una "nuova chance per il multilateralismo", ora è un "momento speciale" per il mondo: così Javier Solana commenta il nuovo corso americano dopo l'insediamento di Barack Obama, mentre la stampa araba sottolinea la possibilità di riconciliazione e la mano tesa dal nuovo presidente degli Stati Uniti agli stati islamici nel suo discorso inaugurale e i Taliban dall'Afghanistan chiedono al nuovo leader mondiale di abbandonare la politica della guerra. Dopo la giornata del giuramento e della grande festa che ha segnato l'inauguration day del 44esimo presidente Usa, il primo afro-americano a guidare la Casa Bianca, dal mondo arrivano le prime reazioni.

"Credo che nel discorso di Obama ci sia un grande spazio e una grande sfida per noi europei. Il presidente Obama chiama tutti a maggiore corresponsabilità: dobbiamo lavorare insieme", ha detto alla trasmissione "Porta a porta" di Rai 1 il ministro degli Esteri Franco Frattini, in collegamento da Sharm el Sheikh dove oggi incontrerà il presidente egiziano Hosni Mubarak.

Sullo stesso tono il commento del rappresentate della Ue per la politica estere Javier Solana. "Gli Stati Uniti non sono un paese qualsiasi e il suo presidente non è un politico come gli altri", afferma in un intervento sul Financial Times. Per questo la giornata di ieri ha rappresentato un "momento speciale". Le scelte compiute dal presidente americano "riguardano miliardi di persone in tutto il mondo". La nuova amministrazione americana rappresenta una chance per il rilancio della diplomazia multilaterale, una chance che dovranno cogliere Stati Uniti e Europa, dice ancora il capo della diplomazia dell'Ue.

In Europa i giornali hanno puntato sul cambiamento storico (come in Spagna El Pais) sottolineando come raramente un politico abbia suscitato tante speranze prima di iniziare a governare. In Gran Bretagna il Times sottolinea il realismo nel discorso inaugurale del presidente, che "forse non è stato grande oratoria, ma ha esaminato la natura dei problemi dell'America". Secondo il Guardian, Obama usa un "nuovo tono: basta con l'ottimismo fasullo a uso della gente", si legge nell'editoriale principale del quotidiano progressista: "Ha tracciato una linea nella sabbia, un chiaro taglio con la precedente amministrazione".

Il presidente americano Barack Obama sarà un amico sincero di Israele, ritiene l'ex ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom (Likud). "Se guardiamo alle sue posizioni espresse al Congresso, sono al 100 per cento a favore di Israele. Obama farà tutto il possibile per difendere gli interessi vitali di Israele. Prevedo che la nuova amministrazione sarà favorevole nei nostri confronti, non meno di quella uscente", dice.

Riconciliazione e speranza sono i temi comuni nei titoli e nei commenti della stampa araba riguardo al discorso di insediamento pronunciato ieri dal neo presidente degli Stati Uniti Barack Obama. "Barack Hussein Obama presidente per riconciliare l'America con se stessa e con il mondo", ha scritto il libanese as Safir, mentre l'internazionale arabo al Hayat, di proprietà saudita, afferma nel suo titolo principale che "Obama rinnova il sogno americano di potere, prosperità e apertura".

Aperture arrivano dalla Corea del Nord, pronta a lavorare con il neo presidente americano per liberare la penisola coreana dagli armamenti nucleari, sostiene un quotidiano pro-Pyongyang con base a Tokyo (Choson Sinbo), che in un editoriale pubblicato all'indomani dell'investitura ufficiale del nuovo presidente Usa apre a sorpresa all'istanza di cambiamento rappresentata da Obama. Anche nei quotidiani della Corea del Sud si sottolinea come il nucleare di Pyongyang sia una priorità e come i rapporti fra Washington e Seul debbano diventare più stretti (JoongAng).

Il portavoce dei Taliban, Yousuf Ahmadi, dall'Afghanistan, lancia un appello al neopresidente perché abbandoni la politica della guerra: ''Non abbiamo nessun problema con Obama'', ha detto il portavoce dopo l'insediamento del nuovo presidente Usa, aggiungendo tuttavia che l'ex senatore dell'Illinois ''deve trarre una lezione dall'ex presidente Bush e prima di lui dai sovietici''. "Chiediamo al nuovo
presidente americano Barack Obama di scegliere una nuova via, diversa da quella della guerra, per trovare una soluzione alla crisi in Afghanistan", ha detto durante un collegamento telefonico con Al Jazeera.

Scetticismo arriva invece da Cuba e dall'Iran. Parlando con la stampa il presidente del Parlamento cubano, Ricardo Alarcon, ha definito Barack Obama "un grande oratore", ma ha allo stesso tempo espresso scetticismo su una svolta nella politica americana. Anche la stampa di Teheran ha accolto con freddezza l'insediamento del nuovo presidente Usa. Il quotidiano conservatore Keyhan in un editoriale afferma che quello di ieri "non è stato un giorno speciale, perché niente cambierà". "E' improbabile - gli fa eco sullo stesso fronte il Jomhuri Eslami - che Obama, con le sue promesse, possa gestire i molti problemi che lo attendono". E allo stesso tempo "non potrà convincere la gente a dimenticare le speranze".

(21 gennaio 2009)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #31 inserito:: Gennaio 22, 2009, 12:47:32 am »

L'analisi dell'esperto di discorsi presidenziali Tofel: "Inizio prosaico, finale poetico"

Il problema di Obama? "Aver fatto discorsi troppo belli finora: difficile superarsi"

"Non rimarranno parole immortali ma sull'economia è stato efficace"

di ARTURO ZAMPAGLIONE

 
NEW YORK - "Ho l'impressione che la prima parte del discorso di Barack Obama sia stata un po' prosaica", osserva Richard Tofel: "Un elenco di impegni quotidiani, dalla ripresa economica al rilancio della scuola. Nella seconda parte, invece, il presidente è riuscito a ritrovare una vena poetica e una voce autentica, facendo presa sul pubblico americano e sull'opinione pubblica mondiale. Ho paura, però, che non saranno parole 'immortali' come furono quelle pronunciate al momento dell'investitura da Jefferson, Lincoln o Kennedy".
       Tofel è uno studioso di discorsi presidenziali. Quattro anni fa, quando non era ancora direttore generale di ProPublica, il gruppo non-profit di giornalismo investigativo, pubblicò Sounding of the trumpet, un libro di 220 pagine interamente dedicato alla celebre orazione di John Kennedy, con materiali inediti trovati negli archivi e arricchito dai ricordi di Theodore Sorensen, lo speechwriter dell'allora presente.

Quali sono, Tofel, le frasi più significative del discorso di Obama?
"La prima, a mio avviso, è quella in cui ha ricordato che 'una nazione non può prosperare se favorisce solo i più prosperi'. Interpreta bene le ragioni che hanno portato alla sua vittoria elettorale e il senso del suo programma politico".

E sul piano internazionale?
"E' stato importante rivolgersi agli altri paesi del mondo per chiarire che gli Stati Uniti sono tornati al ruolo originario. Il tema della responsabilità non è certo nuovo in appuntamenti del genere e forse Obama non è riuscito a trasmettere il messaggio con la stessa eloquenza kennedyiana.

"Nel complesso mi aspettavo un intervento più forte, che potesse avere una presa duratura nell'immaginario collettivo, al di là del chiaro simbolismo del primo afro-americano alla Casa Bianca. La realtà è anche che, a differenza di altri predecessori, Obama, che è un grande oratore, ha già pronunciato discorsi molto belli, stabilendo un altissimo standard".

(20 gennaio 2009)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #32 inserito:: Gennaio 22, 2009, 12:49:43 am »

21-01-09 


OBAMA: ''STOP AI LOBBISTI E MENO SEGRETI NELLA MIA AMMINISTRAZIONE'' 
 

(ASCA-AFP)

- Washington, 21 gen - ''Una nuova era di sincerita'''.
E' la promessa fatta dal presidente Barack Obama sul futuro della sua amministrazione. ''Per lungo tempo ci sono stati troppi segreti in questa citta'. Le vecchie regole dicevano che se esisteva un argomento plausibile per non rivelare qualcosa al popolo americano, allora non veniva rivelato. Quell'era e' finita'', ha aggiunto Obama parlando nel corso della cerimonia del giuramento del suo staff alla Casa Bianca.

Il neo presidente imporra' regole piu' severe ai lobbisti, mettendo al bando qualsiasi regalo al personale dell'amministrazione. ''Da oggi i lobbisti saranno soggetti a limiti piu' stretti, come mai nessuna amministrazione ha fatto nella storia'', ha detto Obama, ricordando che operare come pubblici funzionari ''e' un provilegio'', ma non significa ''avvantaggiare se stessi, i propri amici, i propri clienti o gli interessi di qualsiasi organizzazione''.

red-uda
 
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #33 inserito:: Gennaio 22, 2009, 06:51:03 pm »

Il senso dei Rom per Obama

di Dijana Pavlovic


«Ho speranza in questo uomo, lui è come noi. Ha la pelle nera e sa cosa vuol dire essere povero». Nelle comunità Rom si parla del nuovo presidente degli Stati Uniti con entusiasmo. Mi raccontano una profezia che dice che intorno al 2010 verrà un uomo che porterà la pace e il benessere nel mondo e sarà il paladino degli ultimi. Si cantano già canzoni, si raccontano storie e barzellette. Come quella sui Rom serbi: sapete come dicono «una casa a te, una casa a me»? «Baraka obama». Già, «baraka» come casetta e «obama» che vuol dire entrambi.

C’è nei campi rom una identificazione anche un po’ ingenua e tanta speranza perché noi siamo i neri d’Europa. I rom sono stati schiavi per secoli, in Romania sono stati liberati solo nel 1852, hanno subito lo sterminio razziale e tuttora subiscono la segregazione nei campi, soprattutto in Italia. Forse per questo le parole di Barack Obama lasciano agli ultimi d’Italia il sapore di una possibile rivincita: quando dice che è figlio di un uomo che solo 60 anni fa non poteva sedersi in un ristorante e essere servito da un cameriere, questo basta per farne una icona.

Ma mentre gli Stati Uniti, pur con le loro contraddizioni, si muovono verso il futuro e verso l’unica convivenza possibile - «una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e indù e di non credenti» uniti nella causa comune di affrontare una crisi non solo economica ma anche morale - a me pare che in Italia si stia fermi a guardare, analizzare e ammirare, ma incapaci di seguirne l’esempio per la mediocrità della politica che ancora pensa di poter vincere dividendo, istigando paura e indifferenza per il diverso. Qui nell’idea di nazione non ci sono zingari, musulmani, rumeni, neri, ecc. partecipi di un destino comune; nel Parlamento si discute di far pagare agli immigrati un balzello, di egoismo fiscale, detto federalismo, mentre sicurezza si traduce in violenza e intolleranza. Non voglio ricordare gli insulti e le minacce ricevuti come candidata alle ultime elezioni politiche, perché mi feriscono più a fondo episodi come l'ultimo avvenuto nel Veneto leghista, dove tre ragazzi ammazzano un marocchino e il paese reagisce con totale indifferenza, la stessa della ricca Milano di fronte agli ultimi sei morti di freddo.

È questo che ci proibisce di sognare una politica che dia speranza, che parli dei problemi di tutti, che metta al primo posto «chi ha perso la casa, chi ha perso il lavoro», la sanità, l’istruzione e non elargisca la carità di 40 euro al mese ai più poveri, non tenti di distruggere la scuola e la sanità, non umili la ricerca, combatta la corruzione e la paura. Per questo con Obama anche noi zingari diciamo «la sicurezza e la paura non devono offuscare gli ideali e i valori».
dijana.pavlovic@fastwebnet.it


22 gennaio 2009
da unita.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #34 inserito:: Gennaio 23, 2009, 01:14:42 pm »

Guantanamo e sicurezza


di Paolo Valentino


Ancora prima di sedersi nello Studio Ovale, Barack Obama ha preso di petto la questione urticante di Guantanamo, il carcere creato da George Bush per i presunti terroristi islamici. Mentre ancora Washington ne celebrava in cento balli l'insediamento, il nuovo presidente ha chiesto e ottenuto dai procuratori militari la sospensione fino al 20 maggio dei procedimenti legali contro i detenuti della prigione cubana e l'avvio di un riesame del sistema delle commissioni militari, instaurato dal predecessore.

In teoria è il primo passo verso lo smantellamento di una struttura controversa e odiosa, il corollario immediato del «rifiuto della falsa scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali», annunciato da Obama nel discorso inaugurale. Contemporaneamente, gli esperti della Casa Bianca hanno già stilato il testo di un ordine esecutivo, che prevede la chiusura del centro di detenzione entro un anno. Il presidente potrebbe firmarlo già oggi.

È evidente che la nuova Amministrazione sia determinata a riportare la lotta al terrorismo nella rule of law. E che l'obiettivo strategico di questo intervento sanatorio della politica nel campo giudiziario, da nessuno considerato uno scandalo, sia quello di restituire alle corti ordinarie (civili o marziali, questo resta da vedere) anche un tema minato come la lotta al terrorismo, che la pervasiva Casa Bianca di Bush e Cheney aveva invece sottratto alla giustizia ordinaria e allo Stato di diritto. Ma scegliendo di cominciare da una pausa di riflessione, da una valutazione caso per caso, Obama indica ancora una volta un approccio pragmatico e non ideologico.

Il presidente era stato chiaro pochi giorni fa, spiegando che bisogna sì processare i detenuti di Guantanamo, ove ve ne siano le condizioni giuridiche, ma «evitando di rimettere in circolazione gente che vuol farci saltare in aria». Concretamente, l'esito del riesame non è scontato. E, come scrive il Washington Post, «sarebbe anche possibile che l'Amministrazione scelga di riformare e di spostare altrove le commissioni militari, prima di riprendere i processi», non trasferendo cioè i detenuti ai tribunali federali o alle corti marziali per crimini di guerra.

Posto altrimenti, anche se buona parte dei circa 250 prigionieri fossero rilasciati e alla fine le disumane gabbie di Guantanamo cadessero in disuso, non è detto che il tanto esecrato sistema attuale sia del tutto abolito. Anzi, una delle opzioni all'esame della nuova Amministrazione è la creazione di «corti della sicurezza nazionale», dove sarebbe possibile usare anche prove ottenute con metodi coercitivi. I paladini dei diritti umani si mostrano preoccupati. Ma Barack Obama non vuol correre rischi. Da ex presidente della Harvard Law Review, difende l'habeas corpus. Ma, da presidente degli Stati Uniti, deve e vuole difendere la sicurezza del Paese. Anche al costo di avere una Guantanamo senza Guantanamo.

22 gennaio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #35 inserito:: Gennaio 23, 2009, 01:21:52 pm »

23/1/2009
 
Purché ci sia coerenza
 

LUIGI LA SPINA
 

La frase forse più politicamente significativa del discorso presidenziale di Obama è stata quella che, in opposizione agli ideologismi dei suoi predecessori, osservava: «I dibattiti politici, ormai datati, in cui ci siamo consumati così a lungo non reggono più. Oggi non ci chiediamo se il nostro governo è troppo grande o troppo piccolo, ma se funziona».

Il pragmatismo, la cifra essenziale che il nuovo Presidente americano sembra voler imprimere alla sua azione, potrebbe essere uno stile di governo molto utile anche sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico e, in particolar modo, al centro del nostro Mar Mediterraneo, in Italia.

Ecco perché, al di là dei toni solenni con i quali, ieri sera, il Senato ha concesso il primo voto favorevole al federalismo fiscale, sarà opportuno giudicare la riforma solo quando se ne vedranno i risultati concreti. Quando, come ha scritto giustamente Luca Ricolfi sulla Stampa di ieri, potremo constatare se saranno evitati i rischi di trovarci «con più tasse, più spesa, più debito pubblico, più conflitti dentro la Pubblica amministrazione».

In attesa di quel verdetto, si può comunque plaudire all’affermazione di un principio e alla pratica di un metodo, cercar di chiarire alcune pericolose confusioni in materia e sollecitare ai nostri legislatori un po’ di coerenza nel metter mano ai meccanismi, molto delicati, di un cambiamento sostanziale del nostro Stato.

Attribuire maggiori responsabilità alle Regioni, concedendo a questi enti pari opportunità, pur nelle differenze, anche cospicue, tra di loro, corrisponde e non contraddice il processo di globalizzazione che è ormai irreversibile nel nostro mondo. Tale fenomeno si accompagna, come si è potuto constatare in tante occasioni, con l’esigenza di rafforzare, parallelamente, i legami con le realtà locali a cui appartiene il cittadino. Il federalismo fiscale di cui ieri è stato dato un primo via, bisogna ricordarlo, cerca di attuare, concedendo le risorse necessarie, la graduale trasformazione del nostro Stato centralista cominciata con la riforma del titolo V della nostra Costituzione varata alla fine della tredicesima legislatura. Con una importante differenza di metodo rispetto alla maggioranza di centrosinistra che allora l’approvò: questa volta, il coinvolgimento, nella discussione e anche nelle scelte, della minoranza parlamentare è stato sollecitato e ottenuto. Il voto di astensione delle opposizioni ne è chiara testimonianza.

Va dato atto al centrodestra, a partire dalla Lega che più si è battuta per cercare anche il consenso del centrosinistra, di aver fatto tesoro della passata esperienza negativa. Fino a dover notare che la fisionomia della riforma fiscale votata al Senato si discosta molto dal primo progetto, quello che ricalcava il modello lombardo di assegnazione delle risorse regionali. Mentre non appare lontana dalla proposta Prodi-Padoa Schioppa della scorsa legislatura. Non stupisce, perciò, nello scambio di complimenti reciproci esibiti platealmente ieri sera a Palazzo Madama, il profilarsi di un curioso asse trasversale Bossi-Veltroni, per ora limitato al tema federalista, ma i cui sviluppi non sono prevedibili. Sia nel merito di altre possibili convergenze, per esempio sulla riforma della giustizia, ma anche nel metodo di un rapporto meno conflittuale tra maggioranza e opposizione. E la reazione stizzita di Berlusconi, con le sue rinnovate e inasprite accuse al Pd, sarebbe la prova della fondatezza di tali impressioni.

Sarebbe miope, infatti, circoscrivere il significato di quanto avvenuto ieri al Senato alla sola nuova ripartizione decentrata del carico fiscale. Il tram del federalismo è partito e, molto probabilmente, nessuno può prevedere quale sarà la fermata d’arrivo, perché l’approdo a una vera e più ampia riforma costituzionale ne sarebbe il completamento naturale e, forse, obbligato. A questo proposito, è necessario richiamare alla coerenza i nostri parlamentari, affinché il modello di Stato che potrebbe risultare, alla fine di un processo di revisione complessiva della sua articolazione sul territorio, non risulti schizofrenico e paradossale.

È paradossale, ad esempio, che si aggiungano le cosiddette città-metropolitane, senza metter mano ai poteri, alle strutture, al numero delle province italiane. Anche se non si vuole arrivare, per ragioni anche comprensibili, alla loro totale soppressione. È schizofrenico il metodo elettorale vigente in Italia, se davvero si vuole rafforzare il legame e il controllo tra elettore ed eletto. Nel voto europeo, dove i collegi sono molto grandi, fino a comprendere 10-15 milioni di abitanti, è ammessa la preferenza. Con l’effetto di privilegiare chi dispone d’imponenti mezzi finanziari per far fronte a una dispendiosissima campagna elettorale, alla fine della quale il rapporto tra cittadino e suo rappresentante sarà, comunque, assai lontano. La preferenza è negata, invece, nel voto locale, quando i collegi seguono sostanzialmente la divisione provinciale e, quindi, la conoscenza del candidato è assicurata, come la verificabilità delle sue promesse. Forse, in tali condizioni, non sarebbe meglio tornare ai collegi uninominali? Insomma, se l’Italia diventerà un Paese federale, come la moderna Spagna, forse non dovremo avere nostalgie. Basta che non diventi il Paese di Arlecchino.
 
da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #36 inserito:: Gennaio 24, 2009, 04:35:52 pm »

24/1/2009
 
I muscoli di Barack
 
MAURIZIO MOLINARI
 

Obama mostra i muscoli: blitz militari contro Al Qaeda, ultimatum sulle misure anti-recessione, luce verde alla ricerca sulle cellule embrionali, fondi per l’aborto. La raffica d’iniziative segna la giornata in cui il Presidente inaugura il doppio briefing del mattino, sull’intelligence e sull’economia. Sul fronte militare le novità arrivano dal Pakistan dove i droni della Cia hanno riversato una pioggia di missili su taleban e mujaheddin di Al Qaeda, nel primo blitz firmato dal Presidente. Sul terreno economico nel mirino sono i leader repubblicani del Congresso, ai quali Obama ha ribadito la volontà di decisioni bipartisan, ma poi ha spiegato che serve un accordo «entro il 16 febbraio» sulle misure anti-recessione, facendo capire che comunque la maggioranza democratica andrà avanti.

Le innovazioni sull’etica sono altrettanto aggressive. Il governo Usa dà per la prima volta il via libera ai test sull’uso di cellule staminali derivate da embrione umano che, in questo caso, saranno usate in una ricerca sulle lesioni spinali. E Obama si appresta a firmare un ordine esecutivo che fa cadere il veto di Bush sull’elargizione di fondi federali a gruppi internazionali che promuovono l’aborto. Se sull’etica Obama sceglie i valori liberal e sull’economia è pronto al duello con i repubblicani, nella lotta ad Al Qaeda segue le orme di Bush, confermandosi un leader molto pragmatico.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #37 inserito:: Gennaio 26, 2009, 09:56:01 pm »

«Ha assistito agli sforzi della genitrice per sollevare il Terzo mondo dalla povertà»

«Barack figlio del microcredito»

Il Nobel Yunus racconta l'analogo impegno svolto dalla madre dell'attuale presidente



«Non so se sarà all'altezza delle aspettative. So però che la sfida più importante Obama l'ha già vinta».

Ah sì! E qual è?
«Ha ridestato la fiducia che le cose possano cambiare: che il mondo si possa cambiare ».
Detto da Muhammad Yunus, il «banchiere dei poveri», l'economista bengalese premio Nobel per la pace, è un bell'attestato di stima. Lui che della fiducia ha fatto l'architrave del «suo» microcredito sa bene quali rivoluzioni sappia innescare, quali risorse inaspettate e potenzialità sia capace di smuovere e mettere in campo questa fede nel cambiamento.
Sono passati oltre trent'anni — era il 1976 — da quando fondò in Bangladesh la Grameen Bank, prima banca al mondo a concedere prestiti ai derelitti basandosi non su garanzie di solvibilità ma sulla fiducia. «In Bangladesh, dove non funziona nulla, il microcredito funziona come un orologio svizzero » va ripetendo Yunus. Un sistema virtuoso raccontato nel bestseller Il banchiere dei poveri che, diversamente dall'elemosina, risveglia lo spirito di imprenditorialità anche nei mendicanti.
Obama ha vinto l'apartheid politico, lei lavora per eliminare l'apartheid finanziario.

Con Obama alla Casa Bianca è più vicino il «suo» mondo senza povertà?
«Obama non è soltanto il primo presidente nero degli Stati Uniti. Non è stato scelto perché nero, ma perché parla di cose che la gente sente intimamente. Dopo otto anni di frustrazione totale davanti a un mondo alla deriva, Obama è diventato il simbolo della speranza che il mondo può ritrovare la rotta. Ha convinto non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero che lui è il timoniere che può traghettare con successo l'umanità nel nuovo secolo e nel nuovo millennio. La gente si aspetta che indichi la rotta non solo dei prossimi quattro anni».

D'accordo. Ma Obama può aiutare a costruire un mondo senza povertà?
«Non lo so, ma è la sua promessa che conta. Ha detto "so cosa avete nel cuore, sento le stesse cose e posso metterle in atto" e la gente gli ha creduto. Questa è la parte più entusiasmante della vicenda, per il resto quattro anni nella storia del mondo sono poca cosa. Comunque la mia strada per arrivare a un mondo senza povertà non gli è sconosciuta. Anzi. Sua madre era in prima linea nel microcredito in Indonesia e lui, bambino, era con lei, la vedeva darsi da fare. È stato un imprinting molto forte. Rafforzato da persone in posizione influente ora nel suo governo, come Hillary Clinton, anche lei devota al microcredito quando era First Lady dell'Arkansas. Non è qualcosa che ha imparato sui libri ma nella pratica, era coinvolta in progetti concreti».

Lei ha conosciuto la mamma di Obama?
«Avremmo dovuto incontrarci alla conferenza mondiale sulle donne di Pechino, nel settembre 1995. Doveva fare un intervento per mostrare quanto bene può fare prestare piccole somme di denaro alle donne povere, quanto affidabili fossero nei pagamenti e quanto efficacemente usassero i soldi ricevuti per far star meglio le loro famiglie. Ma Ann Dunham era gravemente malata e rimase bloccata a casa, alle Hawaii, sofferente per il cancro che la stava consumando. Sarebbe morta due mesi dopo. Poco prima del suo ritiro, il suo gruppo concordò che ci voleva un avvocato per la causa e scelse l'allora first lady Hillary Clinton. Non fu difficile convincerla visto che come first lady dell'Arkansas la Clinton aveva già promosso uno dei miei progetti. Fu Hillary a intervenire al suo posto a Pechino».
(Due anni dopo la Clinton aiutò a lanciare la campagna per estendere il microcredito a 100 milioni di famiglie, un obiettivo che fu lanciato a Pechino e raggiunto nel 2006).

Ricordiamo l'amministrazione Clinton alle prese con grandi sfide su più fronti, dal gap tecnologico all'invecchiamento della popolazione. Quella di Obama rischia secondo lei invece di essere concentrata e appiattita sull'economia, condizionata com'è dalla grande crisi?
«Non vedo questo rischio. Obama si è messo in una posizione per cui miliardi di persone dicono: "Quest'uomo mi sta parlando". Ci sono miliardi di speranze sulle sue spalle e ora lui deve tenerne conto. Che intenda distribuire le sue energie su più fronti lo dimostrano anche i suoi primi gesti da presidente: ha esordito con istanze simboliche come Guantanamo. La sua lunga campagna elettorale lo ha preparato per questo. Girando e incontrando tante persone ha avuto la possibilità di affrontare tutte le questioni più importanti. È stata una grande fortuna, visto che non aveva avuto modo di prepararsi prima. Non credo che farà errori».


Alessandra Muglia
26 gennaio 2009

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #38 inserito:: Gennaio 28, 2009, 12:23:18 pm »

28/1/2009
 
La svolta del figlio di Hussein
 
YOUNIS TAWFIK
 

Nessun musulmano potrebbe girare le spalle al sorriso di Barack Obama, al suo volto famigliare, nessun arabo che porta a cuore la causa del suo popolo potrebbe far finta di non aver provato un certo sollievo nel sentire le parole del Presidente degli Stati Uniti. Negli ultimi vent’anni non si erano mai sentiti discorsi sensati rivolti al mondo arabo da un Presidente americano come quello di Obama durante l’intervista concessa ad Al-Arabiya. Finalmente gli Stati Uniti sembrano voler avere di nuovo un ruolo di arbitro super partes nel conflitto arabo-israeliano.

Obama conosce bene il peso del suo compito, come conosce il peso del suo nome e delle sue origini. Nella mente di un musulmano il nome del padre di Barack Obama invoca la grande figura dell’Imam Hussein.

Figlio minore di Ali, cugino del Profeta Muhammad, Hussein morì giovane per difendere i suoi principi, per riconquistare i suoi diritti e per difendere la classe più debole. Per il mondo islamico solo il fatto che Obama figlio di Hussein, un americano d’origine africana, sia arrivato alla presidenza della nazione più importante nel mondo è già di per sé un fondamentale segnale di svolta.

Obama è consapevole che da questa lontana parentela, quasi tribale secondo la mentalità araba, potrebbe nascere un matrimonio che gli permetterebbe di essere considerato come «uno della famiglia» e ottenere il consenso che il mondo musulmano potrebbe offrirgli. Noi arabi, sentimentalisti fino al midollo, ci lasciamo commuovere davanti alle immagini delle donne palestinesi in lacrime, bimbi macellati dalla macchina di guerra, vecchi disperati, e scendiamo nelle piazze per urlare e bruciare bandiere, ma siamo anche capaci di saltare sulle sedie dalla gioia quando il primo uomo del potere americano si rivolge a noi e ci parla come amici, al contrario di Bush che non ci considerava per nulla e ci vedeva solo come possibili nemici. I grandi si distinguono dalle loro azioni, decise e consapevoli, e Obama lo sa. Per questo ha scelto di dare la sua prima intervista alla tv saudita Al-Arabiya per lanciare il suo messaggio al mondo musulmano: un canale nato come risposta diversa al potere e all’egemonia della tv del Qatar Al-Jazeera. E subito Obama è riuscito a conquistare un pubblico da tempo in attesa di vedere altre immagini e di sentire un’altra opinione, moderata e possibilmente laica. (Al-Arabiya è di Al Walid ibn Ibrahim: cognato di Re Abdullah, ha impresso una svolta ai mass media arabi, creando una tv stile Mediaset, la Mbc, per combattere le imposizioni integraliste e oscurantiste che cercavano di mettere le mani sui mezzi d’informazione in tutto il mondo arabo).

Obama ha inviato Hillary Clinton a tranquillizzare gli israeliani mentre lui si affaccia personalmente - fatto senza precedenti - dallo schermo d’uno dei canali arabi più importanti: non quello al quale appare di solito Bin Laden col kalashnikov in grembo, ma quello dei più importanti alleati di ieri e di oggi. Lo fa per affermare quell’alleanza attraverso una nuova politica basata sul rispetto e sul dialogo. Due principi che l’amministrazione americana aveva perso da tempo nel rapporto con il mondo islamico. Il Presidente tende una mano con il ramo d’ulivo verso i moderati e con l’altra punta il dito contro chi ha scelto la via dello scontro. Non dimostra debolezza, nemmeno con il suo invito all’Iran che «deve aprire il pugno» per stringere quella mano. Ora la palla è nel campo degli Ayatollah, che rispondono auspicando il dialogo, ma non senza cautela. Obama invoca il popolo iraniano e la sua civiltà persiana, consapevole che la piazza è sazia di guerre, ma non dimentica di sottolineare le accuse a Teheran come padrina del terrorismo, e che le minacce contro Israele non aiutano gli sforzi per il dialogo che Washington vorrebbe rilanciare subito.

Il Presidente ha qualcosa anche per i palestinesi, quando dice che si potrebbe lavorare per la pace a partire dalla proposta araba, e che uno Stato palestinese è possibile, ma non definisce i tempi. Conferma la propria disponibilità a lavorare insieme con il mondo arabo per risolvere un conflitto che dura da più di 60 anni, sapendo bene che da solo non ci potrebbe mai riuscire. Riconosce gli errori della precedente amministrazione, ma sottolinea che in fondo gli Stati Uniti non sono nemici del mondo islamico e non sono mai stati potenza colonialista. È qui la vera chiave del nuovo parlare agli arabi, della nuova politica strategica nei rapporti con il mondo islamico nel periodo più nero dell’economia americana. Il mondo islamico costituisce un enorme mercato, una risorsa umana ed energetica infinita. I capitali arabi potrebbero salvare gli Stati Uniti dalla crisi: il 30% del capitale americano è saudita, e altri Paesi potrebbero trasformarsi da nemici in investitori. Obama sa bene che dopo l’11 settembre la risposta indiscriminata al terrorismo di Al Qaeda ha causato danni notevoli non solo all’economia americana, ma soprattutto ai rapporti con un miliardo e mezzo di persone. Dopo l’intervista di ieri, non sorprende la risposta positiva degli Stati arabi, né la reazione della piazza, della gente semplice che benedice il Presidente e spera.
 
da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #39 inserito:: Gennaio 28, 2009, 03:11:29 pm »

L'America ricomincia a parlare

di Luigi Bonanate *


Non possiamo essere sicuri che funzionerà, ma questo di Obama è il primo reale tentativo, da decenni, di innovare la politica internazionale. Chi aveva creduto che la frase rivolta al mondo musulmano nel discorso del 20 gennaio («cerchiamo una nuova strada che ci faccia fare progressi, basata su interesse e rispetto reciproco») fosse pura e semplice propaganda, deve ora fare i conti con una prima grandiosa mossa politica: inquadrare la necessaria ripresa di dialogo israelo-palestinese in quello che è il presupposto di ogni politica internazionale, e in pratica che non si risolverà mai il conflitto palestinese se non si terrà conto — come Obama ha detto ieri alla tv araba «al-Arabiya» — di «ciò che accade in Siria, Iran, Libano, Afghanistan e Pakistan».

Si potrebbe aggiungere anche qualche altro interlocutore, ma l’impostazione è quella giusta: non cercando di imporre la pace con le minacce, non mostrando i muscoli e demonizzando gli avversari, il nuovo Presidente americano guarda alla vita internazionale come a un ambiente nel quale le armi (usate o minacciate) non sono né l’unica né la prima risorsa, perché alcuni conflitti sono fondati su malintesi (come quello secondo cui tra Occidente e Islam esista un’oggettiva ostilità) o altri vengono tanto da lontano che non se ne ricorda più il fondamento.
Veramente, poteva sembrare facile il compito di Obama: fare il contrario di ciò che faceva Bush. Ma egli è oggi in grado di arrivare dove Clinton si era dovuto arrestare, ovvero al rilancio delle trattative israeliano-palestinesi imperniato non sul radicale scontro tra due comunità, due storie millenarie, due posizioni incomunicanti, due nemici irriducibili. La questione israelo-palestinese deve finire perché entrambi i popoli hanno diritto di esistere. E a chi lo nega, come Ahmadinejad, non si tratta di fare il muso duro e sventolare i pugni, ma di proporre di discuterne, di cercare almeno inizialmente un terreno comune di dialogo su cui ci si riesca a comprendere prima di affrontare questioni più ardue e difficili. Se persino il Papa è riuscito a digerire un vescovo negazionista, volete che la saggezza politica occidentale sia del tutto incapace di trovare un punto di contatto anche con l’Iran? Il fatto è che da tanti anni non ci si è neppur provato.

La comunità mondiale dei professori di relazioni internazionali può festeggiare in Obama un “allievo modello”: è il primo ad aver capito (e speriamo lo applichi) il concetto fondamentale dell’analisi internazionalistica: le vicende internazionali sono tali che nessuna di esse può essere letta e analizzata nel vuoto, ma solo nel suo contesto e nei suoi intrecci globali. Proprio di questo ha incominciato a tener conto Obama. Speriamo continui.

*UNIVERSITÀ DI TORINO


28 gennaio 2009
da unita.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #40 inserito:: Gennaio 29, 2009, 06:15:01 pm »

«L’American dream fa sognare anche i ragazzi arabi»

di Jolanda Bufalini


Barack Obama è in «creative commons», anche Al Jazira ha messo il suo archivio in «creative commons» e anche il libro «Un Hussein alla casa Bianca» (cosa pensa il mondo arabo di Barack Obama), fra poco sarà scaricabile per fini non commerciali dalla rete. Creative Commons è un modo di adattare il copy right al web, di dare una chance globale alla diffusione delle idee. Il presidente americano l’ha colta subito, con notevole sconcerto dei colossi americani, nel programma “Meet the press” della Cnbc, i giornalisti più prestigiosi hanno subito notato il cambio di strategia nella comunicazione: direttamente nella rete sociale del web, saltando le mediazioni di Cnn & co. Anzi, due giorni fa, il presidente ne ha fatta un’altra e si è rivolta al mondo arabo direttamente da Al Arabiya.

Donatella Della Ratta, giornalista e arabista, nel volume, racconta come Al Jazira ha coperto la campagna elettorale negli Stati Uniti. Che effetto ha fatto quell’intervista in diretta su Al Arabyia?
«Le reazioni all’intervista sono il prodotto di un’attenzione che è iniziata molto tempo fa. Il mondo arabo non è impressionato né dal nome Hussein né dal colore della pelle. Ma dal fatto che in America sia stato possibili eleggere il figlio di un immigrato di colore e di origini mussulmane. Guarda qui, cosa scrive Mahmoud Saber, giovane blogger egiziano il 5 novembre: “Forse il fatto che Obama ha vinto non è la cosa migliore per i sogni di democrazia in Medio Oriente...Ma Obama eletto significa che il cambiamento è possibile. È giunto il momento di fare la stessa cosa in Egitto”. Oppure EgyDiva, che era a Charlotte in North Carolina il 3 novembre: “Sono stata in mezzo ai canti rituali dei suoi sostenitori, sebbene io non fossi una di loro. Interessante. Tutto in America è divertente, quello che altrove sarebbe un evento marcatamente politico...Sono stata lì a filmare, abbattere le mani, a dondolarmi sotto la pioggia, totalmente risucchiata, benché non fossi una di loro”. Può sembrare paradossale ma questi ragazzi arabi, che vengono da un mondo molto religioso, guardano con ironia alla religiosità della politica americana. Yasmine è una studentessa di giornalismo dell’università di Amman: “ Smettiamola di sognare un Salvatore, dobbiamo risolvere i problemi da soli e assumere in prima persona il ruolo attivo di migliorare il mondo”».

Perché la scelta di Obama di parlare ad Al Arabiya?
«Forse perché negli Stati Uniti è percepita come più moderata. In realtà Al Jazira fa più opinione pubblica, anche se fa arrabbiare tutti . A Iarmuk, il quartiere palestinese di Damasco, tutti aspettavano i reportage di Al Jazira da Gaza. Al tempo stesso, è l’unica tv araba che nomina Israele, mentre gli altri dicono “il nemico”. Le altre televisioni quando mostrano la cartina scrivono “Palestina occupata” non Israele.

Nelle parole dei blogger c’è un misto di entusiasmo e di estraneità.
«In questi ragazzi e ragazze sotto i trent’anni, nel mondo arabo il 65 % della popolazione, c’è un atteggiamento positivo rappresentato dallo slogan “We can” e uno scettico. Fra i giornali, il più scettico è il palestinese Al Quds al Arabi. Nessun può essere eletto presidente degli Usa, pensano, se non è un supporter di Israele. Però c’è anche molto pragmatismo. In un editoriale di Al Hayat per esempio: “Posso giudicare Obama dai suoi oppositori. Sono tutti neo-conservatori, nemici degli arabi e dei mussulmani”.»

Nel libro ci sono anche gli arabi americani
«Ci sono molti repubblicani, perché sostengono i valori familiari tradizionali. Ma, scrive un altro blogger egiziano “è comprensibil, dopo 8 anni di governo Bush, che gli arabi siano un po’ confusi”».

Obama ha parlato di speranze comuni, al di là della fede, cristiana, ebrea o musulmana.
«Questo piace. L’aspettativa è di riuscire a rovesciare l’immagine dell’11 settembre che ha schiacciato tutti sulle posizioni più estreme».

jbufalini@unita.it


29 gennaio 2009
da unita.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #41 inserito:: Febbraio 06, 2009, 05:27:23 pm »

Obama ha un grande maestro: il teologo luterano Reinhold Niebuhr

Che fu un caposcuola non del pacifismo ma del "realismo" nei rapporti tra gli stati, cioè del primato dell'interesse nazionale e dell'equilibrio tra le potenze. È uscita a Roma una suggestiva analisi del suo pensiero. Ispirato alla "Città di Dio" di sant'Agostino

di Sandro Magister


ROMA, 6 febbraio 2009 – L'insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è stato salutato dalla Santa Sede con espressioni di fiducia. Su "L'Osservatore Romano" del 28 gennaio il sacerdote e teologo newyorkese Robert Imbelli ha commentato positivamente il discorso inaugurale del nuovo presidente, in una nota in prima pagina dal titolo: "Per un vero patto di cittadinanza. Obama, Lincoln e gli angeli".

Tuttavia le righe finali della nota facevano balenare un timore. Imbelli accostava il discorso di Obama a quello di Abraham Lincoln del 1861, che terminava con una preghiera affinché prevalessero "gli angeli migliori della nostra natura". E proseguiva:

"Questa resta la speranza e la preghiera dell'America. Ma noi preghiamo anche affinché non vengano trascurati gli angeli dei bambini concepiti, ma ancora non nati. Preghiamo affinché i vincoli d'affetto della nazione raggiungano anche loro. Affinché non vengano esclusi dal patto di cittadinanza".

Imbelli è lo stesso che ha recensito con favore su "L'Osservatore Romano", la scorsa estate, il libro "Render Unto Caesar" dell'arcivescovo di Denver, Charles J. Chaput: un appello ai cattolici americani perché il loro "dare a Cesare", cioè il servire la nazione, consista nel vivere integralmente la propria fede nella vita politica.

L'arcivescovo Chaput, prima e dopo le elezioni presidenziali, è stato uno dei più decisi nel criticare il cedimento pro aborto di tanti cattolici e cristiani americani.

E i primi passi della nuova amministrazione hanno confermato i suoi timori. In un'intervista al settimanale italiano "Tempi" del 5 febbraio, alla domanda se Obama sia "un protestante da caffetteria", lui che "dice di essere cristiano ma è considerato il presidente più favorevole all'aborto di sempre", Chaput ha risposto:

"Nessuno può giustificare l'aborto e al tempo stesso proclamarsi cristiano fedele, ortodosso, protestante o cattolico che sia. [...] Penso però che il cristianesimo protestante, vista la sua grande enfasi sulla coscienza individuale, è più portato ad essere una 'caffetteria' di credenze".

Sta di fatto che, tra i primi atti della sua presidenza, Obama ha autorizzato i finanziamenti federali alle organizzazioni che promuovono l'aborto come mezzo di controllo delle nascite nei paesi poveri. Inoltre, ha annunciato il suo sostegno al Freedom of Choice Act, che toglierà i limiti all'aborto, e il finanziamento all'utilizzo delle cellule staminali embrionali.


* * *

Ciò non toglie che Obama sia, tra i presidenti americani, uno dei più espliciti nel dichiarare il fondamento religioso della propria visione.

In ripetute occasioni ha anche fatto i nomi dei suoi autori di riferimento, noti e meno noti: da Dorothy Day a Martin Luther King, da John Leland ad Al Sharpton.

Tra quelli da lui citati, ce n'è uno che ha un'importanza particolarissima: è il luterano Reinhold Niebuhr (1892-1971), professore alla Columbia University e poi allo Union Theological Seminary di New York.

Niebuhr fu anzitutto teologo, e di prima grandezzza, ma i suoi studi hanno inciso anche nel campo politico. È considerato un maestro del "realismo" nella politica internazionale, i cui massimi esponenti negli Stati Uniti, nella seconda metà del Novecento, sono stati Hans Morgenthau, George Kennan, Henry Kissinger.

Ispirarsi o no a Niebuhr – e alla sua interpretazione e attualizzazione della "Città di Dio" di sant'Agostino – è decisione che orienta in modo determinante la visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo.

Ad esempio, niente è più distante dalle posizioni di Niebuhr del pacifismo. Ma è l'insieme del pensiero di questo grande teologo che è utile approfondire.

È quanto fa, nel saggio che segue, il massimo esperto italiano di Niebuhr, Gianni Dessì, docente di filosofia e di storia delle dottrine politiche all'Università di Roma Tor Vergata.

Il saggio è uscito pochi giorni fa sull'ultimo numero dell'edizione italiana di "30 Giorni", il mensile cattolico forse più letto dai vescovi di tutto il mondo, nelle sue edizioni in più lingue.

"30 Giorni" è diretto dall'anziano senatore Giulio Andreotti – più volte presidente del consiglio e ministro degli esteri – e si occupa spesso di politica internazionale secondo una linea che si potrebbe definire "realista moderata": una linea che coincide con quella tradizionale della diplomazia vaticana.


---


Se il realismo di Niebuhr arriva alla Casa Bianca

di Gianni Dessì


In un colloquio di qualche tempo fa con David Brooks, uno dei più noti tra i commentatori politici conservatori del "New York Times", il neoeletto presidente Obama ha ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori preferiti (1).

Niebuhr, figura poco nota in Italia, è stato un teologo protestante, insegnante di etica sociale alla Columbia University di New York, che ha avuto una grande influenza sulla cultura politica nordamericana almeno a partire dal 1932, anno nel quale pubblicò "Uomo morale e società immorale", sino al 1971, anno della sua morte. Al suo realismo politico si sono riferiti intellettuali e politici, conservatori e liberali.

Hans Morgenthau e George Kennan, i più noti tra i liberali conservatori che nell'immediato dopoguerra elaborarono quell'insieme di motivazioni che avrebbero costituito il riferimento intellettuale di molti americani negli anni della guerra fredda, della contrapposizione al blocco sovietico, si riferirono esplicitamente a Niebuhr e al suo realismo politico (2).

D'altra parte anche Martin Luther King, certamente non un conservatore, fu particolarmente sensibile alle critiche di Niebuhr all'ottimismo della cultura liberale e all'idea che la giustizia potesse essere realizzata attraverso esortazioni morali: egli riconobbe che doveva a Niebuhr la consapevolezza della profondità e della persistenza del male nella vita umana (3).

Obama, intervistato da Brooks, affermava di dovere a Niebuhr "l'idea irrefutabile che c'è il male vero, la fatica e il dolore nel mondo. Noi dovremmo essere umili e modesti nel nostro credere di poter eliminare queste cose. Ma non dovremmo usarlo come scusa per il cinismo e l'inattività".

In poche espressioni vengono sottolineati alcuni aspetti essenziali delle posizioni di Niebuhr. L'idea che dal mondo siano ineliminabili "il male vero, la fatica, il dolore" rimanda alla critica di Niebuhr all'ottimismo che egli riteneva uno dei tratti costitutivi del pensiero religioso e sociale americano; così l'idea che anche colui che agendo politicamente si trovi a lottare contro la presenza dell'ingiustizia e del male debba essere "umile", rinvia alla consapevolezza che non è possibile eliminare il male dalla storia ed è pericolosa illusione crederlo.

D'altra parte tale persistenza del male non può essere scusa per "il cinismo e l'inattività". Viene delineata una posizione che intende evitare sia "l'idealismo ingenuo" sia il "realismo amaro" (nel linguaggio di Niebuhr: sia il sentimentalismo sia il cinismo).

Come nelle opere di Niebuhr si definisce questa prospettiva? Quali i suoi riferimenti storici e culturali?

Luigi Giussani, in Italia, già dalla fine degli anni Sessanta aveva colto la rilevanza del realismo di Niebuhr nel pensiero teologico e, più in generale, nella cultura statunitense.

Giussani ricordava come nella formazione del pastore protestante avesse certamente svolto un ruolo l'esistenzialismo teologico europeo, ma una "netta originalità segna sin dagli inizi la sua produzione, la cui ispirazione e le cui tendenze chiave si formano e delineano nell'esperienza vissuta come pastore della luterana Bethel Evangelical Church di Detroit" (4).

Niebuhr, giovanissimo, si trovò a essere pastore di una piccola comunità di Detroit negli anni dello sviluppo della casa automobilistica Ford e della prima guerra mondiale, tra il 1915 e il 1928. Di formazione liberale, egli sperimentò l'inadeguatezza dell'ottimismo antropologico di tale concezione e della sua declinazione sociale, quella del movimento del Social Gospel, nel comprendere la persistenza del male individuale e dell'ingiustizia. Furono gli anni dell'autocritica alle proprie convinzioni liberali e ottimistiche. Di fronte alle speranze di una moralizzazione della società attraverso la predicazione religiosa egli, in un appunto del 1927, constatava che "una città costruita attorno a un processo produttivo e che solo casualmente pensa e offre un'attenzione accidentale ai propri problemi è realmente una sorta di inferno" (5). Tale autocritica trovò piena espressione nel libro "Uomo morale e società immorale". In esso, come ha scritto Giussani, la "realtà inevitabile del male [...] è affermata e documentata contro ogni ottimismo che non veda l'impossibilità esistenziale del passaggio dalla coscienza del bene, che l'individuo ha, alla realizzazione di esso, impossibilità che specialmente nella sfera del collettivo si accusa in modo inesorabile" (6).

Il libro, del 1932, scritto durante gli anni nei quali Niebuhr subì l'influenza del marxismo, rappresentò negli Stati Uniti degli anni Trenta la denuncia forse più incisiva dell'ottimismo e del moralismo, da una parte, e dell'indifferenza e del cinismo, dall'altra, che avevano caratterizzato la società americana negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Nel breve periodo che va dal 1917, l'anno dell'entrata in guerra dell'America, al 1919, l'anno dei trattati di pace che penalizzarono fortemente le nazioni sconfitte, si consumò l'idealismo del movimento progressista e del presidente Woodrow Wilson. Le motivazioni morali che Wilson e molti intellettuali progressisti avevano indicato come ragioni della partecipazione degli americani alla guerra erano state contraddette dall'esasperato realismo dei trattati di pace che esprimevano in modo palese la sanzione dei nuovi rapporti di forza tra le potenze vincitrici e quelle sconfitte.

Nell'America degli anni Venti, proprio in reazione alle crociate ideali di Wilson, si affermò un'esigenza di ritorno alla normalità, che trovò espressione nell'elezione del presidente Warren Harding il quale a tale ideale aveva ispirato la propria campagna elettorale.

In realtà la società americana di quegli anni conobbe uno sviluppo economico mai visto, la diffusione della pubblicità e del consumo di massa, insieme a una forte polarizzazione tra ricchi e poveri.

Tale società appariva agli occhi di un attento osservatore come Niebuhr la sconfessione, o la riduzione a retorica, di ogni forma di moralismo ed era caratterizzata dall'emergere di atteggiamenti sempre più cinici e disillusi.

L'emendamento XVIII alla costituzione, che vietava la produzione, il trasporto e la vendita di alcolici sul territorio americano, può essere considerato emblematico di questa situazione: esso, approvato nel 1919, come simbolo della battaglia per la moralizzazione dei costumi, favoriva di fatto lo sviluppo di diverse forme di criminalità organizzata che proprio dal commercio illegale di alcolici traevano i maggiori profitti.

Niebuhr, in quegli anni, riteneva che una società più giusta non sarebbe stata la conseguenza di esortazioni morali o religiose, ma di concrete iniziative storiche e politiche, che proprio in quanto tali avrebbero dovuto confrontarsi con realtà poco elevate.

Egli, che dal 1928 aveva lasciato Detroit e aveva iniziato a insegnare alla Columbia University di New York, ricorderà come proprio le esigenze dell'insegnamento lo abbiano condotto ad approfondire la conoscenza di sant'Agostino. In una intervista del 1956 affermava: "Mi sorprende, in un esame retrospettivo, notare quanto tardi io abbia iniziato lo studio di Agostino: ciò è ancora più sorprendente se si tiene presente che il pensiero di questo teologo doveva rispondere a molte mie domande ancora irrisolte e liberarmi finalmente dalla nozione che la fede cristiana fosse in qualche modo identica all'idealismo morale del secolo scorso" (7).

Il riferimento a sant'Agostino è stato centrale sia per quanto riguarda la consapevolezza delle ragioni che distinguono la fede dall'idealismo, sia per superare alcune aporie che Niebuhr aveva maturato nei primi anni della propria riflessione.

Il cristianesimo appare al giovane Niebuhr segnato da un aspetto, quello dell'assoluta gratuità, che si pone oltre ogni tentativo umano di realizzare gli ideali etici. L'uomo può, con grande sincerità, impegnarsi per realizzare sfere di convivenza caratterizzate da quello che Niebuhr definisce "mutual love", amore fondato sulla reciprocità: Cristo è invece testimone di un altro tipo di amore, definito "sacrifical love". Nel 1935 in "An Interpretation of Christian Ethics" egli aveva esplicitamente richiamato tale radicale differenza scrivendo: "Le esigenze etiche poste da Gesù sono d'impossibile compimento nell'esistenza presente dell'uomo [...]. Qualunque cosa meno dell'amore perfetto nella vita umana è distruttivo della vita. Ogni vita umana sta sotto un incombente disastro perché non vive la legge dell'amore" (Fico.

Nel 1940, riprendendo alcune di queste riflessioni e riferendole all'ambito politico, aveva sostenuto che una concezione "che aveva semplicemente e sentimentalmente trasformato l'ideale di perfezione del Vangelo in una semplice possibilità storica" aveva prodotto una "cattiva religione" e una "cattiva politica", una religione in contrasto con il dato essenziale della fede cristiana, e una politica irrealistica, che rendeva le nazioni democratiche sempre più deboli (9).

D'altra parte, pur criticando il sentimentalismo e l'ottimismo della cultura liberale, egli constatava l'ineliminabile presenza della certezza del significato dell'esistenza, della sua positività, come tratto caratteristico di un'esistenza sana. Questa certezza, scrive, "non è qualcosa che risulti da un'analisi sofisticata delle forze e dei fatti che circondano l'esperienza umana. È qualcosa che è riconosciuto in ogni vita sana [...]. Gli uomini possono non essere in grado di definire il significato della vita e malgrado ciò vivere attraverso la semplice fede la certezza che essa ha significato" (10).

L'opera nella quale tali diverse suggestioni trovano una sintesi è "The Nature and Destiny of Man", pubblicata in due volumi tra il 1941 e il 1943. In essa si legge: "L'uomo, secondo la concezione biblica, è un'esistenza creata e finita sia nel corpo, sia nello spirito" (11).

La chiave per comprendere la natura umana è da una parte il riconoscimento della creazione: l'ottimismo essenziale che caratterizza un'esistenza sana è legato alla percezione di essere creato, voluto da Dio. Dall'altra è la libertà umana, che, come segno posto da Dio nel cuore dell'uomo, come possibilità di aderire a tale intuizione o di rifiutarla, diviene assolutamente centrale. L'uomo può (e Niebuhr sembra dire "inevitabilmente") cercare soddisfazione nei beni creati e non in Dio. Il male nasce quando l'uomo conferisce a un bene particolare un valore assoluto: è l'uso sbagliato della libertà – il peccato – che genera il male, non la sensibilità o la materialità.

La presenza di Agostino in questa che è l'opera maggiore e più sistematica di Niebuhr è evidente e costante: la concezione realistica della natura umana che Niebuhr propone rimanda esplicitamente alla concezione biblica e ai testi agostiniani.

In un saggio del 1953, "Augustine's Political Realism", incluso nel volume dello stesso anno "Christian Realism and Political Problems", Niebuhr riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di Agostino e precisa in quale senso il santo sia da ritenere il primo grande realista del pensiero occidentale e perché la sua prospettiva gli sembri attuale.

Niebuhr inizia questo saggio offrendo una schematica definizione del termine realismo: esso "indica la disposizione a prendere in considerazione tutti i fattori che in una situazione politica e sociale offrono resistenza alle norme stabilite, particolarmente i fattori di interesse personale e di potere". Al contrario, l'idealismo, per i suoi sostenitori, è "caratterizzato dalla fedeltà agli ideali e alle norme morali, piuttosto che al proprio interesse"; cioè, per i suoi critici, da "una disposizione a ignorare o a essere indifferenti alle forze che, nella vita umana, offrono resistenza agli ideali e alle norme universali" (12). Niebuhr precisa che idealismo e realismo in politica sono disposizioni, più che teorie. In altri termini anche il più idealista degli individui dovrà inevitabilmente confrontarsi con i fatti, con la forza di ciò che è; anche il più realista dovrà confrontarsi con la tendenza umana a ispirare l'azione a valori ideali, a ciò che deve essere (13).

Niebuhr ritiene che sant'Agostino sia stato "per riconoscimento universale il primo grande realista nella storia occidentale. Egli ha meritato questo riconoscimento perché l'immagine della realtà sociale, nella sua 'Civitas Dei', offre un'adeguata considerazione delle forze sociali, delle tensioni e competizioni che sappiamo essere quasi universali a ogni livello di comunità" (14). Per il teologo protestante il realismo di sant'Agostino si lega alla sua concezione della natura umana, e in modo particolare al giudizio sulla presenza del male nella storia. Infatti per sant'Agostino "la fonte del male è l'amor proprio, piuttosto che un qualche residuo impulso naturale che la ragione non ha ancora dominato". Il male non deriva quindi né dalla sensibilità né dalla materialità, che non sono contrapposte allo spirituale. Il fare dei propri interessi materiali o ideali un fine ultimo è una caratteristica umana che ha a che vedere con la libertà e che si esprime in ogni livello dell'esistenza umana e collettiva, dalla famiglia alla nazione all'ipotetica comunità mondiale.

Il realismo di Agostino permette inoltre di rispondere all'accusa rivolta dai liberali a coloro che sostengono una concezione non ottimistica della natura umana: all'accusa cioè di considerare nello stesso modo e quindi di approvare qualsiasi forma di potere. "Il realismo pessimistico – scrive Niebuhr – ha infatti spinto sia Hobbes sia Lutero a una inqualificabile approvazione dello stato di potere; ma questo soltanto perché non sono stati abbastanza realisti. Essi hanno visto il pericolo dell'anarchia nell'egoismo dei cittadini, ma hanno sbagliato nel percepire il pericolo della tirannia nell'egoismo dei governanti" (15).

Il realismo di sant'Agostino, in altri termini, non cede al cinismo e all'indifferenza nei confronti del potere perché "mentre l'egoismo è naturale nel senso che è universale, non è naturale nel senso che non è conforme alla natura dell'uomo". Infatti "un realismo diviene moralmente cinico o nichilistico quando assume che una caratteristica universale del comportamento umano debba essere considerata anche come normativa. La descrizione biblica del comportamento umano, sulla quale Agostino basa il suo pensiero, può rifuggire sia l'illusione sia il cinismo perché essa riconosce che la corruzione della libertà umana può rendere universale un modello di comportamento senza farlo diventare normativo" (16).

L'idea di un realismo che sia in grado di evitare l'indifferenza, il cinismo e l'approvazione incondizionata di qualsiasi forma di potere, così come il sentimentalismo, l'idealismo e le illusioni nei confronti della politica e dell'esistenza umana, emerge con forza da questa rilettura che Niebuhr propone di sant'Agostino. A questa prospettiva – che, come ricordava Niebuhr, esprime una disposizione più che una teoria – sembra riferirsi Obama.

da chiesa.espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #42 inserito:: Febbraio 14, 2009, 03:31:16 pm »

MINISTRI E CRISI

Le fatiche di Obama

di Massimo Gaggi


Il governo Obama continua a perdere pezzi e con la rinuncia del repubblicano Gregg a ricoprire la carica di ministro del Commercio, la strategia bipartisan del presidente, già entrata in crisi durante la discussione parlamentare delle misure d'emergenza per l'economia, rischia un'affrettata sepoltura.

Questi dovevano essere giorni trionfali per Obama: più che un nuovo New Deal, i primi interventi del suo governo dovevano avere la sostanza di un «piano Marshall», stavolta destinato a risollevare non l'Europa, ma un'America reduce da distruzioni di ricchezze superiori a quelle prodotte dalle due guerre mondiali del Novecento. Al tempo stesso queste leggi dovevano anche contenere il nuovo «progetto Apollo »: il lancio dell'economia delle energie alternative e delle reti infrastrutturali.

L'uomo nuovo, senza responsabilità per gli errori del passato, che prende per mano con paterna indulgenza la vecchia politica, supera le contrapposizioni di schieramento, lenisce con una serie di interventi assistenziali la rabbia dei cittadini per una crisi che li impoverisce e usa il suo massiccio programma di investimenti non solo per rilanciare l'economia, ma anche per trasformare la società americana: meno consumi privati, famiglie meno indebitate, più spesa per servizi e sistemi capaci di migliorare la qualità della vita e di disegnare un futuro sostenibile.

Un piano audace. Quello che il superconsigliere economico di Obama, Larry Summers, chiama «dottrina Rahm», da una sibillina frase del capo di gabinetto del presidente, Rahm Emanuel: «Una crisi grave non va mai sprecata ». Traduzione: un momento difficile come questo ti consente di fare riforme radicali che in tempi normali non passerebbero.

Ma a poco più di tre settimane dal suo insediamento, il disegno del leader democratico segna il passo: il Congresso trasforma proprio in queste ore in legge il pacchetto degli stimoli fiscali, ma gli interventi approvati sono molto diversi da quelli proposti dalla Casa Bianca. Più che a rilanciare l'economia (il sostegno alle infrastrutture c'è ma non è imponente), serviranno a evitare massicci tagli di personale nel settore pubblico. Lo conferma implicitamente lo stesso Obama che, dopo aver promesso per settimane di «creare» tre milioni di nuovi posti di lavoro, ora è passato all' espressione «creare o salvare »: il piano, infatti, contiene grossi trasferimenti di fondi agli enti locali, grazie ai quali Stati e città, ormai con le casse vuote, non dovranno più licenziare centinaia di migliaia di poliziotti, pompieri e insegnanti.

Avendo concesso loro tre ministri e grossi tagli fiscali «alla Bush», Obama non si aspettava di essere contrastato con tanta durezza dai repubblicani. Che in questa fase sembrano impegnati a ricostruire la loro immagine elettorale, più che a cercare soluzioni ragionevoli e condivise.

Le difficoltà di Obama non sorprendono: non si vedono vie d'uscita da questa crisi gravissima, ogni misura varata aumenta i debiti già caricati sulle spalle delle generazioni future e nessuno sa ancora bene come disinnescare la crisi bancaria senza provocare la rivolta dei contribuenti.

E’, poi, comprensibile un certo risentimento del presidente nei confronti dei repubblicani che gli ripropongono le ricette fallite di Bush.

Ma oggi il leader democratico paga anche l'estrema audacia delle sue promesse elettorali e una certa improvvisazione nella formazione del governo: Richardson e Daschle, chiamati dal presidente al governo, sono inciampati nell'asticella dell'etica che era stata alzata proprio da Obama. E, nel caso di Gregg, la coerenza bipartisan della scelta del presidente ha subito un duro colpo quando la Casa Bianca ha «avocato» a sé la supervisione del censimento 2010 dopo le proteste delle minoranze nere e ispaniche, contrarie a che un atto politicamente così significativo (sulla sua base verranno ridisegnati i collegi elettorali) fosse gestito da un ministro repubblicano. Nessuno, comunque, può gioire delle difficoltà di Obama: le sue doti di persuasore, la sua capacità di incidere sulla maggiore economia del Pianeta sono tra le poche carte rimaste a disposizione per bloccare l'avvitamento della recessione globale.

14 febbraio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #43 inserito:: Febbraio 16, 2009, 05:00:43 pm »

 15 febbraio 2009,

Il professor Weigel boccia Obama: ha preso un abbaglio


Sandro Magister


A proposito del servizio di www.chiesa su Barack Obama “allievo” del grande teologo protestante Reinhold Niebuhr, da Washington George Weigel ci scrive che la parentela intellettuale tra i due è senza fondamento.

“Il senso messianico che Obama dà alla sua politica con la retorica dello ‘Yes, We Can’ – scrive Weigel – è agli antipodi della visione che ebbe Niebuhr della politica e del mondo. Sbaglia in pieno chi dà credito ad Obama quando egli dice d’avere in Niebuhr un suo punto di riferimento. Il mio amico David Brooks del New York Times, che l’ha fatto, è un commentatore di solito molto accurato, ma questa volta ha preso un abbaglio”.

In una conferenza tenuta a Washington lo scorso 4 febbraio all’Ethics and Public Policy Center di cui fa parte, Weigel ha detto:

“In Obama e tra i suoi più fervidi sostenitori non c’è niente che lontanamente somigli a Reinhold Niebuhr. Il millenarismo secolare che ha pervaso la campagna elettorale di Obama, la sua volontà di redimere con la politica un mondo decaduto, sono stati l’esempio perfetto di quel tipo di utopismo contro il quale Niebuhr, con il suo profondo senso della fragilità della storia e delle autodistruttive capacità degli esseri umani, si batté per tre decenni. La definizione di democrazia come ‘ricerca di soluzioni provvisorie a problemi irresolvibili’ appartiene a Niebuhr, non ad Obama. E si può seriamente immaginare un Obama che preghi convinto con queste parole della famosa preghiera di Niebuhr: “Dio mi conceda la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso e la saggezza di capire la differenza tra l’una e l’altro”? Se noi stessi siamo il cambiamento che attendiamo e ‘Yes, we can’ è il nostro credo, allora la preghiera di Niebuhr per l’umiltà, il coraggio, la prudenza è senza senso, poiché non c’è niente che non siamo capaci di cambiare”.

da magister.blogautore.espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #44 inserito:: Febbraio 17, 2009, 09:15:52 am »

Maurizio Molinari.


17/2/2009 - PERSONAGGI
 
Alla destra di Obama
 
Le due donne repubblicane decisive nel voto per il piano economico
 
 
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
 
Olympia è la figlia di un cuoco greco, viene annoverata fra i senatori più ricchi d’America, ama coprirsi di gioielli e presenziare alle serate di gala di Washington con il marito milionario. Susan invece viene da una famiglia di imprenditori del legno, ma è fra i senatori con il reddito più basso, i vestiti che indossa sono casual, non ha un marito e disdegna le telecamere. Le due donne più potenti di Washington, al punto da fare ombra a Hillary Clinton, non potrebbero essere più diverse, ma in comune hanno una posizione politica che le rende indispensabili per la Casa Bianca.

Entrambe sono infatti senatori del partito repubblicano - rappresentando lo stesso Stato, il Maine - e in occasione della battaglia sul varo del pacchetto di stimoli fiscali hanno votato assieme ai democratici. Se non fosse stato per Olympia Snowe e Susan Collins - affiancate dal senatore della Pennsylvania Arlan Specter - il piano anti-recessione non sarebbe passato perché in aula i democratici avevano a disposizione solo 57 dei 60 voti necessari per raggiungere il quorum. La scelta di votare «aye» - il tradizionale assenso di Capitol Hill - le ha fatte tacciare di tradimento da parte della leadership del loro partito e John McCain le ha pubblicamente bacchettate, accusandole di legittimare «una politica economica bipartisan che non c’è».

Per David Axelrod, guru politico del presidente, sono invece il modello da indicare al grande pubblico per testimoniare che «questa amministrazione è davvero bipartisan». Tanto più che Obama ha confezionato la versione finale del piano dopo aver convocate la Collins e la Sniowe, separatamente, nello Studio Ovale. Disprezzate dai colleghi repubblicani e corteggiate dagli avversari democratici, Susan e Olympia non si scompongono più di tanto perché si considerano fedeli interpreti di una tradizione politica oramai minoritaria, i repubblicani moderati del New England.

Per comprendere di cosa si tratta bisogna guardare a come votano: hanno infranto la disciplina di partito infinite volte pronunciandosi contro l’impeachment di Bill Clinton all’epoca del Sexgate di Monica Lewinski, contro i tagli fiscali di George W. Bush, contro i bilanci indebitati di Henry Paulson, a favore della riduzione obbligatoria delle emissioni di gas nocivi proposta da Al Gore, contro il bando delle nozze gay invocato dalla destra evangelica, contro la proibizione dell’aborto negli ultimi mesi di gravidanza ed a favore della progressiva legalizzazione degli immigrati clandestini considerata un’onta nazionale dai conservatori degli Stati del Sud, a cominciare dal Texas. Essere controcorrente per Olympia e Susan è quasi un’abitudine, si trovano bene a vestire i panni del bastian contrario perché ciò le fa sentire eredi di Margaret Chase Smith, anche lei senatrice repubblicana, che nel 1950 guidò la battaglia in aula contro i provvedimenti illiberali promossi dal collega Joe McCarthy arrivando fino a redigere in segno di sfida la «Dichiarazione di coscienza contro il maccartismo». Essere «yankee e indipendenti di pensiero», come si definiscono, le aiuta a mietere voti: in novembre il Maine ha votato per Obama, ma la repubblicana Susan Collins è stata rieletta con uno scarto del 6 per cento di voti.

In più, rispetto a Hillary, hanno i voti al Senato senza i quali Obama non può immaginare di varare le sue riforme ed anche l’amicizia, che dicono «sincera», con il mastino obamiano Rahm Emanuel, capo di gabinetto della Casa Bianca. Durante il duro negoziato sullo stimolo economico è stato proprio Emanuel a siglare con loro l’intesa decisiva, incontrandole nello studio di Henry Reid - capo dei senatori democratici - per fargli sapere di aver accettato la «richiesta del Maine» di far scendere il totale della manovra a 790 miliardi.

Accomunate dalla vittoria, Susan e Olympia però non hanno neanche una foto assieme. E’ come se incarnassero due mondi differenti. Olympia viene da un’infanzia dura, con il padre immigrato da Sparta, la città guerriera dell’Antica Grecia, per fare il cuoco. Incapace di mantenere la famiglia, muore prematuramente, obbligando i figli ad essere allevati da altri parenti. Le tragedie inseguono Olympia con la morte del primo marito e le difficoltà finanziarie, ma la grinta e gli studi la fanno emergere in politica, eletta alla Camera del suo Stato a soli 26 anni, e alla Camera del Congresso Usa a 31. In 35 anni di carriera politica non ha mai perso un’elezione. In seconde nozze ha sposare l’ex governatore John McKernan, uno dei uomini più ricchi dello Stato. Inverso il percorso della Collins: cattolica, viene da una famiglia di imprenditori e politici ma la ricchezza non arriva e il marito neanche. La sorte cambia solo con l’elezione al Senato al posto di Bill Cohen, quando lasciò il seggio per diventare ministro della Difesa di Bill Clinton. Fa parte delle associazioni dei repubblicani favorevoli alla legalità dell’aborto e combatte per la libertà della ricerca sulle cellule staminali.

Una palla di fuoco è stata avvistata domenica nei cieli del Texas, a pochi giorni dalla collisione tra due satelliti, uno russo e uno americano, avvenuta martedì. La Federal Aviation Administration non ha ricevuto notizie di avvistamenti da parte dei piloti, ma la strana apparizione non è sfuggita agli abitanti di Dallas e di una zona a Sud di Austin che, numerosissimi, hanno telefonato sia alla polizia sia alla stessa Faa. Proprio mentre la sfera rossastra solcava il cielo sopra Austin, in città si correva l’annuale maratona, seguita da fotografi e cameramen. Uno di loro - che lavora per News 8 TV - ha catturato le immagini, sfocate ma comunque chiarissime, di un oggetto bianco che sfreccia, apparentemente in fiamme, nel cielo azzurro (foto). Ma non è stato l’unico, ci sono anche molti filmati di amatori. Non è stata dunque un’allucinazione collettiva e probabilmente neppure un disco volante. Esclusa anche l’ipotesi di un aereo in avaria o dei detriti della collisione tra satelliti - ipotesi accolta con perplessità dagli esperti americani - si aspetta ora un chiarimento dalla Federal Aviation Administration. Anche la polizia texana è stata coinvolta nelle indagine: ha fatto ricerche nell’area segnalata dai testimoni usando un elicottero, senza però trovare alcun residuo anomalo.

da lastampa.it
Registrato
Pagine: 1 2 [3] 4 5
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!